5.12 – SESTO, NON UCCIDERE I/IV (Matteo 6.21-26)

5.12 – Sesto, non uccidere I/IV: Caino e Abele (Matteo 5.21-26)

 

21Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. 22Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: «Stupido», dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: «Pazzo», sarà destinato al fuoco della Geènna.23Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, 24lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono. 25Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione. 26In verità io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo!”.

 

E siamo arrivati agli insegnamenti di Gesù sulla Legge in cui si parte da un comandamento estendendolo fino alle radici della coscienza e dello spirito: “Avete inteso(…) ma io vi dico”. L’osservanza della Legge, fatta per l’uomo che aveva perso la propria innocenza in Eden, a partire dal cammino del popolo nel deserto era il solo modo possibile per ottenere la benedizione e l’assistenza di Dio ma, soprattutto, era stata data nell’attesa di Colui che l’avrebbe adempiuta. È importante tener presente la definizione che dà della Legge l’apostolo Paolo, probabile autore della lettera agli Ebrei, in base alla quale essa è “l’ombra dei futuri beni”, ma non avendo “la forma reale stessa delle cose” (10.1); è da questo principio che bisogna partire per comprendere la forza dell’insegnamento di Gesù tanto su di essa e sui Profeti quando leggeremo che “insegnava come avendo autorità, non come gli scribi o i farisei” generando stupore e ammirazione in quanti lo ascoltavano.

Siamo giunti a un punto del discorso sul monte in cui Nostro Signore inizia ad affrontare alcuni comandamenti a partire dal sesto in base al capitolo 20 del libro dell’Esodo in cui il “Decalogo”, o “Sommario”, viene enunciato e che è giusto riportare:

 

01 –   Io sono il Signore Iddio tuo, che ti ha fatto uscire dal paese di Egitto, dalla casa di schiavitù. Non avrai altre dèi davanti a me;

02 –   Non ti farai scultura alcuna né immagine alcuna delle cose che sono lassù nei cieli e quaggiù sulla terra e nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non le servirai;

03 –   Non userai il Nome del Signore, tuo Dio, invano, poiché il Signore non lascerà impunito che pronuncia invano il suo nome;

04 –   Ricordati del giorno di sabato per santificarlo;

05 –   Onorerai tuo padre e tua madre, affinché i tuoi giorni siano lunghi sulla terra che il Signore Iddio tuo ti dà;

06 –   Non ucciderai;

07 –   Non commetterai adulterio;

08 –   Non ruberai;

09 –   Non farai falsa testimonianza contro il tuo prossimo;

10 –   Non desidererai la casa del tuo prossimo; non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue né il suo asino, né cosa alcuna che sia del tuo prossimo.

 

Ho trascritto l’elenco originale, riportato anche in Deuteronomio 5, perché forse non tutti sanno che differisce da quello tradizionalmente insegnato dalla Chiesa di Roma che ne ha purtroppo stravolto l’ordine, eliminando e aggiungendo arbitrariamente degli elementi.

Riguardo ai comandamenti, sesto compreso, vediamo che la proibizione è utilizzata al tempo al futuro a dimostrazione della loro immutabilità nel tempo e che la sua infrazione è il risultato di un lungo processo progettuale che si sviluppa in un’anima che si lascia contaminare dal peccato, permanendo in esso, divenendo così contraria alle esigenze che Dio ha fatto conoscere. Il peccato infatti è prima di tutto una condizione, quella in cui versa la creatura lontana per natura dal proprio creatore. È lo stato in cui si versa ereditariamente dopo la trasgressione dei progenitori in Eden, liberi di accettare la vita nel Giardino, o la morte sulla terra. Se non si pone rimedio a questo stato diventando figli per la fede in Cristo, lo stato di allontanamento da Dio genera tutti gli altri e per questo fu dato il decalogo, o Sommario della Legge.

Per poter affrontare il tema del sesto punto del Sommario, prima di entrare nel merito dell’insegnamento di Gesù, credo occorra esaminare l’omicidio nella storia guardando a due uccisioni emblematiche e relative conseguenze, tenendo presente che per “Legge” gli ebrei consideravano tutti i libri formanti il Pentateuco. Partire con questa base significa inevitabilmente andare all’omicidio perpetrato da Caino su Abele che troviamo al capitolo quarto del libro della Genesi. Si tratta di un episodio che molti conoscono, in cui vi sono particolari sui quali si sorvola se si legge l’episodio come un semplice racconto, ma che descrivono come l’idea dell’omicidio si forma e si sviluppa in una persona.

Caino era il primogenito e il suo nome significa “Acquisto” perché sua madre ritenne di aver avuto un favore da Dio rimanendo incinta di lui e credette di aver pagato, “partorendo con dolore”, il suo debito. Non si può nemmeno escludere che sperava che Caino fosse il destinato a porre rimedio alla situazione in cui lei e suo marito versavano. Adamo ed Eva erano infatti presenti quando venne formulato il giudizio sul serpente con la “progenie della donna” che gli avrebbe schiacciato il capo. A proposito del primogenito di Eva leggiamo che “Adamo conobbe Eva sua moglie, che concepì e partorì Caino e disse: «Ho acquistato un uomo grazie al Signore»” (Genesi 4.1). Quando poi lei constatò che suo figlio era fragile, soggetto ad ammalarsi e a soffrire come tutti, ecco che capì la vita umana sarebbe stata ben diversa da quella conosciuta in Eden e “Partorì ancora Abele, suo fratello” il cui nome significa “soffio” o “vanità”. Il primo figlio di Eva fu agricoltore, il secondo pastore ed entrambi offrirono in sacrificio a Dio secondo i frutti del loro lavoro, ma mentre Abele presentò i primogeniti del suo gregge con il loro grasso, quindi rinunciando ai migliori capi e anticipando i sacrifici della dispensazione della Legge, Caino si limitò ad un’offerta generica in cui era esente il sentimento di adorazione e di amore per il proprio Creatore. Quando infatti Caino “fu molto irritato e il suo volto era abbattuto” (v. 5), perché constatava che il fratello veniva benedetto e la sua offerta veniva ignorata, Dio non lo lasciò solo coi suoi pensieri ad arrovellarsi e intristirsi ulteriormente, ma gli parlò: “Perché sei irritato ed è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovresti forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, e tu lo dominerai” (v.6), che altri traducono “devi dominarlo”.

Da queste parole possiamo trarre alcuni elementi: Dio invita Caino a riflettere rispondendo prima di tutto da sé alla domanda sul perché fosse irritato e abbattuto e questo fu un’esortazione ad un ascolto profondo, ad una analisi, a mettere da parte sia la delusione che porta alla tristezza interiore, sia l’astio che ne avrebbe potuto esserne la conseguenza: calmati, fermati, rifletti perché sei dotato di anima, quindi di intelligenza, ed il tuo problema lo puoi risolvere.  Trovando le ragioni del suo stato psicologico, Caino ne avrebbe trovato anche il rimedio perché la radice del problema non risiedeva nell’offrire frutti della terra anziché pecore, ma in tutto il suo modo di pensare e agire a monte: “Se agisci bene, non dovresti forse tenerlo alto?”. Erano parole che tendevano ad indicare una strada, un percorso che Abele aveva già intrapreso senza che alcuno glielo indicasse, scelto dopo aver riflettuto: impossibile che Adamo ed Eva non avessero spiegato ai loro figli il perché della sofferenza, fisica e morale, del lavoro e come mai dovessero faticare per poter sopravvivere.

Se Caino non avesse “agito bene”, cioè lasciandosi guidare dalla propria coscienza e depurandosi dei pensieri che lo contaminavano, sarebbe stato sempre dominato dal proprio istinto che lo avrebbe portato sempre più lontano dalla presenza e dalle attenzioni di Dio che mostrava di gradire le offerte del fratello con una vita meno travagliata della sua, sostenendolo nelle proprie fatiche e facendolo prosperare. Il peccato, inteso come tutto ciò che è contrario al bene e quindi alla santità, era “accovacciato alla porta” della mente di Caino in attesa di prenderne possesso e solo lui avrebbe potuto tenerlo fuori, dominandolo, vale a dire non dandogli ascolto, non lasciando che pensieri egocentrici e ciechi prendessero il sopravvento su di lui. Con quelle parole Caino fu posto di fronte a un bivio: proseguire nel suo senso di ostilità e delusione, oppure cambiare modo di agire ponendo un freno ai suoi istinti, avrebbe dovuto accompagnare ciò che offriva ad una vita coerente mettendo al primo posto il rapporto con Dio anziché la propria istintività.

Alle parole di verità che gli erano state rivolte, Caino preferì la propria e ritenne di risolvere il problema eliminando fisicamente il proprio fratello, premeditandone l’omicidio: lo portò nei campi, quindi dove nessuno li vedesse – tranne Dio, ma non gli importava perché per Caino veniva prima di tutto la materia – e lo uccise. Quando fu giudicato è scritto che, invece di pentirsi, “Si allontanò dalla presenza dell’Eterno”, cioè decise di vivere autonomamente escludendo il Creatore, dando origine a una stirpe che arrivò al proprio culmine negativo con Lamek che, accecato nell’orgoglio e soffocata definitivamente la propria coscienza, volle sostituirsi a Dio dicendo “Sì, io ho ucciso un uomo perché mi ha ferito e un giovane per avermi procurato un livido. Se Caino sarà vendicato sette volte, Lamek lo sarà settanta volte sette” (v.23,24), cioè all’infinito. Lamek, per questa delirante affermazione, utilizzò le parole che il Signore aveva detto al suo capostipite dopo l’omicidio del fratello, “Chiunque ucciderà Caino, sarà punito sette volte” (v.15).

In entrambi i casi, quello di Caino e di Lamek, abbiamo una progressione interiore negativa che fondamentalmente parte sì dal non aver imposto dei freni al loro agire, ma da una morale sostitutiva che li voleva vedere protagonisti del loro destino, da una volontà costante e assoluta del voler vivere difendendo la propria persona senza curarsi del proprio prossimo e soffocando quella coscienza che, per la dispensazione nella quale esistevano, Dio aveva posto in loro.

Caino e Lamek, che diede origine alla poligamia, sono gli esempi delle persone che, non volendo vigilare su loro stesse, mettono la propria natura corrotta al primo posto e sono disposti a difenderla con qualunque mezzo, sia questo “lecito” o meno. “Il peccato è accovacciato alla tua porta” è tradotto anche “sta spiando alla porta e i suoi desideri sono verso di te”, atteggiamenti che denotano che il peccato è un’idea, un pensiero che attende il momento propizio per agire. “Peccato” è una parola astratta che, pilotata dall’Avversario, dà conseguenze purtroppo concrete anche se nel verso che abbiamo letto viene presentato antropomorficamente. Anche oggi, come testimoniano le cronache che leggiamo quotidianamente, si uccide per questo, in un gesto primitivo per eliminare chi ostacola anche se di poco la sopravvivenza e la riuscita dei progetti dell’omicida, le sue esigenze, di un Ego che cresce smisuratamente. Si uccide per uno scatto d’ira che, per manifestarsi in quel modo, non è mai stata tenuta a freno dallo Spirito o anche solo dalla ragione. L’omicidio, crimine nelle leggi di tutte le nazioni, è sempre il risultato di un mancato dominio sulla carne che vorrebbe sempre e comunque, non conosce freni se abbandonata a se stessa e arriva ad eliminare tutto ciò che la ostacola. Ricordiamo le parole di Agur in Proverbi 30.12-16: “C’è gente che si crede pura, ma non si è lavata dalla sua lordura. C’è gente dagli occhi così alteri e dalle ciglia così altezzose! C’è gente i cui denti sono spade e i cui molari son coltelli per divorare gli umili ed eliminarli dalla terra e i poveri in mezzo agli uomini. La sanguisuga ha due figlie: «Dammi! Dammi!». Tre cose non si saziano mai, anzi quattro non dicono mai «Basta!»: gli inferi, il grembo sterile, la terra mai sazia d’acqua, e il fuoco che mai dice «Basta!»”.

In opposizione, così Agur parla di sé: “Sono stanco, o Dio, sono stanco e vengo meno, perché io sono il più ignorante degli uomini e non ho intelligenza umana; non ho imparato la sapienza e ignoro la scienza del Santo. Chi è salito al cielo e ne è sceso? Chi ha raccolto il vento nel suo pugno? Chi ha racchiuso acque nel suo mantello? Chi ha fissato tutti i confini della terra? Come si chiama? Qual è il nome di suo figlio, se lo sai? Ogni parola di Dio è appurata, egli è uno scudo per chi non ricorre a lui” (vv. 1-5).

È bello notare che, come Giobbe lamentava la mancanza di un simile che lo comprendesse e lo aiutasse nel suo dibattimento con Dio, Agur si chiede il nome del Figlio di Dio, che si rivelerà agli uomini alcune centinaia di anni più avanti. Caino, primo omicida della storia che trattava Dio e il suo rapporto con Lui con estrema sufficienza, è il rappresentante dei tanti che verranno nei secoli e le sue motivazioni, certo viste brevemente, saranno utili riferimenti quando vedremo le parole di Gesù in proposito.

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5.11 – NON PER ABOLIRE, MA PER ADEMPIERE (Matteo 5.17-20)

5.11 – Non per abolire (Matteo 5.17-20)

7Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento. 18In verità io vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto. 19Chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà, sarà considerato grande nel regno dei cieli.
20Io vi dico infatti: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli”.

Col discorso della montagna abbiamo per la prima volta  un’esposizione dottrinale organica sui contenuti espressi da Gesù alla folla, per quanto Matteo e Luca è certo abbiano inserito anche insegnamenti che non necessariamente furono impartiti in quell’occasione. Se finora abbiamo preso in esame solo la narrazione del primo evangelista è solo per rispettare una consecutio a mio giudizio logica per queste riflessioni, lasciando al parallelo lucano il compito di fare delle piccole pause citandolo nel momento in cui va ad integrare la narrazione di Matteo. Di certo, sul monte, Gesù confermò di essere in grado di dare quell’”acqua viva”, di cui parlò alla donna samaritana, che avrebbe potuto dissetare per sempre e di essere Lui in grado di far sgorgare. Un giorno lessi in un manuale di esegesi del Nuovo Testamento una frase che allora non condivisi immediatamente e sosteneva che senza tenere presente la mentalità del tempo e dell’autore si poteva correre il rischio di fraintendere il messaggio contenuto in uno o più versetti scadendo nel letteralismo. Ebbene, pronunciando le parole che abbiamo letto, Gesù, perfetto conoscitore dei pensieri, del carattere, delle intenzioni e della mentalità dei suoi uditori, spiega agli uomini del suo tempo il perché fosse in mezzo a loro, qual era lo scopo per cui era venuto al mondo; le Sue parole, poi, illuminano la Chiesa ancora oggi e da esse può trarre il suo nutrimento adattandole alla sua realtà.

Dobbiamo tenere presente che nessuno al tempo del sermone sul monte, e per qualche anno più avanti, aveva le idee chiare sul Cristo: i suoi avversari già avevano un progetto omicida nei Suoi confronti, i discepoli lo avevano conosciuto come in grado di fare miracoli e avevano provato, come Simon Pietro, la distanza spirituale intercorrente fra loro e Lui, ma le opinioni in merito erano quanto mai diverse. Ancora, l’idea che poteva avere l’uditorio di Gesù poteva non essere corretta tanto riguardo Sua identità e soprattutto su come Lui si poneva di fronte alla Legge e ai Profeti. Ad esempio aveva dichiarato che l’uomo non era stato creato per il sabato, ma viceversa. Essendosi qualificato come “Signore del sabato”, di fatto, secondo loro, o lo intendeva abolire o poteva farlo. Davvero c’era traccia di Lui nei Profeti? Aveva fatto specifico riferimento all’eccellenza della misericordia e dell’amare Dio sui sacrifici che si celebravano: forse questo significava che erano decaduti? E poi la remissione dei peccati: come sarebbe potuta avvenire da lì in poi?

Ecco allora che con quel “Non crediate” Gesù mette un freno alle supposizioni e agli interrogativi sulla sua missione: non era venuto ad abolire né la Legge, né i Profeti, “ma a dare pieno compimento”, originale greco pleròsaiche significa letteralmente “riempire fino all’orlo, fino a traboccare” quindi dando loro un significato pieno, totale, oltre il quale era impossibile andare, spingersi oltre. Occorre prestare attenzione al termine greco, che suggerisce molto di più di un adempimento cui la nostra traduzione aggiunge “pieno”. “Pleròsai ha la stessa radice di “pleròma”, termine usato dallo gnosticismo per indicare “la perfezione divina intesa come pienezza che comprende in sé tutti gli esseri che emanano da Dio”. E lo gnosticismo, che mescolava credenze pagane, ebraiche e cristiane, involontariamente sottolinea così la totalità dell’opera che Gesù avrebbe compiuto.

Fondamentale è che Nostro Signore citi non solo la Legge, ma aggiunga immediatamente “e i profeti”. Ecco, qui il ragionamento si fa ancora più estensivo perché coi due termini, “Legge e Profeti”, si allude al tutto e, nel nostro caso, non c’è anche un riferimento a Giobbe: anni fa un fratello mi fece notare un passaggio particolarissimo in cui quest’uomo, che non conosceva le ragioni della sua sofferenza morale e fisica, parlò così all’Iddio tre volte santo: “Se sono colpevole, perché affaticarmi invano? Anche se mi lavassi con la neve e pulissi con la soda le mie mani, allora tu mi tufferesti in un pantano e in orrore mi avrebbero le mie vesti. Poiché non è un uomo come me, al quale io possa replicare «Presentiamoci alla pari in giudizio». Non c’è fra noi due un arbitro che ponga la mano su di noi” (Giobbe 9.29,33).

Ebbene in questi versi, in cui Giobbe confessa la sua impossibilità a reggere un confronto con Dio nonostante tutto il suo essere fosse costantemente rivolto a Lui e le benedizioni ricevute, lamenta la mancanza di un “arbitro”, quindi un mediatore, un uomo come lui che lo potesse capire senza possedere le sue meschinità. Giobbe non sapeva che un giorno sarebbe arrivato Uno che, avendo “adempiuto” la Legge e i Profeti portandoli a pieno compimento, avrebbe potuto ricoprire quel ruolo che allora mancava, talché Paolo scrisse “C’è un solo Dio – il Santo, il Perfetto, l’Assoluto –e anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini: Gesù Cristo uomo” (1 Timoteo 2.5). Due unicità rientranti in una sola, funzioni distinte, ma essenza identica perché, se così non fosse, quel mediatore non avrebbe alcuna possibilità di essere ascoltato da chi è Santo per natura, essenza, definizione. Credo che questo verso di Paolo, oggi, abbia molto da dire a quella cristianità che non si limita a prendere i Santi come oggetto di interesse per ciò che hanno fatto e detto, ma li eleva a rango di intercessori o mediatori presso Dio quasi che possano “mettere una buona parola” a sostegno delle loro preghiere.

Ecco, l’apostolo Paolo specificava “uomo” perché senza la Sua umanità Gesù non avrebbe potuto portare a compimento la Legge e i Profeti. E qui ci raccordiamo all’incenso, che Zaccaria stava per offrire, che doveva essere costituito da parti uguali in cui, ora, possiamo distinguere l’umanità, la perfezione, la santità e la missione del Cristo.

A questo punto, tornando al nostro testo, abbiamo il primo “Amen”, cioè “In verità”, parola che molti pronunciano senza pensare al suo significato di attestazione, certificazione responsabile di un qualcosa di vero. L’Amen di Gesù qui riguarda uno spazio temporale del pieno adempimento delle sue parole: “Io vi dico”, tre elementi che qualificano il mittente, l’Unico vero Inviato di Dio, e i destinatari, gli uomini là presenti e tutti quelli che nei secoli avrebbero letto le Sue parole; “In verità”, rafforzativo che poi è un invito a riflettere e credere stante l’autorevolezza di quell’ “Io” che sta parlando, “che, finché sia passato il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un trattino della legge, senza che tutto questo sia avvenuto”.

Anche con la citazione del “cielo” e della “terra” Gesù si raccorda agli scritti dei profeti, che mettono l’uomo in guardia dal ritenere questi due elementi come eterni: già abbiamo visto, in una precedente riflessione,  la figura della terra che si “logorerà come un vestito” – cosa già in atto -, già sappiamo che “i cieli e la terra passeranno con fragore” – altri traducono “stridendo”, e in Salmo 102. 25,26 si legge “Anticamente tu hai stabilito la terra e i cieli come opera delle tue mani; essi periranno, ma tu rimarrai; si logoreranno tutti come un vestito– citazione di Isaia 51.6 -, tu li muterai come una veste ed essi saranno cambiati”. Conosciamo anche il verso di Marco 13 “I cieli e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”, ma qui Gesù vuol porre l’accento sull’immutabilità del piano di Dio e degli adempimenti che avrebbe fatto visti nella citazione dello “iota” e del “trattino”, rispettivamente la più piccola consonante ebraica, lo yod, e quel piccolo segno a forma di corno che serviva per distinguere quelle consonanti che, nella scrittura quadrata, sarebbero state tra loro identiche.

Nelle parole del verso 18, “senza che tutto questo sia avvenuto”, c’è poi un’importante indicazione sulla scadenza temporale di tutta l’opera di Gesù, che sappiamo disse sulla croce “Tutto è compiuto”: nulla restava di incompleto alla luce del ministero terreno che aveva svolto, la Legge era stata completata nella sua pienezza, il Suo sacrificio quale Agnello di Dio era stato fatto, ma alcuni avvenimenti descritti dai Profeti dovevano e devono ancora verificarsi ed ecco il perché della frase “Senza che tutto questo sia avvenuto”. Pensiamo alle parole del Salmo che abbiamo letto “…tu li muterai come una veste ed essi saranno cambiati”.

Con i versi che seguono abbiamo poi un aggiornamento sulla condotta e la responsabilità che hanno coloro che la Legge la insegnano, anche se oggi l’esempio è perfetto per tutti coloro che, nella Chiesa, si adoperano in base ai doni ricevuti. Il messaggio si sposta così dagli uditori a “chiunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti e insegnerà agli altri a fare altrettanto”: c’è parentela verbale tra l’abolire del verso 17 (“non per abolire, ma per dare compimento”) e questo “trasgredire”, ma mentre nel primo caso i sinonimi del verbo sono “abbattere, annullare, abrogare” con riferimento a un sistema, qui si tratta di un’azione tesa a indebolire la forza di qualcosa, nello specifico un comandamento “minimo”, probabile riferimento all’insegnamento dei dottori della Legge che distinguevano i precetti in maggiori e minori poi giungendo, come sappiamo, al ridurre il giudaismo all’osservanza di una serie di norme indipendentemente dall’atteggiamento spirituale della persona.

Esiste una responsabilità però anche a dirsi cristiani e soprattutto nel modo di presentare Cristo e la Sua dottrina che non può basarsi su posizioni erronee a livello di essenza, di sostanza, del modo di porsi di fronte a Dio perché, ad esempio, va rimossa la trave nel nostro occhio prima di vedere la pagliuzza in quello dell’altro: là dove s’instaura il sentimento religioso che tende ad adattare la ritualità e la procedura alle vere esigenze dello Spirito – e quindi di Dio – si ha l’ingresso del fariseismo anche nella Comunità cristiana. E qui viene automatico citare i rimproveri che Gesù mosse, sempre ai suoi antagonisti, in varie forme, ad esempio “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell’anèto e del cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste cose bisognava praticare, senza omettere quelle. Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello! Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto mentre all’interno sono pieni di rapina e d’intemperanza. Fariseo cieco, pulisci prima l’interno del bicchiere, perché anche l’esterno diventi netto! Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all’esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni d’ipocrisia e d’iniquità. Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che innalzate i sepolcri ai profeti e adornate le tombe dei giusti, e dite: Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro per versare il sangue dei profeti; e così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli degli uccisori dei profeti. Ebbene, colmate la misura dei vostri padri!” (Matteo 23. 23-29). Gesù, tornando al suo discorso, a conferma del riferimento alla Chiesa futura, parla della considerazione nella quale sarà tenuto nel “Regno dei cieli” chi si sarà comportato in un modo piuttosto che in un altro.

Si parla di “giustizia”, termine di cui ci siamo già occupati non solo recentemente con le beatitudini, ma anche quando abbiamo esaminato Giovanni e altri personaggi considerati giusti: c’è una giustizia che viene da Dio e ce n’è una che l’uomo si può costruire, illusoria, ipocrita, assolutamente fine a se stessa e quindi utile alla propria carne, come quella dei personaggi che Gesù prende a riferimento, appunto gli Scribi e i Farisei. Se ci vestiamo della nostra giustizia, della presunzione di essere tali solo perché crediamo, se guardiamo il nostro prossimo disprezzandolo perché non appartiene alla nostra cerchia qualunque essa sia, ecco che a nulla vale la fede: non è luce, non è una città posta sul monte, ma è piuttosto un’impalcatura, un atteggiamento, un palazzo in cui la mente può trovare rifugio. Ma è un palazzo destinato a crollare. E il parallelo col “sepolcro imbiancato” è inevitabile così come lo è il riconoscere una persona dal frutto che produce: “Guardatevi dai falsi profeti – non chi predice il futuro, ma chi parla di Dio – che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci. Li riconoscerete dai loro frutti: si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. Dai loro frutti dunque li potrete riconoscere”.

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5.10 – IL SALE DELLA TERRA (Matteo 5.13-16)

5.10 – Il sale della terra (Matteo 5.13-16)

  • 13Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. 14Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, 15né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. 16Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli.”.
  • Con queste parole ci troviamo di fronte per la prima volta a una definizione che Gesù fa sul suo uditorio, vedendo i discepoli e quelli che avrebbero creduto in Lui come “sale della terra” e “luce del mondo”. Nel definirli così fa seguire poi tre esempi – l’insipidirsi del sale, la città sul monte e la lampada – per concludere con un imperativo al verso 16: “Coì’ risplenda la vostra luce davanti agli uomini”. Se poco prima il discorso delle beatitudini ha riguardato anche i trattamenti inflitti dal mondo ai discepoli, qui c’è un ribaltamento: sono loro ad influire sul mondo come vediamo dalla metafora del sale, sostanza tanto comune quanto necessaria.
  • Il sale è una sostanza da sempre conosciuta come esaltatore di sapidità ampiamente usato in cucina, ma è anche fondamentale per lo svolgersi di meccanismi fisiologici vitali come la trasmissione degli impulsi nervosi, lo scambio dei liquidi e la regolazione della pressione anche se è pericoloso superare la dose di più di 5 grammi giornalieri perché, in questo caso, può causare problemi ai reni e cardiaci. Qui però Gesù parla di sale “della terra”, alludendo alla testimonianza e capacità di annunciare il Vangelo al mondo una volta ricevuto lo Spirito Santo oppure, nel caso dei suoi uditori di allora, all’annunciare agli altri che era finalmente giunto il Regno di Dio nella Sua persona. In pratica, con quella definizione ai presenti, Nostro Signore indica loro il ruolo che avrebbero avuto se si fossero riconosciuti nelle Sue parole. Ciascun cristiano è potenzialmente “sale della terra” perché ciò che ha ricevuto può e deve – non per costrizione, ma come atto spontaneo e inevitabile – essere trasmesso, annunciato agli altri. Occorre prestare però attenzione: essere “sale della terra” non significa necessariamente diventare, essere dei predicatori come molti pensano o per far proseliti, ma possedere una proprietà fisica al nostro interno esattamente come ce l’ha il sale naturale, che dà sapore.
  • Data la definizione, Gesù contempla la possibilità che questo elemento perda le sue proprietà, riferendosi all’esperienza di allora: il sale veniva ricavato per evaporazione dal mare o da paludi, ma occorreva la massima attenzione perché il procedimento per la sua estrazione era primitivo e col sale potevano venire raccolte terra e impurità che lo facevano scadere a tal punto da tramutarlo in una polvere inservibile che veniva gettata sulla strada, non certo in un campo perché lo avrebbe fortemente impoverito. Ricordiamo che nelle antiche guerre, una volta distrutte e rase al suolo le città nemiche, vi si passava un aratro versando del sale nei solchi affinché non crescesse più nulla: non solo lo fecero i romani con Cartagine, ma lo troviamo anche nella Bibbia: “Abimelec combatté contro la città (Sichem) tutto quel giorno, la prese e uccise il popolo che vi si trovava, poi la distrusse e la cosparse di sale” (Giudici 9.45). “Terra salata” è anche una definizione usata frequentemente nella Scrittura per indicare un territorio arido e deserto.
  • Il sale, a parte il riferimento ai suoi effetti sul suolo, lo troviamo presente nella Legge: “Dovrai salare ogni offerta di oblazione: nella tua offerta non lascerai mancare il sale dell’alleanza del tuo Dio; sopra ogni offerta porrai del sale” (Levitico 2.13). Questo composto allora, come abbiamo letto, raffigurava l’alleanza di Dio con l’uomo: quale? Certo quella della Legge, ma anche le altre, in particolare quella che il Cristo portava con sé, a quel tempo non ancora rivelata. Eccoci giunti al punto: il sale che andava posto sopra ogni offerta lo ha dentro di sé chi crede nell’Agnello di Dio, che addirittura viene a lui paragonato, “voi siete”. Abbiamo questa proprietà, ma corriamo il rischio di perderla non rimanendo fedeli, dimenticandocene: essere il “sale della terra” non può costituire motivo di orgoglio perché, se si diventa insipidi, non si è più utili a nulla. La domanda “con che cosa lo si salerà” va letta come “In che modo potrà riacquistare il suo sapore?”. Ricordiamoci che i discepoli non sapevano di avere questa caratteristica, è Gesù che lo rivela, li avverte: “Fai attenzione, guarda che tu sei il sale della terra”, responsabilizzandoli e collegandosi alle beatitudini. Purtroppo la dimensione che subiamo ci costringe a dividere il discorso sul monte in blocchi come se fossero delle stanze da attraversare, ma ciò che Nostro Signore disse ai discepoli e alla gente venuta da ogni parte era un fiume che scorreva, non uno studio a puntate come il mio.
  • Questo primo paragone di Gesù è quindi un invito alla riflessione: dapprima informa i suoi discepoli del loro privilegio, dello scopo che hanno, quindi del fatto che portano dentro di sé l’alleanza che Dio ha fatto con loro e che non possono tenerla per sé. Poi, per la caratteristica che è stata loro data, essi sono il “sale del mondo” cioè danno un senso alla sua esistenza con la loro opera.
  • Il sale è anche riferito all’intelligenza spirituale: “Abbiate sale in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri” (Marco 9.50) e “Il vostro parlare sia sempre con grazia, condito con sale, per sapere come dovete rispondere a ciascuno” (Colossesi 4.6) là dove alcuni lo traducono con “senno”, quindi è l’intelligenza spirituale che dovrebbe caratterizzare i rapporti del cristiano coi fratelli e con gli altri uomini.
  • La parte finale del verso, sulle conseguenze del sale che perde le proprietà, viene espressa dall’autore della lettera agli Ebrei con queste parole: “Una terra imbevuta della pioggia che cade su di essa, se produce erbe utili a quanti la coltivano, riceve benedizione da Dio; ma se produce spine e rovi, non vale nulla ed è vicina alla maledizione: finirà bruciata” (6.7,8). Anche l’apostolo Pietro spiega questo concetto riferendosi a coloro che, dopo aver conosciuto Dio, si allontanano da Lui senza preoccuparsi delle conseguenze: “L’uomo è schiavo di ciò che lo domina. Se infatti, dopo essere sfuggiti alle corruzioni del mondo per mezzo della conoscenza del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, rimangono di nuovo in esse invischiati e vinti – quindi arrivano ad una condizione definitiva, una scelta deliberata senza possibilità di appello – la loro ultima condizione è diventata peggiore della prima” (2 Pietro 2.19,20).
  • La seconda definizione che dà Gesù ai discepoli è “La luce del mondo”, posizione che il cristiano dovrebbe occupare all’interno della società degli uomini. Salomone scrisse che “La strada dei giusti è come la luce dell’alba che aumenta lo splendore fino al pieno giorno. La via degli empi è come l’oscurità; essi non scorgono ciò che li farà cadere” (Proverbi 4.18,19). Sono entrambe strade visibili da chiunque, ma se quella del giusto non si vede, è impossibile notare la differenza. Ecco perché chi crede non brilla di luce propria, ma di quella di Cristo ed è chiamato a svilupparla, curarla tenendo ben presente quello che era prima dell’incontro con Lui e della sua conversione. “Un tempo eravate tenebre – notiamo che manca “nelle” -, ora siete luce del Signore. Comportatevi perciò come figli della luce. Ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate di capire – la necessità del sale – ciò che è gradito al Signore” (Efesi 5.5-10). Quindi quel “Voi siete la luce del mondo” allude a un dono ricevuto e i primi passi da compiere – e sono tanti – devono riguardare proprio la formazione spirituale attraverso quel “cercate di capire”, operazione impegnativa e attenta, preoccupandosi di essere fedeli nelle piccole cose in vista, se verranno, di quelle grandi. Solo così si potrà essere un riferimento per gli altri perché la luce di Dio è prima di tutto interiore: illumina l’uomo sulla sua condizione di peccato, punto di partenza che, se accolto con la volontà di una vita nuova, crea già di per sé una festa nel cielo: “Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di redenzione” (Luca 15. 7). “Cercate di capire” perché senza lo Spirito resteremmo nell’ignoranza. Troppo spesso il cristianesimo vorrebbe basarsi su una bontà generica e la comprensione degli altri, dimenticando che si cresce con la dottrina e non con le buone intenzioni.
  • Nostro Signore, allora come oggi, invita con le Sue parole alla responsabilità individuale, essendo invitati ad essere “…figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione malvagia e perversa – alla quale appartenevamo anche noi comunque -. In mezzo a loro voi risplendete come astri nel mondo, tenendo salda la parola di vita” (Filippesi 2. 14,15). Già avendo un comportamento consono alla Parola di Dio il cristiano testimonia di non appartenere alla “generazione” di prima, quela in cui rientrava a tutti gli effetti prima della sua conversione. Egli ha un senso anche se è una piccola stella nel cielo notturno. Brilla nel buio. È una presenza, si riconosce, illumina per quanto gli è stato dato ed è per questo che il messaggio di Cristo è universale: pietre diverse formano la Chiesa, “pietre vive” come membra e organi distinti, che da soli non servirebbero a nulla, ma che formano il Corpo di Cristo.
  • Dopo la definizione di “Luce del mondo”, ecco i paragoni esplicativi: le città, i paesi costruiti su una montagna sono visibili e orientano il viaggiatore non solo nei suoi spostamenti, ma anche e soprattutto quando deve ricoverarsi in esse per la notte. Comunque sia, si vedono, “sono là”, è fisicamente impossibile non notarle. C’è chi prende atto della loro esistenza, e chi le visita.
  • La metafora della lampada, poi, è un’estensione del concetto di “luce” espresso poco prima: se la si accende, non la si mette sotto il moggio, antica unità di misura per le granaglie, costituito da una specie di secchio (conteneva circa 8 litri e mezzo). Mettere il lume sotto il moggio, evidentemente rovesciato, significava commettere un gesto assurdo, visto che la lampada si accendeva per illuminare l’ambiente e non per nasconderlo alla vista. Non di può quindi vivere contemporaneamente per se stessi, auto illuminandosi e finendo per godere di una luce a noi riservata, ma occorre porsi nella condizione di illuminare gli altri, cosa che diventa possibile quando si ha acquisito l’esperienza necessaria vista nella figura di un vaso che trabocca. Non può esserci luce se prima non si è illuminati, non può esserci comunicazione degna di tale nome se prima non la si è ricevuta e assimilata, come vediamo nei profeti dell’Antico Patto, che parlarono solo quando Dio li autorizzò a farlo.
  • La lampada sul candeliere significa anche avere una vita trasparente, santa e conforme al Vangelo perché in tal modo chi tra il mondo cerca o si pone delle domande sulla propria esistenza, la veda, ne sia attratto – se ha dentro di sé uno spirito non avverso – e accolga il messaggio d’amore del Cristo da cui sono escluse le regole del marketing “spirituale” caro a chi fa proseliti nella Chiesa e fuori.
  • Il fine della luce che risplende è “affinché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli”, frase che si riferisce all’inevitabile considerare che siamo figli della Luce a prescindere dal fatto che gli uomini si interessino di ciò che Dio ha loro da proporre. Un giorno ho sentito una persona dire “devo convertire qualcuno”: è concetto privo di senso, come se ci fosse dato il potere di salvare. Il cristiano che riconosce il suo Maestro è una luce, qui finisce il suo compito perché già esistendo come tale lo ha adempiuto; sono piuttosto gli altri cui spetta la scelta se dirigersi verso di lui, o evitarlo. Certo dobbiamo avere un carattere spirituale che ci contraddistingua, certo non può essere simulato pena l’incapacità a gestire le situazioni, per non parlare di ulteriori danni fatti a noi stessi e agli altri. Perché il cristianesimo è qualcosa di più che l’essere battezzati e il limitarsi a frequentare le Assemblee di una Chiesa. Amen.
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5.09 – LE BEATITUDINI 8: I PERSEGUITATI PER LA GIUSTIZIA (Matteo 5.3-12)

5.9 – Il sermone sul monte : le beatitudini VIII (Matteo 5.3-12)

 

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.11Beati voi, quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.12Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi”.

 

BEATI I PERSEGUITATI PER LA GIUSTIZIA

È l’ultima beatitudine, che termina come la prima, “perché di essi è il regno dei cieli”, che però per gli uditori di Gesù era di significato più oscuro e, infatti, Lui stesso si preoccuperà di spiegarla nei due versetti successivi. Due beatitudini sono al presente, le altre al futuro, segno che c’è continuità fra loro e che il cristiano non ne possiede una soltanto; l’ottava è però particolarmente complessa perché riguarda il compiersi di avvenimenti che, al momento dell’esposizione, non si erano ancora verificati. Nessuno di loro era stato ancora perseguitato.

Se ci soffermiamo sulla parola “giustizia”, sappiamo già che l’esserne affamati e assetati comporta l’esserne saziati in futuro, che questa viene data a chi crede nell’Iddio Vivente rivelato: i “giusti” dell’Antico Patto erano coloro che affiancavano alla Legge un sentimento di profondo essere un tutt’uno con YHWH e la ritenevano un mezzo per essere uniti a lui, non il fine. C’era una giustizia esteriore vista nell’osservanza e nel rimedio a fronte di una trasgressione, ma sarebbe stata inutile senza il riconoscimento dell’unicità di Dio dentro di sé, l’acquisire coscienza del fatto di appartenere al popolo eletto, composto da più individui che, in quanto tali, potevano avere un rapporto unico con Colui che aveva progettato un cammino per ciascuno. Abbiamo letto, per quanto riguarda il Vangelo, di persone considerate giuste: pensiamo a Zaccaria ed Elisabetta, a Giuseppe marito di Maria, a Simeone, Anna, Natanaele ed altri che avevano in comune proprio l’attesa consapevole del Consolatore di Israele, sentimento impossibile da possedere senza un riconoscersi mancanti di un’identità, di avere bisogno di Lui.

Ora, però, quella moltitudine radunata sul monte aveva davanti a lei la Giustizia di Dio vista nel quel Gesù di Nazareth che predicava, l’unico che avrebbe soddisfatto le esigenze di santità del Padre: credendo in Lui, questi avrebbero prodotto una profonda rottura con le credenze sulle quali i giudei che Lo avrebbero rifiutato si sarebbero arroccati. Anni più tardi l’apostolo Paolo scriverà ai romani “Il desiderio del mio cuore e la mia preghiera salgono a Dio per la loro – dei giudei-salvezza. Infatti rendo loro testimonianza che hanno zelo per Dio, ma non secondo una retta conoscenza. Perché, ignorando la giustizia di Dio e cercando di stabilire la propria, non si sono sottomessi alla giustizia di Dio. Ora, il termine della Legge è Cristo, perché la giustizia sia data a chiunque crede”. Gesù sostituiva la Legge ed era Lui stesso giustizia, unico mezzo sicuro per mantenersi in rapporto con Dio, messaggio rivoluzionario divenuto per gli ebrei inaccettabile e infatti i cristiani, come testimonia lo stesso libro degli Atti, saranno perseguitati da loro per primi.

Pensiamo alla giustizia di Dio, alla perfetta conoscenza che ha di ogni essere umano, al fatto che lo vede come realmente è, e poniamo questo dato in relazione all’episodio del paralitico che a Capernaum quattro uomini avevano fatto calare dal tetto della casa in cui si trovava Gesù: alla presenza dei farisei fu detto “Che cosa è più facile, dire al paralitico «I tuoi peccati ti sono perdonati», oppure dirgli «Alzati, prendi il tuo lettino e cammina?» Ma, affinché sappiate il che il Figlio dell’uomo ha sulla terra autorità di perdonare i peccati, io ti dico, disse al paralitico, «Alzati, prendi il tuo lettino e vattene a casa tua»” (Marco 2. 9-11). Se pensiamo che prima di quel miracolo i farisei avevano appena finito di dire “Chi può perdonare i peccati, se non solo Dio?”, non ci vuole molto a riconoscere in Gesù quel Dio che loro affermavano di servire e seguire. Difficilmente potremmo sostenere che il perdono, o la remissione di un peccato, non sia cosa che coinvolga la giustizia di Dio che così decide secondo il suo giudizio insindacabile.

Torniamo però di nuovo ai farisei, che espressero una verità: in un altro episodio, non sapendo cosa rispondere, dichiararono che Gesù scacciava i demoni con l’aiuto di Baal-zebub loro principe, cosa impossibile perché “Ogni regno diviso in parti contrarie sarà ridotto in deserto ed ogni città o casa divisa in parti contrarie non potrà reggere. E se Satana caccia Satana, egli è diviso contro se stesso; come dunque potrà sussistere il suo regno? (…) Ma, se è per l’aiuto dello Spirito di Dio che io caccio i demoni, è dunque pervenuto fino a voi il regno di Dio” (Matteo 12.24-28).

Altra osservazione utile per queste riflessioni la fa Paolo nella sua lettera ai Colossesi, che risentiva dottrinalmente delle influenze del giudaismo legale, e pagane: “Badate che nessuno vi inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo. È in Cristo che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità e voi avete in lui parte alla sua pienezza, di lui cioè che è il capo di ogni Principato e di ogni Potestà” (2. 8-10). “Tutta la pienezza” tra le quali non possiamo non contare la giustizia e, infatti, è in lui che vengono saziati tutti coloro che sono affamati ed assetati di essa.

In un simile quadro allora, ecco che la giustizia sotto l’ottica di Gesù causerà persecuzione, e sarà caratterizzata dall’ insulto, dalla persecuzione e dalla menzogna, cose che Lui patì prima di tutti gli altri che lo avrebbero seguito credendo nella Sua persona ed opera. L’insultoè un’offesa grave e volontaria ai sentimenti e alla dignità della persona arrecata con parole ingiuriose, con atti di spregio volgare o anche con un contegno intenzionalmente offensivo e umiliante; nel caso di Nostro Signore, lo vediamo soprattutto alla crocifissione, con le percosse alle quali seguiva la frase “Indovina chi ti ha colpito”, con gli sputi e le prese in giro dei capi dei sacerdoti, scribi e anziani “Ha salvato gli altri e non può salvare se stesso”. La persecuzioneallude a un complesso di sistematiche azioni di forza intese a stroncare una persona o un movimento politico o religioso, a ridurre o addirittura ad eliminare una minoranza etnica o sociale. Che Gesù sia stato perseguitato, e con lui i primi cristiani (ma anche oggi nel mondo i cristiani perseguitati sono milioni) credo non sia un mistero per nessuno; però è indicativo che alla persecuzione si sia sempre accompagnata la menzogna, cioè un’affermazione contraria a ciò che si sa o si crede sia vero, o anche contraria a ciò che si pensa, alterazione (o negazione o anche occultamento) consapevole e intenzionale della verità. Ricordiamo ad esempio quanto concordarono i sacerdoti e gli anziani del popolo assieme ai soldati romani che testimoniarono loro di avere visto l’angelo che rotolava la pietra del sepolcro: “…dopo essersi consultati, diedero una buona somma di denaro ai soldati dicendo «Dite così: i suoi discepoli sono venuti di notte e l’hanno rubato, mentre noi dormivamo. E se mai la cosa venisse all’orecchio del governatore, noi lo persuaderemo e vi libereremo da ogni preoccupazione». Quelli presero il denaro e fecero secondo le istruzioni ricevute. Così questo racconto si è divulgato fra i giudei fino ad oggi” (Matteo 28.13-15). Furono quindi sordi al racconto di quegli uomini e anteposero la loro volontà di sopravvivenza assieme alle proprie dottrine evidentemente decadute. Così infatti era avvenuto: “Un angelo del Signore, sceso dal cielo, si avvicinò, rotolò la pietra e si pose a sedere sopra di essa. Il suo aspetto era come folgore e il suo vestito bianco come neve. Per lo spavento che ebbero di lui, le guardie furono scosse e rimasero come morte” (Ibidem, 2-4).

Lo stesso processo a Gesù, che esamineremo a suo tempo, studiato da un punto di vista strettamente legale, presentò una serie infinita di irregolarità alla luce della Legge che il popolo di Israele aveva ricevuto, ma qui ci occuperemo di pochi versi: “I capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una falsa testimonianza contro Gesù, per metterlo a morte; ma non la trovarono, sebbene si fossero presentati molti falsi testimoni. Finalmente se ne presentarono due, che affermarono «Costui ha dichiarato: posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni»”(Matteo 26.59-61): si noti la sottigliezza del metodo vista nel fatto che si cercavano falsi testimoni ma, non trovandosene, si trovò il modo di estrapolare una frase che Gesù aveva effettivamente detto riferendosi al suo corpo, per piegarla ai loro scopi.

Questo è stato fatto a Nostro Signore. Per chi avrebbe creduto in Lui, possiamo citare le persecuzioni subite da Pietro, Giovanni, dall’apostolo Paolo e da Stefano, primo martire cristiano che troviamo al capitolo sesto del libro degli Atti che, “Pieno di grazia e di potenza, faceva grandi prodigi e segni fra il popolo. Allora alcuni della sinagoga detta dei Liberti, dei Cirenei, degli Alessandrini e di quelli della Cilicia e dell’Asia, si alzarono a discutere con Stefano, ma non riuscivano a resistere alla sapienza e allo Spirito con cui egli parlava. Allora istigarono alcuni di loro perché dicessero «Lo abbiamo udito pronunciare parole blasfeme contro Mosè e contro Dio». E così sollevarono il popolo e gli scribi gli piombarono addosso, lo catturarono e lo condussero davanti al sinedrio. Presentarono quindi dei falsi testimoni, che dissero «Costui non fa altro che parlare contro questo luogo santo e contro la legge. Lo abbiamo infatti udito dichiarare che Gesù, questo nazareno, distruggerà questo luogo e sovvertirà le usanze che Mosè ci ha tramandato” (Atti 6.8-14).

Ecco la menzogna organizzata, ma ecco anche la beatitudine di Stefano: prima è scritto che “Tutti quelli che sedevano nel sinedrio, fissando gli occhi su di lui, videro il suo volto come quello di un angelo” (v.15), ma poi quello che ha attirato la mia attenzione è stato il modo in cui concluse la sua esistenza terrena, poiché dopo aver esposto le sue ragioni con una predicazione toccante, leggiamo “Ma egli, pieno di Spirito Santo, fissando il cielo, vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla destra di Dio e disse «Ecco, contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio”(Ibidem, 7.15). Fu poi lapidato fuori Gerusalemme, pregando “Signore, non imputare loro questo peccato”.

Credo che la visione di Stefano fu il modo che ebbe Iddio per rincuorarlo e consentirgli di affrontare la morte serenamente e metterlo in condizione di andare oltre il dolore per quelle pietre che lo colpivano. Fu anche l’adempimento pratico delle parole che abbiamo letto, “Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli”, che appunto Stefano intravide. Gesù disse che “I nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa” (Matteo 10.36) alludendo proprio a quella di Israele, persecutrice prima di Roma di fronte ai cui metodi inorridiamo, dimenticando che invece i primi persecutori furono, appunto, quegli ebrei che, a differenza dei pagani superstiziosamente religiosi, avrebbero avuto tutti gli elementi per credere in Gesù Cristo e tutt’ora lo rifiutano.

Per ultima, abbiamo la frase “Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi”: pensiamo a Geremia, gettato nella cisterna di Malchia (Geremia 38), o prima di lui Elia, che Gezabele moglie del re Acab voleva uccidere (1 Re 19 e ss.). Ancora Isaia, arrestato e condannato a morte da Manasse secondo una tradizione ebraica, re di Giuda e figlio di Ezechia, oppure Uzia, perseguitato dal re Ioiachim (Geremia 26.21) oltre che Zaccaria, lapidato “nel cortile del Tempio del Signore” (2 Cronache 24.21), episodio  sconcertante: “Dopo la morte di Ioiadà, i comandanti di Giuda andarono a prostrarsi davanti al re, che diede loro ascolto. Costoro trascurarono il tempio del Signore, Dio dei loro padri, per venerare i pali sacri e gli idoli. Per questa loro colpa l’ira di Dio fu su Giuda e su Gerusalemme. Il Signore mandò loro dei profeti perché li facessero tornare a lui. Questi testimoniarono contro di loro, ma non furono ascoltati. Allora lo spirito di Dio investì Zaccaria, figlio del sacerdote Ioiadà, che si alzò in mezzo al popolo e disse «Dice Dio: «Perché trasgredite i comandi del Signore? Per questo non avete successo; poiché avete abbandonato il Signore, anch’egli vi abbandona». Ma congiurarono contro di lui e per ordine del re lo lapidarono nel cortile del tempio del Signore. Il re Ioas non si ricordò del favore fattogli da Ioiadà, padre di Zaccaria, ma ne uccise il figlio, che morendo disse «Il Signore veda e ne chieda conto!” (2 Cronache 24.17-22).

Ci sono poi le parole di quello Stefano che abbiamo citato: “Testardi e incirconcisi nel cuore e nelle orecchie, voi opponete sempre resistenza allo Spirito Santo. Come i vostri padri, acosì siete anche voi. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi ora siete diventati traditori e uccisori, voi che avete ricevuto la Legge mediante ordini dati dagli angeli e non l’avete osservata». All’udire queste cose, erano furibondi in cuor loro e digrignavano i denti contro Stefano” (Atti 7.51-53).

Chiedersi il significato dell’ultima beatitudine per noi è giusto, per quanti sono convinto che Gesù, con le parole sui “perseguitati per causa di giustizia”, si riferisse all’immediatezza di quanto sarebbe avvenuto a quanti lo avessero seguito. Credo che sia l’apostolo Pietro ad aggiornarci quando scrive “Nella misura in cui partecipate alle sofferenze di Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della sua gloria possiate rallegrarvi ed esultare. Beati voi, se venite insultati nel nome di Cristo, perché lo Spirito della gloria, che è Spirito di Dio, riposa su di voi. Nessuno di voi abbia a soffrire come omicida o ladro, malfattore o delatore. Ma se uno soffre come cristiano, non se ne vergogni, ma anzi dia gloria a Dio” (1 Pietro 4.13-16), parole indirizzate a tutti quei fratelli o sorelle che, anche in questo tempo definito “civile” in cui viviamo, in molte zone della terra sono attuali e vive. Amen.

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