16.28 – Il sermone profetico 1: Introduzione (Matteo 24.1-3)
1 Mentre Gesù, uscito dal tempio, se ne andava, gli si avvicinarono i suoi discepoli per fargli osservare le costruzioni del tempio. 2Egli disse loro: «Non vedete tutte queste cose? In verità io vi dico: non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sarà distrutta».3Al monte degli Ulivi poi, sedutosi, i discepoli gli si avvicinarono e, in disparte, gli dissero: «Di’ a noi quando accadranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo».
Il sermone profetico di Gesù, altrimenti conosciuto come “discorso escatologico”, è una monumentale descrizione degli eventi futuri che riguardano la cristianità, tanto antica che presente e futura, riportato dai Sinottici in base alle sottolineature che si prefiggono. Non abbiamo, nella trattazione di Gesù, una chiara divisione per argomenti, cioè una distinzione precisa di quanto avverrà nel tempo, un “da” “a” in circa venti secoli di storia, ma continue incursioni ora in un momento ora in un altro, parallelismi ambivalenti in risposta alla domanda che “i discepoli”, cioè “Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea” (Marco 13.3) gli rivolsero “in disparte”: “Di’ a noi quando accadranno queste cose e quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo”. Sono tre fatti ben precisi, secondo il nostro avvertire il tempo che scorre, molto lontani tra loro. Ecco allora che Gesù, potremmo dire “confidò” a quattro persone a Lui vicine i segni indicativi dei tempi, lasciando a loro il compito di rivelarli ad altri, come poi fecero.
I versi che ci accingiamo ad analizzare, parte dei quali già affrontati quando abbiamo riflettuto su Luca 17, costituiscono una sorta di prefazione agli effettivi contenuti anticipatori di eventi, ma sono ugualmente importanti per capire cosa mosse i discepoli a quella triplice domanda e soprattutto cosa videro prima di porla e quali raccordi fecero nella loro mente.
Gesù, commentato il gesto della vedova povera, decise che era tempo di far ritorno a Betania e uscì dal Tempio coi Suoi. Qui è d’obbligo una precisazione e cioè: secondo Marco, la sera del mercoledì, avvenne il famoso convito in casa di Simone il Lebbroso in cui Maria, sorella di Marta, unse col proprio olio Gesù: il suo gesto assumerebbe un’enorme valenza profetica rispetto alla collocazione da me fatta dopo la resurrezione di Lazzaro. L’unzione di Gesù, con tutti i suoi significati, secondo Marco avrebbe preceduto di pochissimo il Suo arresto e Passione.
Va riconosciuto che l’episodio dell’unzione è collocato da Marco il mercoledì sera della settimana della Passione, da Giovanni “Sei giorni prima della Pasqua”, con Matteo che pare concordare col primo, pur non suddividendo i giorni.
Cosa avvenne all’uscita dal Tempio? Il gruppo prese subito la via verso il monte degli Ulivi, che prima costeggiava tutta quella enorme costruzione per poi salire, mostrandola in tutta la sua magnificenza. Lungo questa parte del percorso era impossibile non notare quanto il Tempio fosse imponente. Notizie in merito le abbiamo da Giuseppe Flavio sia nelle Antichità che nelle Guerre Giudaiche: “Il tempio inferiore, nella parte più bassa, fu dovuto tener su con muri di 300 cubiti (circa 160 m) e in certi posti anche di più: tuttavia l’intera profondità delle fondamenta non appariva perché i costruttori colmarono buona parte dei burroni volendo livellare le stradicciole della città. Nella costruzione delle fondamenta furono impiegate pietre di 40 cubiti di grandezza (20 m). Di tali fondamenta erano degne anche le fabbriche sovrastanti. Doppi erano infatti i portici, e sostenuti da colonne di 25 cubiti di altezza (12,50 m) che erano monoliti di marmo bianchissimo ricoperti con impalcature di cedro; la loro magnificenza naturale, la levigatura e l’aggiustamento offrivano uno spettacolo ammirevole” (Guerre, V. 188-191). Alla costruzione avevano lavorato 10mila uomini, dopo essere stati addestrati a fare i muratori e i carpentieri.
Impossibile quindi che il Tempio, al di là del significato religioso che aveva, non destasse sentimenti di profonda ammirazione, gli stessi che si possono provare di fronte alle nostre grandi cattedrali con tutta la simbologia che racchiudono, il linguaggio dei gesti raffigurato soprattutto nei portali, i labirinti, ecc.
Ebbene Marco ci riferisce che, lungo il cammino, “Uno dei suoi discepoli gli disse: «Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!»” (13.1). Sono convinto che, se ci chiedessimo cosa provasse quel discepolo (forse Pietro?) dentro di sé, fosse proprio ciò di cui è stato riferito e la sua frase parafrasata possa essere “Guarda cosa è stato capace di fare l’uomo!”. Ricordiamo che Erode il Grande lo aveva costruito per motivi politici nonostante il suo discorso per convincere il popolo a sostenere quella costruzione.
Riporto il passo di Giuseppe Flavio perché dalla loro lettura ciascuno potrà trarre le proprie conclusioni sull’ipocrisia di Erode (ricordiamo che non era Giudeo) e quella della politica attuale: “Fu in questo tempo, nel diciottesimo anno del suo regno, dopo gli eventi sopra menzionato, che Erode diede inizio a un lavoro straordinario, la ricostruzione del tempio di Dio a sue proprie spese, allargandone i recinti ed elevandolo a una altezza più imponente. Riteneva che l’adempimento di questa impresa sarebbe stata l’opera più insigne di quelle finora compiute e sufficiente ad assicurargli una memoria immortale. Ma siccome era conscio che la folla non era disposta né facile a intraprendere un’impresa così grande, pensò che fosse opportuno predisporre tutti a lavorare all’intero progetto facendo un discorso al popolo. Perciò lo convocò e parlò come segue: «Per quanto mi riguarda tutte le altre opere portate a termine durante il mio regno, miei concittadini, non ritenni necessario parlarne, sebbene fossero tali che il prestigio che da esse mi viene è inferiore alla sicurezza che hanno portato a voi, poiché nelle maggiori difficoltà non trascurai quanto vi poteva essere di aiuto nei vostri bisogni, e nelle mie costruzioni, ho tenuto d’occhio sia la mia invulnerabilità che quella di tutti voi, e, per volere di Dio, ritengo di avere condotto la nazione giudaica a uno stato di prosperità, mai conosciuto finora. Ora mi pare che non ci sia alcun bisogno di parlarvi delle varie costruzioni che abbiamo erette nella nostra regione, nelle città della nostra terra e in quelle dei territori conquistati, come dei più bei ornamenti con i quali abbiamo abbellito la nostra nazione, avendo coscienza che voi tutti le conoscete benissimo. Non così è dell’impresa che ora vi proporrò; è l’impresa più pia e bella del nostro tempo, quella che ora vi illustrerò. Così era, infatti, il tempio che i nostri padri hanno innalzato al Dio Altissimo dopo il loro ritorno da Babilonia; ma alla sua altezza mancavano sessanta cubiti, per raggiungere quella del primo tempio edificato da Salomone. Nessuno condanna i nostri padri di negligenza nel loro pio lavoro, poiché non fu mancanza loro se il tempio è più piccolo; furono Ciro e Dario, figlio di Istarpe, che prescrissero tali dimensioni per l’edificio, e dato che i nostri padri erano soggetti a loro e ai loro discendenti e dopo di essi ai Macedoni, non ebbero alcuna opportunità di restaurare questo primo pio archetipo alle sue primitive misure. Siccome ora, per volere di Dio, governo io e continuerà a esservi un lungo periodo di pace, abbondanza di ricchezze e raccolti buoni e, ciò che più conta, i Romani sono, per così dire, i padroni del mondo e amici leali, cercherò di rimediare alla svista causata dalla necessità e sudditanza dei tempi passati, e per mezzo di questo atto di pietà ottenere un totale ritorno a Dio per il dono di questo regno”. Erode parlò così e il suo discorso fece stupire la maggioranza degli ascoltatori, poiché fu qualcosa di totalmente inaspettato. Mentre una parte non era disturbata dalla inverosimiglianza delle sue promesse, erano sgomenti al pensiero che egli buttasse giù l’intero edificio e poi non avesse i mezzi sufficienti per realizzare il suo progetto. E tale pericolo pareva loro molto grande, e l’ampiezza dell’impresa sembrava di difficile realizzazione. Mentre essi la pensavano così, il re parlò incoraggiandoli; diceva che non avrebbe tirato giù il tempio prima di avere pronto tutto il materiale necessario per la fine dell’impresa. E queste assicurazioni non le smentì”.
Ecco, “Guarda che edifici e che costruzioni!” era una frase che conteneva tutto lo stupore di quel discepolo, che forse pensava anche a quell’enorme vite d’oro con grappoli d’uva, sempre di oro puro, sopra gli architravi all’ingresso, o alla porta che conduceva alla parte interna del Tempio dello stesso materiale, e alla muraglia che reggeva i portici, “la più grande edificata dall’uomo di cui si sia mai sentito parlare” (A.G. XV.396).
Ebbene Gesù dà a quel discepolo una risposta che avrebbe spento i suoi entusiasmi a tal punto che la riferì agli altri: “Vedi queste grandi costruzioni? Non sarà lasciata qui pietra su pietra, che non sarà distrutta”. Sappiamo a cosa si riferiscono queste parole, ma qui vorrei sottolineare lo stupore che sicuramente si impadronì di questo anonimo perché tutti sono in grado, a volte nemmeno tanto, di leggere il presente. Ciò che vediamo e conosciamo, come i palazzi, le strade, le persone, ci sembrano lì da sempre e istintivamente pensiamo che per sempre possano durare, in particolare in una bella giornata di sole in cui il calore e la quiete che avvertiamo ci fanno sentire al centro del nostro piccolo mondo fatto di consuetudini, di riferimenti ai quali diamo, senza accorgercene, importanza. Omeostasi. Le giornate di sole, però, ci furono anche quando Gerusalemme era sotto assedio e quando furono sterminati i suoi abitanti e il Tempio distrutto. Solo nel cinema queste azioni avvengono nel grigio o comunque nel cupo.
Mi vengono in mente le parole di Gesù su quello che definisco “il grande inganno”, che appartengono proprio a questo capitolo di Matteo: “Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti, così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo” (37-40).
Ancora: “…sapete che il giorno del Signore verrà all’improvviso, come un ladro di notte. E quando la gente dirà: «C’è pace e sicurezza», allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie di una donna incinta e non potranno sfuggire” (1 Tessalonicesi 5.1-3).
L’uomo naturale confida sempre in se stesso. Se si ammala ha sempre dentro di sé l’idea di non avere nulla di grave, di poter vivere per sempre che poi non è che un “ancora un poco” perennemente allungato, procrastinato. Come diceva un primario, “Non ho mai visto un paziente che, in punto di morte, chiedeva di poter vivere anche solo un minuto in più”.
Del resto, i costruttori della torre di Babilonia erano convinti di arrivare fino al cielo, di procurarsi fama e una stabilità politica unica e non turbabile dai pochi che non avrebbero aderito al loro progetto.
Eppure, tornando al nostro testo, Gesù con le Sue parole non dice qualcosa di nuovo, per lo meno scritturalmente, né vuole dirlo, ma dà un’indicazione sul tempo della fine della città, dice che la distruzione sta per arrivare, cosa già profetizzata per la prima volta in 1 Re 9.7 con le parole “Eliminerò Israele dalla terra che ho dato loro, rigetterò da me il tempio che ho consacrato al mio nome; Israele diventerà la favola e lo zimbello di tutti i popoli”; “Sion sarà arata come un campo e Gerusalemme diventerà un cumulo di rovine, il monte del tempio un’altura boscosa!” (Geremia 26.18), “…li darò in preda agli stranieri e saranno bottino per i malvagi della terra che li profaneranno. Distoglierò da loro la mia faccia, sarà profanato il mio tesoro, vi entreranno i ladri e lo profaneranno” (Ezechiele 7. 20-22) e infine, dettagliato e inequivocabile, Daniele 9.26,27: “Dopo sessantadue settimane, un consacrato sarà soppresso senza colpa in lui. Il popolo di un principe che verrà distruggerà la città e il santuario; la sua fine sarà un’inondazione – di popolo straniero e di sangue – e guerra e desolazioni decretate fino all’ultimo”.
Il gruppo di Gesù e dei discepoli raggiunse così il monte degli Ulivi, la cui strada per Betania lo valicava poco più sotto la sua cima. Da lì si aveva una bellissima visione del Tempio della città e si sedettero nuovamente; fu a quel punto che Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni gli si avvicinarono perché avevano saputo della Sua risposta al discepolo innominato e gli chiesero “quando accadranno queste cose”, cioè il fatto che non sarà lasciata “pietra su pietra”, ma anche, ricordandosi dei Suoi insegnamenti passati, “quale sarà il segno della tua venuta e della fine del mondo?”.
Si tratta di una domanda chiara per noi, che sappiamo che, molto sinteticamente, il ritorno di Gesù sarà per rapire la Sua Chiesa prima della “Gran Tribolazione”, e la “fine del mondo” sarà la sua distruzione per far posto ai “nuovi cieli e nuova terra”, ma per loro non era così perché credevano che tutto fosse da identificarsi in un unico evento, anche se non capivano in che ordine il tutto si sarebbe verificato. La domanda dei discepoli si collegava anche all’affermazione che troviamo alla fine del capitolo 23, “Ecco, la vostra casa è lasciata deserta! Vi dico infatti che non mi vedrete più, fino a quando non direte: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore!»”. Certi di avere delucidazioni, si rivolsero al loro Maestro che gliele fornì. La Sua esposizione, però, era destinata a venire accolta e interpretata solo con lo Spirito che sarebbe disceso e prima di quell’evento il “turbolento” Pietro diede prova di averla compresa perfettamente nelle sue lettere. Amen.
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