01.13 – CIRCONCISIONE E PRESENTAZIONE (Luca 2.21-24)

01.13 – Circoncisione e presentazione (Luca 2.21-24)

 

21Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo. 22Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – 23come è scritto nella legge del Signore: Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore – 24e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore”.

 

Il giorno della circoncisione, occasione di festa per gli ebrei perché da quel momento in poi il bambino avrebbe portato nel proprio corpo il segno dell’appartenenza al popolo di Israele, non è descritto da Luca come quello di Giovanni Battista, cioè accompagnato dalle congratulazioni di parenti ed amici ai genitori. Forse a Betlemme Giuseppe e Maria non avevano più famigliari oppure, cosa più probabile, a Luca preme porre l’accento su quell’intervento prescritto già dai tempi di Abramo anche se la Legge non era stata ancora rivelata pienamente come a Mosè. Ricordiamo il patto di Dio: “Quindi ti farò divenire nazioni e da te usciranno dei re. E stabilirò il mio patto fra me e te, e i tuoi discendenti dopo di te, di generazione in generazione sarà un patto eterno, impegnandomi ad essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te” (Genesi 17.7). Si può dire che questa rivelazione, questa nuova iniziativa, questo patto, richiedeva una firma, un benestare da parte dell’uomo che riconosceva nella circoncisione il segno esteriore dell’appartenenza al popolo eletto: “Questo è il patto che voi osserverete, tra me e voi e la tua discendenza dopo di te: ogni maschio fra voi sarà circonciso. E sarete circoncisi nella carne del vostro prepuzio, e questo sarà un segno del mio patto fra me e voi. All’età di otto giorni, ogni maschio tra voi sarà circonciso. Di generazione in generazione, tanto quello nato in casa, come quello comprato con denaro da qualunque straniero che non sia della tua discendenza. Sì, tanto chi è nato in casa tua come chi è comprato con denaro dovrà essere circonciso; e il mio patto nella vostra carne sarà un patto eterno. E il maschio incirconciso, che non è stato circonciso nella carne del suo prepuzio, sarà tagliato fuori dal suo popolo, perché ha violato il mio patto” (Genesi 17.10-14).

Per quanto praticata anche da altri popoli, la circoncisione non aveva lo stesso significato per Israele in cui si aveva un segno indelebile, esteriore, nella carne che ricordava non solo l’appartenenza al popolo eletto, ma soprattutto l’immedesimazione nelle promesse ricevute, il volerne far parte, l’essere un tutt’uno con esse. C’era, nelle parole che abbiamo letto, una profezia di riscatto: era vista nell’espressione “da te usciranno dei re” che racchiudeva tutto un lungo panorama storico che avrebbe avuto la suo punto culminante con la venuta del Re per eccellenza, quel Messia il cui ruolo e funzione si sarebbe sempre più delineato nel corso dei secoli fino alla Sua venuta.

C’è anche un raccordo possibile tra il tempo in cui l’adempimento delle promesse era ancora lontano e il nostro: doveva essere circonciso non solo il “nato in casa tua”, quindi l’israelita, ma anche ogni maschio che per qualsiasi ragione fosse inserito nella società ebraica, quindi lo straniero che rinunciava alle sue credenze per aderire al popolo di Dio: questa è una figura, un’anticipazione del fatto che l’appartenere al popolo santo non sarebbe stata un giorno prerogativa degli ebrei. Il fatto che potesse venire inserito nel suo àmbito anche lo straniero, poi, ci testimonia di come ci fosse un piano futuro anche per gli altri popoli.

Molte volte avremo a sottolineare che la Legge è, come dice la Scrittura, “ombra dei futuri beni”: guardando il verso che conclude il patto della circoncisione, vediamo che se il rifiuto di far circoncidere il proprio figlio, all’età di otto giorni perché lì il sangue possiede il suo maggiore potere coagulante, equivaleva a rifiutare il patto stipulato da Dio con Abramo. Come doveva essere “reciso dal popolo” chi rifiutava la circoncisione, così saranno tagliati fuori dal nuovo popolo di Dio coloro che non avranno creduto, condividendo quel “pianto e stridore di denti” e lo stagno ardente di fuoco e zolfo dove verranno gettati Satana e i suoi angeli.

Se possiamo avere le idee chiare sul significato della circoncisione è grazie all’opera dell’apostolo Paolo, in cui tratta l’argomento. Dando qualche accenno, al capitolo quarto della lettera ai Romani, si parla della giustificazione per fede di Abramo; dopo avere chiarito che fu considerato giusto per fede e non per opere, Paolo scrive: “Davide stesso proclama la beatitudine dell’uomo a cui Dio imputa la giustizia senza opere dicendo «Beati coloro le cui iniquità sono perdonate e i peccati coperti. Beato l’uomo a cui il Signore non imputa il peccato». Ora dunque questa beatitudine vale solo per i circoncisi, o anche per coloro che non sono circoncisi? Perché noi diciamo che la fede fu imputata ad Abramo come giustizia. In che modo dunque gli fu imputata, mentre era circonciso, o quando non lo era? Quando non lo era. Poi ricevette il segno della circoncisione come sigillo della giustizia della fede che aveva avuto mentre non era ancora circonciso, affinché fosse il padre di tutti quelli che credono, anche se non circoncisi, affinché anche a loro la giustizia sia imputata” (Romani 4.6-12). Più avanti scriverà “Come sta scritto, «Io ti costituirò padre di molte nazioni», è padre di tutti noi davanti a Dio a cui egli credette” (v. 17).

La Chiesa di Roma ha voluto collegare la circoncisione dell’Antico Patto al battesimo dei bambini, ma in questo modo ne ha stravolto il significato perché il battesimo, a differenza della circoncisione che veniva imposta, è evidentemente un atto che va adempiuto da chi è capace di intendere e di volere. Pietro dice nella sua prima lettera che il battesimo, praticato per immersione in acqua, non è “la rimozione della sporcizia della carne – quindi un bagno – ma la richiesta di una buona coscienza presso Dio” (3.21). Si tratta della richiesta che una persona che si scopre salvata, redenta dal sangue di Cristo, chiede a Dio di essere sua, di appartenergli ottemperando al Suo comandamento.

La circoncisione di Gesù è un fatto molto importante perché, per quanto non dipendente da lui, fu il suo primo atto di sottomissione a quella Legge che era venuto “Non per abolire, ma per adempiere” per, come spiegherà più avanti Paolo ai Galati, “…riscattare coloro che erano sotto la Legge” (4.4-5). Possiamo definire la dispensazione che ci ha preceduti, quella della Legge, come un periodo dato all’uomo per prendere conoscenza del peccato e delle esigenze di Dio, ma “se fosse stata data una legge capace di dare la vita, allora veramente la giustizia sarebbe venuta dalla legge. Ma la Scrittura ha rinchiuso ogni cosa sotto il peccato, affinché fosse data ai credenti la promessa mediante la fede in Gesù Cristo. Ora, prima che venisse la fede, noi eravamo custoditi sotto la legge, come rinchiusi, in attesa della fede che doveva essere rivelata. Così le legge è stata nostro precettore per portarci a Cristo, affinché fossimo giustificati per mezzo della fede. Ma, venuta la fede, non siamo più sotto un precettore, perché voi tutti siete figli di Dio per mezzo della fede in Cristo Gesù” (Galati 3.21-26). Qui Paolo spiega la rivoluzione degli ultimi tempi che viviamo: la Legge non dava la vita, non era in grado perché si rapportava all’uomo per condannarlo e umiliarlo. Tutto il “peccato” di cui viene data conoscenza, non esiste più per il cristiano veramente rinnovato nella propria mente e nel proprio spirito perché non è più creatura, ma figlio, o figlia. Certo che la Legge rimane come misura del bene e del male come ad esempio nel Decalogo cui è nostra responsabilità attenerci.

La circoncisione di Gesù fu quindi il primo passo che fece da uomo inserito nel popolo di Israele, lui che di subire quell’intervento non ne aveva alcun bisogno: era la Parola per mezzo della quale tutto era stato creato. Gli fu posto il nome Gesù in ubbidienza all’ordine dell’angelo e Gesù è la sesta persona in tutta la Scrittura, antica e nuova, che viene chiamata con un nome a seguito di un ordine superiore: abbiamo infatti Isacco, Ismaele, Giosia, Ciro, Giovanni (Battista) e infine Lui, per non parlare di quelli che verranno dopo e tutte quelle persone che ebbero il loro nome modificato, ad esempio Abramo (padre grande) in Abrahamo (padre di una moltitudine).

Venendo alla purificazione di Maria, dopo il parto la donna era considerata impura e stava separata dalla congregazione di Israele per un periodo di 40 giorni se aveva partorito un maschio, 80 una femmina dopo di che, per essere riammessa, doveva presentarsi al sacerdote portando, come abbiamo letto, quattro animali da sacrificare. Apriamo una parentesi per leggere il testo della Legge in Levitico 12.6-8 relativo a questo caso: “Quando i giorni della sua purificazione sono compiuti, sia che si tratti di un figlio o di una figlia, porterà al sacerdote (…) un agnello di un anno come olocausto e un giovane piccione o una tortora, come sacrificio per il peccato – per la sua condizione, non perché avere il figlio costituisse una colpa-; poi il sacerdote li offrirà davanti all’Eterno e farà l’espiazione per lei, ed ella sarà purificata dal flusso del suo sangue. Questa è la legge relativa alla donna che partorisce un maschio o una femmina. E se non ha mezzi per offrire un agnello, prenderà due tortore o due giovani piccioni, uno come olocausto e l’altro come sacrificio per il peccato. Il sacerdote farà l’espiazione per lei ed ella sarà pura”. Questo significa che Giuseppe e Maria, a quel tempo, erano poveri, non avendo mezzi per offrire un agnello.

Altro punto adempiuto dopo la circoncisione e il sacrificio che abbiamo letto è la presentazione: Iddio esigeva nella Legge che ogni primogenito, di uomini o di animali, gli fosse consacrato in tutto il Paese di Israele. Questo era per commemorare l’episodio in cui i primogeniti degli ebrei furono risparmiati, al tempo della piaga sui primogeniti in Egitto, dall’angelo così come narrato nel capitolo 12 del libro dell’Esodo.

Possiamo fare però anche una riflessione: Gesù sarebbe stato il primogenito di Maria, era l’unigenito Figlio di Dio, ma sarebbe diventato anche, in virtù del Suo sacrificio e resurrezione, il “Primogenito fra molti fratelli”, definizione che troviamo nella lettera ai Romani in 8.29 e che allude alla dimensione spirituale nuova e stabile in cui dimorano tutti coloro che hanno creduto. Infatti: “Non sapete voi che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non v’ingannate: né i fornicatori, né gli idolatri, né gli adulteri, né gli effeminati, né gli omosessuali, né i ladri, né gli avari, né gli ubriaconi, né gli oltraggiatori, né i rapinatori erediteranno il regno di Dio. Or tali eravate già alcuni di voi; ma siete stati lavati, ma siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù e mediante lo Spirito di Dio” (1 Corinti 6.9-11).

Questo è l’esaudimento della preghiera che lui stesso rivolgerà al Padre: “Io voglio che dove sono io siano con me anche coloro che tu mi hai dato, affinché vedano la mia gloria che tu mi hai dato, perché tu mi hai amato prima della fondazione del mondo” (Giovanni 17.24).

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01.12 – L’ANNUNCIO AI PASTORI (Luca 2.8-20)

01.12 – L’annuncio ai pastori (Luca 2.1-7)

 

8C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. 9Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, 10ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: 11oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. 12Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia». 13E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: 14«Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama». 15Appena gli angeli si furono allontanati da loro, verso il cielo, i pastori dicevano l’un l’altro: «Andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere». 16Andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. 17E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. 18Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. 19Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. 20I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro”.

 

Abbiamo qui il quarto annuncio angelico del Nuovo testamento. Il primo fu dato a Zaccaria, il secondo a Maria e il terzo a Giuseppe quando aveva in animo di ripudiarla. Il quarto annuncio non anticipa la nascita di Gesù, ma la rende pubblica a dei pastori che “vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge” segno che Nostro Signore nacque in un mese non freddo, che da calcoli fatti da alcuni pare sia stato settembre. Il Salvatore era nato, ma la notizia non viene data a degli studiosi, a dei tecnici eruditi come ve ne erano molti in Israele, ma a gente posta a un livello sociale molto basso, a persone umili e malviste dalla maggioranza: le greggi creavano problemi agli agricoltori brucando ovunque, i pastori non avevano fissa dimora per diversi mesi all’anno, non praticavano la religione e avevano ben poca conoscenza della Legge o dei Profeti e, nei racconti rabbinici, venivano messi sullo stesso piano dei briganti e dei malfattori. Non solo, ma nei tribunali il Talmud afferma che la loro testimonianza non era accettata, al pari dei ladri e deli estorsori.

Ecco allora che Dio Padre manda un Suo angelo ad annunciare la nascita del figlio a degli ultimi del tutto estranei a qualsiasi forma di religiosità, che certo non si aspettavano una manifestazione divina né tantomeno di venire coinvolti in un piano di salvezza. Erano lì, a fare il loro lavoro in una delle tante notti alle quali erano abituati chissà da quanto tempo.

Eppure, all’improvviso, qualcosa fa prepotentemente irruzione nelle loro vite: si presenta un angelo e contemporaneamente ad esso una traduzione dice “La gloria del Signore risplendé d’intorno a loro ed essi temettero di gran timore”. “La gloria del Signore”, termine col quale viene indicato uno degli aspetti della presenza di Dio che troviamo in altri passi della Scrittura.

Ricordiamo, nel Nuovo Testamento, l’episodio in cui Saulo da Tarso, accanito persecutore degli ebrei che si convertivano al cristianesimo, raccontando di sé al re Aggrippa, disse “…vidi sulla strada, o re, una luce dal cielo più splendente del sole, che avvolse me e i miei compagni di viaggio” (Atti 26.13): non è quindi la luce naturale che denota la presenza di Dio – al limite essa è una Sua opera –, ma quella che si manifesta come chiaramente riconducibile a Lui. Paolo abbiamo letto che la definisce “più splendente del sole” – e infatti ebbe gli occhi lesionati – e Luca, che non la descrive come lui, dice che i pastori sentendosene avvolti, ebbero molta paura, emozione irrazionale dominata dall’istinto che ha come obiettivo la sopravvivenza del soggetto che ne viene colto.

Quei pastori temettero per la loro vita. Un’altra traduzione parla di “spavento”, termine che si riferisce a un turbamento psichico forte e improvviso che si verifica nel momento in cui si avverte un pericolo, una minaccia o un danno incombente che può provocare reazioni incontrollate.

L’espressione usata dall’angelo, “Non temete” in tutta la Bibbia si trova per 365 volte, tante quanti sono i giorni dell’anno, indirizzata ad ogni credente. È qui, come altrove, un “Non temere” autorevole, pronunciata da un essere che potremmo definire “soprannaturale”, un “non temere” che interviene puntualmente ogni giorno che, come sappiamo, porta sempre una pena diversa, per quanto di peso differente. Un “non temere” che segna lo spartiacque tra ciò che controlliamo e ciò che invece non possiamo prevedere né è in nostro potere cambiare. L’annuncio dell’angelo era di “una grande gioia che sarà di tutto il popolo” e quel “vi è nato” rivelava tutta l’universalità di quella nascita: Gesù era nato per loro e per tutti gli altri che avrebbero creduto. L’angelo propone loro questo messaggio e possiamo affermare che, se si fosse rivolto a persone importanti, queste avrebbero potuto credere ad un’esclusiva; partendo dallo strato più basso della società, però, allora sì che quella nascita avrebbe veramente coinvolto tutti, nessuno escluso.

La definizione “città di Davide” era molto specifica e tendeva a far emergere quei ricordi che, forse, i pastori potevano avere di quel Re che sarebbe nato secondo le antiche profezie che magari avevano ascoltato, anche solo distrattamente. Eppure questi, una volta trovato quanto l’angelo aveva detto loro, è scritto al verso 30 che glorificarono e lodarono Dio, come Maria raccontò a Luca.

Abbiamo letto nei versi da 12 a 14 Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia. E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva “Gloria a Dio nel più alto dei cieli, e pace in terra a tutti gli uomini che Egli ama”: l’angelo non fa un annuncio generico, ma dà ai pastori un elemento concreto, un “segno”, che per il linguaggio tanto dell’Antico che del Nuovo Testamento equivaleva a una sorta di firma; pensiamo solo all’arcobaleno, al sangue sulla porta delle case che avrebbe risparmiato i primogeniti degli israeliti nella decima piaga d’Egitto, al sabato o alla circoncisione, solo per citarne alcuni.

Il segno qualificava il mittente del messaggio ed attestava un fatto: quei pastori avrebbero trovato un bambino – il Salvatore che “oggi” era nato per loro – avvolto in fasce, che giaceva in una mangiatoia. Lo stesso “Re dei Giudei che è nato” che avrebbero trovato tempo dopo i Magi, non più in un luogo precario come avrebbe potuto essere un portico o una delle grotte nei dintorni di Beltlehem che fungevano da ricovero per animali o viaggiatori, ma in una casa.

Il verso 12 contiene un dettaglio che molto spesso una lettura veloce tende a trascurare: i pastori avrebbero trovato non “il”, come alcuni traducono, ma “un” bambino, cioè un individuo comune a tanti che si sarebbe rivelato al suo popolo, e poi al mondo, a tempo debito. L’indeterminativo “un”, inoltre, racchiude gli intenti del Figlio di Dio che, come scrive l’apostolo Paolo in Filippesi 2.6-11 “…pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso assumendo la forma di servo e divenendo simile agli uomini. Apparso in forma umana, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre”.

In realtà, come leggiamo al verso 13, ci fu un secondo segno, che non generò più timore nei pastori, ma piuttosto contemplazione, quello della “moltitudine dell’esercito celeste”, di questi esseri che, da una dimensione differente che comunque uomini e profeti dell’Antico e del Nuovo Testamento videro (pensiamo a Stefano primo martire, Paolo e Giovanni), entrano in quella terrena

pronunciando una dossologia che separa l’ambito di Dio, cui compete e spetta la “gloria”, da quello umano – attenzione – specifico: la “pace in terra a tutti gli uomini che Egli ama”, non a tutte le creature indistintamente. E qui entriamo nel progetto che Dio ha per ogni uomo che ama e che, fino a quando non ha un incontro con lui, non sa di esserlo, intento e preso com’è nelle sue attività quotidiane, preoccupazioni, doveri da svolgere e interessi personali. La loro notte di veglia non aveva nulla di diverso dalle altre fino a quando l’angelo non furono avvolti di luce.

Nel più alto dei cieli” e “in terra” sono due luoghi la cui distanza è, per ora, immensa. Sappiamo però il destino che accomuna tutti quelli che hanno creduto: “…perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria. E così saremo per sempre col Signore” (1 Tessalonicesi 4.15-17). Questo è quello che ci attende. Se tra i due luoghi, “nel più alto dei cieli” e “in terra” esiste una distanza enorme, la proclamazione della “pace in terra agli uomini che Egli ama” la accorcia: infatti “Giustificati dunque per fede, abbiamo pace presso Dio per Cristo, Nostro Signore” (Romani 5.1). La distanza incolmabile fra il peccatore e la santità di Dio si annulla con la “pace” e con essa diventeremo parte integrante con Lui. I pastori non videro una luce più o meno distante che li abbagliò, ma ne furono avvolti a conferma del fatto che Dio non è lontano, ma coinvolge e rende l’uomo parte di sé.

Gli angeli, dopo la lode, si allontanano. Questa presenza, secondo segno di quella notte in cui comparve l’angelo dell’annuncio, gli altri e quindi il bambino nella mangiatoia, per un lettore che proviene dall’Antico Testamento è molto importante perché dispone di riferimenti per poterla comprendere: gli angeli erano presenti alla creazione. Ricordiamo ad esempio Giobbe 38.4-7: “Dov’eri tu quando io gettavo le fondamenta della terra? Dillo, se hai tanta intelligenza. Chi ha stabilito le sue dimensioni, se lo sai, o chi tracciò su di essa la corda per misurarla? Dove sono fissate le sue fondamenta, o chi pose la sua pietra angolare, quando le stelle del mattino cantavano tutte insieme e tutti i figli di Dio mandavano grida di gioia?”, Atti 7.53 che fa riferimento alla promulgazione della legge sul Sinai. “Voi avete ricevuto la legge per mano degli angeli e non l’avete osservata” e il giudizio finale in cui, in Matteo 13.53, è scritto “Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti”.

La presenza corale angelica, quindi, sottolinea la solennità unica di quel momento, certamente non inferiore ai precedenti: la creazione fu l’inizio della storia in cui iniziò ad esistere il tempo, staccandosi dall’eternità, la legge fu il patto precedente a quello della grazia. Ciò che i pastori avevano visto e udito non poteva non generare una reazione che non a caso fu immediata: è scritto che andarono a Betlemme “senza indugio”, cioè non pensarono al loro bestiame che, di colpo, aveva perso il suo valore. Era l’unica cosa che possedevano. “Vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere”, parole che denotano quanto siano inutili e dannosi i preconcetti umani, quella suddivisione in categorie che fa il mondo, che tende a ossequiare e riverire gli appartenenti alle classi sociali elevate e a rifiutare e disprezzare quelle meno abbienti, dimenticandosi che ciò che conta è la disposizione del cuore, l’anima e lo spirito della persona.

I versi da 17 a 19 ci danno un quadro particolare: i pastori parlano dopo avere constatato la presenza del “segno” di cui l’angelo aveva loro parlato. Si diventa sempre credenti perché si è constatato; io non credo in un’entità superiore perché questo dà un senso alla mia vita e la mia psiche è gratificata con pratiche religiose e mi sento “buono”, ma credo in quel Dio che mi ha amato per primo, in Gesù Cristo che, come dice l’apostolo Paolo, “mi ha amato e ha dato sé stesso per me” (Galati 2.20). Dio, lo abbiamo appena scritto, ama per primo, prende l’iniziativa nonostante noi siamo distanti, come i pastori intenti nelle loro occupazioni senza pensare che ci fosse in atto un piano per loro.

I pastori furono i primi testimoni al di fuori della ristretta cerchia composta da Zaccaria – Elisabetta e Giuseppe – Maria: loro soli videro l’angelo e la moltitudine e furono consci dell’unicità della rivelazione a loro fatta. Anche qui, per il loro glorificare e benedire Dio c’è una ragione, non certo dettata da un misticismo immaginario: lo fecero per tutto quello che avevano udito e visto (udito e vista, due sensi importanti nella vita di ogni creatura superiore), com’era stato detto loro.

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01.11 – LA NASCITA DI GESÙ (Luca 2.1-7)

01.11 – La nascita di Gesù (Luca 2.1-7)

 

1In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. 2Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. 3Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. 4Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. 5Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. 6Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. 7Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio”.

 

Solo Matteo e Luca parlano della nascita di Gesù, per quanto mettendo l’accento su avvenimenti diversi, ed alcuni commentatori sostengono che i due racconti siano stati scritti anche per confutare l’eresia dei doceti che sostenevano l’umanità di Cristo essere solo una parvenza (dal verbo greco dokéo “sembrare, apparire”), negando così la Sua natura umana e quindi le sofferenze che ebbe nel corpo.

Matteo e Luca ci parlano quindi del “Natale”, argomento indispensabile per conoscere le origini di Nostro Signore, omettendo volutamente la sua data di nascita nonostante fosse da loro conosciuta perché per gli ebrei, e così dovrebbe essere per coloro che aderiscono o hanno aderito al cristianesimo, festeggiare il compleanno era ritenuta cosa da evitare, essendo i pagani a celebrarla. Leggiamo che in Genesi 40.20 che “…il terzo giorno, il giorno del compleanno del faraone, avvenne che egli fece un banchetto per tutti i suoi servi”. In Marco 6.21, poi, “Erode per il suo compleanno offrì un banchetto ai suoi grandi, ai comandanti e ai notabili della Galilea”. Entrambi erano pagani, uno egiziano e l’altro idumeo.

Nel quarto secolo d.C., però, la Chiesa di Roma istituì, per ragioni politiche e con l’intento di cristianizzare a lunga scadenza le popolazioni pagane, il 25 dicembre per festeggiare la nascita di Gesù, inserendola nel suo calendario liturgico. Tale data corrispondeva alla festa in onore del dio Sole e, per giustificare il raccordo a tale ricorrenza, furono utilizzati i versi in cui Gesù, nelle profezie che conosciamo, è definito “Sole di Giustizia” e “Luce da illuminare le genti”.

Luca è il solo a parlare delle circostanze che si verificarono prima e subito dopo il parto collocandolo sotto l’impero di Caio Ottaviano, pronipote di Giulio Cesare, primo dei cinque imperatori di Roma cui seguiranno Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone, sotto cui si svolgeranno gli avvenimenti riportati dal Nuovo Testamento, Atti ed epistole comprese. L’opera di Dio con la nascita di Gesù fa quindi il suo ingresso ancora una volta nella storia umana, dopo le Sue promesse e gli innumerevoli interventi per il Suo popolo, ma con significati completamente diversi che sono sintetizzati dall’apostolo Paolo con l’espressione “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo figlio nato di donna” (4.4). La “pienezza del tempo” si riferisce sì ad un momento storico preciso in cui la situazione politica poteva essere favorevole alla diffusione del messaggio cristiano (pensiamo solo ai trasporti, all’impero romano e alle vie di comunicazione) e in cui in tutto il mondo orientale si attendeva l’arrivo di un salvatore. Soprattutto ci sarebbe stato un momento ben definito in cui si sarebbe aperta la parentesi della dispensazione della grazia: questo sarebbe avvenuto tra la 69ma e la 70ma settimana profetizzata da Daniele (9.20-27) che, in modo criptico per molti, prevede un tempo per la sopportazione del peccato da parte di Dio prima che venga il suo giudizio definitivo su quella parte di umanità che non avrà voluto accogliere il suo messaggio.

La “pienezza del tempo” è una definizione che si collega strettamente a tutti quei casi in cui gli uomini vengono esortati al ravvedimento perché “il regno di Dio è vicino” o addirittura “è giunto fino a voi”, avvenimenti scritti nella grande agenda di Dio; così l’era della grazia in cui viviamo ha una scadenza che sfocia nella 70ma settimana, l’ultima, che sarà divisa in due periodi di tre anni e mezzo ciascuno, il primo caratterizzato da una falsa pace mondiale proclamata dal “Figlio della perdizione” e il secondo contrassegnato dai grandi giudizi che Dio manifesterà su tutta la terra e che sono descritti nei capitoli da 6 a 18 del libro dell’Apocalisse.

Abbiamo letto di un censimento: questo era teso a registrare non solo le persone, ma anche i nuclei famigliari con relativa composizione e i loro averi in vista di una tassazione, terzo significato del verbo greco apograféo che veniva impiegato per indicare il fare una copia, il registrare uomini e cose, oppure fare un inventario per fissare un’imposta. Questo censimento doveva essere fatto per tutto l’impero e quindi anche la Giudea, che era una provincia imperiale. La citazione di Quirinio è importante per collocare con più precisione il periodo perché fu governatore per due volte: una prima dal 4 all’1 a.C. e una seconda dal 6 all’11 d.C. e la riscossione delle imposte pare avvenne in questo secondo periodo. Il censimento ebbe le procedure secondo l’uso ebraico che registrava persone e cose nella loro città di nascita a differenza di quello romano che lo faceva nel luogo ufficiale di residenza: stando così le cose, Giuseppe e Maria dovettero recarsi al loro paese di origine, lasciando Nazareth affrontando un viaggio di diversi giorni; se i due paesi distavano fra loro tre giorni di percorso a cavallo, con Maria prossima al parto è molto probabile che ce ne volessero almeno il doppio.

Maria e il marito arrivano così a Betlemme, che significa “casa del pane”, l’antica Efrata (è chiamata anche “Bethlehem di Efrata”) dove Giacobbe aveva sepolto Rachele (Genesi 35.19) e lì arrivò il momento del parto, delicato non solo come avvenimento per ogni donna, ma anche per noi che ci troviamo a dover risolvere un problema importante visto nella pericope “lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo” (v.7).

Immaginiamoci la situazione nei giorni poco prima dell’evento: Giuseppe e Maria, giunti a Betlemme, villaggio di non molte case, la trovarono ovviamente piena di persone giunte là, come loro, per ottemperare agli obblighi imposti dall’editto: il problema del dove alloggiare non era di poco conto sia perché Betlemme era piccola, sia perché la moltitudine di gente giunta prima di loro si era accaparrata i posti migliori disponibili. In realtà però, leggendo bene il testo, Luca non ci dice che Giuseppe e Maria non riuscirono a trovare un posto perché Betlehem era piena di gente, ma che “non c’era posto per loro” perché Maria, prossima a partorire, avrebbe secondo la Legge contaminato il luogo dove avrebbe partorito così come le persone. Non avrebbero quindi potuto alloggiare presso le abitazioni come ospiti, ma poteva essere disponibile la stalla dove i viaggiatori ricoveravano i propri animali accanto magari a quelli dei proprietari.

Allora Giuseppe trovò un riparo per Maria cercando sicuramente di sistemarlo e pulendolo come meglio poteva, tenendo lontani gli animali che potevano costituire un pericolo per il bambino. Maria poi è probabile che partorì da sola, senza essere assistita da nessuno perché fu lei stessa ad avvolgere il figlio nelle fasce e a deporlo nella mangiatoia, quindi alzandosi subito dopo averlo partorito. Provvide così a lavarlo, a recidere il cordone ombelicale oltre che sbarazzarsi della placenta e a pulire se stessa. Le fasce furono così il primo vestito che Gesù indossò come essere umano, preludio di quelle altre che Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo utilizzarono per avvolgere il suo corpo con gli aromi alla sepoltura.

C’è poi la mangiatoia, che assieme alle fasce e alla paglia proteggevano il piccolo dal freddo, ma non mi sento di avallare la teoria del presepe che vede un bimbo quasi nudo riscaldato dall’alito di un asino e di un bue che, animali e in quanto tali comunque imprevedibili, saranno stati accuratamente tenuti lontano. Come osservò un fratello, “Sull’iconografia tramandataci da Francesco d’Assisi, giocò fortemente l’emotività e non la realtà dell’avvenimento”.

Ultimo dettaglio, ma certo non trascurabile stante le interpretazioni opposte in merito, lo troviamo nelle parole “diede alla luce il suo figlio primogenito”, sul quale sono corsi letteralmente fiumi di inchiostro. Il termine “primogenito” veniva usato ordinariamente per indicare colui che nasceva per primo indipendentemente dal fatto che restasse o meno figlio unico anche se Matteo 13.55,56 lascia intendere che la famiglia di Maria e Giuseppe fosse numerosa: grazie ai doni ricevuti dai Magi, che arrivarono tempo dopo, i genitori di Gesù erano diventati benestanti e potevano permettersi un decoroso mantenimento di figli. Così si espressero gli abitanti di Nazareth: “Da dove mai viene a costui questa sapienza e questi miracoli? Non è forse egli il figlio del carpentiere? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte fra noi? Da dove gli vengono dunque tutte queste cose?”. Si creano delle condizioni di scandalo attorno a questioni trascurabili: Maria era una donna, in quanto tale rimase impura secondo la legge per 40 giorni dopo aver partorito. Vergine all’atto del parto perché suo figlio era stato concepito in modo non umano, fu madre e moglie di Giuseppe vivendo la propria unione esattamente come tutte le altre donne sposate del mondo. Non ho mai capito quale senso potesse avere non solo la sua supposta verginità post parto e il fatto che si sia astenuta dall’avere rapporti col proprio marito anche alla luce del fatto che il matrimonio in Israele aveva nel far figli il suo scopo portante.

Dai versi visti finora, al di là delle considerazioni “tecniche” che abbiamo fatto, se ne possono fare altre, la prima della quale è: Dio governa il mondo e, come in tanti episodi storici dell’Antico Testamento, prepara e organizza i presupposti affinché certi eventi si possano verificare senza che molti li possano capire. Gesù doveva nascere in Betlemme e in nessun’altra città. Il profeta Michea scrisse “E tu, Betlemme di Efrata, così piccola per essere tra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che dev’essere il dominatore in Israele. Le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti” (Michea 5.1), espressione per indicare l’eternità di cui Gesù stesso farà cenno quando dirà “Prima che il mondo fosse, io sono”.

Caio Ottaviano, alias Cesare Augusto, convinto di essere quasi onnipotente, temuto e riverito dai suoi simili, non pensava certo, ordinando quel censimento, di essere un mero strumento nelle mani di Dio o comunque di contribuire a un Suo progetto; neppure Quirino, sottoposto ad Ottaviano, poteva pensare cosa si celasse dietro quello che per lui era un’operazione che garantiva la riscossione dei tributi e quindi ricchezza (anche) per la sua persona. Negli avvenimenti del mondo estraneo alla Chiesa, ai “chiamati fuori” da un mondo che ha solo disprezzo per la Parola di Dio, esiste quindi un perché, una lettura che come credenti possiamo dare. Dobbiamo sapere che nulla è lasciato al caso, ma ogni cosa scorre secondo i tempi voluti e preparati da chi ha progettato ogni cosa per loro: siamo nati come tutti, ma diversamente dai “tutti” chi è diventato “concittadino dei santi e membro della famiglia di Dio” ha uno scopo e un futuro di eternità preparato per lui, come disse Gesù in Matteo 25.34 “Allora il Re dirà a coloro che saranno alla sua destra, Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno che vi è stato preparato sin dalla fondazione del mondo”.

Possiamo concludere con Genesi 49.10 quando Giacobbe morente, benedicendo i figli, disse di Giuda, che originerà una tribù alla quale apparterrà la casa di Davide, “Lo scettro non sarà rimosso da Giuda, né il bastone del comando tra i suoi piedi, finché venga Colui che darà il riposo, e al quale ubbidiranno i popoli”. Era finalmente nato Colui che gli uomini di Dio aspettavano fin dai tempi antichi, di cui l’angelo Gabriele aveva annunciato, un Re che verrà adorato dai magi venuti da Oriente, dalla Persia, uno che dichiarerà e dimostrerà di essere l’inascoltato Figlio di Dio. Gesù avrebbe potuto nascere nelle migliori corti del tempo e con tutte le comodità umane, ma venne al mondo identificandosi subito con la precarietà della condizione umana mettendo in opposizione fino da allora il ragionare umano e quello di Dio. Allo stesso modo i suoi genitori, lungi dall’essere trattati con riguardo, furono costretti ad un viaggio faticoso, aggravato dalla condizioni di Maria, perché fossero adempiute le profezie sulla nascita del bambino a Betlemme: bastava loro di essere degli strumenti nelle mani di Dio e non pretesero mai nulla in cambio, lontani da quella mentalità distorta di chi pretende che le proprie aspettative coincidano con quelle di Dio, mentalità che molti hanno.

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01.10 – BENEDICTUS II/II (Luca 1.67-80)

01.10 – Benedictus II/II (Luca 1.67-80)

 

67Zaccaria, suo padre, fu colmato di Spirito Santo e profetò dicendo:68«Benedetto il Signore, Dio d’Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo,69e ha suscitato per noi un Salvatore potente
nella casa di Davide, suo servo, 70come aveva detto per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo:
71salvezza dai nostri nemici, e dalle mani di quanti ci odiano. 72Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza, 73del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre, di concederci, 74liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza timore, 75in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni. 76E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, 77per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati. 78Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto, 79per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace». 80Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele”.

Se la prima parte del cantico di Zaccaria è incentrata sulla realizzazione delle promesse di Dio rivolte al popolo tramite i profeti, la seconda si basa interamente sul ruolo di Giovanni Battista, precursore del Messia. Le parole profetiche di Zaccaria esaminate brevemente la volta scorsa avevano riguardato l’inizio del nuovo cammino che il popolo di Dio avrebbe dovuto compiere, ma quelle su Giovanni riguardano l’immediato futuro e il suo ruolo così importante per il popolo di Israele. Il padre usa nei confronti del proprio figlio parole quasi di rispettoso distacco: mancano espressioni del tipo “figlio mio” o quant’altro indichi una rivendicazione di appartenenza, ma semplicemente “o piccolo bambino”, a sottolineare la distanza fra ciò che Giovanni era e ciò che diventerà al di là della relazione filiale, molto meno importante rispetto al ruolo che avrebbe avuto, cioè riprendere il servizio profetico, interrotto da 400 anni, e di preparazione alle vie del Cristo. Non che gli altri profeti non l’avessero fatto, ma la loro opera era tesa sia a testimoniare che l’assistenza di Dio non veniva meno nei secoli, sia a descrivere sempre più nei dettagli ciò che sarebbe avvenuto man mano che il piano di salvezza per l’uomo andava avanti. Giovanni avrebbe preparato le strade davanti al Signore con uno stile di vita particolare tipico del Nazireo e una predicazione che Matteo sintetizza con le parole “Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino” (3.2). Sono le stesse con le quali anche Gesù inizierà a predicare (4.17) con miracoli nelle sinagoghe.

Ravvedetevi”, imperativo greco (metanoèite), che indica un cambiamento di pensiero e di sentimento relativamente al peccato e a un modo di vita non consono agli ideali di Dio. Il ravvedimento porta non solo a deplorarle, ma anche ad abbandonarle interamente perché non ci appartengono più. Giovanni, per “preparare le vie” del Signore, avrebbe svolto un’opera di invito ad una valutazione della propria vita e del proprio modo di pensare visto, per coloro che conoscevano la legge e la scrittura, nella capacità di avvertire i propri errori non come una semplice colpa, un peso che Dio avrebbe potuto perdonare dietro l’osservanza di un cerimoniale, ma come qualcosa di ostacolante la relazione con Lui e che solo Lui avrebbe potuto rimuovere.

La necessità del ravvedimento urgeva in vista del “Regno dei cieli” che era vicino. Non è una frase fatta, ma l’annuncio di qualcosa atteso da tempo da tutte le anime sensibili di allora e di oggi. Se viene detto che quel regno ora è vicino, significa che prima era lontano. “Regno dei cieli” è un’espressione che usa solo Matteo e corrisponde, negli altri Vangeli, al “Regno di Dio” ed entrambe alludono a diverse cose: prima di tutto la nuova era della Grazia che stava per cominciare, ma anche la liberazione del peccato, la santificazione, la vita sotto una nuova prospettiva.

L’ “andrai innanzi” indica il precedere il Cristo non in ordine di importanza, ma come una sorta di araldo che avrebbe informato che stava per arrivare Colui del quale avevano parlato la legge e i profeti. Il “preparargli le strade” è un’espressione che infatti richiama le parole di Isaia, che scrisse nel 750 a.C. : “Una voce grida: Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia innalzata. Ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata” (40.3-4); questo testo allude al rientro in patria da Babilonia a Gerusalemme che fecero gli esuli ebrei quando Ciro, re di Persia, nel 538 a.C., li autorizzò a tornare in patria. Guardando così a quella storia per loro non troppo lontana, gli ebrei del tempo di Giovanni avevano bene in mente che nel 586 a.C. Gerusalemme era stata distrutta col suo Tempio, che il popolo fu deportato e poté tornare dopo circa 50anni. Ecco allora che Giovanni Battista sarebbe stato l’ultimo profeta dell’Antico Testamento e avrebbe fatto da ponte tra quello e il Nuovo: le strade di Dio si sarebbero incrociate con quelle degli uomini che, riconosciutele, le avrebbero intraprese.

E lo scopo delle vie di Dio le dichiara lo stesso Zaccaria: “Per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati”. Non è detto che Giovanni sarebbe diventato il precursore di un condottiero potente, ma di uno che avrebbe fatto conoscere “al suo popolo”, Israele nell’immediato, ma poi a tutti gli altri, la “conoscenza della salvezza”: riflettendo sul termine, se nella nostra mentalità “conoscenza” è sinonimo di sapere, ottenere dei dati attraverso uno studio, per gli ebrei era sinonimo di provare qualcosa su di sé, sperimentare, vivere. Ciò equivaleva allora all’invito, alla certezza di trovare un rifugio e un riparo sicuro presso Dio, alla certezza di appartenergli in virtù della “remissione dei peccati”. Ricordiamo le parole di Gesù in Luca 13.34,35 che rivela le intenzioni di Dio contrapposte al rifiuto della maggioranza: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che ti sono mandati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina la sua covata sotto le ali e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa è lasciata deserta! Vi dico infatti che non mi vedrete più fino al tempo in cui direte «Benedetto colui che viene nel nome del Signore!»”.

Se nel Salmo 32.1 leggiamo “Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato”, in Efesi 1.19 abbiamo la grande apertura che ogni uomo o donna può vivere oggi qualora accetti Gesù come suo personale salvatore, riconoscendosi peccatore e lontano da Dio: “Voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e famigliari di Dio”.

Zaccaria prosegue così: “Grazie alle tenerezza e alla misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto, per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace”: compare in questo cantico il verbo “visitare” per la seconda volta: nel primo caso, che abbiamo cercato di sviluppare nella scorsa riflessione, Dio ha “visitato il suo popolo”, realtà che ci parla di un’azione valutativa sotto la spinta della Sua “tenerezza e misericordia”, ma nel secondo abbiamo la conseguenza di tutto questo, cioè l’arrivo di un “sole che sorge”. Di “Un” e non “del”: un’altra luce, un altro progetto, un altro scopo, un altro genere di illuminazione e riscaldamento. L’apostolo Giovanni scrive “Egli – Giovanni Battista – non era la luce, ma doveva rendere testimonianza della luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (1.8-9). Possiamo fare ancora una citazione da Malachia 4.2 “Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di Giustizia” e da Isaia che dice al popolo “Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla su di te” (60.1).

Simeone, dopo che prese in braccio Gesù quando aveva 8 giorni e fu presentato al tempio come primogenito, disse : “Ora lascia, Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele” (Luca 2.29,32). “Illuminare le genti” nel senso di proiettarle in una vita nuova che si sarebbe svolta non più nelle tenebre. Paolo scrisse ai credenti della Chiesa di Efeso “Ricordatevi che voi in quel tempo – cioè prima di conoscere il piano di Dio ed averlo accolto – eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza di Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo” (2.12). Lo stare “nelle tenebre e nell’ombra della morte” è la condizione di ogni essere umano che vive senza la luce che solo il “Sole di giustizia”, quello che “sorge” può dare: lo stare nelle tenebre implica spiritualmente il non vedere, quindi incapacità di valutare, percepire, dirigersi, orientarsi. La permanenza nell’ombra della morte invece si riferisce non solo alla prospettiva certa che tutti hanno, ma ad uno stato di non illuminazione che trova nella morte l’unica prospettiva possibile. Ora se la morte, per chi vive nelle tenebre, rappresenta la fine di tutto (quindi progetti, desideri, l’essere se stessi con i propri averi), per chi è illuminato dal “Sole di giustizia” non esiste più alcuna ombra di morte, ma il passaggio dalla questa alla vita: “In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede in colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5.24).

Da notare inoltre che il sole che sorge dall’alto di cui parla Zaccaria è detto che risplende, non si limita a mandare una luce generica, non ci sono nubi a coprirlo. È una luce forte e vivida quella che investe chi ne è illuminato, per cui questi si viene a trovare in una condizione diametralmente opposta alla prima.

Non solo, ma questo sole dirige i passi su una vita particolare, quella della pace. Non c’è altra pace al di fuori di quella che solo Gesù Cristo può dare, che disse “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Io non la do come la dà il mondo” (Giovanni 14.21). La “via della pace” non è quella della tranquillità, di uno stato mentale raggiungibile attraverso una generica meditazione o ad imitazione del Budda, che pure aveva capito molte dinamiche della psicologia umana, non implica un percorso libero né da turbamenti né da errori, ma è quella conseguente alla rappacificazione con Dio, che fa scendere sulla creatura una pace particolare, diversa: il pieno confidare in Lui e la conoscenza, la certezza di essere nelle sue mani.

A questo punto Zaccaria conclude il suo intervento e Luca inserisce questa nota: “Il bambino cresceva a si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele”. C’è qui descritto un periodo di trent’anni circa salvo altri, pochi dettagli sul come si vestiva e come si nutriva. Giovanni non frequentava le scuole rabbiniche del tempo, ma visse i silenzi del deserto e crebbe illuminato dallo Spirito Santo che lo preparò alla predicazione, fortificandosi nello spirito, quindi nella parte più profonda della sua persona, e pare molto improbabile che, come alcuni hanno supposto, fosse stato affidato alla comunità di Qumran.

Nel deserto non esistono rumori al di fuori di quello del vento, se presente. Giovanni visse così “fino al giorno della sua manifestazione a Israele”, quindi attese che Dio stesso gli rivelasse il momento di agire predicando con modalità e parole riferite in parte dai Vangeli, ma che troveremo nei profeti dell’Antico Testamento.

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