12.24 – ABRAHAMO VOSTRO PADRE (Giovanni 8.52-56)

12.24– Abrahamo vostro padre (Giovanni 8.52-56 )

           

52Gli dissero allora i Giudei: «Ora sappiamo che sei indemoniato. Abramo è morto, come anche i profeti, e tu dici: «Se uno osserva la mia parola, non sperimenterà la morte in eterno». 53Sei tu più grande del nostro padre Abramo, che è morto? Anche i profeti sono morti. Chi credi di essere?». 54Rispose Gesù: «Se io glorificassi me stesso, la mia gloria sarebbe nulla. Chi mi glorifica è il Padre mio, del quale voi dite: «È nostro Dio!», 55e non lo conoscete. Io invece lo conosco. Se dicessi che non lo conosco, sarei come voi: un mentitore. Ma io lo conosco e osservo la sua parola. 56Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia». 57I giudei allora gli dissero: «Tu non hai ancora cinquant’anni e hai visto Abrahamo?»

 

“Ora sappiamo”, cioè “adesso”, “in questo momento”, da quando hai detto che che “se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno”.Eppure, citando Abrahamo, i Giudei dimenticano che fu proprio la fede totalmente riposta nella futura risurrezione di Isacco a dargli la forza per sacrificarlo, lui che tempo addietro aveva ritenuto impossibile la nascita di quel figlio. Abrahamo, invece, capì che non poteva far altro che riporre tutta la propria fede nelle promesse ricevute, compresa la sopravvivenza dopo la morte. Oltre a ciò vi era la consapevolezza di quanto fosse importante essere uno strumento nelle mani di Dio alla luce della conoscenza che Abrahamo aveva sulla caduta di Adamo ed Eva e di tutti gli avvenimenti verificatisi fino a lui, come la caduta, la morte di Abele contrapposta alla nascita di Set, il diluvio che fu al tempo stesso punizione (quindi morte) per il genere umano corrotto e salvezza per Noè e la sua discendenza dalla quale Abrahamo stesso aveva avuto origine, per poi arrivare alla torre di Babele il cui giudizio pose fine alla sete di autonomia ed egemonia degli uomini di allora.

Per quanto Dio, nei Suoi dialoghi con Abramo, non abbia mai parlato di vita eterna, questa compare in modo velato nelle prime parole con cui gli si rivolse, “Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò”(Genesi 12.1): da queste parole, infatti, quel servitore capì che non avrebbe avuto senso lasciare un ambiente se non gliene fosse promesso un altro migliore, che parlava di santità e separazione, oltre che di destinazione che certo non poteva essere provvisoria. Qui vediamo che la nostra tradizione, e ciò che abbiamo acquisito come “nostro”, non necessariamente è quello in cui siamo chiamati a vivere. Ciò che sono “Terra”,“parentela”e “casa di tuo padre”vengono stravolti nel momento in cui Dio irrompe nella vita di una persona che viene chiamata ad andare “verso la terra”che Lui indicherà nel senso di qualcosa a cui non ha pensato. Certo per Abrahamo la “terra”fu un luogo preciso geograficamente parlando, mentre per noi può essere benissimo anche uno spazio mentale, un modo di ragionare, un ruolo nella Chiesa, anche solo di “semplice” componente; in poche parole, tutto ciò che senza una rivelazione di Dio non avremmo mai raggiunto.

Proseguendo abbiamo “Farò di te una grande nazione e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e possa tu essere una benedizione”(v.2): qui Abramo comprese, col tempo, che il piano che Dio aveva per lui andava ben oltre l’orizzontalità della vita materiale. Ricordiamo che non viveva in condizioni precarie e non si sarebbe mai spostato solo per vedere un giorno “grande”il suo nome. Piuttosto furono ultime parole del verso terzo a convincerlo. “Benedirò coloro che ti benediranno e maledirò coloro che ti malediranno, e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra”. E la “benedizione” implica beneficiare del diretto intervento in Dio sempre, rientrare nel Suo piano che, essendo Lui stesso Eterno, non può che riguardare la vita dopo la morte. Che senso avrebbe, altrimenti?

 

Torniamo però alle parole dei Giudei: “Abrahamo è morto, e così anche i profeti”. Non ci potrebbe essere dato di fatto più obiettivo anche se notiamo quanto sia categorico quel “morto”nel senso che equivale a dire “non c’è più” quasi che tutto quanto aveva fatto fosse qualcosa di svanito e lo stesso dicasi per gli altri uomini di Dio, i profeti. È da qui che parte l’accusa a Gesù di essere indemoniato, questo perché la visione di cosa vi fosse dopo la morte secondo l’Antico Patto non era propriamente chiara anche se i Sadducei erano gli unici a rifiutare l’idea della resurrezione. Una lunga vita era vista come una benedizione e la morte non tanto come la fine del tutto, ma un qualcosa di misterioso e da vedere con pessimismo certamente sì. Dei patriarchi leggiamo che il tale “fu seppellito coi suoi padri”, o “si addormentò”che apre prospettive diverse. Salomone, il re più saggio, ha una visione distruttiva della morte e scrive che “Riguardo ai figli dell’uomo, mi sono detto che Dio vuole metterli alla prova e mostrare che essi di per sé sono bestie. La sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa: come muoiono queste, così muoiono quelli; c’è un soffio vitale per tutti. L’uomo non ha alcun vantaggio sulle bestie, perché tutto è vanità, tutti sono diretti verso il medesimo luogo: tutto è venuto dalla polvere e nella polvere tutto ritorna”(Ecclesiaste 3.18-20). Ricordiamo Zaccaria 1.5, cui forse i Giudei facevano riferimento in questo caso, “Dove sono i vostri padri? E i profeti forse vivranno per sempre?”.

I morti andavano nello Sheol, un luogo di non vita e non consapevolezza: “Nel soggiorno dei morti dove tu vai non c’è più lavoro, né pensiero, né scienza, né saggezza”(Ecclesiaste 9.10) e “Finché si vive c’è speranza. È meglio un cane vivo che un leone morto. I vivi sanno che devono morire. Ma i morti non sanno proprio niente”(9.4,5). Lo Sheol è l’inferno, che deriva da infer, da cui il nostro “inferiore” e che quindi ha relazione con ciò che è sotto terra e non a un luogo di tormenti come poi è diventato. Per questo, quando il termine Sheol ricorre, (65 volte) viene tradotto con “inferno”,“sepolcro”o “sotto terra”. Anima e corpo erano considerati un tutt’uno e quindi, alla morte del secondo, “moriva” anche la prima o, come abbiamo letto, “si addormentava”. Ma se vi è un sonno, va da sé che vi sia anche un risveglio. Se in Levitico 18.5 leggiamo “Osserverete dunque le mie leggi e le mie prescrizioni, mediante le quali chiunque le metterà in pratica vivrà”, non possiamo non trovare limitante quella promessa di vita ad una esclusiva gestione di un presente prolungato sulla terra. Ricordiamo poi il re Davide, che in Salmo 102.29 scrive “I figli dei tuoi servi avranno una dimora, la loro stirpe vivrà alla tua presenza”.

L’opinione in basse alla quale gli antichi avessero della morte l’idea come della fine di tutto senza appello è falsa; se mai riproduce un’errata opinione comune, ma la verità, che va sempre e comunque cercata, pur essendo  nascosta, si lascia trovare: ad esempio Isaia 26.18,19 non potrebbe essere più chiaro poiché, rappresentando il passato, il presente e il futuro, così scrive: “Abbiamo concepito, abbiamo sentito i dolori quasi dovessimo partorire: era solo vento, non abbiamo portato salvezza alla terra e non sono nati abitanti nel mondo. Ma di nuovo vivranno i tuoi morti. I miei cadaveri risorgeranno! Svegliatevi ed esultate, voi che giacete nella polvere. Sì, la tua rugiada è rugiada luminosa, la terra darà alla luce le ombre”. Possiamo citare anche Abacuc 2.4 a noi familiare perché usato da Nostro Signore, “Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede”. Ora è difficile pensare che questo “vivrà”sia qualcosa di temporaneo, soprattutto quando leggiamo Ezechiele 33.14-16: “Se dico al malvagio: «Morirai» ed egli si converte dal suo peccato e compie ciò che è retto e giusto, rende il pegno, restituisce ciò che ha rubato, osserva le leggi della vita senza commettere il male, egli vivrà e non morirà; nessuno dei peccati commessi sarà più ricordato: egli ha praticato ciò che è giusto e certamente vivrà”. Ora, credo fermamente che vivere per poi morire di nuovo non abbia alcun senso, a meno che vedere la morte come esclusivamente di un corpo che tornerà alla vita nel momento opportuno.

Sappiamo che gli scritti dell’Antico Patto contengono “l’ombra dei futuri beni”(Ebrei 10.1) e che Gesù, essendo il vero Liberatore, in quel momento stava annunciando al Suo uditorio, Giudei compresi, la sola verità a cui avrebbero potuto aggrapparsi per essere salvati, abbandonando però quelle, innumerevoli, che avevano. Più avanti dirà “Io sono la via, la verità e la via. Nessuno può venire al Padre se non per mezzo di me”, quindi Viacome unica strada per avere accesso a Dio Padre, Veritàin opposizione al padre della menzogna come visto recentemente, e Vitaquale strumento ed effetto per la fede in Lui riposta. Questo voleva dire “non morire in eterno”, o“non vedere mai la morte”.

Del tutto insensibili, i Giudei gli chiedono “Chi credi di essere?”manifestando tutto il loro disprezzo, ma ancora una volta Gesù li pone di fronte al fatto che di fronte a loro stava Uno che andava oltre Abrahamo e gli stessi profeti perché “Se glorificassi me stesso, la mia gloria sarebbe nulla”cioè sarebbe passato come uno dei tanti e si sarebbe perso in quel buio di cui parlò Salomone quando scrisse “Una generazione va e l’altra viene, ma la terra resta sempre la stessa (…)non resta più ricordo degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria presso coloro che verranno in seguito”(Qoèlet 1.4,11). Queste parole possono essere, nel caso di specie, rapportate a quelle di Gamaliele quando disse al Sinedrio “Per quanto riguarda questo caso– Pietro e Giovanni che stavano per essere da loro giudicati – ecco ciò che vi dico: «Non occupatevi di questi uomini e lasciateli andare. Se infatti questa teoria o questa attività è di origine umana, verrà distrutta; ma se essa viene da Dio, non riuscirete a sconfiggerli. Non vi accada di trovarvi a combattere contro Dio!»”(Atti 5.38,39).

Quello che Gesù vuol dire ai Suoi detrattori, allora, al di là dell’impossibilità in base alla quale Lui potesse fare qualsiasi cosa per glorificare se stesso, è che quanto da Lui fatto e detto verrà ricordato per sempre e sarebbe stato invincibile salvo il ferimento al calcagno in cui possiamo vedere tanto la Sua morte, annullata nella resurrezione, quanto l’invincibilità della Chiesa sulle quali non potranno mai prevalere le porte degli inferi (Matteo 16.18).

Come Verità, invece, Gesù non poteva che parlare del Padre che conosceva senza essere, al contrario del Giudei, un mentitore: “Conosco e osservo la Sua parola”arrivando al punto stesso di incarnarla. Attenzione alle parole di Isaia 42.1-4 che certamente quei Giudei conoscevano molto bene, senza però comprenderle: “Ecco il mio servo, che io ho scelto; il mio amato, nel quale ho posto il mio compiacimento. Porrò il mio spirito sopra di lui e annuncerà alle nazioni la giustizia. Non contesterà né griderà né si udrà nelle piazze la sua voce. Non spezzerà una canna già incrinata, non spegnerà una fiamma smorta, finché abbia fatto trionfare la giustizia; nel suo nome spereranno le nazioni”. E qui ci raccordiamo alle promesse fate ad Abrahamo, che le recepì e le contemplò da lontano, rallegrandosene.

“Il mio giorno”che quest’uomo desiderava vedere (e che vide) sappiamo che può riferirsi a vari eventi, come quello della Sua nascita, della Sua manifestazione al mondo, la Sua seconda venuta per giudicare vivi e morti oppure tutto lo svolgersi del proprio ufficio di Mediatore, anche se personalmente intendo il primo caso in quanto gli altri sono conseguenti. Chissà se Abrahamo non “vide”quel giorno proprio quando gli fu annunciata la nascita di Isacco, vero figlio perché avuto da Sara e non dalla schiava Agar. Leggiamo infatti che rise. Anche il libro della Genesi, come tutti gli altri, non va letto con la convinzione che gli avvenimenti e le parole riportate furono gli unici o le uniche.

“Abrahamo vostro padre”, esultando, fece ciò che loro, come guide cieche, non facevano perché non in grado di vedere che proprio quel “giorno”era giunto a loro ed era alla loro portata.

Gesù cita Abrahamo sia perché viene nominato dai Giudei per primi, sia perché lo aveva conosciuto e gli aveva parlato, ma a questo punto gli viene posta un’altra domanda: “Tu non hai ancora cinquant’anni e hai visto Abrahamo?”(v.57), allusione al punto culminante della vita (50 anni) in cui i sacerdoti e i leviti venivano dispensati dal servire nel Tempio e nel Tabernacolo. Per i Giudei, i trentatré anni circa di Gesù erano una cifra insignificante anche se dimenticavano che era proprio a trenta che il loro servizio iniziava.

Un fratello ha sottolineato un’altra stortura degli oppositori di Nostro Signore, poiché lo accusano di sostenere di avere “visto Abrahamo”quando in realtà aveva detto il contrario, cioè che Abrahamo aveva visto Lui: in effetti sembra cosa da poco, ma così sminuivano, certo spinti dall’Avversario, la portata delle Sue parole che, nel verso successivo, saranno di una valenza e di un peso dottrinale enorme: “Prima che Abrahamo fosse, io sono”, che esamineremo dal prossimo capitolo.

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12.23 – NON VEDER LA MORTE IN ETERNO (Giovanni 8.48-51)

12.23 – Non veder la morte in eterno (Giovanni 8.48-51)

           

 

48Gli risposero i Giudei: «Non abbiamo forse ragione di dire che tu sei un Samaritano e un indemoniato?». 49Rispose Gesù: «Io non sono indemoniato: io onoro il Padre mio, ma voi non onorate me. 50Io non cerco la mia gloria; vi è chi la cerca, e giudica. 51In verità, in verità io vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno».

 

“Chi è da Dio ascolta le parole di Dio; perciò voi non le ascoltate: perché non siete da Dio” sono le parole di Gesù che danno luogo all’intervento dei Giudei che abbiamo letto. Ora è chiaro che l’ascolto cui fa riferimento Nostro Signore dev’essere costruttivo e chiama in causa l’elaborazione onesta delle Sue parole, quella che implica una valutazione serena e obiettiva di quanto da Lui annunciato e non quella puntigliosa e ostile messa in atto aprioristicamente dai suoi oppositori. Questi, agendo sempre e comunque ascoltando loro stessi, disattendevano e oltraggiavano proprio Colui che, quando Gesù venne battezzato, parlò ai presenti dal cielo dicendo “Questo è il mio amato figlio, nel quale mi sono compiaciuto” (Matteo 3.17). Così facendo i Giudei si ponevano completamente fuori dal piano di Dio, estranei a tutta quella generazione di uomini spirituali che li avevano preceduti essendo quello il tempo in cui “molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono” (Luca 10.24).

L’ascolto cui Gesù fa qui riferimento, che trova le sue radici anche negli scritti dell’Antico Patto, non è mai disgiunto da una profonda valutazione ed immedesimazione nel prossimo per non commettere errori di giudizio; ricordiamo ad esempio Deuteronomio 1.16, “Ascoltate le cause dei vostri fratelli e decidete con giustizia fra un uomo e suo fratello o lo straniero che sta presso di lui”. Ancora, ricordiamo le parole della Sapienza in Proverbi 8.6, dalle quali vediamo come non sia possibile scorporare l’ascolto dalla messa in pratica, “Ascoltatemi, perché parlerò di cose importanti e le mie labbra si apriranno per dire cose giuste”. Invece, i Giudei del nostro episodio possono essere identificati nel verso di Isaia 42.20, “Hai visto molte cose, ma senza prestarvi attenzione; le tue orecchie erano aperte, ma non hai udito nulla”.

Prova di tutto questo è proprio l’assurdo insulto del verso 48 in cui Gesù è definito “Samaritano” e, ancora una volta, “indemoniato”, così temporalmente vicino a quanto letto in 7.20, “Sei indemoniato! Chi cerca di ucciderti?”. Ora il termine “Samaritano” significa che Nostro Signore non era nemmeno considerato come un giudeo, ma come un vero e proprio impostore che con Israele e con Abrahamo non aveva nulla a che fare. Egli era dunque uno straniero, un scismatico, un impuro, per di più indemoniato, cioè una non persona posseduta da uno spirito che lo faceva parlare ed agire in modo tale da sedurre chi, come loro, non aveva che “un solo padre”, Abrahamo o Dio a seconda di come si ritenessero al momento.

Dal nostro testo, poi, non può essere ignorata la calma di Gesù, che non segue i Giudei sul terreno della contesa, ma resta sul sentiero della verità così a loro estranea, fedele a quanto scritto dall’apostolo Pietro che, nella sua prima lettera, annota “Anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca; insultato, non rispondeva con insulti. Maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia” (2.21-23).

Notiamo ora come risponde Gesù ai versi 49 e 50: se avesse parlato anche solo in modo enfatico, avrebbe sminuito la portata delle sue parole perché la loro gravità si sarebbe ridotta; Dio infatti non parla per spot pubblicitari in cui l’attenzione del bersaglio va indirizzata, stimolata con escamotages che lo convoglino a scelte para obbligate, ma tramite parole di verità che non hanno bisogno di sottolineature, grassetti o marcature varie; queste se mai le usa chi studia e, guardando ad esempio le nostre Bibbie, non ve n’è una uguale all’altra quanto a segni, evidenziazioni o note.

Dio non alza la voce come molti per farsi meglio sentire, per esternare rabbia o sostenere le proprie ragioni, ma avverte con la parola o con la lettera e soprattutto agisce mantenendo ciò che promette tanto nel bene quanto nel male. Sta solo all’uomo “ascoltare” perché nulla resterà in sospeso e nessuno resterà impunito o premiato a seconda di come avrà agito. Il tragico è che  raramente la creatura si ferma per pesare la portata della Parola di Dio.

Quanto Gesù dice va letto – “ascoltato” come nel nostro episodio – con tutto il suo peso scegliendo, individuando ciò ci riguarda direttamente. Ecco allora che qui abbiamo “Io non sono indemoniato: io onoro il Padre mio, ma voi non onorate me – la traduzione corretta è “mi disonorate” –. Io non cerco la mia gloria; vi è chi la cerca, e giudica”. Si tratta di parole dalla portata immensa, che ignorano completamente l’accusa dell’essere indemoniato, ma si spostano sulla Sua attività incessante di “onorare il Padre”, cioè aderire continuamente al Suo progetto per il recupero dell’uomo in modo tale che sia reso partecipe all’essenza del Padre e del Figlio, che troverà compimento nei “nuovi cieli e nuova terra dove dimora stabile la giustizia”.

L’“onorare il Padre” da parte di Gesù equivaleva all’esercizio di una costante innocenza, non contaminazione dal peccato, continuare ad essere un tutt’uno con Lui nonostante il proprio corpo di carne perché altrimenti avrebbe fallito. Se così non fosse stato, non avrebbe mai potuto essere il Figlio di Dio, manifestarsi al mondo, essere il solo tramite fra il Padre e l’uomo peccatore, rivelarLo. Se Gesù non avesse onorato il Padre in modo perfetto, potremmo dire di Lui che sì, sarebbe stato un grande profeta ma, come tutti i profeti, un uomo che ci ha fornito una rivelazione parziale di Dio e saremmo ancora qui ad aspettare un Liberatore, un Messia, il mediatore perfetto di cui Giobbe lamentava la mancanza. Ma c’è di più, saremmo dei pagani, cioè ancora estranei alla realtà e al piano di Dio che, eventualmente, potremmo vedere da lontano senza esserne partecipi.

Di fronte ai Giudei del nostro episodio, allora, stava Uno che onorava il Padre ed era in mezzo a gente che Lo disonorava, cioè non solo era totalmente indifferente a tutto ciò che diceva e faceva, ma Lo osteggiava in tutto e progettava già da tempo la sua morte.

L’ultima parte del verso, “Io non cerco la mia gloria; vi è chi la cerca, e giudica”, va divisa in due parti: la prima è chiara ed è, sotto certi aspetti, una risposta all’essere “un Samaritano” sotto l’aspetto dell’impostore. A Gesù non interessò mai ricevere un riconoscimento umano e basta ricordare l’episodio della prima moltiplicazione dei pani e dei pesci in cui leggiamo “Ma Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo far farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo” (Giovanni 6.15), ma quello spirituale certamente sì, non per se stesso, ma perché l’uomo potesse essere salvato. Possiamo dire che Nostro Signore non poteva cercare “la mia gloria” perché non avrebbe potuto portare da nessuna parte, sarebbe stata sterile perché credere in Lui disgiungendolo dal Padre avrebbe portato ad una visione incompleta, ad una religione come altre nonostante i miracoli e la resurrezione; invece, tutto è stato fatto, è stato “compiuto” in relazione al bisogno urgente, all’indispensabilità del fatto che Dio si rivelasse attraverso di Lui perché Gesù Cristo è il tramite che conduce al Padre, fonte di vita, responsabile di quel gesto di amore infinito e gratuito che fu la creazione dell’universo che avrebbe dovuto avere l’uomo al centro e non, come oggi, a margine, vittima di se stesso.

Penso che, più di altre parole, sia Giovanni 17.1-5 a renderci l’idea di quanto avvenuto: “…alzàti gli occhi al cielo, disse: «Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te. Tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. Io ti ho glorificato sulla terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. E ora, Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse”.

E qui arriviamo alla seconda parte del verso, “vi è chi la cerca, e giudica”, cioè Padre e Figlio assieme e qui possiamo vedere la differenza fra il Gesù in carne come “figlio dell’uomo” e come si manifesterà nell’ultimo giorno: “Il Padre non giudica nessuno, ma ha dato ogni giudizio al Figlio, perché tutti onorino il Figlio come onorano il Padre. Chi non onora il Figlio, non onora il Padre che lo ha mandato. In verità, in verità io vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5.22-24). Abbiamo allora Gesù in doppia veste, poiché non essendo venuto sulla terra per condannare il mondo, ma perché questo fosse salvato per mezzo di lui (Giovanni 3.17), ben altra realtà sarà vista da tutti una volta in cui sarà presente o assente come Avvocato Difensore. Infatti “…se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima d’espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo”. Per capire la differenza fra il Cristo compassionevole dei Vangeli e il Dio glorificato e glorioso dopo la Sua resurrezione, è sufficiente la lettura del libro dell’Apocalisse in cui viene presentato in una versione molto diversa, per noi attuale – quando agli avvenimenti nell’eternità in cui è tornato – e al tempo stesso futura, quando il tempo del mondo e dell’umanità avrà fine.

E qui giungiamo al nostro ultimo verso in cui abbiamo il doppio “amen” di Gesù, “In verità in verità io vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno”. Anche qui la traduzione non è precisa perché l’ “osservare” potrebbe lasciar pensare ad un seguire freddamente un libretto di istruzioni; al contrario qui si parla di custodire, che implica un’azione ben diversa: un bene dato in custodia è qualcosa di prezioso, da curare continuamente, da proteggere, è qualcosa di cui si è responsabili. Se si fa questo, non si vedrà mai la morte e in particolare l’episodio della risurrezione di Lazzaro ne è un esempio perché, poco prima di operare, Gesù disse “Io sono la resurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se muore, vivrà. Chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno” (Giovanni 11.25,26).

Anche qui è importante il verbo: “vedere la morte” equivale a farne esperienza, provarla e certo non si parla di quella del corpo, attraverso la quale tutti passeranno salvo quei credenti che saranno in vita al ritorno di Gesù. “Vedere la morte” è comunque un ebraismo che allude al morire e qui, raccordandoci a quanto detto poco prima, il parallelo è con Apocalisse 21.8, “Ma per i vili e gli increduli, gli abietti e gli omicidi, gli immorali, i maghi, gli idolatri e per tutti i mentitori è riservato lo stagno ardente di fuoco e di zolfo. Questa è la seconda morte”.

Per chi crede, per chi cerca ed è destinato a trovare, valgono però altre parole: “In verità in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a Colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5.24). Amen.

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12.22 – DUE PADRI (Giovanni 8.42-47)

12.22 – Due padri (Giovanni 8.42-47)

42Disse loro Gesù: «Se Dio fosse vostro padre, mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato. 43Per quale motivo non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alla mia parola. 44Voi avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli era omicida fin da principio e non stava saldo nella verità, perché in lui non c’è verità. Quando dice il falso, dice ciò che è suo, perché è menzognero e padre della menzogna. 45A me, invece, voi non credete, perché dico la verità. 46Chi di voi può dimostrare che ho peccato? Se dico la verità, perché non mi credete? 47Chi è da Dio ascolta le parole di Dio. Per questo voi non ascoltate: perché non siete da Dio».

Le parole di Gesù in questo intervento sono fondamentali per capire ciò che spingeva i Giudei ad ostacolare la Sua predicazione e a porsi costantemente contro di Lui; viene infatti demolita la lettura “politica” del loro comportamento che li vedrebbe come persone che, in buona fede, ritenendosi custodi della dottrina dell’Unico Dio e guide legittime di Israele, la dovevano difendere da chiunque si opponesse a loro. Forse, nella cecità che li animava, quei Giudei intendevano adattare alla circostanza Deuteronomio 13.2-5: “Qualora sorga in mezzo a te un profeta o un sognatore che ti proponga un segno o un prodigio, e il segno o prodigio annunciato succeda, ed egli ti dica «Seguiamo dèi stranieri, che tu non hai mai conosciuto, e serviamoli», tu non dovrai ascoltare le parole di quel profeta o di quel sognatore, perché il Signore, vostro Dio, vi mette alla prova per sapere se amate il Signore, vostro Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima. Seguirete il signore, vostro Dio, temerete lui, osserverete i suoi comandi, ascolterete la sua voce, lo servirete e gli resterete fedeli. Quanto a quel profeta o a quel sognatore, egli dovrà essere messo a morte, perché ha proposto di abbandonare il Signore, vostro Dio, che vi fatto uscire dalla terra d’Egitto e ti ha riscattato dalla condizione servile, per trascinarti fuori della via per la quale il signore, tuo Dio, ti ha ordinato di camminare. Così estirperai il male in mezzo a te”.

Questo verso, attuale anche oggi perché il cristianesimo non può accettare come provenienti da Dio fenomeni ingannatori che l’Avversario può sempre produrre per introdurre dottrine estranee alla fede (supportandole attraverso miracoli e falsi profeti), era però nel caso di specie totalmente avulso dal contesto e, soprattutto, è indice di quanto sia facile far dire alla Bibbia ciò che vuole l’uomo quando lo Spirito Santo è assente. Sappiamo che quei Giudei avevano dichiarato prima di non avere altro padre all’infuori di Abrahamo e poco dopo di avere “un solo padre: Dio!”(v.41), ma la risposta di Gesù “Se Dio fosse vostro padre, mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo”stabilisce una prima, enorme distanza là dove quel “mi amereste”va letto come seguire ed essere naturalmente attratti da lui, come avvenuto per molti tra il popolo. In altri termini, se quei Giudei avessero avuto davvero Dio per padre, avrebbero accolto con gioia Gesù, riconoscendolo come il loro vero liberatore dalla schiavitù non romana, ma dalla condizione di peccato che li dominava come tutti gli altri uomini. Le parole “Il regno dei cieli è vicino”, pronunciate molto tempo prima, erano supportate da tutta una storia che non avrebbe non potuto coinvolgere quelle persone nella mente e nel cuore.

Riflettendo su quanto stava accadendo, alla luce dell’assioma “Nessuno può venire a me se il Padre non lo attira”(Giovanni 6.44) era impossibile che, se quelle persone avessero amato veramente il Padre e fossero stati suoi figli, non avessero avuto difficoltà a riconoscere Gesù e soprattutto compreso il suo “linguaggio”, certo aiutati da quella scienza scritturale che il popolo non aveva eppure Lo ascoltava. Invece, non potevano “dare ascolto”alla Sua parola, di fronte alla quale inciampavano. Si noti quanto sia forte quel “non potete”che sta a indicare un’impossibilità duratura, incapacità funzionale, totale estraneità. E quanto denunciato da Gesù era possibile solo in un caso, cioè che il “padre” dei suoi oppositori fosse una forza a Lui contraria: “Voi avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro”(v.44), lo stesso che si compiace nel distruggere o comunque attentare all’equilibrio della Chiesa dove “Il campo è il mondo. Il seme buono sono i figli del regno; la zizzania sono i figli del maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo”(Matteo 13.38,39).

Ora occorre prestare la massima attenzione a ciò che implicano queste parole e cioè che ogni uomo o donna ha un padre a livello di appartenenza spirituale. E ciò non può essere ignorato in quanto divide chi è da Dio da chi non lo è. Si tratta di una classificazione che non è riferibile a quelli che ancora non credono, ma a chi, come l’Avversario, si pone all’opposizione più ferma ricorrendo ad ogni mezzo pur di ostacolare, negare il Vangelo e perseguitare chi lo propone. Due mondi fra i quali è già posta, come nella parabola del ricco stolto, “una gran voragine”, mondi incompatibili fra loro, quindi con destini diametralmente opposti.

Altra caratteristica di quei Giudei e di tutti quanti si identificano in loro a livello di opposizione, è “volete fare i desideri del padre vostro”, posizione ben diversa da chi, in quanto peccatore non ancora perdonato, si trova in una condizione di lontananza da Dio e in temporanea estromissione da Lui. Qui la “volontà” è per libera scelta, qualcosa di ben peggiore rispetto ad essere “per natura meritevoli d’ira”nel contesto espresso in Efesi 2.3, “Anche tutti noi, come loro, un tempo siamo vissuti nelle nostre passioni carnali seguendo le voglie della carne e dei pensieri cattivi: eravamo per natura meritevoli d’ira, come gli altri”: qui l’apostolo Paolo fa riferimento alle“cose vecchie”che “sono passate”, ma nel caso dei personaggi cui Gesù parla si tratta di un seguire l’Avversario fin dalle origini. Egli è “omicida fin dal principio”, definizione che risale a quando, vicario di Dio in Eden, volle condurre Adamo e sua moglie alla rovina (“Nel giorno in cui ne mangerai, per certo morirai”) perché il suo orgoglio non poteva sopportare che vi fosse una creatura innocente a rubargli l’egemonia che aveva in quanto Cherubino protettore. Il primo omicidio della nostra storia storia, quindi, alla luce di questo dato si può dire che non fu quello di Abele, ma di Adamo ed Eva, che senza dare ascolto a Satana avrebbero potuto vivere un’eternità di luce e perfezione.

Il padre dei Giudei che questionavano con Nostro Signore era quindi “omicida– altri traducono “micidiale”, cioè capace di provocare la morte per lo più in modo violento – fin dal principio”, e incapace di restare “saldo nella verità, perché in lui non c’è verità”(v.44), quindi solo menzogna e inganno come forza distruttiva e, perché questo avvenga, c’è bisogno di autori e di vittime. Facendo un parallelo con 2 Pietro 2.1-3: “Ci sono stati anche falsi profeti tra il popolo, come pure ci saranno in mezzo a voi falsi maestri– e queste sono parole dirette alla Chiesa nel suo percorso storico – che introdurranno eresie perniciose, rinnegando il Signore che li ha riscattati e attirandosi una propria rovina. Molti seguiranno le loro dissolutezze e per colpa loro la via della verità sarà coperta di improperi. Nella loro cupidigia vi sfrutteranno con parole false; ma la loro condanna è già da tempo all’opera e la loro rovina in agguato”.

Torniamo alla descrizione di Gesù su Satana, “Quando dice il falso, dice ciò che è suo, perché è menzognero e padre della menzogna”(v.44): mi sono chiesto il perché del “Quando”, che sembra posto ad indicare che non sempre “dice il falso”e in effetti così è, visto che di fronte a Dio sa di non poter mentire. Satana disse il vero, ad esempio, in Giobbe 1.6 quando, alla domanda “Da dove vieni?”, rispose “Da un giro sulla terra che ho percorso in lungo e in largo”. Sempre dal contesto di quell’episodio, però, emerge la sua natura distruttrice quando propose a Dio di provare quell’uomo: “Tutto quello che possiede, l’uomo è pronto a darlo per la sua vita– ed è una verità, basta guardarsi attorno –. Ma stendi un poco la mano e colpiscilo nelle ossa e nella carne e vedrai come ti maledirà apertamente!”. Sappiamo che YHWH non poteva sottrarsi a quelle parole nonostante conoscesse Giobbe profondamente e rispose “Eccolo nelle tue mani. Soltanto risparmia la sua vita”(2.6).

Gesù, parlando del padre dei Giudei, sostiene nella Sua autorità che, dicendo (e fabbricando) il falso “dice ciò che è suo”quindi viene esclusa una menzogna inventata, ma naturalmente presentata sul momento come fatto, come prodotto perché “in lui non c’è verità”quindi, come ha scritto un fratello, “questo significa che egli è internamente destituito di verità, mancante di quella santa e trasparente rettitudine che egli possedeva da principio, quale creatura di Dio. La menzogna è divenuta la vera e propria sua natura, per cui è interamente alieno dalla verità di Dio”. Abbiamo allora il falso come qualcosa di generato da lui, il risultato naturale, il frutto di un’essenza e non una costruzione risultato di un ragionamento. Attenzione, quindi, alle persone false che tutti noi conosciamo o con le quali veniamo a che fare!

“Parla del suo”: la traduzione letterale sarebbe “Parla del suo proprio”o “dalle proprie risorse”, quindi del fatto che un essere separato da Dio non può che risiedere nelle tenebre assolute e, anche se è in grado di produrre idee o fenomeni di qualunque tipo, in quanto indipendenti dalla volontà del Creatore, non possono altro che portare alla rovina. E credo che noi tutti siamo portatori di un’esperienza diretta in tal senso avendo provato personalmente gli effetti di persone che hanno scelto volontariamente la strada indicata dall’Avversario anziché l’unica percorribile per essere salvati ed appartenere ad un padre diverso.

Il “Padre della menzogna”la trasmette quale contrassegno ereditario a chi è già suo e così sarà fino all’ultimo, quando vi sarà chi entrerà nel Regno di Dio e chi no: “Fuori i cani – cioè gli immondi–  i fattucchieri, gli immorali, gli omicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna!”(Apocalisse 22.15).

Il fatto che l’opposizione a Gesù fosse priva di fondamento così come lo è la menzogna, è rilevabile al verso 46,“Chi di voi può dimostrare che ho peccato?”: è un invito a trovare anche il più piccolo frammento di errore o trasgressione alla luce della Legge (non certo cerimoniale) e a scavare nella Sua vita che, come abbiamo visto all’inizio di questo lungo percorso di riflessioni, fu un continuo adempimento a quanto scritto dai Profeti.

Arriviamo così al nostro ultimo verso, “Chi è da Dio, ascolta le parole di Dio. Per questo voi non mi ascoltate, perché non siete da Dio”: anche questo è un verso impegnativo e sarà più volte ripreso e ampliato nelle varie lettere, soprattutto da Giovanni quando scrive “Noi siamo da Dio. Chi conosce Dio ascolta noi: chi non è da Dio non ci ascolta”(1a, 4.6). Si tratta di versi che a volte tendiamo a dimenticare nonostante racchiudano una verità assolutamente seria che riguarda chi, ascoltato il Vangelo, oppone un rifiuto fermo e categorico che resta immutato nel tempo senza variazione alcuna (anzi, il più delle volte tale posizione si fa sempre più dura, come inevitabile).

Menzogna e verità sono quindi i due elementi che ancora una volta si contrappongono, la prima rende sempre più schiavi, la seconda, se scelta, rende liberi. Amen.

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12.21 – ABRAMO PER PADRE IV/IV (Giovanni 8.39-41)

12.21 – Abramo per padre IV/IV (Giovanni 8.39-41)

39Gli risposero: «Il padre nostro è Abramo». Disse loro Gesù: «Se foste figli di Abramo, fareste le opere di Abramo. 40Ora invece voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità udita da Dio. Questo, Abramo non l’ha fatto. 41Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero allora: «Noi non siamo nati da prostituzione; abbiamo un solo padre: Dio!».

Negli ultimi tre capitoli si è cercato di affrontare il personaggio di Abrahamo, sviluppato in modo sommario stante la profondità dei contenuti che avrebbero richiesto ben più spazio. Si è sorvolato su molti versi, fatti e vicende, ma l’intento era quello di fornire un orientamento sul testo e non di sviluppare la sua persona in modo esauriente. Giungiamo così a Genesi 22 col quale concluderemo la panoramica su di lui che, va sottolineato, termina in realtà con 25.8 che riassume la sua esistenza: “L’intera durata della vita di Abrahamo fu di centosettantacinque anni. Poi Abrahamo spirò e morì in felice canizie, vecchio e sazio di giorni, e si riunì ai suoi antenati”.

Venendo quindi al capitolo 22, già il primo verso ci introduce in un àmbito nuovo: “Dopo queste cose, avvenne che Iddio provò Abrahamo, e gli disse: «Abrahamo!», ed egli gli disse «Eccomi»”. Entra qui espressamente, per la prima volta nella sua vita, il tema della prova, l’unico mezzo col quale l’uomo può dimostrare a Dio (e a se stesso) la propria fede e coerenza. La prova, indipendentemente dal tipo, giunge in modo inaspettato e difficilmente si ha modo di riconoscerla, a differenza di quanto avvenne per Gesù quando fu tentato da Satana nel deserto. Della prova abbiamo l’esempio principe in Giobbe, che fra gli antichi la sperimentò più di tutti e, per gli scritti del Nuovo Testamento, abbiamo questa rivelazione a Pietro: “Simone, Simone, ecco, Satana ha chiesto di vagliarvi come si vaglia il grano, ma io ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno”(Luca 22.31,32).

La prova, per la carne, non è mai qualcosa di piacevole, anzi: può turbare profondamente l’anima, gli affetti e il corpo, isolatamente o tutti nell’insieme a seconda dei casi ed è lì che ci riveliamo per ciò che effettivamente siamo. Abrahamo risponde alla chiamata di Dio con “Eccomi”, cioè pronto all’ascolto di qualunque ordine o annuncio, sapendo che non aveva nulla da temere pensando a quanto gli fu detto in occasione dell’alleanza stabilita in Genesi 17, “Io sono l’Iddio Onnipotente, cammina alla mia presenza e sii integro; e io stabilirò il mio patto fra me e te e ti moltiplicherò grandemente” (vv. 1 e 2).

Quanto si sentì dire però al capitolo 22 fu qualcosa di categorico e sconvolgente: “Prendi ora il tuo figliolo, il tuo unico– nato secondo la promessa dalla quale Ismaele era escluso –, il quale tu ami– nel senso che le sue speranze alla luce delle benedizioni ricevute erano riposte in lui –, cioè Isacco, e va’ nella contrada di Moria ed offrilo qui in olocausto, sopra uno di quei monti che ti dirò”(v.2). Mi sono chiesto cosa fosse avvenuto in Abrahamo in quel momento, a parte il proprio dolore di padre: Mosè e coloro che hanno tramandato il libro della Genesi fino a noi non ci hanno lasciato alcuna sua obiezione, ma solo il fatto che pose in atto tutte le premesse perché l’olocausto avvenisse: “Abrahamo dunque, levatosi la mattina di buon’ora, mise il basto al suo asino e prese con sé due suoi servitori ed Isacco suo figliolo e, stipata la legna per l’olocausto, partì e andò nel luogo che Dio gli aveva indicato”(v.3). Il viaggio durò tre giorni, certo ricchi di pesanti interrogativi sul senso che poteva avere quell’ordine di Dio che metteva in discussione la promessa in base alla quale sarebbe diventato “padre di una moltitudine di nazioni”(17.4,5,6), chiamava in causa il perché della nascita di Isacco, la circoncisione che gli aveva fatto e il convito offerto quando fu svezzato (21.8). Ora tutto era diventato oscuro, senza spiegazione razionale e, poiché la voce di Dio non poteva averla confusa con nessun’altra, non restava che adempiere a quanto gli era stato detto nonostante tutte queste contraddizioni. Teniamo presente che però questa è solo una lettura immediata del testo.

Certo Abrahamo aveva ben presente ciò che il Signore gli aveva detto a proposito dei suoi due figli in 21.19-21: “Sara, tua moglie, ti partorirà un figlio e tu gli porrai nome Isacco, e io stabilirò il mio patto con lui per patto perpetuo per la sua progenie dopo di lui. E quanto ad Ismaele, ancora, io t’ho esaudito: ecco, l’ho benedetto e lo farò moltiplicare grandissimamente: egli genererà dodici prìncipi ed io lo farò diventare una grande nazione. Ma io fermerò il mio patto con Isacco, che Sara ti partorirà l’anno che viene, in questa stessa stagione”. Eppure, alle parole di Dio sull’olocausto da compiere, Abrahamo non disse nulla, cosa che invece avvenne col dialogo intercessore sui giusti eventualmente presenti in Sodoma: perché? Credo che una prima ragione vada ricercata nel fatto che, se nel caso della città che sarebbe stata distrutta stava parlando al Dio apparso in forma umana mentre, qui fu immediatamente chiaro che la parola rivoltagli, provenendo da YHWH, non poteva essere messa in discussione.

Va poi ricordata la corretta interpretazione del nostro episodio che già avevo messo in risalto in un precedente capitolo, e cioè che Abrahamo da un lato provava un dolore assolutamente umano, ma dall’altro era sospinto da una fede basata sulla certezza che non solo sarebbe stato protetto, ma che Isacco non sarebbe morto nel senso che sarebbe solo passato oltre la vita e qui abbiamo la fede nella resurrezione. Ricordiamo il commento all’episodio di Ebrei 11.17: “Per fede Abrahamo, messo alla prova, offrì Isacco, e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unigenito figlio, del quale era stato detto: Mediante Isacco avrai una discendenza. Egli pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti, per questo lo riebbe anche come simbolo”.Ecco allora che Abrahamo fondò tutto il suo agire sulla base che le promesse di Dio si sarebbero realizzate comunque a prescindere del fatto che il proprio figlio passasse o meno attraverso la morte del corpo.

Altra nota va rilevata sul luogo indicato da Dio, la contrada di Moria e i suoi relativi due monti, il Sion e il Moria, sul quale sarà poi costruito il Tempio:“Salomone cominciò a costruire il tempio del Signore a Gerusalemme sul monte Moria, dove il Signore era apparso a Davide, suo padre, nel luogo preparato da Davide sull’aia di Ornan il Gebuseo”(2 Cronache 3.1). Il fatto che prima dell’apparizione a Davide Abrahamo fu fermato, molto dice sul significato di questo luogo.

“Ed Abrahamo stese la mano e prese il coltello per uccidere suo figlio. Ma l’Angelo del Signore gli gridò dal cielo e disse: «Abrahamo, Abrahamo!». Ed egli disse: «Eccomi» – segno che l’evento non aveva mutato la sua disponibilità nei confronti di Dio –. E l’Angelo gli disse: «Non mettere la mano addosso al ragazzo e non fargli nulla, perché ora so che tu temi Iddio, poiché non mi hai negato tuo figlio, il tuo unico– cioè quello della promessa e non Ismaele –». È assolutamente rilevante quel “mi”e non “gli”: Dio Padre non poteva essere certo definito “L’Angelo del Signore”, mentre il Figlio, la cui esistenza non era stata ancora rivelata (per quanto deducibile, ma alla luce del Nuovo Testamento) non poteva che venire raffigurato in quell’ “Angelo”così come, in Eden, nell’ “albero della vita”.

Altra frase che non può essere ignorata è “Ora so che tu temi Iddio”: e prima? Ancora una volta vale quanto osservato sul significato dell’essere “predestinati”, termine che è stato molto abusato e che non implica l’inevitabilità assoluta da parte dell’uomo di non poter agire diversamente da come opera in quel momento, ma semplicemente il fatto che ogni cosa che facciamo esiste quando avviene ed è sempre conseguenza di una nostra scelta, come fu per Abrahamo. “Ora so”sono parole pronunciate dall’Angelo per fargli capire il motivo della richiesta del sacrificio di Isacco, cioè la necessità che superasse la prova perché attraverso quella, la più ardua, avrebbe potuto dimostrare di essere in grado di portare tutte le benedizioni ricevute. La gratuità del dono di Dio andava confermata mediante la prova perché altrimenti Abrahamo non avrebbe potuto essere credibile né essere considerato padre di tutti i credenti indipendentemente dall’etnia di appartenenza.

La prova superata – attenzione – non costituì un merito umano di cui Abrahamo poteva andare fiero, ma semplicemente fu un comportamento corretto che produsse quanto scritto da Giacomo 2.21: “Abrahamo, nostro padre, non fu forse giustificato per le sue opere, quando offrì Isacco sull’altare? Vedi: la fede agiva insieme alle opere di lui, e per le opere la fede divenne perfetta”. Senza la fede, quindi quest’uomo non sarebbe mai stato in grado di giungere al punto di sacrificare il proprio figlio; però, essendo la fede senza le opere qualcosa di inerte, ecco che per esse diventa “perfetta”ed ecco perché gli fu rinnovata la promessa: “Io giuro per me stesso, dice il Signore Iddio, poiché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, l’unico tuo figlio, io certo ti benedirò grandemente e moltiplicherò la tua discendenza come le stelle dei cielo e come la sabbia che è sul lido del mare e la tua discendenza possederà la porta dei tuoi nemici– modo di dire per alludere al pieno potere su di loro – . E tutte le nazioni della terra saranno benedette nella tua discendenza, perché tu hai ubbidito alla mia voce”(vv.16-19).

Il fatto che la promessa venne ripetuta due volte sta quindi a indicare che con la prima abbiamo una gratuita offerta, proveniente dalla libera iniziativa e dall’amore di Dio, mentre la seconda è il frutto dell’impegno reciproco. Abrahamo le accettò entrambe, la prima per fede (e fu già molto), la seconda per le opere che la confermarono, “rendendola perfetta”come commenta Giacomo, fratello del Signore.

Concludendo ancora una volta con l’attualità del tempo in cui Gesù parlò ai Giudei, certo alla luce di quanto ricordato non potevano dire “il padre nostro è Abrahamo”; indubbiamente discendevano da lui, ma ne erano distanti anni luce in quanto a fede ed è proprio ciò che si sentirono dire: “Se foste figli di Abrahamo, fareste le opere di Abrahamo. Ora invece voi cercate di uccidere me, un uomo che vi ha detto la verità udita da Dio. Questo, Abrahamo non lo ha fatto. Voi fate le opere del padre vostro”, chiaro riferimento all’Avversario che i Giudei compresero solo in parte, poiché la loro replica, “Noi non siamo nati da prostituzione, abbiamo un solo padre, Dio”altro non è che una menzogna rinnovata come la precedente, quella di non essere stati mai schiavi di nessuno: “nati da prostituzione”, o “fornicazione”come traducono altri, è un modo di sostenere che non provenivano da un popolo idolatra e quindi si arrogano il diritto di essere figli di Dio, cosa impossibile perché l’appartenergli non è cosa che si trasmette geneticamente.

Avere“un solo padre”è un richiamo alle origini, quando Dio disse a Mosè “Tu dirai al faraone: «Così dice il Signore: Israele è mio figlio, il mio primogenito. Perciò io ti dico: Lascia andare il mio figlio affinché mi serva; ma se tu rifiuti di lasciarlo andare, ecco io ucciderò il tuo figlio, il tuo primogenito»”(Esodo 4.22,23).

Nei versi che seguono e che affronteremo nel prossimo capitolo, Gesù stabilirà in modo univoco la differenza fra l’avere un Padre e un padre: “Se Dio fosse vostro padre, mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato. Per quale motivo non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare ascolto alla mia parola. Voi avete per padre il diavolo e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli era omicida fin da principio e non stava saldo nella verità, perché in lui non c’è verità. Quando dice il falso, dice ciò che è suo, perché è menzognero e padre della menzogna. A me, invece, voi non credete, perché dico la verità. Chi di voi può dimostrare che ho peccato? Se dico la verità, perché non mi credete? Chi è da Dio ascolta le parole di Dio. Per questo voi non ascoltate: perché non siete da Dio”.

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