12.20 – ABRAMO PER PADRE III/IV (GIOVANNI 8.39-41)

12.20 – Abramo per padre 3 (Giovanni 8.39-41) 

39Gli risposero: «Il padre nostro è Abramo». Disse loro Gesù: «Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo. 40Ora invece voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità udita da Dio. Questo, Abramo non l’ha fatto. 41Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero allora: «Noi non siamo nati da prostituzione; abbiamo un solo padre: Dio!».

Nei primi due capitoli ci siamo occupati di Abramo secondo il suo significato di “Padre grande”, datogli dal proprio padre Terach. Se quindi il nome dato a un figlio racchiudeva in sé ciò che questo sarebbe diventato un giorno o le caratteristiche somatiche o caratteriali, va da sé che nel momento in cui Dio interviene per modificarlo rende questo nome completo, lo rivela nella sua realtà operante. Per farlo fu sufficiente una “h” che, se fosse stata inserita da un uomo, sarebbe rimasta soltanto una consonante priva di valore non dando luogo ad alcuna modifica storica. Infatti:“Quanto a me, ecco io faccio con te un patto: tu diventerai padre di una moltitudine di nazioni. E non sarai più chiamato Abramo, ma il tuo nome sarà Abrahamo, poiché io ti faccio padre di una moltitudine di nazioni. Ti renderò grandemente fecondo, quindi ti farò divenir nazioni e da te usciranno dei re. E stabilirò il mio patto fra me e te e i tuoi discendenti dopo di te, di generazione in generazione; sarà un patto eterno, impegnandomi ad essere Iddio tuo e della tua discendenza dopo di te”(17.4-7).

Dal cambiamento del nome abbiamo un susseguirsi di eventi totalmente diversi da quelli di prima, che Abramo aveva conosciuto: viene istituita la circoncisione (17.9-14) e Sarai, che non poteva non rientrare nel piano preparato per il marito, fu chiamata Sara: “Quanto a Sarai tua moglie, non la chiamare più Sarai, ma il suo nome sarà Sara” (v.15). Anche per questa variazione vale la stessa considerazione fatta per il marito: con l’uno aggiunge una consonante, con l’altra toglie una vocale; il nome Sarai significa “Mia signora”con riferimento alla casa e alla famiglia, e Sara “Signora”in senso molto più ampio ed infatti molti traducono “Sara” con “Principessa”. Diodati annota in proposito “…essendo stato Abrahamo stabilito padre dei credenti di ogni nazione, Iddio volle che anche sua moglie rientrasse in quel titolo”. Altrimenti, aggiungo, l’essere “una sola carne”non avrebbe avuto alcun valore. Infatti è scritto “…la benedirò e diventerà nazioni, e re di popoli nasceranno da lei”(v.16), concetto identico che poco prima era stato riservato al marito.

Con la circoncisione ad Abrahamo viene consegnata la responsabilità dell’atto e della trasmissione del patto di quell’alleanza, mantenuta poi nella successiva, della Legge. Subito dopo abbiamo la rivelazione della nascita di Isacco, “Figlio del riso”solo apparentemente in ricordo dell’episodio in cui Sara rise a questa promessa, ma le cui ragioni vanno ricercate in 21.6-7, “Motivo di lieto riso mi ha dato Dio: chiunque lo saprà riderà lietamente di me! Chi avrebbe mai detto ad Abrahamo che Sara avrebbe allattato figli? Eppure gli ho partorito un figlio nella sua vecchiaia”.

Elemento che si tende a sottovalutare è costituito da una nota apparentemente di poco conto che troviamo in 17.22 che conclude il dialogo fra Dio ed Abrahamo riguardo alla nascita di Isacco: “Iddio terminò così di parlare con lui e lasciò Abrahamo, levandosi in alto”. Oltre a confermarci ciò che già sappiamo, cioè che Dio a quel tempo si rivelava in forma umana, non credo sia possibile altra conclusione se non che a parlargli fosse stato il Figlio, che di Dio è Parola, che con quell’ascensione di un corpo che aveva preso forma umana abbia voluto dare al tempo stesso un segno del luogo in cui dimora, che un riferimento a quanto avverrà più di 4mila anni dopo. Ad Abramo appare con corpo, a Mosé viene detto che non potrà essere visto perché “Tu non puoi vedere il mio volto, perché l’uomo non può vedermi e vivere”(Esodo 33.20). Il Dio delle promesse, quello che parla, è vicino, quello della Legge è distante, per quanto operativo, nella Sua Santità e Potenza.

Molto significativo sulle teofanie ad Abrahamo è quanto leggiamo in 18.1,2, preludio al rinnovo della promessa della nascita di un figlio da Sara: “Poi il Signore apparve a lui alle querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui”.

Sull’identità di costoro interviene l’autore della lettera agli Ebrei scrivendo “Non dimenticate l’ospitalità; alcuni praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo”(13.2), ma ci sono fondati motivi per ritenere che uno di essi, ancora una volta, fosse il Figlio di Dio: sarà infatti solo uno a parlare senza considerare il verso 13 “E il Signore disse ad Abrahamo: «Perché ha riso Sara, dicendo potrò mai partorire, essendo già vecchia?»”. Si noti “Il Signore”, e non un suo angelo, che intervenne personalmente stante la solennità del momento perché con la nascita di Isacco si sarebbe posta una pietra miliare nel percorso dell’umanità verso la salvezza.

La presenza di Gesù, tornando al tema, credo sia anche deducibile dal fatto che a entrare in Sodoma furono due, mentre il terzo, credo Lui, restò fuori (19.1): la ragione di questo, credo, vada ricercata nel fatto che era ai due angeli che spettava il compito della distruzione, strumento di giudizio, mentre al Figlio, in quanto Dio, di ordinarla dopo un attento vaglio:“Ora io scenderò– come avvenuto con la torre di Babele – e vedrò se sono venuti allo stremo come il grido che è pervenuto a me– probabilmente da Lot –. Se no, lo saprò”(18.21). Scrivo questo come opinione personale, parlando il testo di Genesi non in modo illuminante come il Nuovo Testamento, quando si distinguono in modo più accurato i ruoli di YHWH. E non potrebbe essere altrimenti pensando ad Atti 17. 30,31: “Dio dunque, passando sopra i tempi dell’ignoranza, ora comanda agli uomini che tutti, in ogni luogo, si ravvedano, perché ha fissato un giorno nel quale giudicherà il mondo con giustizia per mezzo dell’uomo che egli ha stabilito, e ne ha dato sicura prova a tutti, risuscitandolo dai morti”.

Abbiamo poi, riguardo ai tre personaggi che apparvero ad Abrahamo, una successione particolare poiché, quando si accomiatano da lui, se è scritto che “Quegli uomini, partitisi di là, si diressero verso Sodoma, ed Abrahamo rimase ancora davanti al Signore”(v.22), quindi furono solo due a partire, mentre il terzo si fermò a parlare con lui che intercedé per i giusti, qualora fossero là presenti. Ecco allora che le parole di Gesù “prima che Abramo fosse, io sono”assumono una forte valenza non solo sulla Sua eternità, ma anche nella citazione di “Abrahamo, mio amico”(Isaia 41.8). Il nome di Abrahamo viene allora citato sia perché i Giudei lo avevano da poco nominato, ma anche in riferimento a tutta la protezione e stima di cui fu oggetto nonostante gli errori commessi nella carne.

Anche su Lot ci sarebbe molto da dire; basta però sottolineare il fatto che fu risparmiato dal giudizio sulla città (per quanto si trattò di un’intera regione). Illuminanti sono le parole dell’angelo, “Affrettati, rifugiati là, perché io non potrò far nulla finché tu non sia arrivato là”, dalle quali rileviamo che il giusto sarà sempre risparmiato dalla distruzione riservata all’empio: ciò che avvenne a Sodoma è la figura degli avvenimenti che caratterizzeranno la “Gran Tribolazione”dalla quale la Chiesa sarà risparmiata e in quel “non potrò far nulla”discerniamo tutta la protezione di Dio nei confronti di coloro che lo amano e temono di fronte alla quale l’angelo, che di Lui è un fedele e assoluto esecutore, si ferma.

Pensare che Sodoma fu punita esclusivamente per l’omosessualità praticata ovunque è però un errore: va piuttosto considerato l’atteggiamento totalmente antropocentrico che la caratterizzava, la ricerca (compulsiva) del benessere fine a se stesso indipendentemente da quale fosse lo strumento del piacere; leggiamo le parole rivolte a Gerusalemme: “Ecco, questa fu l’iniquità di tua sorella Sodoma: essa e le sue figlie– le altre città – erano in piena superbia, ingordigia, ozio indolente. Non stesero però la mano contro il povero e l’indigente. Insuperbirono e commisero ciò che è abominevole davanti a me. Io le eliminai appena me ne accorsi”(Ezechiele 16.49-50). E Giuda, nella sua lettera, scrive “Ora voglio ricordare a voi (…)che il Signore, dopo aver salvato il suo popolo dal paese d’Egitto, in seguito fece perire quelli che non credettero. Egli ha pure rinchiuso nelle tenebre dell’inferno con catene eterne, per il giudizio del gran giorno, gli angeli che non conservarono il loro primo stato, ma che lasciarono la loro propria dimora. Proprio come Sodoma e Gomorra e le città vicine, che alla stessa maniera si abbandonarono all’immoralità e seguirono vizi contro natura, stanno subendo esemplarmente le pene di un fuoco eterno”(v.7). Il giudizio che si abbatté sulla regione, poi, non fu solo un castigo, la parola “fine” posta da Dio alla presunta autonomia umana, ma di monito per tutti quelli che ne avrebbero concretato la tendenza: “Così pure condannò alla distruzione le città di Sodoma e Gomorra, riducendole in cenere, lasciando così un segno ammonitore a quelli che sarebbero vissuti senza Dio”(2 Pietro 2.6).

Qui ci troviamo ad un punto fondamentale perché tutta la Scrittura parla del giudizio di Dio su chiunque lo rifiuta, principio che viene sempre esposto nella maniera più chiara possibile: l’uomo con le sue gioie (poche e comunque non garantite come lo sono la sofferenza e la morte) passa anche se si illude di poter vivere un eterno presente. Se sa di dover morire, agisce come se questo evento sia sempre e comunque lontano, non gli appartenga perché, nella carne, non sa come affrontarlo. Esemplare in proposito è il testo di Deuteronomio 29.18-20: “Non vi sia fra voi uomo o donna o famiglia o tribù il cui cuore si allontani dall’Eterno, il nostro Iddio, per andare a servire gli dèi di quelle nazioni; non vi sia tra voi radice alcuna– quindi che agisce sotto terra –che produca veleno o assenzio; e non avvenga che alcuno, ascoltando le parole di questo giuramento, in cuor suo faccia propria una benedizione dicendo «Avrò pace anche se camminerò secondo la caparbietà del mio cuore» come se l’ebbro potesse essere incluso al sobrio. L’Eterno non gli potrà mai perdonare, ma in tal caso la sua ira e gelosia arderanno contro quell’uomo e tutte le maledizioni scritte in questo libro si poseranno su di lui, e l’Eterno cancellerà il suo nome sotto il cielo”.

Concludendo questo scritto, e come consuetudine tornando al tempo in cui Gesù parlò ai Giudei, il nome di Abrahamo da loro pronunciato così alla leggera avrebbe dovuto farli riflettere anche attorno al giudizio su Sodoma, ricordato fra l’altro da Lui stesso in un’altra occasione quando disse alla città di Capernaum “…se in Sodoma fossero avvenuti i miracoli compiuti in te, oggi ancora essa esisterebbe!”. Il nome di Abrahamo implica certo le promesse, la circoncisione che anticipava la Legge, il rinnovo in un certo senso del patto dell’appartenenza e l’essere sua progenie secondo la carne, ma anche il giudizio sugli operatori d’iniquità, genere di persone alle quali indubbiamente quei Giudei appartenevano. Amen.

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12.19 – ABRAMO PER PADRE II/IV (Giovanni 8.39-41)

12.19 – Abramo per padre 2 (Giovanni 8.39-41)

           

39Gli risposero: «Il padre nostro è Abramo». Disse loro Gesù: «Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo. 40Ora invece voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità udita da Dio. Questo, Abramo non l’ha fatto. 41Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero allora: «Noi non siamo nati da prostituzione; abbiamo un solo padre: Dio!».

 

Prima di passare a considerare gli altri episodi della vita di Abramo, proviamo a riassumere il significato di quelli accennati nello scorso capitolo:

1) Fu preso dalla condizione di ignoranza in cui viveva. Di Dio aveva una vaga opinione e mai avrebbe pensato, un giorno, che Lo avrebbe incontrato. Fu quindi oggetto di un intervento, fu chiamato così com’era e venne fatto oggetto di rivelazioni particolari senza fare nulla perché ciò si verificasse, per quanto dovette dare il suo benestare e così avvenne. L’apostolo Paolo scrive infatti in Romani 4.1-3 “Che diremo dunque di Abrahamo, nostro progenitore secondo la carne? Che cosa ha ottenuto? Se infatti Abrahamo è stato giustificato per le opere, ha di che gloriarsi, ma non davanti a Dio. Ora, che cosa dice la Scrittura? Abramo credette a Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia”. La prima caratteristica di questo personaggio fu quindi non quella di avere delle qualità particolari, ma di essere stato scelto ed aver creduto, fattori che posero le premesse perché agisse secondo la volontà di Dio.

2) Acconsentendo di abbandonare Carran, territorio in cui era nato e cresciuto, per la destinazione che gli venne indicata, il Paese di Canaan, dimostrò di ritenere le promesse che gli furono rivolte infinitamente migliori rispetto alla vita che conduceva, presumo tranquillamente, in quella città. Abramo accettò di cambiare radicalmente la sua esistenza sulle parole “Io farò di te una grande nazione e ti benedirò e renderò grande il tuo nome e tu sarai una benedizione”, cioè coinvolsero il futuro e non un presente tangibile al di là della voce udita, così particolare rispetto alle altre.

3) Non fu mai lasciato solo nemmeno quando, per salvarsi la vita senza consultarsi con YHWH, preferì sottoporre la propria moglie Sarai alla contaminazione col Faraone e al rischio di fare altrettanto con Abimelek. Ho scritto “contaminazione” e non “adulterio” stante la particolarità del periodo storico.

4) Pur non pienamente consapevole di quanto avveniva, incontrò Melchidedec e quindi ebbe un contatto dal fortissimo valore simbolico con l’Artefice della Grazia, rifiutando qualunque contatto con le ricchezze che poteva donargli il re di Sodoma, dimostrando di tenere nella corretta considerazione ciò che era il dare a Dio e il ricevere dall’uomo. Ciò avvenne una volta liberato Lot e la sua gente con “i suoi uomini esperti nelle armi, schiavi nati nella sua casa, in numero di trecentodiciotto”(14.14). Si tratta di una cifra particolare che troviamo solo qui, simbolicamente importante perché ottenuta moltiplicando il 100+6×3, quindi 10×10 (il compimento pieno) più il 6, numero dell’uomo moltiplicato per la triade divina. Se questo numero non fosse stato importante, l’autore del libro della Genesi non lo avrebbe certo annotato.

5) Non solo credette alla promessa secondo la quale sarebbe diventato una grande nazione, ma ancor di più nel fatto che avrebbe avuto un figlio nonostante fosse in età molto avanzata, come la moglie: credette cioè nell’umanamente impossibile, conscio che quanto gli veniva prospettato era parola di Dio e fu questo che lo portò a venire considerato giusto.

 

Il nuovo episodio che possiamo aggiungere si trova in 15.7-17, qui non trascritto per evitare di appesantire lo spazio a disposizione, che andrebbe comunque letto: la prima osservazione la possiamo fare sul sacrificio in cui sono citati tutti gli animali che saranno poi richiesti nei sacrifici nella dispensazione della Legge, tanto quelli offerti dai ricchi che dai poveri: la giovenca, la capra, l’ariete, tutti di tre anni, la tortora e il piccione. Anche se lo abbiamo accennato in un precedente capitolo, è importante l’intervento degli uccelli al verso 11, che scesero su quei corpi morti, ma furono scacciati da Abramo, episodio che conferma il fatto secondo cui l’Avversario si può servire di qualunque elemento, umano oppure no, per distogliere la persona dalla comunione e dalla preghiera con Dio. Infine abbiamo la visione riportata al verso 17, “Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi”, in cui possiamo discernere la maestà del Dio che passa vagliando quanto fatto dall’uomo, in questo caso approvando ciò che era avvenuto sia quanto alla forma che, soprattutto, al contenuto. Abramo fece ciò che gli era stato ordinato senza nulla aggiungere né togliere, capendo che così firmava il suo patto con l’Eterno Iddio. Inoltre, quella manifestazione fu la risposta alla sua domanda “Signore Dio, come potrò sapere che ne avrò possesso?”riferito alla terra promessa.

 

Seguendo la cronologia degli avvenimenti giungiamo alla nascita di Ismaele, avuto dalla serva di Sarai, l’egiziana Agar, narrato al capitolo 16. Si tratta di un passo importante prima di tutto perché Sarai indusse il marito ad infrangere il comandamento originario sul matrimonio, “perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla propria moglie, e i due saranno una sola carne”(2.24) nonostante a quel tempo il concubinato fosse tollerato, ma mai praticato da Adamo fino ad allora per quanto riguarda le generazioni fedeli aYHWH. In pratica avvenne che Sarai, sapendo che il marito aspettava il realizzarsi della promessa di Dio in base alla quale avrebbe avuto un erede, lo indusse all’unione con la sua serva, fra l’altro di etnia diversa. La stessa cosa farà Rachele con Isacco: “«Ecco la mia serva Bila: unisciti a lei, partorisca sulle mie ginocchia cosicché, per mezzo di lei, abbia anch’io una mia prole». Così ella gli diede in moglie la propria schiava Bila e Giacobbe si unì a lei”(30.3,4). Notiamo inoltre che il testo di 16.2 mette in risalto l’errore di Abramo, quando scrive che “ascoltò l’invito di Sarai”, che ci rimanda immediatamente alla condanna di Eden: “All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato (…) maledetto il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba dei campi. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché non ritornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere ritornerai”(3.17-19). Il nato da Agar fu chiamato Ismaele per espresso ordine dell’angelo del Signore in 16.11, cioè “Iddio esaudisce”, quando Abramo aveva 86 anni, essendo considerato suo figlio anche da Dio cui riservò delle benedizioni, ma con uno sviluppo diverso.

È scritto che “Dio fu con il fanciullo– Ismaele –  che crebbe e abitò nel deserto e divenne un tiratore d’arco”(21.20), ma soprattutto ebbe un ruolo di antagonista proprio nei confronti della discendenza effettiva di Abramo; queste infatti furono le parole dell’Angelo del Signore ad Agar: «Ecco, sei incinta: partorirai un figlio e lo chiamerai Ismaele, perché il Signore ha udito il tuo lamento. Egli sarà un uomo simile ad un asino selvatico; la sua mano sarà conto tutti e la mano di tutti contro di lui, e abiterà in fronte ai suoi fratelli”(16.11,12). Precisazione doverosa: “sarà come”è riferito al fatto che darà inizio ad una progenie fiera e rozza, senza essere in grado di intrattenere relazioni civili coi popoli a lui vicini, anzi dando luogo a contese e guerre continue. Non è infatti possibile addomesticare l’asino selvatico: “Chi lascia libero l’asino selvatico e ne scioglie i legami? Io gli ho dato come casa il deserto– e Ismaele vi abiterà – e per dimora la terra salmastra”(Giobbe 39.5).

Tornando alla nascita di Ismaele, così la commenta l’apostolo Paolo in chiave spirituale e simbolica, citando anche Isacco: “Sta scritto che Abramo ebbe due figli, uno dalla schiava e uno dalla donna libera. Ma il figlio della schiava è nato secondo la carne; il figlio della donna libera, in virtù della promessa. Ora queste cose sono dette per allegoria: le due donne infatti rappresentano le due alleanze. Una, quella del monte Sinai, che genera nella schiavitù, è rappresentata da Agar. Il Sinai è un monte dell’Arabia; essa corrisponde alla Gerusalemme attuale, che di fatto è schiava, insieme ai suoi figli. Invece la Gerusalemme di lassù è libera ed è la madre di tutti noi”(Galati 4.22-26).

 

Un dato significativo, già rilevato in un altro capitolo, lo abbiamo nei tredici anni di silenzio fra la nascita dei due figli di Abramo, in cui nulla avvenne tra lui e Dio. Anche qui a parlare sono i numeri: non il primo (86) che, comunque lo si tratti, non dà nulla di significativo, ma il secondo (99), quello dell’annuncio e della circoncisione, cui manca un’unità per arrivare al cento compiuti quando nacque Isacco (21.5). Ai novantanove abbiamo l’alleanza in cui fu stabilita la circoncisione, da osservare “di generazione in generazione”per tutti: “Dev’essere circonciso chi è nato in casa, sia quello comprato con denaro da qualunque straniero che non sia della tua stirpe”(17.13). Ai novantanove abbiamo anche il cambiamento del nome, da Abramo in Abrahamo, “padre di una moltitudine di nazioni”(v.5) in cui vediamo tutti, sia israeliti che pagani convertiti secondo Romani 4. 11: “Egli divenne padre di tutti i non circoncisi che credono, cosicché anche a loro venisse accreditata la giustizia ed egli fosse padre anche dei circoncisi”.

 

Per ora, credo sia giusto fermarsi qui anche per la complessità degli argomenti trattati, non senza sottolineare ancora una volta, raccordandoci alla situazione del tempo di Gesù, quanto fosse distante da Lui la posizione spirituale dei Giudei che non avevano capito il significato reale della circoncisione, ritenendolo un segno sufficiente a qualificare il popolo di Dio e ritenersi superiori agli altri, dimenticando Deuteronomio 30.6: “Il Signore, tuo Dio, circonciderà il tuo cuore e il cuore della tua discendenza, perché tu possa amare il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima e viva”. Ricordiamo anche Geremia 4.4 “Circoncidetevi per il Signore, circoncidete il vostro cuore, uomini di Giuda e abitanti di Gerusalemme, perché la mia ira non divampi come fuoco e non bruci senza che alcuno la possa spegnere, a causa delle vostre azioni perverse”.

Ancora una volta, fare “le opere di Abrahamo”si riferisce ad una condizione di spirito, preclusa ai Giudei che guardavano la superficialità della lettera: Abrahamo era loro padre in quanto da lui discendevano e, nell’apparenza, così era anche perché portavano nel loro corpo il segno della circoncisione appartenente a un’alleanza ormai destinata a divenire obsoleta. Quei Giudei non erano in grado ci compiere però né le “opere” di Abramo, né quelle di Abrahamo.

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12.18 – ABRAMO PER PADRE I/IV (Giovanni 8.39-41)

12.18 – Abramo per padre 1 (Giovanni 8.39-41)

39Gli risposero: «Il padre nostro è Abramo». Disse loro Gesù: «Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo. 40Ora invece voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità udita da Dio. Questo, Abramo non l’ha fatto. 41Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero allora: «Noi non siamo nati da prostituzione; abbiamo un solo padre: Dio!».

Credo che, per capire questi versi, sia necessario raccordarci a quelli precedenti, affrontati nello scorso capitolo, e vari approfondimenti. Ricordiamo il testo già esaminato da 31 a 38: “Gesù allora disse a quei Giudei che gli avevano creduto: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi. Gli risposero: «Noi siamo discendenti di Abrahamo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire «Diventerete liberi»?. Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora lo schiavo non resta per sempre nella casa; il figlio vi resta per sempre. Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. So che siete discendenti di Abrahamo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova accoglienza in voi. Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro”.

A proposito del nome di Abrahamo, si noti che lo riporto con la “h” intermedia anziché, come in molte versioni moderne, senza di essa. Queste distinguono fra “Abram”e “Abramo”a seconda del momento storico in cui si parla di lui. Questa versione però, pur agevole a leggersi, non è corretta perché non riproduce il testo quando Iddio stesso cambiò nome da “Abramo”, cioè “Padre grande”, in “Abrahamo”, “Padre di una moltitudine” (Genesi 17.4,5): “Quanto a me ecco, la mia alleanza è con te: diventerai padre di una moltitudine di nazioni. Non ti chiamerai più Abramo, ma ti chiamerai Abrahamo, perché padre di una moltitudine di nazioni ti renderò”.

Ora quando si parla di lui viene sempre alla mente la sua fede, i passi del Nuovo Testamento che lo nominano, il sacrificio di Isacco e le promesse che ebbe da Dio e questo, di per sé, è sufficiente per capire le parole di Gesù “Se foste figli di Abrahamo, fareste le opere di Abrahamo”, ma vale la pena di allargare un poco il discorso su di lui, perché la sua storia non si limitò a questi episodi, ma implica molto altro.

Di Abramo abbiamo la genealogia in Genesi 11.10-26 dalla quale risulta essere discendente di Sem, primogenito di Noè, cui fu riservata la benedizione “Benedetto sia il Signore, il Dio di Sem, e sia Canaan suo servo”(9.26), quindi apparteneva alla stirpe di coloro che avrebbero ereditato le promesse di assistenza e doni da parte di YHWH. Di Jafet è detto che avrebbe abitato “nei tabernacoli di Sem”,promessa quindi di una esperienza futura con Dio. Abramo, nella genealogia citata, occupa il decimo posto, il numero della completezza e dell’azione; da lui infatti si può dire che parta una storia nuova, quella che porterà in breve tempo, biblicamente parlando, alle dodici tribù di Israele e da lì a tutta l’attuazione del piano di salvezza attraverso i secoli, prima e dopo Cristo.

Abramo viveva la propria quotidianità ad Ur dei Caldei anche se poi la sua famiglia si stabilì ad Haran (detta anche Carran, o Carre), nell’odierna Turchia, città religiosamente importante perché in lei si praticava più che in altre il culto al dio della Luna, presente anche in Ur e Babilonia. Interessante è il fatto il fatto che gli dèi là venerati fossero tre, Sin come primo, seguito da Shamash e Istar.

Ebbene, a parte la singolarità del numero degli dèi presenti a Carran, le due città in cui Abramo visse il primo periodo della sua vita ci parlano di un’esistenza pesantemente condizionata dall’idolatria altrui che probabilmente lo coinvolse come avvenuto ad esempio per i suoi parenti, di cui è detto che avevano delle statuette che evidentemente veneravano: emblematico in proposito è l’episodio in cui Rachele ruba gli idoli di famiglia appartenenti al di lei padre Labano, provocandogli una reazione caratterizzata da una ricerca angosciata e ossessiva per ritrovarli (Genesi 31.19,34,35).

Fu a Caran, quindi in mezzo ai pagani, che Abramo ascoltò per la prima volta la voce di Dio, che evidentemente seppe riconoscere fra le tante che ascoltava dentro e attorno a sé: “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”(12.1-3).

Abramo quindi sentì una voce che riconobbe diversa da quella dei suoi pensieri, si pose in ascolto e mise in pratica, certo non senza fatica, le parole che aveva udito: “Allora Abramo partì come il Signore gli aveva detto, e Lot andò con lui. Abramo aveva settantacinque anni quando partì da Haran”(12.5). Solo successivamente quest’uomo fu beneficiario non più di un semplice messaggio, ma di un’apparizione: “Allora il Signore apparve ad Abramo– non ci è detto in che modo, ma sono convinto in forma umana come vedremo – e disse: «Io darò questo paese alla tua discendenza»”(v.7). Si trattò quindi di una chiamata inequivocabile, importante a tal punto che fu proprio da quell’episodio che Stefano, a distanza di circa duemila anni, iniziò la sua testimonianza (Atti 7.2). Il tutto avvenne senza che Abramo lo volesse nel senso che sapeva che certamente esisteva un Creatore, ma lo conosceva attraverso le tradizioni della sua gente, inquinate dal paganesimo. Le parole a lui rivolte, poi, ci parlano del fatto che per seguire e servire Dio bisogna “andarsene”dalla propria gente, uscire dall’ambiente inquinato, contaminante che la caratterizza; per farlo ci vuole però una chiamata, quindi un’esperienza individuale e precisa, oltre a un’accettazione incondizionata delle Sue parole altrimenti il cammino sarà solo a metà, in bilico, privo di un’identità chiara per quanto con buone intenzioni. E Abramo, per ubbidire all’ordine di Dio, fece un viaggio di più di 800 km. da Carran a Canaan che, a quel tempo, dovette essere fortemente impegnativo.

 

Altro episodio saliente lo abbiamo in Egitto quando, temendo di venire ucciso a causa della bellezza della di lui moglie Sarai, le ordinò di dire che fosse sua sorella (12.11-13), mezza verità perché lei, come dirà lui stesso ad Abimelek re di Gerar, “…è veramente mia sorella, figlia di mio padre, ma non figlia di mia madre, ed è poi divenuta mia moglie”(20.12). Si tratta di due episodi simili, ma la loro lettura (che si consiglia per meglio capire queste note) differisce in particolari non di poco conto: il faraone egiziano, il cui termine significa “difensore” o “liberatore” fu colpito da Dio con piaghe, mentre ad Abimelek andò a parlare e impedì che fosse commesso un peccato. Infatti “Dio venne da Abimelek in un sogno di notte, e gli disse: «Ecco, tu stai per morire a motivo della donna che hai preso, perché ella è sposata»”(20.3). Riflettendo sui due episodi e sul diverso trattamento ricevuto dai due uomini, vediamo che il faraone si caratterizzava con presunzione e arroganza anche nel nome, ma ad Abimelek Iddio riconobbe un cuore integro: “Sì, lo so che hai fatto questo nell’integrità del tuo cuore e ti ho quindi impedito dal peccare contro di me: per questo non ti ho permesso di toccarla”(20.6).

 

Altro avvenimento nella vita di Abramo è riportato al capitolo 14 in cui abbiamo la liberazione di Lot, catturato a Sodoma da “Chedorlaomèr e dagli altri re che erano con lui”: è dopo la sua liberazione che abbiamo l’incontro con un personaggio particolarissimo, “Melchisedec re di Salem”(Gerusalemme) in cui va riconosciuta la presenza del Figlio di Dio secondo le parole di Paolo in Ebrei 7.1-4: “Questo Melchisedec, re di Salem, sacerdote del Dio altissimo, andò incontro ad Abramo mentre ritornava dall’aver sconfitto i re e lo benedisse; a lui Abramo diede la decima di ogni cosa. Anzitutto il suo nome significa «re di giustizia»; poi è anche re di Salem, cioè «re di pace». Egli, senza padre– umano – senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio, rimane sacerdote per sempre. Considerate dunque quanto sia grande costui, al quale Abramo, il patriarca, diede la decima del suo bottino”.

L’incontro fra Abramo e Melchisedec fu quello fra due mondi, furono due dispensazioni che si incrociarono per un attimo con una portata immensa vista nell’offerta di “pane e vino”, cioè senza un sacrificio espiatorio! Da un lato fu data a Lui “la decima di tutto”, ma Abramo rifiutò di ricevere dal re di Sodoma qualunque cosa, per non contaminarsi, dicendo “Alzo la mano davanti al Signore, il Dio altissimo– giuramento – creatore del cielo e della terra: né un filo né un legaccio di sandalo, niente io prenderò di ciò che è tuo; non potrai dire: io ho arricchito Abramo. Per me niente, se non quello che i servi hanno mangiato”(14.22-24). Fu dopo questo che “La parola del Signore fu rivolta ad Abramo, in visione, con questi termini: «Non temere, Abramo, io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande»”(15,1).

In queste parole risiede tutta la realtà della vita di quest’uomo, che sperimentò come Noè prima di lui, sotto l’aspetto del venire custodito, cosa significasse accettare di essere uno strumento nelle mani di Dio; ricordiamo Salmo 3.4 “Ma sei il mio scudo, Signore, sei la mia gloria e tieni alta la mia testa”, 5.13 “Tu benedici il giusto, Signore, come scudo lo circondi di benevolenza”, 84.12 “Perché sole e scudo è il Signore Dio; il Signore concede grazia e gloria, non rifiuta il bene a chi cammina nell’integrità”, 91.4 “Ti coprirà con le sue penne, sotto le sue ali troverai rifugio, la sua fedeltà ti sarà scudo e corazza”, 119.114 “Tu sei mio rifugio e mio scudo: spero nella tua parola”.

Possiamo concludere questa prima panoramica su Abramo con quanto avvenne poco dopo, quando ricevette la promessa di una discendenza in 15.3-6: “«Ecco, a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà mio erede». Ed ecco, gli fu rivolta questa parola dal Signore: «Non costui sarà il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede». Poi lo condusse fuori e gli disse: «Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle»; e soggiunse: «Tale sarà la tua discendenza»”. Infine, l’autore della Genesi chiude l’episodio con una nota a noi famigliare: “Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia”.

Già da questi dati raccolti, tornando ai versi oggetto di considerazione in Giovanni, vediamo quanto fossero distanti quei Giudei che proclamavano di avere “Abramo per padre”: non solo non avevano nessuna delle sue caratteristiche né di cuore, né di fede, ma non erano neppure in grado di ascoltare, valutare, considerare altro se non ciò che proveniva dal loro cuore indurito. Per questo Gesù disse loro “Voi fate le opere del padre vostro”, ben diverso dal Suo, da identificare nel “principe di questo mondo”. Amen.

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12.17 – LA VERITÀ VI FARÀ LIBERI (Giovanni 8.31.38)

12.17 – La verità vi farà liberi (Giovanni 8.31-38)

           

31Gesù allora disse a quei Giudei che gli avevano creduto: «Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; 32conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». 33Gli risposero: «Noi siamo discendenti di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi dire: «Diventerete liberi»?». 34Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. 35Ora, lo schiavo non resta per sempre nella casa; il figlio vi resta per sempre. 36Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. 37So che siete discendenti di Abramo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova accoglienza in voi.38Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro».

 

Siamo giunti, in questo capitolo ottavo di Giovanni, ad un punto particolare perché, alla luce del verso 31, “Gesù allora disse a quei Giudei che gli avevano creduto”,Nostro Signore si rivolge ad un uditorio profondamente diviso e non poteva essere altrimenti, “non essendo venuto a mettere la pace, ma la spada”, ovviamente quella dello Spirito. Si tratta di una spada che opera comunque indipendentemente dal fatto che la si lasci agire o che ci si opponga, poiché “…la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di una spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto”(Ebrei 4.12-13). La parola di Dio quindi seleziona, setaccia, divide, stimola nel profondo costringendo le persone a rivelarsi per quello che sono, tanto in positivo che in negativo. E allo stesso tempo il suo accoglimento implica la realizzazione o meno delle promesse di Gesù, fra cui quella riportata al verso 31, “Se rimanete nella mia parola”, che esprime la condizione della persona che desidera e cerca la propria realizzazione spirituale; a questa viene spiegato che il semplice credere in Lui costituisce solo la premessa per raggiungerlo perché la condizione è “rimanere nella mia parola”, tradotto anche con “perseverare”, cioè mantenersi costante in un atteggiamento, insistere, perdurare.

Va fatta però un’importante precisazione perché l’episodio in esame, che non si esaurisce qui, riporta tanto gli interventi dei Giudei che lo avevano accolto tanto di quelli che a Gesù si opponevano. “Quei Giudei che gli avevano creduto”erano al primo passo verso la salvezza, cioè avevano escluso una volta per tutte che fosse un impostore e che era davvero Colui che diceva di essere, ma altro non sapevano. Probabilmente lo ritenevano il Messia secondo il concetto ebraico del termine, ma comunque avevano individuato in Lui quello che doveva arrivare ed era stato promesso. Teniamo sempre presente che, all’interno del Sinedrio, oltre a Nicodemo vi erano diversi membri che erano discepoli di Gesù, ma di nascosto perché temevano i loro correligionari e le conseguenze derivanti dalla esclusione dalla Congregazione di Israele. Il riconoscere Gesù come Figlio di Dio significava unicamente che si erano arresi, ma avevano tutto un cammino da compiere davanti a loro che avrebbe richiesto il“rimanere nella mia parola”, espressione che allude ad un impegno di ricerca molto diverso da quello cui erano abituati.

Ciò che Nostro Signore pone come condizione per essere “davvero”suoi discepoli è il radicarsi nella sua parola, dimorare, costruire il proprio edificio spirituale sulla roccia per “conoscere la verità”, quella che ha infinite forme e sfaccettature perché così è la creatività di Dio che non può riassumersi in un solo gesto o pensiero: sarebbe come contare i colori del verde di un bosco o dell’azzurro di un cielo all’alba o al tramonto.

Il “rimanere” o “perseverare” descritto a quei Giudei era necessario perché non avevano ancora in loro quella conoscenza sufficiente perché si impiantasse la vera fede ed ecco perché abbiamo un’esortazione in tal senso. Si noti che tanto la permanenza quanto la perseveranza è apparentemente la stessa raccomandata dai capi delle vuote religioni, ma il risultato, che ogni vero cristiano ha sperimentato, è “conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi”, due passaggi ben distinti fra loro: “Conoscere la verità” è la rivelazione che porta al passaggio dalla Legge alla Grazia perché, quando un ebreo si converte a Cristo, porta con sé tutto un bagaglio di conoscenze che un pagano non ha, né potrà avere perché cresciuto e allevato in modo diverso.

Il pagano che si converte e legge la Scrittura per capirla, incontra molte più difficoltà e ha molte più domande da porsi rispetto a chi proviene dal popolo originario di Dio. Certo che entrambi arrivano a “conoscere la verità”, ma in modo diverso per quanto ugualmente salvifico. E comunque tutti i credenti beneficiano di una preghiera particolare che Gesù rivolge al Padre al capitolo 17 di questo Vangelo, chiedendo “Consacrali nella verità”, cioè una destinazione precisa, un dimorare in essa possibile solo grazie a un intervento di Dio.

Conoscere la verità equivale all’acquisizione della salvezza, impossibile se prima non si comprende l’amore del Padre, del Figlio donato per noi e quindi la nostra condizione di peccato, di totale estraneità alle realtà e al piano per “non essere più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti– ecco l’Antico e il Nuovo – e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù”(Efesi 2.19,20).

Conosciuta la verità, questa “vi farà liberi”, termine molto spesso equivocato perché non allude a fare quello che si vuole, ma all’affrancamento dello schiavo, alla sua liberazione che può essere stigmatizzata con le parole di Romani 8.12: “Ora, dunque, non c’è nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Perché la legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù, ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte”. E qual è questa “legge”? Certo, quella dell’Antico Patto, ma anche dell’inevitabile consumarsi senza rimedio, privi di una meta fino alla capitolazione del corpo.

Il concetto del venire liberati, o affrancati, è spiegato sempre in questa stessa lettera in cui vengono descritti gli effetti della fede nel Figlio, “Via, Verità e Vita”: “Il peccato non dominerà su di voi, perché non siete sotto la legge, ma sotto la grazia. (…) Non sapete che, se vi mettete a servizio di qualcuno come schiavi per ubbidirgli, siete schiavi di colui al quale obbedite, sia del peccato che porta alla morte, sia dell’obbedienza che conduce alla giustizia? Rendiamo grazie a Dio, perché eravate schiavi del peccato, ma avete obbedito di cuore a quella forma di insegnamento alla quale siete stati affidati. Così, liberati dal peccato, siete stati resi schiavi della giustizia”(6.14-18).

Qualcuno potrebbe obiettare che allora uno passa da una schiavitù ad un’altra e la libertà sia solo un’illusione, ma credo ci sia differenza fra essere soggetti a pensieri, desideri e progetti che portano alla morte, e scegliere liberamente di obbedire a un’altra legge, quella dello Spirito che porta a non subire più gli effetti di quelle sollecitudini ansiose di cui parlò Gesù, ad esempio, nel sermone sul monte quando disse “Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta”(Matteo 6.33). E questo è solo un esempio, quello più immediato perché quello completo lo abbiamo in 2 Timoteo 2.25,26 quando, parlando degli uomini schiavi del peccato raccomandando la preghiera per loro, leggiamo “…nella speranza che Dio conceda loro di convertirsi, perché riconoscano la verità e rientrino in se stessi, liberandosi del laccio del diavolo, che li tiene prigionieri perché facciano la sua volontà”. Prigionia o libertà, dunque.

Credo che questa sia una bellissima descrizione: “la verità vi farà liberi”comprende il fatto che le catene siano, grazie alla potenza del Figlio, finalmente sciolte e notiamo che nel verso appena ricordato compaiano due termini fortemente penalizzanti, “laccio”e “prigionieri”. Il credente non sarà mai schiavo di nessuno, se sarà in grado di realizzare queste fondamentali parole, condizionate al “rimarrete nella mia parola”, la sola che libera nel senso già visto di “affrancare”.

 

Una conferma di quanto sarebbe stato necessario per quei Giudei perseverare nelle Sue parole la abbiamo nella rivendicazione della loro discendenza da Abrahamo e nel fatto che sì, avevano creduto il Lui, ma come Messia aspettandosi che avrebbe ridotto le altre nazioni sotto il loro dominio. Furono proprio le parole “la verità vi farà liberi”a suscitare perplessità e una fortissima ritrosia perché l’orgoglio nazionale di quei Giudei – e qui non è comunque chiarissimo da chi fu pronunciata la risposta – li aveva portati a fare un’affermazione assolutamente non vera, “non siamo mai stati schiavi di nessuno”dimenticando i 400 anni di schiavitù in Egitto, i circa 300 in cui furono sottomessi ai Filistei e altri popoli vicini, i 70 anni di cattività babilonese e il dominio romano al quale erano soggetti. Si tratta di un’affermazione talmente enorme che alcuni commentatori hanno ipotizzato che il verbo greco impiegato potesse avere un significato diverso da come è stato tradotto, a noi non pervenuto. Forse, quei Giudei facevano riferimento alla loro elezione e tradizione che costituiva la base stessa di Israele, per cui non si poteva dire che avessero bisogno di essere liberati, possedendo la Legge e soprattutto le Promesse di Dio a loro favore.

A questo punto era necessario un chiarimento, che avviene puntualmente: “Chiunque commette il peccato è schiavo del peccato”, parole con cui Gesù spiega che il peccato cui fa riferimento è un sistema di vita e non un avvenimento isolato nel quale si può sempre cadere; il termine “schiavo”è qui usato nella sua accezione più dura, come era per coloro che versavano nella condizione di non speranza, condannati – se non interveniva qualcuno a liberarli – a vita. Chi vive un’esistenza di peccato è schiavo perché ogni peccato non è un qualcosa di accidentale, ma un segno della sua stessa natura e della schiavitù nella quale essa, faticosamente, si trascina ed ecco dove sta la libertà: chi si affida a Dio sceglie liberamente di farlo, ma chi fa altrettanto col mondo, ne rimane schiavo inconsapevole. E per questo la sua rovina sarà grande.

Prima ho scritto che non è inequivocabilmente chiaro da chi venisse l’obiezione in base alla quale i Giudei non erano mai stati schiavi di nessuno, ma sicuramente le frasi dei versi 30 e 31 sono rivolti a degli oppositori: “So che siete discendenti di Abrahamo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova accoglienza in voi”. Anche qui possiamo vedere l’agire dell’uomo schiavo: la discendenza da Abrahamo secondo la carne non garantiva nulla, dato che mentre lui credette e fu per questo “amico”di Dio, loro ponevano la genealogia come garanzia di giustizia indipendentemente dalle azioni e questo li portava ad assumere una posizione assurda, diametralmente opposta a quella del loro antico padre di cui è detto che “…esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia”(Giovanni 8.56), arrivando a nutrire su Gesù pensieri, programmi di morte.

E qui torniamo al concetto di libertà leggendo Ebrei 10.1-4: “La Legge infatti, poiché possiede soltanto un’ombra dei futuri beni e non la realtà stessa delle cose, non ha mai il potere di condurre alla perfezione per mezzo di sacrifici, sempre uguali che si continuano ad offrire di anno in anno, coloro che si accostano a Dio. Altrimenti, non si sarebbe forse cessato di offrirli, dal momento che gli offerenti, purificati una volta per tutte, non avrebbero più alcuna conoscenza dei peccato? Invece in quei sacrifici si rinnova di anno in anno il ricordo dei peccato. È impossibile infatti che il sangue di tori e di capri elimini i peccati”. È il sacrificio di Cristo, “fatto una volta per sempre”, che toglie qualsiasi schiavitù che dimora nello spirito e nell’anima dell’uomo. Amen.

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