06.02 – IL FIGLIO DELLA VEDOVA DI NAIN (LUCA 7.1-17)

6.02 – Il figlio della vedova di Nain (Luca 7.1-17)

11In seguito Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla. 12Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei. 13Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». 14Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». 15Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre. 16Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo». 17Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante.”.

È solo Luca a riportare quest’episodio collocandolo qualche tempo dopo il miracolo della guarigione del servo del centurione. “In seguito”, con cui il verso 11 inizia, è letterale dal greco, è stato tradotto da altri con “il giorno dopo”; fatto sta che Gesù, nella sua onniscienza, decise di partire da Capernaum affrontando un cammino di otto-nove ore per raggiungere Nain, fino ad allora anonimo villaggio a Sud-Ovest, dove giunse verso sera, ora alla quale si portavano a seppellire i morti. Chi vuole cercare di leggere i Vangeli in modo cronologico, si trova comunque a dover affrontare un problema perché non è possibile quantificare quel “in seguito” e c’è chi ipotizza che il miracolo di questa resurrezione sia avvenuto in un altro periodo, cioè dopo che gli apostoli furono mandati in missione per le città della Galilea. Matteo, infatti, scrive in proposito che “Dopo che Gesù ebbe finito di dare disposizioni ai suoi dodici discepoli, se ne andò di là per insegnare e predicare nelle loro città” (11.1) per cui, se si accetta questa tesi, i “discepoli” di cui si parla in questo episodio furono altri e non i dodici. Sempre Matteo, proprio dopo questo verso, riporta l’ambasciata di Giovanni Battista che, prigioniero nel Macheronte, gli inviò due suoi discepoli a dirgli “Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettarne un altro?”.

Venendo al nostro testo la prima osservazione che possiamo fare è proprio su quanti lo seguivano: facevano questo senza sapere dove Gesù li avrebbe portati e cosa avrebbe detto. Penso che dei semplici curiosi, o gente animata dallo stesso desiderio di Erode di cui è scritto che “sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui”(luca 22.8), si sarebbero stancati presto. Quelle persone lo seguivano certe che avrebbero avuto, presto o tardi, un insegnamento o visto cose che li avrebbero confortati, rincuorati, dato loro degli elementi per essere testimoni, vivere come parte integrante del piano di Dio. Un semplice curioso, alla luce del cammino da percorrere a piedi, come già rilevato, avrebbe presto desistito e preferendo tornarsene in città a Capernaum perché, tanto, cosa Gesù avrebbe fatto o detto se lo sarebbe potuto sempre far raccontare da altri. I presenti all’episodio dissero, “un gran profeta è sorto tra noi”, frase che denota non che quelli si fossero convertiti o avessero avuto un’illuminazione, ma che erano nella condizione di giungere alla Sua corretta conoscenza, se i loro cuori fossero stati aperti.

È così che, sul far della sera, abbiamo l’incontro del corteo della vita con quello della morte, oltre a quello di Gesù con lei che del peccato “è il salario” (Romani 6.23), cioè il suo risultato. Non così era quando, alla collocazione in Eden, l’essere umano era in origine progettato per essere eterno e santo come il suo creatore. Non può sfuggire, in questo episodio, che Nostro Signore interviene senza che alcuno glielo chieda, quasi fosse inevitabile che la sua presenza annullasse gli effetti della morte se solo avesse comandato all’anima di quel giovane di tornare in lui.

Ora la presenza di molte persone al corteo funebre, abbiamo letto “molta gente della città era con lei”, ci lascia pensare che il decesso di quel giovane lasciò molti colpiti e amareggiati essendo quella donna conosciuta. Nain era una città piccola e i presenti vollero esprimere il loro cordoglio alla vedova come meglio potevano, quasi a voler garantirle un sostegno morale per il periodo di solitudine che avrebbe dovuto affrontare, solidali con lei. Ma di più non potevano fare. Il dolore di quella vedova, la sua disperazione, trovava la sua prima spiegazione senz’altro nella perdita di quel giovane, che presumo non avesse ancora raggiunto la maggiore età (dodici – tredici anni per gli ebrei), ma anche nel fatto che il nome del marito si sarebbe estinto, visto che l’unico figlio avuto da lui era morto. E l’uomo che l’aveva sposata, evidentemente, non aveva un fratello che, secondo la legge data da Dio a Mosè, avrebbe dovuto occuparsi di lei prendendola in moglie. Ricordiamo le parole di Deuteronomio 25.5,6: “Se dei fratelli staranno insieme e uno di loro morirà senza lasciare figli, la moglie del defunto non si sposerà fuori, con uno straniero. Suo cognato verrà da lei e se la prenderà per moglie, compiendo così verso di lei il suo dovere di cognato; e il primogenito che lei partorirà porterà il nome del fratello defunto, affinché questo nome non sia estinto in Israele”.

I presenti al funerale, quindi, cercavano come meglio potevano di consolarla, se non altro con la loro muta presenza, per tutti quei pensieri che la straziavano.

E Gesù, che legge nei cuori e nelle menti degli uomini, che conosce la loro storia, “Ne ebbe grande compassione”, termine che, prima ancora di alludere a un sentimento comprensivo e soccorrevole verso uno stato penoso, è un termine che etimologicamente richiama a un “patire assieme”, a un’identificazione con chi soffre partecipando attivamente e concretamente al suo dolore. Possiamo dire che anche gli abitanti di Nain compativano quella donna, ma per quanto si condolessero con lei, non avrebbero potuto fare nulla per alleviarne la condizione. Dirle “Non piangere”, non avrebbe risolto proprio nulla, perché se l’essere umano può accettare la morte di un genitore come un fatto naturale, gestire il contrario credo sia molto più difficile, al di là della fede e del senso di realtà delle cose, benché sappiamo che dal momento in cui uno nasce può solo morire.

Il compatire di Nostro Signore, però, porta a una reazione risolutiva. Il suo “Non piangere” è diverso da quello che una persona avrebbe potuto dire a quella donna. E qui abbiamo una serie di parole e gesti assolutamente importanti: dopo l’invito a non piangere, si avvicinò e “toccò la bara”, non come le nostre, ma una tavola di legno dotata di bordo per non far cadere il cadavere, avvolto in lenzuola, durante il trasporto. Ebbene Gesù si avvicina, tocca la bara e parla dicendo “Ragazzo, dico a te, àlzati”. Si tratta di una situazione ben diversa rispetto a miracoli solo apparentemente analoghi operati dai profeti nell’Antico e Nuovo patto: le risurrezioni da loro prodotte furono sempre precedute da una preghiera, cioè quegli uomini di Dio furono degli strumenti nelle Sue mani per quel miracolo, ma non avevano in loro stessi, cioè per natura, nessuna autorità per farli, nessuna possibilità. I profeti pregarono perché la risurrezione avvenisse o furono informati da Dio su come fare per produrla, ma Gesù parla direttamente al ragazzo e gli ordina di alzarsi. “Dico a te”esattamente come ha detto a ciascuno di noi “mentre eravamo morti negli errori e nel peccato”e, come leggiamo in Efesi 5.19, “Svegliati, o tu che dormi, e Cristo ti inonderà di luce”. Non esiste Sua iniziativa che non produca un risultato.

Il “non piangere” detto a quella vedova conteneva quindi un perché, a differenza di quello che avrebbe potuto dire un uomo comune, che tuttavia sarebbe rimasto muto di fronte a una frase del tipo “dammi un motivo per non piangere”. In assenza di un intervento di Dio o del Suo aiuto l’uomo è e resterà sempre da solo. Quello che voleva dire Gesù alla vedova era: “non piangere perché ci sono io”, alludendo al pianto di disperazione che appartiene a chi non ha speranza, certezza di vita, esperienza provata di un incontro e di un cammino con lui.

Leggiamo che, dopo l’ordine di alzarsi, “il morto si mise seduto e cominciò a parlare, ed Egli lo restituì a sua madre”: Gesù usò quindi la Sua stessa parola, quella per cui “tutte le cose sono state create”e fu in grado di produrre l’impossibile, cioè il ritorno in vita di una persona deceduta, per quanto non da giorni come nel caso di Lazzaro. E di fronte a Lui è il tempo a soccombere.

L’importanza di questo miracolo è grandissima: fu è la seconda risurrezione prodotta (ricordiamo la figlia di Giairo), e quindi torna a parlarci del potere di Gesù collegato alle parole “Io sono il primo e l’ultimo, e il vivente. Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi”(Apocalisse 1.17,18). Con la resurrezione di questo giovane, il Cristo anticipa in un certo senso la propria annullando concettualmente la distanza tra un corpo morto di carne e lo spirito e l’anima che lo hanno abitata e che quindi tornano. Non è affatto poco, al di là dell’effetto che l’episodio di quel ragazzo ebbe sui presenti che dissero, superficialmente ma in base alle loro possibilità intellettive di allora, “Un grande profeta è sorto tra noi” e “Dio ha visitato il suo popolo”: Gesù in quest’episodio dimostra, al di là delle guarigioni effettuate su ogni male fisico e spirituale, di andare oltre, avendo le chiavi della vita e della morte a parte la sua persona, che risorgerà dopo tre giorni. In pratica dimostra la sua autorità totale, poiché non credo che ci sia, per quanto riguarda la nostra vita terrena, alcun punto più grande e fermo della morte che, orizzontalmente parlando, rappresenta la fine di tutto, il vero punto di non ritorno, idea che qui viene ribaltata. La risurrezione di quel giovane non fu contestata da nessuno, impossibile trovare una testimonianza discordante visto che avvenne alla presenza non solo degli abitanti di una cittadina di poco conto, ma di quanti erano al seguito di Gesù viste forse nei settanta discepoli, ma ancora di più da tutti coloro che provenivano dalle zone più svariate e che si erano messi a seguirlo, cioè la “folla”.

Se però vedessimo in questo miracolo unicamente una “buona azione” di Gesù per togliere un dolore praticamente importabile a quella donna, sbaglieremmo: fu dato un elemento importante di considerazione a tutti i presenti, e quindi anche a quelli che avrebbero letto come noi l’episodio. Fu data veridicità e garanzia di altre affermazioni che riguardano gli avvenimenti passati e futuri di cui leggiamo nella Bibbia; per il passato abbiamo, a parte le risurrezioni dei profeti, quel verso che si tende ad ignorare quando vengono descritti gli eventi che si succedettero alla morte della croce e che riporta “i sepolcri si aprirono e molti corpi dei santi, che dormivano, risuscitarono; e, usciti dai sepolcri, entrarono nella santa città e apparvero a molti” (Matteo 27.52,53).

Ma soprattutto, la resurrezione di quel giovane e di altri, assieme a quella di Gesù, rende veritiere, se ce ne fosse bisogno, le parole dell’apostolo Giovanni che, contemplando la visione dell’ultimo, definitivo Giudizio sull’umanità, scrive che “..il mare restituì i morti che esso custodiva e la morte e gli inferi resero i morti da loro custoditi e ciascuno venne giudicato secondo le sue opere. Poi la morte e gli inferi furono gettati nello stagno di fuoco. Questa è la seconda morte, lo stagno di fuoco” (Apocalisse 20.13,14). Il testo prosegue con un ultimo verso, al quale tutti coloro che non sono salvati dovrebbero prestare la massima attenzione: “E se qualcuno non fu trovato scritto nel libro della vita, fu gettato nello stagno di fuoco”.

La resurrezione del figlio della vedova di Nain, quindi, ci parla dell’amore di Gesù, che “Si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori” (Isaia 53.4) e che “fu per loro un salvatore in tutte le loro tribolazioni. Non un inviato né un angelo, ma egli stesso li ha salvati” (63.8.9). Al tempo stesso, è un episodio che attesta che, in futuro, c’è una resurrezione che attende tutti, in salvezza o in giudizio.

Leggiamo poi “Gesù lo diede a sua madre”. Avrebbe potuto ritenere conclusa la sua opera nel momento in cui il ragazzo si fosse svegliato, ma quel gesto di restituzione ebbe una valenza enorme: è una restituzione personale di un bene fino a poco prima perduto e che mai avrebbe potuto ritornare senza un suo intervento. A quella donna non solo, per quanto detto all’inizio, era stato restituito un figlio, ma la sopravvivenza, tanto importante, della sua progenie nel tempo, dell’identità sua e del marito che non c’era più.

E noi? Valgono le parole dell’apostolo Paolo “mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati per il suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quando eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto di più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita” (Romani 5.8-109). Amen.

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