11.26 – IL PROFETA ELIA IV/IV: DINAMICHE PROFETICHE (Apocalisse 11.1-14)

11.26 – Elia  IV: dinamiche profetiche (Apocalisse 11.1-14)

 

1 Poi mi fu data una canna simile a una verga e mi fu detto: «Àlzati e misura il tempio di Dio e l’altare e il numero di quelli che in esso stanno adorando. 2Ma l’atrio, che è fuori dal tempio, lascialo da parte e non lo misurare, perché è stato dato in balìa dei pagani, i quali calpesteranno la città santa per quarantadue mesi. 3Ma farò in modo che i miei due testimoni, vestiti di sacco, compiano la loro missione di profeti per milleduecentosessanta giorni». 4Questi sono i due olivi e i due candelabri che stanno davanti al Signore della terra. 5Se qualcuno pensasse di fare loro del male, uscirà dalla loro bocca un fuoco che divorerà i loro nemici. Così deve perire chiunque pensi di fare loro del male. 6Essi hanno il potere di chiudere il cielo, perché non cada pioggia nei giorni del loro ministero profetico. Essi hanno anche potere di cambiare l’acqua in sangue e di colpire la terra con ogni sorta di flagelli, tutte le volte che lo vorranno. 7E quando avranno compiuto la loro testimonianza, la bestia che sale dall’abisso farà guerra contro di loro, li vincerà e li ucciderà. 8I loro cadaveri rimarranno esposti sulla piazza della grande città, che simbolicamente si chiama Sòdoma ed Egitto, dove anche il loro Signore fu crocifisso. 9Uomini di ogni popolo, tribù, lingua e nazione vedono i loro cadaveri per tre giorni e mezzo e non permettono che i loro cadaveri vengano deposti in un sepolcro. 10Gli abitanti della terra fanno festa su di loro, si rallegrano e si scambiano doni, perché questi due profeti erano il tormento degli abitanti della terra.
11Ma dopo tre giorni e mezzo un soffio di vita che veniva da Dio entrò in essi e si alzarono in piedi, con grande terrore di quelli che stavano a guardarli. 12Allora udirono un grido possente dal cielo che diceva loro: «Salite quassù» e salirono al cielo in una nube, mentre i loro nemici li guardavano. 13In quello stesso momento ci fu un grande terremoto, che fece crollare un decimo della città: perirono in quel terremoto settemila persone; i superstiti, presi da terrore, davano gloria al Dio del cielo.
14Il secondo «guai» è passato; ed ecco, viene subito il terzo «guai».

 

Veniamo ora al nostro testo, dopo aver brevemente cercato di inquadrare l’ambito nello scorso capitolo: a Giovanni viene detto, non scrive da chi, di misurare il tempio di Dio e l’altare, il numero di quelli che adoravano in esso, ma di tralasciare l’atrio: nessuno prende le misure di qualcosa se non ha un progetto che le richiede. Qui, oltre al tempio nella sua parte più sacra, viene detto di contare quelli che adorano, altro indice progettuale non più rivolto a una struttura, ma alle persone. “L’atrio fuori dal tempio” non viene calcolato e quindi, se nell’Antico Patto era figura della benevolenza e del futuro accoglimento dei pagani nel popolo di Dio perché chiunque poteva accedervi, qui è indice di esclusione: nelle parole rivolte a Giovanni si dice che quella porzione del tempio “è stato dato in balìa dei pagani, che calpesteranno la città santa per quarantadue mesi”, lo stesso tempo in cui la bestia eserciterà il suo potere. Nel verbo qui usato, calpestare, abbiamo un riferimento alla profanazione, all’indifferenza, all’ostilità verso tutto ciò che è sacro, a maggior ragione verso la Parola di Dio. Ma il tempio, nella sua parte più vera, viene misurato, reso inattaccabile, a differenza di quello naturale distrutto nel 70 dalle truppe romane. E quando il periodo dato all’uomo per ravvedersi scade, se non ha è provveduto diversamente, porta inevitabilmente con sé una grande rovina.

Gerusalemme quindi sarà il teatro di questi avvenimenti e diventerà un centro di potere perché l’Avversario, nella sua volontà di onnipotenza e oltraggio, mira proprio a considerare la città che più di tutte è stata testimone degli avvenimenti profetizzati e adempiuti, della sofferenza e delle benedizioni di Israele, come sua. O, meglio, vorrà toglierla dalle mani di Dio, conoscendo i Suoi progetti, altrimenti non sarebbe il Distruttore.

A questo punto, al verso tre, vengono nominati i due testimoni, che non possono essere che Elia ed Enoc nonostante siano stati proposti altri nomi, ma tutti di uomini che, a parte il loro valore e funzione avuta in determinati tempi storici, hanno conosciuto la morte. Posto che Dio può sempre fare come vuole e quindi far risorgere Mosè, Giosuè o Zorobabele, questi ultimi citati in Zaccaria 4 nella visione del candelabro e dei due olivi, non si capisce perché debba agire in tal senso quando Elia ed Enoch vennero rapiti nel corpo a voler sottolineare un mettere da parte per un ritorno, come fu e sarà per Nostro Signore. Non si tratta qui di avere la pretesa di capire i piani di Dio stante la limitatezza della mente umana, ma di un processo logico molto semplice visto nel “prendere” che, per il Signore, non è mai per sé, ma per dare. Noi stessi, quando prendiamo qualcosa e lo mettiamo da parte, è perché sappiamo che verrà un momento opportuno perché questo venga utilizzato.

Inoltre va tenuto presente che la morte sancisce per tutti il compimento, la fine di tutto quanto si poteva fare e si è fatto oppure no: il concluso e il sospeso rimangono e il finito incontra l’infinito in salvezza o in condanna, ma Elia ed Enoch? La loro vita non conclusa come tutti gli altri uomini implica che debba ancora risolversi con altri compiti e che solo quando questi saranno esauriti potrà avvenire la loro morte, come sarà e di cui leggiamo al verso 7: “E, quando avranno compiuto la loro testimonianza, la bestia che sale dall’abisso li vincerà, e li ucciderà”. Uno degli ultimi poteri dategli.

Elia ed Enoch “sono i due olivi e i due candelabri che stanno davanti al Signore della terra” (v.4), qui descritti nella loro funzione: l’olivo dà frutti che producono olio, figura dello Spirito Santo oltre che del conferimento di un ruolo spirituale che non può scadere. “Due olivi davanti al Signore della terra”, così chiamato perché è Lui che dirige e ordina, stanno a significare la funzione produttiva dei due profeti: al tempo opportuno daranno e olive e l’olio puro. Il candeliere, o candelabro, è la prima cosa che vede Giovanni al capitolo 1, quando si volta “per vedere la voce che parlava con me” (1.12); se, come gli spiega lo stesso Gesù glorificato, “i sette candelabri sono le sette Chiese”, è facile comprendere l’importanza che hanno i due testimoni: faranno luce, illumineranno prima di tutto i credenti di quella dispensazione che li riconosceranno, ma anche gli altri uomini che proprio per questo li combatteranno. Gli uni da quella luce riceveranno calore e guida, gli altri fastidio e “tormento” perché non potranno negare quanto verrà loro dimostrato, cioè la profonda falsità del loro stile di vita, e per questo gioiranno alla loro morte giungendo addirittura a “scambiarsi doni” come a Natale o a Pasqua, festività che oramai hanno totalmente perso il loro significato, se mai ne hanno avuto uno.

Occorre prestare attenzione a un elemento molto importante e cioè che i grandi miracoli, che caratterizzarono le antiche dispensazioni torneranno perché fonte di richiamo al ravvedimento diverso da come oggi opera il Vangelo: “uscirà dalla loro bocca un fuoco che divorerà i loro nemici” è frase che parla dell’azione dello Spirito Santo, paragonato a “un fuoco” che non può esprimersi altrimenti se non divorando, vale a dire rendendo al nulla tutti quanti sono a Lui contrari; costoro combatteranno i due testimoni in quanto Sua chiara emanazione, personificazione, strumento.

C’è poi il richiamo ad Elia, che faceva la stessa cosa (vedi i versi di 1 Re che abbiamo ricordato), mentre di Enoc sappiamo molto meno: “essi hanno potere di chiudere il cielo, perché non cada pioggia nei giorni del loro ministero profetico. Essi hanno anche potere di cambiare l’acqua in sangue e di colpire la terra con ogni sorta di flagelli tutte le volte che vorranno” (v.6). L’unica cosa che sappiamo del secondo testimone è che “Enoc camminò con Dio, poi scomparve perché Dio lo aveva preso” (Genesi 5.24), reputandolo utile al pari di Elia, sicuramente per come aveva vissuto.

L’autorità che Dio concederà loro sarà quindi totale in quanto “ulivi” e “candelabri”. Teniamo presente questo secondo termine, “candelieri” o “candelabri”, perché non allude solo a degli strumenti che illuminano, ma la cui luce proviene dal creatore: dobbiamo infatti pensare alla “Menorah”, il vero candelabro ebraico a sette braccia, che ardeva con olio puro. Le sue braccia simboleggiano la luce divina che si diffonde, ma anche i sette giorni della Creazione con il sabato come luce centrale così come, secondo altre interpretazioni, il sistema planetario col sole al centro, o l’alfabeto ebraico, quindi la capacità di parlare in modo appropriato con Dio e tra uomini e uomini.

I due testimoni costituiranno per la Bestia e il falso profeta un problema molto serio perché, al verso 10, “questi due profeti erano il tormento degli abitanti della terra” e riusciranno ad ucciderli, lasciano i loro corpi esposti a sostegno della vittoria ottenuta su di loro. La “grande città”, Gerusalemme, al contrario di tutti i significati che riveste negli scritti dell’Antico e del Nuovo Patto, è qui chiamata “simbolicamente Sodoma ed Egitto”, sinonimo di tutte le forme di libertà umane nel peccato che si concreteranno da un lato nella totale e sfrenata “libertà sessuale” – vedi i movimenti per la libera espressione dell’omosessualità, la liberalizzazione della droga etc. – e dall’altro nella schiavitù in cui verranno tenuti da una parte i santi consapevolmente, e gli altri uomini senza rendersene conto in quanto dipendenti in tutto dal proprio Io e dal sistema cui avranno aderito. Fondamentalmente, il “tormento degli abitanti della terra” che i due testimoni avranno esercitato prima del loro venire uccisi, sarà consistito nel richiamo al ravvedimento e allo smascherare gli inganni della struttura satanica che fino ad allora sarà stata impotente contro di loro. Abbiamo letto del tramutare l’acqua in sangue, miracolo che anche i magi d’Egitto furono in grado di riprodurre, ma non in senso inverso, non potendo cioè far tornare il sangue in acqua, a tal punto che “Tutti gli egiziani scavarono allora nei dintorni del Nilo per attingervi acqua da bere, perché non poterono bere le acque del Nilo” (Esodo 7.24). Satana è in grado di essere imitatore di Dio, mai però in senso costruttivo. È un riproduttore astuto al di là di qualsiasi immaginazione, ma resta sempre un ignorante.

Altra riflessione possibile può essere fatta al verso 9, quando leggiamo che “uomini di ogni popolo, lingua e nazione vedono i loro cadaveri per tre giorni e mezzo e non permettono che i loro cadaveri vengano deposti in un sepolcro”: abbiamo qui una divisione formale molto netta, perché gli uomini che “vedono i loro cadaveri” non sono gli stessi che “non permettono che i vengano esposti in un sepolcro”. I primi sono gli abitanti della terra, che potranno seguire l’avvenimento attraverso la televisione, Internet e sui propri smartphone ciascuno nella propria lingua, i secondi saranno i rappresentanti delle varie nazioni e popoli che avranno un potere legislativo tale da vietare la sepoltura dei due corpi.

“Tre giorni e mezzo” è un’espressione che troviamo solo qui. È in contrapposizione ai tempi della triade satanica, che ci ha messo millenni per realizzare il suo progetto, da Babilonia all’epoca degli avvenimenti illustrati, e quarantadue mesi per gestire la terra quando ogni cosa sarà sotto il suo potere. Ora, dopo quei tre giorni e mezzo, la metà di sette, i due testimoni non solo risorgono, ma salgono al cielo dopo “un grido possente dal cielo che diceva: «salite quassù» e salirono al cielo in una nube, mentre i loro nemici li guardavano”. Un altro “rapimento”, dunque, che nella memoria dei loro avversari sarà troppo vicino all’altro, quello della Chiesa, per non fare le necessarie connessioni.

Penultima considerazione è sui superstiti del terremoto che, “presi da terrore, davano gloria al Dio del cielo”: non credo questa sia un’espressione, dare gloria, vada letta in senso positivo. Il vedere i due testimoni ascendere al cielo e il terremoto con le relative vittime non portò ad alcun risultato spirituale, anzi in quattro passi (9.20; 9.21; 16.9; 16.11) leggiamo che “non si ravvidero delle loro opere”. Piuttosto, quel “dare gloria al Dio del cielo” implica l’ammissione del fatto che quanto stava avvenendo era vero, ma senza che possa scoccare la scintilla della conversione, di quel profondo esame che segue l’obiettiva constatazione di un percorso sbagliato. Un parallelo possibile è col pentimento di Giuda Iscariotha, che come sappiamo fu “secondo il mondo”, non certo secondo Dio.

E giungiamo così alla fine di questo nostro breve percorso, la nota che Giovanni pone a metà del capitolo undicesimo, “Il secondo «guai» è passato; ecco, viene subito il terzo «guai»”: non “guaio” come ci si aspetterebbe, ma indicazione relativa alle parole dell’aquila “che gridava a gran voce: «Guai, guai, guai agli abitanti della terra, al suono degli ultimi squilli di tromba che i tre angeli stanno per suonare” (8.13).

Qui credo sia giusto fermarsi: sono tempi imminenti, non nostri, per quei “servi” che li vivranno e che era giusto osservare, da lontano ma al tempo stesso vicini, perché credo che il ruolo di Elia non dovesse essere lasciato in sospeso. Per noi, vale quanto scrive l’apostolo Paolo in 1 Tessalonicesi 4.16,17: “…il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i mirti in Cristo; quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così saremo per sempre col Signore”. Amen.

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