16.23 – FIGLIO DI DAVIDE E SIGNORE (Matteo 22-41-46)

16.23 – Figlio di Davide e Signore (Matteo 22.41-46)

 

41Mentre i farisei erano riuniti insieme, Gesù chiese loro 42«Che cosa pensate del Cristo? Di chi è figlio?». Gli risposero: «Di Davide».43Disse loro: «Come mai allora Davide, mosso dallo Spirito, lo chiama Signore, dicendo: 44Disse il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici sotto i tuoi piedi.45Se dunque Davide lo chiama Signore, come può essere suo figlio?». 46Nessuno era in grado di risponderli e, da quel giorno, nessuno osò più interrogarlo.

 

Secondo la cronologia di Matteo riguardo al martedì della settimana della Passione, troviamo i farisei riuniti assieme per tre volte, due chiaramente per attaccare Gesù, ma non è detto il motivo della terza, quella che abbiamo letto al verso 41. Pensavano di nuovo al modo migliore per eliminarLo oppure, per evitare di ammettere la loro sconfitta, erano intenti in altre questioni? Non ci è detto da nessuno dei Sinottici, fatto sta che Gesù li raggiunge ed è Lui a interrogarli affrontandoli sul loro terreno dialettico, vale a dire con un quesito alla cui soluzione ne fanno seguito altri, sempre sullo stesso tema, ma costringendo l’interlocutore ad un approfondimento.

Solitamente le discussioni farisaiche e rabbiniche consistevano proprio in questo, cioè partivano da un passo di Scrittura per poi procedere a un suo sviluppo: una domanda sul testo generava una risposta che costituiva il nuovo punto di partenza per una discussione e così via, proprio come in questo caso, anche se la questione viene presto interrotta per manifesta incapacità a rispondere da parte dei farisei, persone certamente avvezze al testo sacro e a sviluppare dottrinalmente un concetto. Da Marco 12.35 che riporta lo stesso episodio dicendo “Insegnando nel tempio Gesù prese a dire: «Come dicono gli scribi che il Cristo è figlio di Davide?»”, è evidente che la breve discussione avvenne in un luogo aperto, quindi ancora una volta nel cortile dei Gentili.

Ora credo che affrontare il tema Davide sotto il profilo biografico o quello di uomo di Dio richiederebbe molto tempo, mentre può essere interessante esaminarlo, in piccola parte, nel suo ruolo di profeta riguardo a Gesù tenendo presente le sue ultime parole in 2 Samuele 23.2, “Lo Spirito del Signore è sopra di me, la sua parola è sulla mia lingua”, che lo qualificano come tale. Nei suoi Salmi molto parlò del Cristo arrivando a descrivere non solo le Sue sofferenze, ma accennando anche del traditore fra i Dodici e parte di quanto da lui detto fu utilizzata dall’apostolo Pietro, illuminato dallo Spirito, ad esempio, in Atti 1.16 “Fratelli, era necessario che si compisse ciò che nella Scrittura fu predetto dallo Spirito Santo per bocca di Davide riguardo a Giuda, diventato la guida di quelli che arrestarono Gesù”.

In proposito abbiamo il Salmo 69.26-29, riguardo ai persecutori del Cristo, “Il loro accampamento sia desolato, senza abitanti la loro tenda; perché inseguono colui che hai percosso, aggiungono dolore a chi tu hai ferito. Aggiungi per loro colpa su colpa e non possano appellarsi alla tua giustizia. Dal libro dei viventi siano cancellati e non siano iscritti tra i giusti”. Ancora riguardo a Giuda, Davide riporta tutta una serie di dati che aiutano molto a comprenderlo quando a personalità e destino: “Mi rendono male per bene e odio in cambio del mio amore. Suscita un malvagio contro di lui e un accusatore stia alla sua destra! Citato in giudizio, ne esca colpevole e la sua preghiera si trasformi in peccato. Pochi siamo i suoi giorni e il suo posto lo occupi un altro. I suoi figli rimangano orfani e vedova sua moglie. Vadano raminghi i suoi figli, mendicando, rovistino fra le loro rovine. L’usuraio divori tutti i suoi averi e gli estranei saccheggino il frutto delle sue fatiche. Nessuno gli dimostri clemenza, nessuno abbia pietà dei suoi orfani. La sua discendenza sia votata allo sterminio, nella generazione che segue sia cancellato il suo nome. (…) Si è avvolto di maledizione come di una veste: è penetrata come acqua nel suo intimo e come olio nelle sue ossa. Sia per lui come vestito che lo avvolge, come cintura che sempre lo cinge”.

La correlazione fra Davide e Gesù è sviluppata in alcuni passi del Nuovo testamento, ad esempio Atti 2.30,31 in cui è Pietro a parlare: “Ma poiché – Davide – era profeta e sapeva che Dio gli aveva giurato solennemente di far sedere sul suo trono un suo discendente, previde la risurrezione di Cristo e ne parlò: questi non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne subì la corruzione”. “Sapeva che gli aveva giurato solennemente” perché in Salmo 132.11 si legge “Il Signore ha giurato a Davide, promessa da cui non torna indietro: «Il frutto delle tue viscere io metterò sul tuo trono!”, “perché non abbandonerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda la fossa” (Salmo 16.10). E Pietro, ormai trasformato dallo Spirito e dalla Grazia, con una mente rinnovata, specificò che “Non da volontà umana è mai venuta nessuna profezia, ma mossi dallo Spirito Santo parlarono alcuni uomini da parte di Dio” (2° 1.21).

 

Ora, tornando all’episodio dopo avere aperto una finestra che credo necessaria su un aspetto di Davide come profeta, Gesù inizia il Suo intervento con una domanda molto semplice, alla quale scribi e farisei rispondono senza alcuna esitazione e, viene da pensare, coralmente: “«Che cosa pensate del Cristo? Di chi è figlio?». Gli risposero: «Di Davide»”. E infatti “Figlio di Davide” era il titolo che per l’ebraismo spettava al Messia; fu riconosciuto come tale nei Vangeli da tutti coloro che lo chiamarono in quel modo, come la donna Sirofenicia, i due mendicanti ciechi di Capernaum, Bartimeo a Gerico, la folla che due giorni prima a Gerusalemme Lo aveva acclamato come tale, e i bambini quando giunse nel tempio.

Il Messia però, per l’ebraismo, doveva essere solo e semplicemente un uomo come dalla frase “Noi tutti pensiamo che il Cristo sarà un uomo nato da genitori umani” che troviamo nei “dialoghi con Trifone” di Giustino (II sec.). Uomo come gli altri certo nell’aspetto esteriore, ma non per tutto quello che disse e fece fino alla Sua risurrezione e ascensione al cielo.

 

La seconda parte della domanda di Gesù ai farisei ci riporta a Davide che questa volta, nel suo Samo 110 che già allora si riteneva messianico, inizia con “Oracolo del Signore al mio Signore: «Siedi alla mia destra finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi»”, andando oltre la descrizione del Messia sofferente data in altri Salmi, per presentarlo chiaramente vittorioso. Quindi la domanda, precisamente impostata sul ragionamento farisaico direi col preciso scopo di generare un corto circuito, era posta affinché quelle persone riunite chiarissero come Davide potesse chiamare “Signore” uno che era suo discendente e che i profeti e non solo chiamavano suo “figlio”.

Ora Davide, nell’apertura del suo Salmo profetico, vede e quindi scrive che dalla propria discendenza, quindi “figlio” secondo la carne, uscirà Uno che sarà anche “Signore” nel senso di Dio. Certo il Gesù uomo era “figlio di Davide” quanto a genealogia, ma per la parte divina certamente no, essendo Davide semplicemente un uomo, come vedremo citando la lettera agli Ebrei.

Scrivendo “Disse il Signore al mio Signore” abbiamo soggetto e complemento diversi, ma identici nel nome. “Il Signore” è chiaramente Dio Padre, l’Assoluto, il Creatore, mentre “al mio Signore” è un riferimento a Colui che è più vicino, col quale si instaura una relazione reciproca, con cui il profeta parlava e vedeva in Spirito a tal punto di scrivere di Lui nei suoi Salmi. È il possessivo “mio” ad aprire le porte della salvezza, l’identificazione, il riferimento.

Ciò che quindi il Padre dice al Figlio, “Siedi alla mia destra…”, rimarrà un’iscrizione misteriosa, per quanto all’interno di un Salmo riconosciuto messianico, fino a quando non avremo la rivelazione di Gesù e di chi, nel Nuovo Testamento, provvederà a spiegarla, ancora una volta l’apostolo Pietro nel giorno di Pentecoste in Atti 2.29-35: “Fratelli, mi sia lecito dirvi francamente, riguardo al patriarca Davide, che egli morì e fu sepolto e il suo sepolcro è ancora oggi fra noi. Ma poiché era profeta e sapeva che Dio gli aveva giurato solennemente di far sedere al trono un suo discendente, previde la resurrezione di Cristo e ne parlò: questi non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne subì la corruzione. Questo Gesù, Dio lo ha resuscitato e noi tutti ne siamo testimoni – altrimenti se ne sarebbero tornati alla loro quieta vita di un tempo –. Innalzato dunque alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire. Davide infatti non salì al cielo, tuttavia egli dice: «Disse il Signore al mio Signore: siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici come sgabello dei tuoi piedi». Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso”.

Proseguiamo nella lettura dei testi in merito, l’apostolo Paolo nella sua prima lettera ai Corinti scrive: “È necessario che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi” (15.27-25), dove il “…regni finché” è riferito all’attesa, al fatto che il Cristo vive e regna nel mondo spirituale nell’attesa che possa appropriarsi definitivamente del nuovo, in cui la morte sarà l’ultimo nemico annientato perché Satana non avrà più alcuna possibilità di vita e quindi non esisterà più il suo strumento prediletto, morte del corpo, ma soprattutto dell’anima.

Vediamo infine la risposta teologica alla domanda di Gesù alla quale i Suoi avversari non seppero rispondere: Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato. Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato? E ancora: Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio? Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: Lo adorino tutti gli angeli di Dio. Mentre degli angeli dice: Egli fa i suoi angeli simili al vento, e i suoi ministri come fiamma di fuoco, al Figlio invece dice: Il tuo trono, Dio, sta nei secoli dei secoli; e: Lo scettro del tuo regno è scettro di equità; hai amato la giustizia e odiato l’iniquità,
perciò Dio, il tuo Dio, ti ha consacrato con olio di esultanza, a preferenza dei tuoi compagni.
E ancora:
In principio tu, Signore, hai fondato la terra e i cieli sono opera delle tue mani.
Essi periranno, ma tu rimani; tutti si logoreranno come un vestito. Come un mantello li avvolgerai, come un vestito anch’essi saranno cambiati; ma tu rimani lo stesso e i tuoi anni non avranno fine.
E a quale degli angeli poi ha mai detto:
Siedi alla mia destra, finché io non abbia messo i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi?” (Ebrei 1.3.13).

Infine, sempre Ebrei 10.11-14 “Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati. Cristo, invece, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi. Infatti, con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati”.

I “nemici”: chi sono? Secondo il dizionario, come sostantivo, così è “chi si atteggia o si comporta in modo da provocare il danno e la sconfitta altrui”, ma come aggettivo “avversione decisa e assoluta incompatibilità, come anche generica o nociva ostilità”; secondo la Parola di Dio, però, per quello che ci riguarda sono tutti quelli che rientrano in Colossesi 1.21-23: “Un tempo anche voi eravate stranieri e nemici, con la mente intenta alle opere cattive; ora egli vi ha riconciliati nel corpo della sua carne mediante la morte, per presentarvi santi, immacolati e irreprensibili dinanzi a lui; purché restiate fondati e fermi nella fede, irremovibili nella speranza del Vangelo che avete ascoltato, il quale è stato annunciato in tutta la creazione che è sotto il cielo, e del quale io, Paolo, sono diventato ministro”. Amen.

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16.22 – IL PRIMO DEI COMANDAMENTI (Marco 12.28-34)

16.22 – Il primo dei comandamenti (Marco 12.28-34)

 

28Allora si avvicinò a lui uno degli scribi che li aveva uditi discutere e, visto come aveva ben risposto a loro, gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». 29Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore30amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza31Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi». 32Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui33amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». 34Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.

 

Dalla lettura del testo di Marco parrebbe che, terminata la questione posta dai sadducei esaminata nello scorso capitolo, si sia fatto avanti uno scriba sottoponendo a Gesù un nuovo tema; in realtà l’episodio coi sadducei si era concluso con le parole di Luca “Non osavano più rivolgergli alcuna domanda” (20-39), “Allora i farisei, avendo udito che aveva chiuso la bocca ai saducei, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della legge, lo interrogò per metterlo alla prova” (Matteo 22.34). Passò quindi un certo tempo tra un episodio e l’altro, poiché “i farisei si riunirono insieme”, presumibilmente nella sala del Sinedrio, poco distante da dove Nostro Signore si trovava. Certo il fine della domanda dello scriba era quello, ancora una volta, di “metterlo alla prova”, ma credo senza la malizia che aveva caratterizzato tutti gli altri che in quel giorno si erano rivolti a Lui. Questo lo dimostra sia il commento al verso 32, ”Hai detto bene, Maestro, e secondo verità” con relativo commento, sia le parole di Gesù, “Non sei lontano dal regno di Dio”.

Tra l’altro, viene anche da pensare che la persona in questione fosse la stessa che gli disse “Maestro, hai parlato bene” nella disputa coi sadducei, facendo il confronto col verso 28, “visto come aveva ben risposto a loro”. Se così fosse avremmo una progressione spirituale perché dall’approvazione alla risposta ai sadducei si passerebbe a una richiesta “per metterlo alla prova”, ma non “per tentarlo”. Il fatto poi che secondo Marco questa persona fosse uno scriba e per Matteo un Dottore della Legge, non deve far gridare alla contraddizione perché le qualifiche di scriba, fariseo e dottore non erano così rigide, ma piuttosto si trattava di competenze, per cui vi erano soli scribi, ma anche scribi, farisei e dottori al tempo stesso.

La domanda posta a Gesù, per gli studiosi delle Scritture, non era semplice ed era molto dibattuta perché, a fronte delle 365 proibizioni e ai 248 obblighi della Legge, si ammetteva che ve ne fossero di più o meno gravi, ma districarsi fra le leggi sui sacrifici, il sabato, la circoncisione, le abluzioni e altri punti era per loro impossibile nel senso che non arrivavano mai a un parere unitario in merito. La frase in risposta al problema del “primo di tutti i comandamenti”, tra l’altro, la leggiamo anche prima della parabola del ”buon samaritano” quando “Un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?» Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gesù gli disse: «Hai risposto bene, fa’ questo e vivrai»” (Luca 10.25-28).

In quell’occasione quel dottore riportò il testo di Deuteronomio 6.5, ma qui abbiamo la citazione dello Shemà, la preghiera che ogni ebreo devoto, allora come oggi, ripete al mattino e alla sera essendo ritenuta la più sacra e che inizia appunto con “Ascolta, Israele!” e poi prosegue con lo stesso testo oltre a 11.13-21 e Numeri 15.37-41. Credo che, a proposito dei due episodi, si tratti di due approcci diversi al problema: nel primo caso un dottore dà una risposta a una domanda di Gesù, nel secondo è Lui stesso a fornirla, ma presentandola come ovvia e unica possibile in quanto a portata di mano di chiunque la recitava; quindi tutti, compreso il popolo minuto, l’aveva memorizzata, ma la ripetevano meccanicamente, con maggiore o minore enfasi, senza riuscire ad andare oltre le semplici parole del testo. Un po’ come accade con la Chiesa di Roma. Qualcuno l’ha definita “La grande confessione della fede nazionale nel Dio vivente e personale”, ma non credo si andasse oltre.

Nel passo di Deuteronomio e nello Shemah si trovano tre elementi, cuore – anima – forza (tradotta anche “maggior potere”), ma nelle parole di Gesù quattro poiché aggiunge “la mente” e sappiamo che il quattro, numero dell’uomo, ha qui riferimento alla sua totalità, quindi ciò di cui è capace a livello tanto costruttivo quanto affettivo.

Sì, ma a questo punto uno potrebbe dire che si tratti di belle parole, ma impossibili da realizzare perché non si può amare in modo così totale un essere in cui si crede, per quanto con forza. È un’affermazione vera e al tempo stesso deviante, che non tiene conto della realtà del tempo in cui il verso fu scritto e soprattutto di ciò che è la fede, che non viene da altro se non dall’esperienza. La fede non è mai un’ipotesi o una speranza, ma si fonda sulla certezza di ciò che si è davanti a Dio. È la dimensione dell’essere con Lui, si esprime così. E qui abbiamo la necessità non di ubbidire, ma dell’acquisire perché, senza di questo, possiamo avere solo una sterile riproduzione di un precetto. Con l’acquisizione, invece, abbiamo elaborazione ed espressione piena e consapevole. Ecco perché Gesù disse “Il mio giogo è dolce e il mio peso leggero” (Matteo 11,30).

Il testo di Deuteronomio 6.5 riporta parole di Dio ad Israele che non furono pronunciate prima: in altri termini, quel comandamento fu emanato quando il popolo aveva dentro di sé, in memoria collettiva, tutti gli interventi che Lui aveva fatto nei suoi confronti e poteva trarre da solo le conclusioni del caso. YHWH non chiedeva un amore senza basi, ma fondato sul fatto che Lui aveva amato per primo, dandone dimostrazione attraverso gli adempimenti alle Sue promesse

Ricordiamo in proposito le parole in Esodo 20: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile” (v.2), che in concreto, per allora, aveva significato questo: “Resero loro amara la vita – gli Egiziani – mediante una dura schiavitù, costringendoli a preparare l’argilla e a fabbricare mattoni, e ad ogni sorta di lavoro nei campi. A tutti questi lavori li obbligarono con durezza. (…) Gli israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio”. (Esodo 1.14; 2.23). E tutti sappiamo le modalità con cui la liberazione avvenne, dalle dieci piaghe dalle quali il popolo fu risparmiato al passaggio del mar Rosso alla manna, all’acqua. L’amare il Signore, quindi, non era qualcosa di richiesto senza presupposti, ma il naturale evolversi di una relazione.

Il libro dell’Esodo è quello del cammino, del percorso fra la schiavitù in un paese straniero alla terra promessa ed è per questo che le vicende del popolo, quanto a cadute e liberazioni, insegnano molto al credente che è impegnato in un cammino simile e che, una volta liberato dal peccato, non può fare altro che amare il Suo Liberatore, pur con tutte le limitatezze del caso dovute alla carne in cui è prigioniero. Conoscerà momenti di entusiasmo e di sconforto, di aderenza e lontananza, insomma l’avverarsi di quel “tempo per ogni cosa” di cui parla Salomone in Ecclesiaste 3.1-15 che, al di là della veridicità delle parole anche in senso letterale, spiritualmente presenta tutte le fasi della vita interiore dell’essere umano di fronte alle quali non può opporsi.

Le parole che Gesù dà con riferimento alla gestione dell’amore per Dio, che abbracciano la totalità dell’uomo, sono “cuore” e “anima”, cioè coinvolgono la vita affettiva e la personalità, la parte razionale (“mente”) e la “forza”, quindi la possibilità di espressione in un insieme paragonabile al profumo, che sappiamo doveva essere realizzato con parti uguali dei suoi componenti. Se si amasse solo col cuore, si cadrebbe nel sentimentalismo causa di tanti fraintendimenti. Se si amasse solo con la mente, diventeremmo degli aridi, dei teorici, degli insensibili. Se usassimo solo la forza, saremmo degli asceti fini a loro stessi, con solo l’anima vivremmo una vita di contraddizioni perché essa è la nostra psiche: quindi è nella misura in cui i quattro elementi convivono in noi che avremo possibilità di evitare errori di condotta, nella testimonianza e naturalmente nella nostra relazione con Dio.

Una volta conosciutoLo, potremo amarlo. Non prima, che è piuttosto il tempo dedicato alla ricerca, alle domande. Così si potranno realizzare le conseguenze di cui al Salmo 1: “Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, non resta nella vita dei peccatori e non siede in compagnia degli arroganti, ma nella legge del Signore trova la sua gioia, la sua legge medita giorno e notte. Egli sarà come un albero piantato lungo corsi d’acqua, che dà frutto a suo tempo: le sue foglie non appassiscono e tutto quello che fa, riesce bene. Non così, non così i malvagi, ma come pula che il vento disperde: perciò non si alzeranno i malvagi nel giudizio né i peccatori nell’assemblea dei giusti, poiché il Signore veglia sul cammino dei giusti, mentre la via dei malvagi va in rovina”.

Credo che, al di là della perfetta intellegibilità di questo Salmo, sia necessario considerare che la beatitudine non si realizza perché ci si esenta dal frequentare persone negative, ma nel trovare gioia nella “legge del Signore”, per noi nella Sua Parola, e relativa, continua meditazione. Credo che sia una concreta descrizione di cosa significhi “Amerai il Signore Iddio tuo”. Il punto chiave non è nell’evitare malvagi e peccatori, neppure il meditare giorno e notte, ma la “gioia” che deriva dallo stare “nella legge del Signore” nei termini che abbiamo usato.

Nonostante siamo credenti, nonostante come tali siamo protetti dall’amore di Cristo, senza quel “medita giorno e notte”, riferimento alla continuità nel tempo e non a una vita senza sonno, non avremmo la “gioia” che porterà a 2 Corinti 9.7, “Dio ama chi dona con gioia”. Il costretto, il riluttante, l’abitudinario, il non spontaneo, sono incompatibili. Senza meditazione sulla Parola, senza una vita equamente impostata, cadremo vittime prima di noi stessi e poi di altri.

Il Salmo prosegue poi con il paragone dell’ “albero piantato lungo i corsi d’acqua”, quindi senza avere il problema del patire le conseguenze della siccità, essendo comunque ben radicato, con foglie che non appassiscono né per la mancanza di piogge e neppure per un giudizio come fu nel caso del fico sterile che iniziò a morire proprio a partire dalle foglie.

C’è poi il malvagio, del quale non è detto che per forza condurrà una vita terrena tribolata o pagando per le sue colpe mentre è nel corpo (per quanto così avviene per molti di loro), ma che non sarà in grado di sopravvivere nonostante creda il contrario: “non si alzerà nel giudizio” cioè ne sarà schiacciato, né potrà in alcun modo comparire nell’ “assemblea dei giusti”, vale a dire partecipare alla “festa di nozze” e alla nuova creazione.

Tornando al nostro testo, Gesù prosegue dicendo “Il secondo è questo”: in ordine di importanza e come conseguenza del primo nel senso che, se l’amore per il Signore sarà autentico, quello per il prossimo sarà la diretta conseguenza. Definendolo “secondo” Nostro Signore stabilisce un rapporto di reciprocità, vale a dire che non può esistere amore autentico per Dio senza un amore altrettanto autentico per il prossimo. Anche qui non si tratta di un sentimento generico, ma questa volta di immedesimazione, cosa che Gesù ha fatto arrivando a dare sé stesso in sacrificio per noi.

A ben vedere, la frase “Non c’è comandamento più grande di questi” appare curiosa, perché avrebbe dovuto dire “non ci sono comandamenti più grandi”, ma il fatto che “comandamento” sia al singolare e “questi” al plurale ci parla di come, pur essendo distinti, si compendiano reciprocamente.

Il principio, lo abbiamo letto, fu compreso da quello scriba che lo commentò arrivando ad esprimere un concetto che Gesù espose più volte, vale a dire che quanto contenuto nel comandamento/i valeva “più di tutti gli olocausti e i sacrifici”, quindi di quegli aspetti che, per quanto ordinati, potevano diventare degli atteggiamenti esteriori, delle formalità da adempiere e presto dimenticare.

Una simile affermazione, frutto di un ragionamento importante, rendeva quell’uomo “non lontano dal regno di Dio”, cioè vicino, ma non dentro. Aveva capito molto, ma non abbastanza perché non serve essere “buoni” o comprendere dei princìpi o praticarli, ma occorre essere salvati, accettare quel dono gratuito che eleva la persona da creatura a figlio. A quello scriba mancava ancora quel senso di desolazione infinita ed altrettanto infinita inadeguatezza che si prova nel momento in cui ci si confronta con Colui che è, la consapevolezza della immensa distanza per cui si chiede di appartenergli tramite l’unico intervento risolutivo possibile visto nel sacrificio di Gesù. Amen.

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