16.26 – CONTRO I FARISEI III/III (Matteo 23.23-27)

16.26 – Contro i farisei III (Matteo 23.23-27)

 

23Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima sulla menta, sull’anéto e sul cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della Legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste invece erano le cose da fare, senza tralasciare quelle. 24Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!25Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma all’interno sono pieni di avidità e d’intemperanza. 26Fariseo cieco, pulisci prima l’interno del bicchiere, perché anche l’esterno diventi pulito!27Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che assomigliate a sepolcri imbiancati: all’esterno appaiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume. 28Così anche voi: all’esterno apparite giusti davanti alla gente, ma dentro siete pieni di ipocrisia e di iniquità.29Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che costruite le tombe dei profeti e adornate i sepolcri dei giusti, 30e dite: «Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non saremmo stati loro complici nel versare il sangue dei profeti». 31Così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli di chi uccise i profeti. 32Ebbene, voi colmate la misura dei vostri padri. 33Serpenti, razza di vipere, come potrete sfuggire alla condanna della Geènna? 34Perciò ecco, io mando a voi profeti, sapienti e scribi: di questi, alcuni li ucciderete e crocifiggerete, altri li flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città; 35perché ricada su di voi tutto il sangue innocente versato sulla terra, dal sangue di Abele il giusto fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachia, che avete ucciso tra il santuario e l’altare. 36In verità io vi dico: tutte queste cose ricadranno su questa generazione.

 

 

Prima di iniziare quest’ultima parte, va ricordato che diverse frasi sono già state analizzate in altre riflessioni per cui verranno solo accennate, aggiungendo qualche particolare. Dalla lettura di questi versi abbiamo un completamento delle qualifiche date agli oppositori di Gesù nello scorso capitolo: qui “ipocriti” è ripetuto quattro volte per un totale di sei (o sette considerando il verso 14 come proprio di Matteo); poi ancora “guide cieche”, qui una per un totale di due, “fariseo cieco”, “Serpenti, razza di vipere”, stessa definizione data loro da Giovanni Battista.

Si tratta di ruoli o posizioni interconnessi potremmo dire “a cascata” nel senso che l’ipocrisia è un modo di essere che, portando subito alla distanza da Dio, genera tutte le altre, cioè la cecità, vale a dire l’impossibilità di arrivare a un qualsiasi risultato spirituale; è la pericolosità vista nel veleno mortale che gli ipocriti si portano dentro, quello di Caino e della sua discendenza. Essi infatti usarono lo stesso metodo, il primo simulando atteggiamenti spirituali fino all’omicidio del fratello, gli altri sostituendosi a Dio prima e inventando una religione dopo.

Esaminiamo quindi, con l’aggiornamento che la nostra lettura ci ha dato, l’ipocrisia, che si manifesta nei metodi descritti ai versi 23, 25, 27 e 29: abbiamo prima il pagare le decime sulle erbe (commestibili) secondo l’interpretazione farisaica di Levitico 27.30, “Ogni decima della terra, cioè delle granaglie del suolo e dei frutti degli alberi, appartiene al Signore: è cosa consacrata al Signore. Se uno vuol riscattare una parte della sua decima, vi aggiungerà un quinto”. L’istituzione della decima risale a prima ancora che venisse comandata, profeticamente data da Abramo a Melchisedek quando leggiamo che “gli diede la decima di tutto” (Genesi 24.20) e da Giacobbe con le parole “Di quanto mi darai, io ti offrirò la decima”.

Quando fu codificata, questa era un modo per ricordare all’uomo che era sempre e comunque debitore nei confronti di Dio che provvedeva al suo sostentamento coi frutti della terra e col moltiplicarsi del bestiame, segno della Sua benevolenza e soprattutto benedizione che contemplava comunque una condotta retta davanti a Lui, come ricordato tante volte. La decima poi non era solo un dieci per cento dovuto, ma conteneva in sé le esigenze di YHWH come morale e comportamento.

L’agire degli scribi e farisei però si discostava enormemente da questo sistema perché avevano finito col ridurre tutto, ancora una volta, a un atto del tutto formale, senza alcuna connessione col mondo interiore: ben poca cosa era dare la decima, privandosene, a fronte del praticare “la giustizia, la misericordia e la fedeltà”, quando esse avrebbero dovuto costituire, come Gesù stesso dice, un tutt’uno. Anche oggi si registra lo stesso comportamento in tutti coloro che magari frequentano le riunioni di Chiesa una volta alla settimana, magari pregano o fanno “opere buone”, ma poi si guardano bene dal praticare una vita alla luce delle tre pratiche indicate, cioè la “giustizia”, primo principio della quale è non avere “doppi pesi e doppie misure”, cioè praticare il favoritismo e giudicare in base alle proprie simpatie e antipatie o all’importanza delle persone nella società, la “misericordia”, cioè l’immedesimarsi nel prossimo, capirlo, praticare il perdóno, e la “fedeltà”, vale a dire la continuità, l’osservare la parola data, il rispetto di quei princìpi che la Parola di Dio insegna e indica. Fedeltà è coerenza.

Gesù non dà qui un insegnamento nuovo, ma ricorda quanto lo spirito ipocrita degli scribi e farisei aveva loro fatto dimenticare: “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che il Signore richiede da te: praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio” (Michea 6.8).

Al verso 25 abbiamo la pulizia “del bicchiere e del piatto” che veniva praticata non tanto come norma di igiene, ma per evitare l’impurità cerimoniale; ricordiamo che i discepoli furono criticati per questo in Marco 7.5, “Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?”: infatti “i farisei e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti” (vv. 3,4).

Ora qui il discorso non è di igiene e profilassi, ma riguarda il sistema contro l’impurità, che veniva rigidamente osservato per quanto riguardava gli oggetti, ma senza considerare il fatto che, prima di pulirli “religiosamente”, occorreva guardarsi dentro, visto che anche l’uomo è un contenitore in cui si possono annidare impurità ben peggiori ed è a questo che Nostro Signore allude: certo scribi e farisei non pulivano solo l’esterno di piatti e bicchieri, ma non pensavano a rimuovere quanto di negativo era in loro. Anche qui rileviamo l’assoluta inutilità del simbolo che, invece di aiutare la comprensione, allontana l’uomo dalla pratica: se le stoviglie mi rappresentano, va da sé che se pulisco accuratamente loro, ma non altrettanto me, metto la mia relazione con Dio fuori gioco, non so se riesco a rendere l’idea.

Quegli utensili non potevano essere certo “pieni di avidità e intemperanza”, ma scribi e farisei, per lo meno quelli cui si rivolge Gesù, certamente sì. Pulire “prima” il loro interno, cioè ammettere ciò che erano, constatare il fatto della loro impurità a meno di un intervento di Dio, li avrebbe certo portati a Lui e al Figlio che era in mezzo a loro. Questa è l’unica forma di igiene possibile anche oggi, e mi vengono in mente le parole di un Monsignore che disse “Ogni individuo dev’essere prima onesto e poi cristiano”, che se lette correttamente aiutano a comprendere il rapporto tra Colui che è perfetto e l’essere umano che, se si accosta a Lui, non può certo farlo con uno spirito ipocrita. Se la semplice onestà non può salvare, certo mette Dio in condizione di agire, come quello scriba che si sentì dire “Tu non sei lontano dal regno di Dio”. Certo di “non lontani” teorici ne conosco tanti, ma quanti di loro avranno il coraggio e la disponibilità di fare quel passo decisivo verso Cristo per essere salvati?

Il verso 27 riguarda i “sepolcri imbiancati”, riferimento all’uso, al 15 del mese di Adar corrispondente al nostro febbraio – marzo, di imbiancare non solo le tombe, ma spesso anche l’area che le conteneva. Ciò non avveniva per motivi decorativi, ma per segnalare un terreno dove le persone avrebbero potuto contrarre impurità. Luca 11.44 aiuta a comprendere meglio ciò che vuol dire Gesù con le parole “Guai a voi, perché siete come quei sepolcri che non si vedono e la gente vi passa sopra senza saperlo”, di qui la necessità del bianco.

Quindi scribi e farisei, con le loro vesti e i loro atteggiamenti ostentati, nascondevano ciò che realmente avevano dentro cioè non solo un cuore non rigenerato, ma anche contaminato e contaminante, in grado di non fare entrare nel regno di Dio quelli che avrebbero voluto. Poi, riguardo a Luca, così come una persona si contamina passando sopra un sepolcro che non si vede, la stessa impurità la si contrae avendo a che fare con loro.

Il verso 29, “costruite le tombe dei profeti e adornate i sepolcri dei giusti” rappresenta l’ultima forma di ipocrisia qui denunciata, ancora più pesante in Luca 11.47,48, “Guai a voi, che costruite i sepolcri dei profeti, e i vostri padri li hanno uccisi. Così voi testimoniate e approvate le opere dei vostri padri: essi li uccisero e voi costruite”: apparentemente quindi quella gente onorava la memoria dei profeti, ma di fatto conservava in sé lo stesso sentimento omicida detenuto dai loro padri verso quanti che dei “profeti” erano i successori, per non parlare dello stesso Gesù. Adornando i sepolcri dei profeti, il popolo li reputava degni di onore e quella era “la loro ricompensa”. Tutto, quindi, era ipocrisia, azione senza una destinazione spirituale vera.

Al verso 33 scribi e farisei vengono indicati con le parole “Serpenti” e “razza – o “progenie”di vipere”: la prima, “Serpenti”, è usata per indicarne l’astuzia secondo Genesi 3.1 dove leggiamo che “Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto” e al tempo stesso richiama la sentenza contro di lui al verso 15, “Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la sua stirpe e la tua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”. Inevitabile quindi che scribi e farisei tramassero contro Gesù e riuscissero alla fine a ferirlo, ma trovando così la loro fine.

“Progenie di vipere” fa proprio riferimento al fatto che discendessero, moralmente e spiritualmente, proprio dall’Avversario: la vipera attacca solo se si sente minacciata – e i farisei fecero proprio così – e il suo morso, pur essendo letale per l’uomo in rari casi, provoca alterazione nella coagulazione del sangue con emorragie e possibili trombi, con rischio di embolia polmonare e danno renale; poi, contenendo il suo veleno neurotossine, causa paralisi dei muscoli.

Il danno che il “morso” degli scribi e farisei provoca, quindi, consiste nell’alterare, intossicandolo profondamente, la capacità dell’uomo di agire, quindi per relazione il suo rapporto con Dio. Nel “morso” vediamo anche trasmissione di atteggiamento e di mentalità perché l’aderire a una religione consente di avere una parvenza di rispettabilità continuando a fare le stesse cose di prima. La qualifica di “vipere”, quindi, non allude alla perfidia e alla malignità come comunemente intesa dalla tradizione popolare, ma al veleno posseduto, alla tossicità delle dottrine e dei comportamenti.

Infine occorre ragionare sul significato del “Perciò io vi mando”, da connettere ai versi 29 e 30: si tratta di una predizione di Gesù che, parafrasata, suona così: “A conferma del fatto che, nonostante il vostro apparente rispetto per i profeti che i vostri padri hanno ucciso, siete uguali a loro, quando ve ne manderò altri li tratterete allo stesso modo”. Si noti che questo plurale non si riferisce alle persone presenti, ma a tutti coloro che hanno lo stesso sistema di ragionamento. È chiaro che il “li perseguiterete di città in città” è un riferimento a quanto subìto dall’apostolo Paolo che, parlando nelle sinagoghe di varie città – ecco l’ “Io vi mando” –, si attirò l’ostilità dei Giudei che lo perseguitarono (Atti 14.5) e a Listra “Giunsero da Antiochia e da Iconio alcuni Giudei, i quali persuasero la folla. Essi lapidarono Paolo e lo trascinarono fuori dalla città, credendolo morto” (v.19). Pensiamo in che condizioni lasciarono quest’uomo, ferito e lacero, oltre al tempo che abbia impiegato per guarire, oltre che al dolore fisico da lui provato.

Infine, abbiamo il verso 36, “Tutte queste cose ricadranno su questa generazione”, che sappiamo riferirsi a ciò che avvenne nell’anno 70. L’applicazione spirituale però non è tanto porre l’accento sul giudizio che si abbatté su Gerusalemme e i suoi abitanti, ma sul fatto che l’intervento di Dio giunge sempre quando il comportamento dell’umanità arriva a colmare la misura della Sua pazienza: infatti Gerusalemme, come ci aspetteremmo, non fu distrutta in occasione del suo crimine più grande, l’uccisione di Gesù, ma dopo quarant’anni (numero molto eloquente) per dar modo al popolo di ravvedersi ed evitare quanto poi avvenuto.

Così succederà al tempo della fine della pazienza di Dio per – credo – questo nostro tempo, quando la “Grande Babilonia” sarà distrutta “…perché i tuoi mercanti erano i grandi della terra e tutte le nazioni dalle tue droghe furono sedotte. In essa fu trovato il sangue di profeti e di santi e di quanti furono uccisi sulla terra” (Apocalisse 18. 23,24). I “grandi della terra” di cui sentiamo sempre parlare. Le “droghe” coi quali le nazioni furono “sedotte”: l’economia, la pace senza Cristo, il benessere come un diritto, il corporativismo, il mercato globale e tanti altri. Ebbene in questo mondo oramai ai termine, in cui anche la più pallida idea di Dio è messa alla porta, si conoscerà la più amara delle solitudini quando non sarà più possibile porvi rimedio. Amen.

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CONTRO I FARISEI II (Matteo 23.13-22)

16.25 – Contro i farisei II (Matteo 23.13-22)

 

13Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti alla gente; di fatto non entrate voi, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrare. [ 14]15Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, quando lo è divenuto, lo rendete degno della Geenna due volte più di voi.16Guai a voi, guide cieche, che dite: «Se uno giura per il tempio, non conta nulla; se invece uno giura per l’oro del tempio, resta obbligato». 17Stolti e ciechi! Che cosa è più grande: l’oro o il tempio che rende sacro l’oro? 18E dite ancora: «Se uno giura per l’altare, non conta nulla; se invece uno giura per l’offerta che vi sta sopra, resta obbligato». 19Ciechi! Che cosa è più grande: l’offerta o l’altare che rende sacra l’offerta? 20Ebbene, chi giura per l’altare, giura per l’altare e per quanto vi sta sopra; 21e chi giura per il tempio, giura per il tempio e per Colui che lo abita. 22E chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso.

 

Non sarà sfuggita, leggendo il testo, la mancanza del verso 14. Ciò è dovuto al fatto che in alcuni testi antichi è omesso, mentre in altri è anteposto al 13; e si è supposto che sia stato preso da Marco 12.40 (“Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere”) o da Luca 20.47 che impiega parole analoghe.

Sottolineando i termini coi quali vengono definiti gli scribi e farisei in questo passo, “Ipocriti” (due volte), “guide cieche”, “stolti e ciechi” e infine “ciechi”, cerchiamo di svilupparli.

 

IPOCRITI

Il primo, “ipocriti”, in italiano definisce coloro che fingono virtù, qualità o sentimenti che non hanno dissimulando le proprie qualità negative, quei sentimenti di avversione e di malanimo che li animano col fine di ingannare gli altri o di guadagnarsene il favore. “Ipocrita”, in origine dal greco, sappiamo che indicava semplicemente l’attore, cioè chi recita una parte, entra in un personaggio che non corrisponde alla sua persona e quindi a chi è veramente, recita un ruolo che cerca di rappresentare nel modo più efficace possibile. Se quindi questo modo di essere può valere nello spettacolo, essere un attore nella vita reale è qualcosa di negativo perché chi agisce in tal modo lo fa simulando i propri veri scopi. L’ipocrisia dei farisei è l’origine di tutto il negativo che avevano e le conseguenze sono descritte nei versi da 12 a 15. Fra l’altro, quando il termine “ipocriti” appare, nel Vangelo è sempre riferito a un comportamento religioso dove l’esempio più lampante è reperibile in Marco 7.6 in cui leggiamo “Ed egli rispose loro – scribi e farisei –: «Bene ha profetizzato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono il culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini»”.

L’ipocrisia quindi, in questo caso, non è solo finzione, ma deviazione verso l’Avversario visto nelle parole “lontano da me” e “invano”: nel momento in cui si scopre che il prossimo può essere ingannato con atteggiamenti esterni, quindi religiosi, che simulino la fede autentica, ecco che si realizza un ruolo perverso che non può che portare a risultati disastrosi il primo dei quali è “chiudete il regno dei cieli davanti alla gente; di fatto non entrate voi, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrare”.

“Chiudere” invece di aprire, che sarebbe stato teoricamente il ruolo degli scribi e dei farisei che, se non avessero avuto il cuore lontano e non fossero stati ipocriti, avrebbero condotto il popolo verso il Cristo. Luca, in 11.52, fa dire a Gesù in che modo queste persone avrebbero potuto chiudere il regno dei cieli al loro prossimo: “Guai a voi, dottori della Legge, che avete portato via la chiave della conoscenza; voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare lo avete impedito”. E qual è la “chiave”? L’unica possibile è contenuta negli scritti dell’Antico Patto, che tutti loro conoscevano materialmente alla perfezione, ma non spiritualmente. “Portar via la chiave” significa proprio fare in modo che Gesù non fosse riconosciuto come “figlio di Davide”, con tutto quello che segue, così annullando di fatto tutta la Legge che, come sappiamo, è “un pedagogo che porta verso Cristo, perché fossimo giustificati per la fede” (Galati 3.24).

Ricordiamo infatti le parole di Filippo a Natanaele, “Noi abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti”, e dell’apostolo Pietro nella sua prima lettera: “Su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti, che preannunciarono la grazia a voi destinata” (1a 1.10). Quindi Legge e Profeti contenevano una chiave che avrebbe aperto il regno dei cieli, ma le guide religiose del popolo, ancorate alla loro tradizione e non della Parola di Dio, di fatto ne impedivano il possesso. Non resta che concludere che la stessa cosa la fa oggi, come in passato, chiunque introduce dottrine e comportamenti estranei al Vangelo di Gesù Cristo nella Chiesa distogliendo le anime da Lui.

Inseriamo il verso 14, “Guai a voi, scribi e farisei, ipocriti, perché divorate le case delle vedove e ciò, fingendo di far lunghe orazioni; per questo riceverete una maggiore condanna”: abbiamo qui un altro metodo distruttivo in oltraggio a tutti i passi della Legge che proteggeva l’orfano e la vedova, che con la morte del marito si trovava priva di un mezzo di sostentamento, maledicendo in modo particolare i loro oppressori e addirittura chi li maltrattava. Ricordiamo Esodo 22. 21.22, “Non maltratterai la vedova e l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io darò ascolto al suo grido, la mia ira si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani” e altri (Deuteronomio 10.18; 24.17; 27.19) che, in quanto ripetuti come concetto, danno l’idea dell’importanza del tema.

Ebbene, se la Legge proibiva addirittura di prendere “in pegno la veste della vedova”, queste persone le sfruttavano in modo ignobile, inducendole a dar loro una parte del loro reddito (qualora lo avessero, ma di certo era molto misero) con la scusa dell’avanzamento del regno di Dio mentre si servivano di quel denaro per sé, oppure si facevano concedere l’amministrazione dei loro eventuali beni, che naturalmente corrodevano fino a quanto non se ne impadronivano completamente o li esaurivano. Le preghiere di questa gente, che sappiamo sempre ostentate pubblicamente, erano l’arma di cui si servivano contro quelle donne, fatto non nuovo perché già Isaia in 1.15,17 lo denunciava: “Quando stendete le mani – per pregare, mani che avrebbero dovuto essere pure – io distolgo gli occhi da voi. Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei: le vostre mani grondano sangue, Lavatevi, purificatevi, allontanate dai miei occhi il male delle vostre azioni. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano – cosa che non facevano –, difendete la causa della vedova – anziché opprimerla –”.

Abbiamo letto che, a seguito di queste azioni, scribi e farisei riceveranno una “condanna maggiore” proprio perché al reato contro le vedove aggiungevano il pretesto della preghiera e del loro poter progredire dietro offerta.

Il verso 15 riguarda la cura e la metodologia farisaica per fare proseliti: percorrere “il mare e la terra per fare un solo proselito” è un’espressione proverbiale per indicare l’impegno che mettevano nel cercare chi potesse un giorno diventare come loro non tra i connazionali, ma paradossalmente tra i pagani, gli unici che potevano essere chiamati “proseliti”, come abbiamo visto con i Greci che volevano vedere Gesù. Ora, trascinando questi dal paganesimo a un ebraismo vuoto, scribi e farisei li ponevano in una condizione ancora peggiore della prima perché li spostavano da uno stato di ignoranza semplice a una in cui la Verità era a portata di mano, ma la nascondevano e sostituivano con le loro pratiche e precetti.

 

GUIDE CIECHE

Questa seconda definizione ci presenta l’assurdità della situazione e ci fa venire in mente subito la frase “Lasciateli, sono ciechi, guide di ciechi. Se un cieco guida un altro cieco, entrambi cadranno nella fossa” (Matteo15.14; Luca 6.39). L’unico antidoto a questa rovina è in Galati 5. 18 che sostiene la necessità di camminare “secondo lo Spirito” e, guardando l’Antico Patto, nella preghiera di Salomone quando chiese “Ora concedimi saggezza e scienza, perché io possa guidare questo popolo” (2 Cronache 1.10). Ricordiamo che, a seguito di quella richiesta, “Iddio disse a Salomone: «Poiché tu hai avuto in cuore questo, e non mi hai chiesto ricchezze né potere o gloria, né la vita dei tuoi nemici e nemmeno lunga vita, anzi hai chiesto saggezza e scienza per poter guidare il mio popolo sopra il quale ti ho costituito re, saggezza e scienza ti sono date, e anche ti donerò ricchezze, potere e gloria che nessun re ha avuto prima di te, né avranno quelli che verranno dopo»”.

La condizione di “guide cieche” degli oppositori di Gesù, quindi, era mancante già dalle origini nel senso che si affidavano a un sapere umano senza mai confrontarsi con il Solo che avrebbe potuto dar loro la capacità di intendere. E si badi che non è la cecità ad essere vista come un peccato, ma la presunzione e la valutazione positiva che scribi e farisei davano di loro stessi: “Se voi foste ciechi, non avreste alcun peccato, ma siccome dite: «Noi vediamo», il vostro peccato rimane” (Giovanni 9.41).

Ma cosa vedevano, o credevano di vedere, queste persone? Nostro Signore cita due esempi, fra i tanti che poteva portare, tutti riferiti al giuramento, tema da Lui affrontato nel sermone sul monte quando lo proibì dichiarando di attenersi a un “sì” o a un “no”. Scribi e farisei, infatti, dividevano il giuramento in due categorie,  una vincolante e l’altra no, procurandosi quindi un alibi per ingannare il prossimo talché i pagani, conoscendo quest’uso, costringevano gli Ebrei a giurare sul nome di YHWH con la formula “Am hai Elohim”, “Come Dio vive”.

La frase “Se uno giura per l’oro del tempio resta obbligato” trova la sua origine in Esodo 30.28 quando leggiamo “…le loro offerte – del popolo – apparterranno al Signore”, ma questa frase fu interpretata in senso assoluto, dimenticando, penso volutamente, che quelle si trovavano nel Tempio, allora dimora dell’Iddio Vivente e Vero per cui andava da sé che quanto donato veniva santificato in quel luogo.

Questa incapacità di inquadrare correttamente i principi scritturali di cui quelli relativi al giuramento sono solo un esempio, producono la qualifica di

 

STOLTI E CIECHI

Lo stolto è chi ha poca intelligenza e si comporta in modo insensato; qui Gesù fa riferimento a due condizioni, la prima umana e la seconda, la cecità, spirituale. Infatti la stoltezza allude all’incapacità di ragionare e agire in modo sensato, mentre la cecità al non vedere anche le cose macroscopiche: se l’altare veniva consacrato e “tutto ciò che toccherà l’altare sarà sacro” (Esodo 29.37), andava da sé che ciò che quelle persone insegnavano alla gente (vv 18-22) era una cosa assurda a tal punto che Nostro Signore ripete ancora una volta “Ciechi!”, facendo seguire un discorso teso a incentrare la responsabilità che si assume colui che giura, non certo approvandolo.

 

Concludendo questa seconda parte, se considerassimo le parole del passo in esame come storiche o limitate al tempo di Gesù, sbaglieremmo perché altrimenti Matteo le avrebbe riportate in minima parte. Purtroppo, il metodo farisaico è vivo ancora oggi, solo i personaggi sono cambiati e sta alla persona individuarli, visto che l’uomo è sempre lo stesso e soprattutto l’Avversario non può che continuare a ripetersi. E il Figlio Eterno di Dio che ha parlato, non ha mai espresso opinioni, ma solo verità. Amen.

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CONTRO I FARISEI I (Matteo 23.1-12)

16.24 – Contro i farisei I (Matteo 23.1-12)

 

1 Allora Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli 2dicendo: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. 3Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. 4Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. 5Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; 6si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, 7dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati «rabbì» dalla gente. 8Ma voi non fatevi chiamare «rabbì», perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. 9E non chiamate «padre» nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. 10E non fatevi chiamare «guide», perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. 11Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; 12chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato.

 

Il testo di Matteo, rispetto a quello di Marco (12-38-40) e Luca (20.45-47) è molto più dettagliato quanto a interventi ed è certo che comprenda discorsi contro queste persone pronunciati da Gesù anche in altre occasioni. La situazione e il luogo in cui avvenne sono gli stessi degli episodi precedenti e vedono cioè la presenza dei farisei, dei discepoli e della folla; Luca scrive che questo discorso fu pronunciato “Mentre tutto il popolo ascoltava”, quindi tutti udirono sia le parabole che le questioni sorte con tutte le fazioni che costituivano il Sinedrio. Gli scribi e i farisei, infine, ricordiamo che avevano ammesso la loro ignoranza in merito al perché Davide chiamasse “Signore” un suo discendente, quindi “figlio”.

Il verso secondo inizia con la denuncia di un’usurpazione, cioè la “cattedra”, meglio traducibile con “sedia” di Mosè, vale a dire che pretendevano di legiferare come lui, ritenendosi tramiti della volontà di Dio da comunicare al popolo. È questo un evidente riferimento alla legge orale, che i farisei e gli scribi mettevano sullo stesso piano, in totale contrasto con le parole di Deuteronomio 4.2 “Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla, ma osserverete i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo”.

Si può ricordare anche 30.11-14: “Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo perché tu dica: «Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?». Non è al di là dal mare, perché tu dica: «Chi attraverserà per noi il mare, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?». Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica”.

Scribi e Farisei sedevano sulla sedia dei maestri, nella sinagoga, per spiegare la Legge secondo le loro interpretazioni, nel sinedrio e nei tribunali inferiori per applicarla, ma non avevano il diritto di promulgarne di nuove proprio perché avrebbero irrimediabilmente turbato l’equilibrio che Dio aveva istituito. Aggiungendo o togliendo qualsiasi elemento, tutto quanto originariamente promulgato avrebbe perso la sua forza.

Ora, poiché gli insegnamenti di queste persone riguardavano sia la Legge che le sue interpretazioni, con la frase “Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono”, è chiaro che Gesù si riferisca alle prescrizioni ordinate da Dio e non da loro, perché altrimenti vi sarebbe contraddizione con quanto esposto dopo, perché altrimenti approverebbe il legare i “fardelli pesanti e difficili da portare ponendoli sulle spalle della gente”. È, in pratica un invito simile a quello che l’apostolo Paolo rivolge ai Tessalonicesi, cioè “Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono” (1°, 5.21).

Nel dire e non fare degli scribi e farisei – si parla della maggioranza e non dei singoli – null’altro emerge se non la religione nel senso più deleterio del termine, quello che porta la coscienza a cauterizzarsi e in Romani 2, parlando dei Giudei, troviamo descritto molto bene questo atteggiamento: “Ma se tu ti chiami Giudeo e ti riposi sicuro sulla Legge e metti il tuo vanto in Dio, ne conosci la volontà e, istruito dalla Legge, sai discernere ciò che è meglio, e sei convinto di essere guida dei ciechi, luce di coloro che sono nelle tenebre, educatore degli ignoranti, maestro dei semplici, perché nella Legge possiedi l’espressione della conoscenza e della verità… Ebbene, come mai tu, che insegni agli altri, non insegni a te stesso? Tu che predichi di non rubare, rubi? Tu che dici di non commettere adulterio, commetti adulterio? Tu che detesti gli idoli, ne derubi i templi? Tu che ti vanti della Legge, offendi Dio trasgredendola! Infatti sta scritto: Il nome di Dio è bestemmiato per causa vostra tra le genti” (17-24).

Nei versi riportati abbiamo un ritratto ampliato di questi personaggi che certo non andavano a rubare materialmente, ma frodavano gli altri autogiustificandosi, che non commettevano materialmente adulterio, ma concupivano e desideravano talché nessuno di loro, nell’episodio della donna adultera, osò scagliare la pietra per primo. Quel “Tu” che abbiamo letto è rivolto a coscienze non rigenerate dal Vangelo, per cui vale quel “Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”.

Quello che Gesù vuol dire è che, senza lo Spirito Santo, non è possibile spiegare degnamente la Scrittura e infatti, chi non porta il Vangelo della libertà dentro di sé, non può fare altro che legare agli altri pesi importabili, paragone questo con gli animali da soma, come disse l’apostolo Pietro: “Ora dunque perché tentate Dio, imponendo sul collo dei discepoli un giogo che né i nostri padri né noi siamo stati in grado di portare?” (Atti 15.10). Non avendo la Verità dello Spirito, non resta che insegnare l’osservanza della forma, dell’apparenza, ma nel privato tutto questo scompare.

Senza commentare ciò che nel nostro testo è chiaro, vanno citate le filatterie, cioè i tefillin, strisce di pergamena sulle quali erano scritti dei passi della scrittura che venivano piegate e messe in una scatoletta legata sulla fronte, o sul fianco, o sul braccio sinistro, vicino al cuore, durante la preghiera, perché chi le portava si ricordasse di adempiere alla Legge col cuore, con la mente e con il corpo. Fu una pratica utilizzata dopo la cattività di Babilonia interpretando Deuteronomio 6.4-9 “Questi precetti che oggi ti do, ti siano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle porte”. Filatteria, inoltre, deriva dal greco “filaktéria” che significa “salvaguardia, protezione”.

È interessante notare allora che le filatterie certamente racchiudono un significato importante, ma essendo un segno esteriore hanno un valore relativo, che si annulla nel momento in cui, badando esclusivamente ad esse, non si hanno più i “precetti fissi nel cuore” e tutto il resto. Ecco perché leggiamo che “I veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità” (Giovanni 4.23), senza tutte quelle interferenze fuorvianti che sono i simboli paragonabili agli oggetti citati da Nostro Signore come paramenti, statue e oggetti di vario tipo che oggi una parte della cristianità utilizza anteponendoli, purtroppo, alla vera adorazione. E come sempre la critica non è agli oggetti, ma all’utilizzo che se ne fa e al pericolo che rappresentano. I filatteri venivano allargati da scribi e farisei per renderli più visibili e tangibili, ma erano dei sostituti di tutte quelle azioni e pensieri verso Dio di cui erano mancanti.

Abbiamo poi “le frange”, la cui istituzione la troviamo in Numeri 15.37-41: Il Signore parlò a Mosè dicendo così: Parla ai figli di Israele e dì loro che si facciano delle frange agli angoli delle loro vesti in tutte le loro generazioni e mettano sulla frangia dell’angolo un filo di lana azzurra. Esse saranno per voi delle frange, e, quando voi le vedrete, ricorderete tutti i precetti del Signore e li eseguirete e non devierete seguendo il vostro cuore e i vostri occhi perché seguendoli voi diverrete infedeli. Affinché vi ricordiate ed eseguiate tutti i miei precetti e siate santi al vostro Dio. Io, il Signore Dio vostro, che vi feci uscire dalla terra d’Egitto per esservi Iddio, Io, il Signore, sono Dio vostro”.

Le “frange” erano un segno di distinzione rispetto agli altri popoli, una prescrizione ordinata per ricordare ancora una volta che era il comandamento al quale guardare costantemente, al contrario del “cuore” e degli “occhi” che, se seguiti, avrebbero portato all’infedeltà. Il comandamento è ripetuto anche in Deuteronomio 22.12, “Metterai fiocchi alle quattro estremità del mantello con cui ti copri”, quelli che toccò la donna emorroissa dimostrando così di credere in Gesù come Puro e Figlio di Dio, ed è probabile che sia per questo motivo che gli evangelisti distinguano fra “vestiti” (Marco 5.27) e “lembo della veste”, quindi la frangia (Matteo 9.20; Luca 8.44).

Ora nel nostro passo è detto che scribi e farisei “allungano le frange”, cioè le portavano più lunghe di quelle del popolo per apparire più religiosi degli altri. Ancora una volta quindi il simbolo, concepito originariamente per responsabilizzare (come le filatterie), era stato degradato a usanza e alibi perché esso si trasforma facilmente in metodo per apparire che, in quanto tale, sostituisce l’essere, come il proverbio popolare “l’abito non fa il monaco” insegna.

Allo stesso risultato si perviene esaminando le parole “Rabbi”, “Padre” (spirituale) e “guida”, anche questi titoli onorifici particolarmente ricercati dagli scribi e farisei. Dicendo ai Suoi “Non fatevi chiamare «rabbi» perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate «Padre» nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare «guide» perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo”, Gesù ricorda di essere il Solo ad avere il primato su ogni cosa e a non poter essere quindi sostituito, nemmeno in parte, da nessuno.

Ci può essere chi è particolarmente versato nelle Scritture, chi parla per lo Spirito, chi è in grado di spiegare passi complessi e portare messaggi edificanti, ma questo non può essere mai scambiato per chi non può essere, cioè un perfetto, trasformandosi in uno che pretende onori, fama e di essere seguìto in tutto ciò che dice di fare. E se volessimo stilare un elenco, gli scribi e i farisei di oggi li rinveniamo in tutti coloro che, invece di svolgere il loro ufficio di pastori, dottori o evangelisti nella Chiesa, fanno in modo di essere al centro dell’attenzione incentrando su di sé ciò che andrebbe rivolto a Dio.

È un tema molto complesso, ma che si può sintetizzare nel fatto che l’orgoglio umano, in campo cristiano, porta inevitabilmente a comportamenti devianti (gli stessi del mondo) per i quali non esiste che un solo antidoto, la rinuncia a se stessi che si cela nell’ultimo verso in esame, “Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo”, che ribalta completamente il concetto e l’uso che il mondo ha della persona; anche in quel campo, molti sono coloro che hanno titoli e ricoprono Uffici che non sono affatto consoni alla loro persona. Eppure, nonostante siano degli usurpatori, si cullano in essi e pretendono un onore che non gli spetta. E purtroppo lo stesso avviene nella Chiesa, o nelle Chiese, perché questa è la mentalità dell’uomo attaccato alla terra. La persona spirituale, infatti, cercherà solo l’approvazione di Dio e in questo suo desiderio non potrà altro che vedersi mancante. E prostrarsi dinnanzi a chi, nonostante tutto, lo ha amato e liberato. Amen.

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16.23 – FIGLIO DI DAVIDE E SIGNORE (Matteo 22-41-46)

16.23 – Figlio di Davide e Signore (Matteo 22.41-46)

 

41Mentre i farisei erano riuniti insieme, Gesù chiese loro 42«Che cosa pensate del Cristo? Di chi è figlio?». Gli risposero: «Di Davide».43Disse loro: «Come mai allora Davide, mosso dallo Spirito, lo chiama Signore, dicendo: 44Disse il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici sotto i tuoi piedi.45Se dunque Davide lo chiama Signore, come può essere suo figlio?». 46Nessuno era in grado di risponderli e, da quel giorno, nessuno osò più interrogarlo.

 

Secondo la cronologia di Matteo riguardo al martedì della settimana della Passione, troviamo i farisei riuniti assieme per tre volte, due chiaramente per attaccare Gesù, ma non è detto il motivo della terza, quella che abbiamo letto al verso 41. Pensavano di nuovo al modo migliore per eliminarLo oppure, per evitare di ammettere la loro sconfitta, erano intenti in altre questioni? Non ci è detto da nessuno dei Sinottici, fatto sta che Gesù li raggiunge ed è Lui a interrogarli affrontandoli sul loro terreno dialettico, vale a dire con un quesito alla cui soluzione ne fanno seguito altri, sempre sullo stesso tema, ma costringendo l’interlocutore ad un approfondimento.

Solitamente le discussioni farisaiche e rabbiniche consistevano proprio in questo, cioè partivano da un passo di Scrittura per poi procedere a un suo sviluppo: una domanda sul testo generava una risposta che costituiva il nuovo punto di partenza per una discussione e così via, proprio come in questo caso, anche se la questione viene presto interrotta per manifesta incapacità a rispondere da parte dei farisei, persone certamente avvezze al testo sacro e a sviluppare dottrinalmente un concetto. Da Marco 12.35 che riporta lo stesso episodio dicendo “Insegnando nel tempio Gesù prese a dire: «Come dicono gli scribi che il Cristo è figlio di Davide?»”, è evidente che la breve discussione avvenne in un luogo aperto, quindi ancora una volta nel cortile dei Gentili.

Ora credo che affrontare il tema Davide sotto il profilo biografico o quello di uomo di Dio richiederebbe molto tempo, mentre può essere interessante esaminarlo, in piccola parte, nel suo ruolo di profeta riguardo a Gesù tenendo presente le sue ultime parole in 2 Samuele 23.2, “Lo Spirito del Signore è sopra di me, la sua parola è sulla mia lingua”, che lo qualificano come tale. Nei suoi Salmi molto parlò del Cristo arrivando a descrivere non solo le Sue sofferenze, ma accennando anche del traditore fra i Dodici e parte di quanto da lui detto fu utilizzata dall’apostolo Pietro, illuminato dallo Spirito, ad esempio, in Atti 1.16 “Fratelli, era necessario che si compisse ciò che nella Scrittura fu predetto dallo Spirito Santo per bocca di Davide riguardo a Giuda, diventato la guida di quelli che arrestarono Gesù”.

In proposito abbiamo il Salmo 69.26-29, riguardo ai persecutori del Cristo, “Il loro accampamento sia desolato, senza abitanti la loro tenda; perché inseguono colui che hai percosso, aggiungono dolore a chi tu hai ferito. Aggiungi per loro colpa su colpa e non possano appellarsi alla tua giustizia. Dal libro dei viventi siano cancellati e non siano iscritti tra i giusti”. Ancora riguardo a Giuda, Davide riporta tutta una serie di dati che aiutano molto a comprenderlo quando a personalità e destino: “Mi rendono male per bene e odio in cambio del mio amore. Suscita un malvagio contro di lui e un accusatore stia alla sua destra! Citato in giudizio, ne esca colpevole e la sua preghiera si trasformi in peccato. Pochi siamo i suoi giorni e il suo posto lo occupi un altro. I suoi figli rimangano orfani e vedova sua moglie. Vadano raminghi i suoi figli, mendicando, rovistino fra le loro rovine. L’usuraio divori tutti i suoi averi e gli estranei saccheggino il frutto delle sue fatiche. Nessuno gli dimostri clemenza, nessuno abbia pietà dei suoi orfani. La sua discendenza sia votata allo sterminio, nella generazione che segue sia cancellato il suo nome. (…) Si è avvolto di maledizione come di una veste: è penetrata come acqua nel suo intimo e come olio nelle sue ossa. Sia per lui come vestito che lo avvolge, come cintura che sempre lo cinge”.

La correlazione fra Davide e Gesù è sviluppata in alcuni passi del Nuovo testamento, ad esempio Atti 2.30,31 in cui è Pietro a parlare: “Ma poiché – Davide – era profeta e sapeva che Dio gli aveva giurato solennemente di far sedere sul suo trono un suo discendente, previde la risurrezione di Cristo e ne parlò: questi non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne subì la corruzione”. “Sapeva che gli aveva giurato solennemente” perché in Salmo 132.11 si legge “Il Signore ha giurato a Davide, promessa da cui non torna indietro: «Il frutto delle tue viscere io metterò sul tuo trono!”, “perché non abbandonerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda la fossa” (Salmo 16.10). E Pietro, ormai trasformato dallo Spirito e dalla Grazia, con una mente rinnovata, specificò che “Non da volontà umana è mai venuta nessuna profezia, ma mossi dallo Spirito Santo parlarono alcuni uomini da parte di Dio” (2° 1.21).

 

Ora, tornando all’episodio dopo avere aperto una finestra che credo necessaria su un aspetto di Davide come profeta, Gesù inizia il Suo intervento con una domanda molto semplice, alla quale scribi e farisei rispondono senza alcuna esitazione e, viene da pensare, coralmente: “«Che cosa pensate del Cristo? Di chi è figlio?». Gli risposero: «Di Davide»”. E infatti “Figlio di Davide” era il titolo che per l’ebraismo spettava al Messia; fu riconosciuto come tale nei Vangeli da tutti coloro che lo chiamarono in quel modo, come la donna Sirofenicia, i due mendicanti ciechi di Capernaum, Bartimeo a Gerico, la folla che due giorni prima a Gerusalemme Lo aveva acclamato come tale, e i bambini quando giunse nel tempio.

Il Messia però, per l’ebraismo, doveva essere solo e semplicemente un uomo come dalla frase “Noi tutti pensiamo che il Cristo sarà un uomo nato da genitori umani” che troviamo nei “dialoghi con Trifone” di Giustino (II sec.). Uomo come gli altri certo nell’aspetto esteriore, ma non per tutto quello che disse e fece fino alla Sua risurrezione e ascensione al cielo.

 

La seconda parte della domanda di Gesù ai farisei ci riporta a Davide che questa volta, nel suo Samo 110 che già allora si riteneva messianico, inizia con “Oracolo del Signore al mio Signore: «Siedi alla mia destra finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi»”, andando oltre la descrizione del Messia sofferente data in altri Salmi, per presentarlo chiaramente vittorioso. Quindi la domanda, precisamente impostata sul ragionamento farisaico direi col preciso scopo di generare un corto circuito, era posta affinché quelle persone riunite chiarissero come Davide potesse chiamare “Signore” uno che era suo discendente e che i profeti e non solo chiamavano suo “figlio”.

Ora Davide, nell’apertura del suo Salmo profetico, vede e quindi scrive che dalla propria discendenza, quindi “figlio” secondo la carne, uscirà Uno che sarà anche “Signore” nel senso di Dio. Certo il Gesù uomo era “figlio di Davide” quanto a genealogia, ma per la parte divina certamente no, essendo Davide semplicemente un uomo, come vedremo citando la lettera agli Ebrei.

Scrivendo “Disse il Signore al mio Signore” abbiamo soggetto e complemento diversi, ma identici nel nome. “Il Signore” è chiaramente Dio Padre, l’Assoluto, il Creatore, mentre “al mio Signore” è un riferimento a Colui che è più vicino, col quale si instaura una relazione reciproca, con cui il profeta parlava e vedeva in Spirito a tal punto di scrivere di Lui nei suoi Salmi. È il possessivo “mio” ad aprire le porte della salvezza, l’identificazione, il riferimento.

Ciò che quindi il Padre dice al Figlio, “Siedi alla mia destra…”, rimarrà un’iscrizione misteriosa, per quanto all’interno di un Salmo riconosciuto messianico, fino a quando non avremo la rivelazione di Gesù e di chi, nel Nuovo Testamento, provvederà a spiegarla, ancora una volta l’apostolo Pietro nel giorno di Pentecoste in Atti 2.29-35: “Fratelli, mi sia lecito dirvi francamente, riguardo al patriarca Davide, che egli morì e fu sepolto e il suo sepolcro è ancora oggi fra noi. Ma poiché era profeta e sapeva che Dio gli aveva giurato solennemente di far sedere al trono un suo discendente, previde la resurrezione di Cristo e ne parlò: questi non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne subì la corruzione. Questo Gesù, Dio lo ha resuscitato e noi tutti ne siamo testimoni – altrimenti se ne sarebbero tornati alla loro quieta vita di un tempo –. Innalzato dunque alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire. Davide infatti non salì al cielo, tuttavia egli dice: «Disse il Signore al mio Signore: siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici come sgabello dei tuoi piedi». Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso”.

Proseguiamo nella lettura dei testi in merito, l’apostolo Paolo nella sua prima lettera ai Corinti scrive: “È necessario che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi” (15.27-25), dove il “…regni finché” è riferito all’attesa, al fatto che il Cristo vive e regna nel mondo spirituale nell’attesa che possa appropriarsi definitivamente del nuovo, in cui la morte sarà l’ultimo nemico annientato perché Satana non avrà più alcuna possibilità di vita e quindi non esisterà più il suo strumento prediletto, morte del corpo, ma soprattutto dell’anima.

Vediamo infine la risposta teologica alla domanda di Gesù alla quale i Suoi avversari non seppero rispondere: Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato. Infatti, a quale degli angeli Dio ha mai detto: Tu sei mio figlio, oggi ti ho generato? E ancora: Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio? Quando invece introduce il primogenito nel mondo, dice: Lo adorino tutti gli angeli di Dio. Mentre degli angeli dice: Egli fa i suoi angeli simili al vento, e i suoi ministri come fiamma di fuoco, al Figlio invece dice: Il tuo trono, Dio, sta nei secoli dei secoli; e: Lo scettro del tuo regno è scettro di equità; hai amato la giustizia e odiato l’iniquità,
perciò Dio, il tuo Dio, ti ha consacrato con olio di esultanza, a preferenza dei tuoi compagni.
E ancora:
In principio tu, Signore, hai fondato la terra e i cieli sono opera delle tue mani.
Essi periranno, ma tu rimani; tutti si logoreranno come un vestito. Come un mantello li avvolgerai, come un vestito anch’essi saranno cambiati; ma tu rimani lo stesso e i tuoi anni non avranno fine.
E a quale degli angeli poi ha mai detto:
Siedi alla mia destra, finché io non abbia messo i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi?” (Ebrei 1.3.13).

Infine, sempre Ebrei 10.11-14 “Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati. Cristo, invece, avendo offerto un solo sacrificio per i peccati, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi. Infatti, con un’unica offerta egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati”.

I “nemici”: chi sono? Secondo il dizionario, come sostantivo, così è “chi si atteggia o si comporta in modo da provocare il danno e la sconfitta altrui”, ma come aggettivo “avversione decisa e assoluta incompatibilità, come anche generica o nociva ostilità”; secondo la Parola di Dio, però, per quello che ci riguarda sono tutti quelli che rientrano in Colossesi 1.21-23: “Un tempo anche voi eravate stranieri e nemici, con la mente intenta alle opere cattive; ora egli vi ha riconciliati nel corpo della sua carne mediante la morte, per presentarvi santi, immacolati e irreprensibili dinanzi a lui; purché restiate fondati e fermi nella fede, irremovibili nella speranza del Vangelo che avete ascoltato, il quale è stato annunciato in tutta la creazione che è sotto il cielo, e del quale io, Paolo, sono diventato ministro”. Amen.

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16.22 – IL PRIMO DEI COMANDAMENTI (Marco 12.28-34)

16.22 – Il primo dei comandamenti (Marco 12.28-34)

 

28Allora si avvicinò a lui uno degli scribi che li aveva uditi discutere e, visto come aveva ben risposto a loro, gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». 29Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore30amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza31Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c’è altro comandamento più grande di questi». 32Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui33amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». 34Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.

 

Dalla lettura del testo di Marco parrebbe che, terminata la questione posta dai sadducei esaminata nello scorso capitolo, si sia fatto avanti uno scriba sottoponendo a Gesù un nuovo tema; in realtà l’episodio coi sadducei si era concluso con le parole di Luca “Non osavano più rivolgergli alcuna domanda” (20-39), “Allora i farisei, avendo udito che aveva chiuso la bocca ai saducei, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della legge, lo interrogò per metterlo alla prova” (Matteo 22.34). Passò quindi un certo tempo tra un episodio e l’altro, poiché “i farisei si riunirono insieme”, presumibilmente nella sala del Sinedrio, poco distante da dove Nostro Signore si trovava. Certo il fine della domanda dello scriba era quello, ancora una volta, di “metterlo alla prova”, ma credo senza la malizia che aveva caratterizzato tutti gli altri che in quel giorno si erano rivolti a Lui. Questo lo dimostra sia il commento al verso 32, ”Hai detto bene, Maestro, e secondo verità” con relativo commento, sia le parole di Gesù, “Non sei lontano dal regno di Dio”.

Tra l’altro, viene anche da pensare che la persona in questione fosse la stessa che gli disse “Maestro, hai parlato bene” nella disputa coi sadducei, facendo il confronto col verso 28, “visto come aveva ben risposto a loro”. Se così fosse avremmo una progressione spirituale perché dall’approvazione alla risposta ai sadducei si passerebbe a una richiesta “per metterlo alla prova”, ma non “per tentarlo”. Il fatto poi che secondo Marco questa persona fosse uno scriba e per Matteo un Dottore della Legge, non deve far gridare alla contraddizione perché le qualifiche di scriba, fariseo e dottore non erano così rigide, ma piuttosto si trattava di competenze, per cui vi erano soli scribi, ma anche scribi, farisei e dottori al tempo stesso.

La domanda posta a Gesù, per gli studiosi delle Scritture, non era semplice ed era molto dibattuta perché, a fronte delle 365 proibizioni e ai 248 obblighi della Legge, si ammetteva che ve ne fossero di più o meno gravi, ma districarsi fra le leggi sui sacrifici, il sabato, la circoncisione, le abluzioni e altri punti era per loro impossibile nel senso che non arrivavano mai a un parere unitario in merito. La frase in risposta al problema del “primo di tutti i comandamenti”, tra l’altro, la leggiamo anche prima della parabola del ”buon samaritano” quando “Un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?» Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gesù gli disse: «Hai risposto bene, fa’ questo e vivrai»” (Luca 10.25-28).

In quell’occasione quel dottore riportò il testo di Deuteronomio 6.5, ma qui abbiamo la citazione dello Shemà, la preghiera che ogni ebreo devoto, allora come oggi, ripete al mattino e alla sera essendo ritenuta la più sacra e che inizia appunto con “Ascolta, Israele!” e poi prosegue con lo stesso testo oltre a 11.13-21 e Numeri 15.37-41. Credo che, a proposito dei due episodi, si tratti di due approcci diversi al problema: nel primo caso un dottore dà una risposta a una domanda di Gesù, nel secondo è Lui stesso a fornirla, ma presentandola come ovvia e unica possibile in quanto a portata di mano di chiunque la recitava; quindi tutti, compreso il popolo minuto, l’aveva memorizzata, ma la ripetevano meccanicamente, con maggiore o minore enfasi, senza riuscire ad andare oltre le semplici parole del testo. Un po’ come accade con la Chiesa di Roma. Qualcuno l’ha definita “La grande confessione della fede nazionale nel Dio vivente e personale”, ma non credo si andasse oltre.

Nel passo di Deuteronomio e nello Shemah si trovano tre elementi, cuore – anima – forza (tradotta anche “maggior potere”), ma nelle parole di Gesù quattro poiché aggiunge “la mente” e sappiamo che il quattro, numero dell’uomo, ha qui riferimento alla sua totalità, quindi ciò di cui è capace a livello tanto costruttivo quanto affettivo.

Sì, ma a questo punto uno potrebbe dire che si tratti di belle parole, ma impossibili da realizzare perché non si può amare in modo così totale un essere in cui si crede, per quanto con forza. È un’affermazione vera e al tempo stesso deviante, che non tiene conto della realtà del tempo in cui il verso fu scritto e soprattutto di ciò che è la fede, che non viene da altro se non dall’esperienza. La fede non è mai un’ipotesi o una speranza, ma si fonda sulla certezza di ciò che si è davanti a Dio. È la dimensione dell’essere con Lui, si esprime così. E qui abbiamo la necessità non di ubbidire, ma dell’acquisire perché, senza di questo, possiamo avere solo una sterile riproduzione di un precetto. Con l’acquisizione, invece, abbiamo elaborazione ed espressione piena e consapevole. Ecco perché Gesù disse “Il mio giogo è dolce e il mio peso leggero” (Matteo 11,30).

Il testo di Deuteronomio 6.5 riporta parole di Dio ad Israele che non furono pronunciate prima: in altri termini, quel comandamento fu emanato quando il popolo aveva dentro di sé, in memoria collettiva, tutti gli interventi che Lui aveva fatto nei suoi confronti e poteva trarre da solo le conclusioni del caso. YHWH non chiedeva un amore senza basi, ma fondato sul fatto che Lui aveva amato per primo, dandone dimostrazione attraverso gli adempimenti alle Sue promesse

Ricordiamo in proposito le parole in Esodo 20: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile” (v.2), che in concreto, per allora, aveva significato questo: “Resero loro amara la vita – gli Egiziani – mediante una dura schiavitù, costringendoli a preparare l’argilla e a fabbricare mattoni, e ad ogni sorta di lavoro nei campi. A tutti questi lavori li obbligarono con durezza. (…) Gli israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio”. (Esodo 1.14; 2.23). E tutti sappiamo le modalità con cui la liberazione avvenne, dalle dieci piaghe dalle quali il popolo fu risparmiato al passaggio del mar Rosso alla manna, all’acqua. L’amare il Signore, quindi, non era qualcosa di richiesto senza presupposti, ma il naturale evolversi di una relazione.

Il libro dell’Esodo è quello del cammino, del percorso fra la schiavitù in un paese straniero alla terra promessa ed è per questo che le vicende del popolo, quanto a cadute e liberazioni, insegnano molto al credente che è impegnato in un cammino simile e che, una volta liberato dal peccato, non può fare altro che amare il Suo Liberatore, pur con tutte le limitatezze del caso dovute alla carne in cui è prigioniero. Conoscerà momenti di entusiasmo e di sconforto, di aderenza e lontananza, insomma l’avverarsi di quel “tempo per ogni cosa” di cui parla Salomone in Ecclesiaste 3.1-15 che, al di là della veridicità delle parole anche in senso letterale, spiritualmente presenta tutte le fasi della vita interiore dell’essere umano di fronte alle quali non può opporsi.

Le parole che Gesù dà con riferimento alla gestione dell’amore per Dio, che abbracciano la totalità dell’uomo, sono “cuore” e “anima”, cioè coinvolgono la vita affettiva e la personalità, la parte razionale (“mente”) e la “forza”, quindi la possibilità di espressione in un insieme paragonabile al profumo, che sappiamo doveva essere realizzato con parti uguali dei suoi componenti. Se si amasse solo col cuore, si cadrebbe nel sentimentalismo causa di tanti fraintendimenti. Se si amasse solo con la mente, diventeremmo degli aridi, dei teorici, degli insensibili. Se usassimo solo la forza, saremmo degli asceti fini a loro stessi, con solo l’anima vivremmo una vita di contraddizioni perché essa è la nostra psiche: quindi è nella misura in cui i quattro elementi convivono in noi che avremo possibilità di evitare errori di condotta, nella testimonianza e naturalmente nella nostra relazione con Dio.

Una volta conosciutoLo, potremo amarlo. Non prima, che è piuttosto il tempo dedicato alla ricerca, alle domande. Così si potranno realizzare le conseguenze di cui al Salmo 1: “Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, non resta nella vita dei peccatori e non siede in compagnia degli arroganti, ma nella legge del Signore trova la sua gioia, la sua legge medita giorno e notte. Egli sarà come un albero piantato lungo corsi d’acqua, che dà frutto a suo tempo: le sue foglie non appassiscono e tutto quello che fa, riesce bene. Non così, non così i malvagi, ma come pula che il vento disperde: perciò non si alzeranno i malvagi nel giudizio né i peccatori nell’assemblea dei giusti, poiché il Signore veglia sul cammino dei giusti, mentre la via dei malvagi va in rovina”.

Credo che, al di là della perfetta intellegibilità di questo Salmo, sia necessario considerare che la beatitudine non si realizza perché ci si esenta dal frequentare persone negative, ma nel trovare gioia nella “legge del Signore”, per noi nella Sua Parola, e relativa, continua meditazione. Credo che sia una concreta descrizione di cosa significhi “Amerai il Signore Iddio tuo”. Il punto chiave non è nell’evitare malvagi e peccatori, neppure il meditare giorno e notte, ma la “gioia” che deriva dallo stare “nella legge del Signore” nei termini che abbiamo usato.

Nonostante siamo credenti, nonostante come tali siamo protetti dall’amore di Cristo, senza quel “medita giorno e notte”, riferimento alla continuità nel tempo e non a una vita senza sonno, non avremmo la “gioia” che porterà a 2 Corinti 9.7, “Dio ama chi dona con gioia”. Il costretto, il riluttante, l’abitudinario, il non spontaneo, sono incompatibili. Senza meditazione sulla Parola, senza una vita equamente impostata, cadremo vittime prima di noi stessi e poi di altri.

Il Salmo prosegue poi con il paragone dell’ “albero piantato lungo i corsi d’acqua”, quindi senza avere il problema del patire le conseguenze della siccità, essendo comunque ben radicato, con foglie che non appassiscono né per la mancanza di piogge e neppure per un giudizio come fu nel caso del fico sterile che iniziò a morire proprio a partire dalle foglie.

C’è poi il malvagio, del quale non è detto che per forza condurrà una vita terrena tribolata o pagando per le sue colpe mentre è nel corpo (per quanto così avviene per molti di loro), ma che non sarà in grado di sopravvivere nonostante creda il contrario: “non si alzerà nel giudizio” cioè ne sarà schiacciato, né potrà in alcun modo comparire nell’ “assemblea dei giusti”, vale a dire partecipare alla “festa di nozze” e alla nuova creazione.

Tornando al nostro testo, Gesù prosegue dicendo “Il secondo è questo”: in ordine di importanza e come conseguenza del primo nel senso che, se l’amore per il Signore sarà autentico, quello per il prossimo sarà la diretta conseguenza. Definendolo “secondo” Nostro Signore stabilisce un rapporto di reciprocità, vale a dire che non può esistere amore autentico per Dio senza un amore altrettanto autentico per il prossimo. Anche qui non si tratta di un sentimento generico, ma questa volta di immedesimazione, cosa che Gesù ha fatto arrivando a dare sé stesso in sacrificio per noi.

A ben vedere, la frase “Non c’è comandamento più grande di questi” appare curiosa, perché avrebbe dovuto dire “non ci sono comandamenti più grandi”, ma il fatto che “comandamento” sia al singolare e “questi” al plurale ci parla di come, pur essendo distinti, si compendiano reciprocamente.

Il principio, lo abbiamo letto, fu compreso da quello scriba che lo commentò arrivando ad esprimere un concetto che Gesù espose più volte, vale a dire che quanto contenuto nel comandamento/i valeva “più di tutti gli olocausti e i sacrifici”, quindi di quegli aspetti che, per quanto ordinati, potevano diventare degli atteggiamenti esteriori, delle formalità da adempiere e presto dimenticare.

Una simile affermazione, frutto di un ragionamento importante, rendeva quell’uomo “non lontano dal regno di Dio”, cioè vicino, ma non dentro. Aveva capito molto, ma non abbastanza perché non serve essere “buoni” o comprendere dei princìpi o praticarli, ma occorre essere salvati, accettare quel dono gratuito che eleva la persona da creatura a figlio. A quello scriba mancava ancora quel senso di desolazione infinita ed altrettanto infinita inadeguatezza che si prova nel momento in cui ci si confronta con Colui che è, la consapevolezza della immensa distanza per cui si chiede di appartenergli tramite l’unico intervento risolutivo possibile visto nel sacrificio di Gesù. Amen.

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