02.15 – IL CIBO CHE NON CONOSCETE (Giovanni 4.31-38)

2.13 – Il cibo che non conoscete (Giovanni 4.31-38)

 

31Intanto i discepoli lo pregavano: «Rabbì, mangia». 32Ma egli rispose loro: «Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete». 33E i discepoli si domandavano l’un l’altro: «Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?». 34Gesù disse loro: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. 35Voi non dite forse: «Ancora quattro mesi e poi viene la mietitura»? Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. 36Chi miete riceve il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. 37In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l’altro miete. 38Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica».”

Nel resoconto che Giovanni fa dell’incontro con la donna samaritana, parla dell’arrivo dei discepoli con le provviste acquistate nelle vicinanze: “27In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: «Che cosa cerchi?», o: «Di che cosa parli con lei?». 28La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: 29«Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?». 30Uscirono dalla città e andavano da lui”.

Mentre quindi la donna andava in città ad annunciare agli altri chi aveva incontrato, si inserisce questo dialogo coi discepoli che, vedendo che Gesù si era dissetato, lo esortavano a mangiare, preoccupati delle sue condizioni perché consapevoli delle energie perse a causa del lungo viaggio sotto il sole. La sua risposta a quell’invito pone per la prima volta a confronto la Sua realtà e quella del discepoli, che fino ad allora avevano seguito quel Rabbi nei suoi spostamenti impressionati dai suoi miracoli e dalle parole di vita che aveva per coloro che lo incontravano. Di lui avevano una visione parzialmente corretta, quella che potevano sperimentare quotidianamente, ma non avevano la piena consapevolezza che verrà loro data solo qualche anno dopo, da quando in Gerusalemme lo Spirito Santo, il Consolatore promesso, scenderà su di loro ed altri per un totale di 120 persone (Atti, capitolo 2).

Sappiamo che in precedenza era avvenuta la tentazione nel deserto in cui Gesù aveva ricordato all’Avversario che l’uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio; qui però abbiamo un annuncio diverso, non in opposizione al metro di ragionamento che Satana cercava di insinuare in Lui, ma di distinzione: “Ho da mangiare un cibo che voi non conoscete”, cioè “fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera”, parola con cui corregge la loro visione terrena: “Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?”.

Va notato che, nell’ambito di questo episodio, c’è anche la contrapposizione tra l’“acqua” e il “cibo”: l’acqua della vita che Gesù avrebbe dato alla Samaritana e ai suoi conterranei, usi a bastonare se non a uccidere i giudei che transitavano sulle loro terre come attesta Giuseppe Flavio, e il cibo che sia i discepoli che altri ignoravano: la prima era alla portata di chiunque avesse voluto riceverla, il secondo era riservato a Lui, venuto per rivelare il Padre e l’apertura della dispensazione della Grazia.

Il cibo di Gesù consisteva in due azioni distinte viste nel “fare la volontà di Colui che mi ha mandato” e di “compiere la Sua opera”, strettamente collegate tra loro: la prima, fare la volontà, allude all’attività continua e ininterrotta giorno per giorno tramite la preghiera, la comunione col Padre e la perfetta ubbidienza nei Suoi confronti, la seconda ha riferimento con quel “tutto è compiuto”, sesta frase detta alla croce che precede quel “Padre, nelle tue mani rimetto il mio spirito”.

Compiere è un verbo che usiamo quando abbiamo portato a termine un’azione, un’opera, quando giungiamo al termine di un percorso e implica non solo la sua fine materiale, ma la sua riuscita. Nel caso di Gesù, perfetto esecutore dei voleri e delle aspettative del Padre, abbiamo la perfezione del suo compiere quel “tutto”, vale a dire che nulla era stato tralasciato per la salvezza dell’uomo, cosa possibile solo se quel sacrificio avesse realmente soddisfatto le esigenze di giustizia del Padre viste nell’Agnello di Dio innocente immolato. Senza la perfezione della vita quotidiana di Gesù davanti a Dio Padre, non sarebbero stati possibili i miracoli ed ancor più la Sua resurrezione e quindi la salvezza dell’uomo perché solo la santità, vista nella totale assenza di peccato, avrebbe potuto qualificare il Figlio come l’unico idoneo a riscattare la creatura peccatrice. Abbiamo qui un confronto tra ciò che è divino e santo e ciò che è impuro e peccatore per natura.

L’apostolo Pietro parla del risultato dell’opera di Cristo con queste parole: “…sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro, siete stati riscattati dal vano modo di vivere tramandatovi dai vostri padri, ma con il prezioso sangue di Cristo, come quello di un agnello senza difetto né macchia. Già designato prima della creazione del mondo, egli è stato manifestato negli ultimi tempi per voi; per mezzo di lui credete in Dio che lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria affinché la vostra fede e la vostra speranza siano in Dio” (1 Pietro 1.18-21).

Soffermiamoci un attimo su queste parole: la prima che abbiamo è il riscatto che, nel diritto privato, è la liberazione da un obbligo contrattuale attuata mediante il pagamento di una somma. Nelle parole di Pietro leggiamo che il cristiano è stato riscattato da un modo di vivere “vano”, cioè vuoto, privo di corpo o consistenza materiale, inutile, trasmessogli dai suoi padri che non potevano fare altrimenti. È infatti la vita vuota, resa tale dalla condizione di peccato in cui vive, l’unica che l’uomo può conoscere e trasmettere agli altri: una vita fondata sull’esclusivo soddisfacimento dei propri bisogni perché “cioè che è nato di carne è carne” e che il quotidiano terreno tende a fargli vedere come ricca e significativa. L’argento e l’oro, che nel mondo in cui viviamo sono i soli in grado di riscattare qualcosa – un appartamento, anni di studio, un debito – beni corruttibili soggetti ad essere rubati dai ladri o per noi oggi dalle banche – nulla possono per il riscatto di un’anima. E il “prezioso sangue di Cristo”, agnello senza difetto né macchia, è l’unico in grado di garantire un futuro eterno alla creatura che lo vuole accettare. Se Dio ai tempi dell’Antico Patto richiedeva il sacrificio di un agnello perfetto e puro esteriormente, Cristo ora è l’agnello perfetto e puro nell’esterno e nell’interno, l’unico, vale a dire che Dio Padre, che scruta e vaglia ogni cosa, prima di accettare il sacrificio del Figlio, ha dovuto riconoscerlo come senza difetto né macchia ai suoi occhi. È una questione di idoneità che nessun uomo avrebbe mai potuto avere.

Pietro afferma che Cristo è stato designato prima della creazione del mondo: il “Sia la luce” fu un ordine emanato dunque dopo che Padre, Figlio e Spirito Santo si consultarono sul da farsi una volta che l’uomo e la donna avrebbero peccato perché sapevano che ciò sarebbe avvenuto. Allora, la creatura di Dio non era predestinata ad essere estromessa da Eden, ma a venire creata e recuperata dal Suo amore.

La seconda parte delle parole di Pietro sono affini a quelle dette da Gesù ai discepoli: è per noi che il Figlio è stato manifestato, perché senza di lui crederemmo (forse) in un Dio generico come molti, un creatore nei confronti del quale non sapremmo quali sentimenti provare e soprattutto quali risposte avere su di lui a fronte di molte domande: chi è, cosa vuole, si interessa di noi, può intervenire nella nostra vita, esiste, o siamo il frutto di un incidente molecolare, di un’evoluzione, della fisica quantistica?

Invece, per noi, vista la perfezione della Sua vita e del conseguente sacrificio, Dio lo ha risuscitato dai morti e gli ha dato gloria perché la nostra fede e la nostra speranza siano in Lui. C’è quindi un fine, uno scopo. Fede e speranza in Dio escludono la fede e la speranza nel quotidiano, nelle promesse umane quasi mai mantenute perché la giustizia e l’onore dell’uomo sono suscettibili a enormi variazioni e la scala di valori su cui si basano è quanto mai mobile. Ma sappiamo che “Gesù Cristo è lo stesso di ieri, di oggi e in eterno” (Ebrei 13.8): non cambia, né Lui, né le sue parole che sappiano non passeranno, a differenza del cielo e della terra che conosciamo.

Torniamo ora al nostro episodio, che propone le parole di Gesù ai discepoli espresse tramite una parabola: dal verso 35 in poi il discorso di Gesù passa dalla Sua persona alla loro: nella Sua onniscienza, vede l’opera che stava compiendo nei suoi risultati futuri e la vede non disgiunta da quella dei suoi – allora – cinque discepoli. La visione di Gesù è nel futuro: dalla spiegazione della parabola della zizzania (Matteo 13.24-30) ricaviamo dati importanti: “Colui che semina il buon seme è il Figlio dell’uomo. Il campo è il mondo, il buon seme sono i figli del regno e la zizzania sono i figli del maligno e il nemico che l’ha seminata è il diavolo, mentre la mietitura è la fine del mondo, e i mietitori sono gli angeli. Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, ed essi raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace del fuoco. Lì sarà pianto e stridor di denti. Allora i giusti risplenderanno come il sole nel regno del padre loro. Chi ha orecchi da udire, oda”.

Queste parole, certo più dettagliate da quelle esposte nel nostro episodio che Gesù non spiegò ai discepoli, ci fanno capire quanto sia importante la funzione di chi collabora con Lui nell’Opera di Dio secondo le sue possibilità e i doni ricevuti: c’è un tempo preciso per la mietitura, un giorno e un’ora che “nemmeno il Figlio conosce, ma solo il Padre”, ma il campo del mondo biondeggia da sempre così come la vigna, altra figura di cui Gesù si serve per spiegare il progetto di Dio; la lettura della parabola degli operai delle diverse ore ci può aiutare (Matteo 20.1-16). Le parole di Gesù che abbiamo letto in questa parabola, oltre alla frase del nostro episodio “io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato, e voi siete subentrati nella loro fatica”, si riferiscono a tutti coloro che nel corso dei secoli si sono adoperati perché Dio si rivelasse, dando ciascuno il proprio contributo a partire da Enosh, figlio di Seth figlio di Adamo in Genesi 4.26 in cui leggiamo “Anche a Seth nacque un figlio e lo chiamo Enosh. Allora si cominciò a invocare il nome dell’Eterno”. Poi, per citarne alcuni, pensiamo a Mosè, ai profeti e allo stesso Giovanni Battista che sarebbe stato messo a morte: tutti avevano lavorato al tempo loro e secondo il mandato loro affidato, per preparare il popolo del patto a ricevere il Messia e il Regno di Dio.

Gesù, quando parla di “mietitura” nei versi oggetto di riflessione, non si riferisce tanto a quella finale, nel giorno del giudizio, il solo in cui verrà definitivamente e una volta per tutte separato il grano dalla zizzania apparentemente simile a lui, ma di quella del guadagnare un’anima a Cristo, che contrassegna già la persona come appartenente a lui per cui distaccata, separata dagli altri uomini che non condividono la fede in Lui.

I mietitori di questo tipo, da non confondere con gli altri visti negli angeli, ricevono un salario e raccolgono frutto per la vita eterna, vale a dire che compiono quelle opere che, alla vagliatura del fuoco secondo 1 Corinti 3.13, resisteranno e avranno un premio: gioire insieme a chi miete. Può accadere, presi nelle nostre occupazioni, che ci dimentichiamo che certe espressioni che troviamo nella Scrittura hanno sempre la perfezione come sostanza: non sarà la gioia che intendiamo noi, ma una gioia perfetta, totale, quella che sarà realizzata in spirito e che i pochi che la videro, come Paolo o Giovanni, si ritrovarono impotenti a descrivere nella sua pienezza.

Concludendo, con la citazione del proverbio “l’uno semina, l’altro miete”, popolare ai tempi di Gesù e che alludeva alla precarietà della vita, Gesù intende dire che dove altri seminarono, Cristo manda i suoi discepoli a mietere; dove poi essi avrebbero seminato nel duro terreno delle genti, altri a loro turno ne avrebbero raccolto il frutto visto nella conversione dei Gentili. Ma, in ogni caso, seminatore e mietitori si rallegreranno insieme”, alla e nella gloria di Dio Padre. Amen.

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02.14 – LA SAMARITANA II/II (Giovanni 4.16-30)

2.14 – La Samaritana II/II (Giovanni 4.16-30)

 

16Le dice: «Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui». 17Gli risponde la donna: «Io non ho marito». Le dice Gesù: «Hai detto bene: «Io non ho marito». 18Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero». 19Gli replica la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta! 20I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». 21Gesù le dice: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. 22Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. 23Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. 24Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità». 25Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa». 26Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te». 27In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: «Che cosa cerchi?», o: «Di che cosa parli con lei?». 28La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: 29«Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?». 30Uscirono dalla città e andavano da lui”.

La seconda parte del dialogo di Nostro Signore con la donna samaritana ha avuto due interpretazioni differenti, una letterale e un’altra allegorica, non priva di qualche fondamento, sulla quale ci soffermeremo ogni tanto. Vediamo che, rispetto alle parole che furono dette alla donna riguardo all’acqua viva, c’è una brusca variazione di argomenti: posto che lei non aveva capito il riferimento all’ “acqua viva” di Gesù, era necessario aprirle un percorso che si concluderà con la rivelazione di essere Lui il Messia; la donna infatti disse infatti “So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa”. Da queste parole abbiamo un dettaglio molto importante, cioè che la samaritana credeva che il Messia sarebbe arrivato un giorno, senza sapere quando e se lo avrebbe visto, poiché dice “So che deve venire”, non un generico e scettico “Dicono”.

Rispettando la cronologia del racconto, vediamo che il nuovo contenuto del dialogo è “Va’ a chiamare tuo marito – originale “l’uomo” – e torna qui”. Gesù rivolge questo invito per dimostrare a quella donna la sua conoscenza del percorso che aveva compiuto. La sua risposta “Io non ho marito”, trovò infatti la sua giusta lettura nella replica: “Hai detto bene, «Io non ho marito». Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero”.

Ecco, qui molti si sono cimentati in diverse interpretazioni, accusando la samaritana di poligamia o di immoralità, oppure altri hanno messo in connessione i cinque mariti della donna con le cinque fasi storiche e le attività idolatre dei samaritani, ma in questo caso Gesù avrebbe detto cose note e non sarebbe stato mai riconosciuto dalla donna come un profeta; al limite, come una persona colta o uno storico. La samaritana, invece, aveva avuto cinque mariti che poi l’avevano ripudiata seguendo le modalità della Legge mosaica e, dopo quei cinque divorzi, era ospitata da una persona che non era suo marito, cioè non aveva rapporti carnali con lei. Non era nemmeno promessa in sposa a qualcuno – perché in tal caso il “fidanzato” sarebbe stato chiamato “marito” – né poteva convivere more uxorio perché inconcepibile per quei tempi. “Non è tuo marito” si deve leggere nel senso “si prende cura di te in un altro modo”, quindi un parente, più o meno lontano.

Occorre fare molta attenzione nella lettura di questo testo, perché si rischia di adattarlo ai nostri tempi e costumi: allora era all’uomo che era concesso divorziare, non alla donna. Così in Deuteronomio 24.1: “Quando un uomo ha preso una donna e ha vissuto con lei da marito, se poi avviene che ella non trovi grazia ai suoi occhi perché ha trovato in lei qualcosa di vergognoso, scriva per lei un libello di ripudio, glielo consegni in mano e la mandi via dalla casa”. A quel punto la donna era libera e poteva diventare moglie di un altro. Non possiamo sapere se gli uomini che avevano ripudiato la samaritana lo avevano fatto perché aveva un carattere difficile perché, per lo meno in Israele, quel “qualcosa di vergognoso” era diventato col tempo un pretesto e poteva anche essere costituito da una minestra mal cucinata o qualsiasi altro difetto che l’uomo desideroso di sbarazzarsi della propria moglie potesse trovare. Questi “difetti” ai tempi di Gesù erano considerati sufficienti per divorziare.

Per la donna ripudiata, se non trovava un altro marito, si apriva un percorso molto difficile: la sua famiglia di origine si sentiva disonorata e non la riprendeva con sé per cui non era infrequente che si avviasse sulla strada della prostituzione per mantenersi. L’innominata samaritana che parlò con Gesù, aveva trovato una sistemazione diversa e, se fosse ospite da un parente misericordioso, a servizio oppure ospite di qualcuno, non sappiamo con certezza. Giovanni ha ritenuto di informarci dettagliatamente sul dialogo intercorso, non sul passato di questa donna che, per il ruolo avuto di testimone, appare sinceramente irrilevante. Se le condizioni spirituali della samaritana fossero state tali da renderla incompatibile col Vangelo, (vedi ad esempio i presuntuosi, religiosissimi farisei) Gesù non le avrebbe parlato, ma se all’inizio dell’episodio abbiamo letto che “doveva passare per la Samaria” nonostante le strade per la Galilea fossero due, ciò implica sia che aveva un appuntamento sia con lei, sia coi suoi conterranei.

Se il Dio che perdona cancella gli errori della persona ponendola nelle condizioni di credere in Lui e quindi avere una vita nuova, a maggior ragione ipotizzare un passato “discutibile” della samaritana appare inutile e fuori luogo. Dio non tiene un inventario di quello che siamo stati, ma quello che stiamo diventando dopo averlo incontrato perché “Le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove”: quelle che dobbiamo cercare e scoprire sono quindi le nuove, non le altre, nostre o, ancora peggio, degli altri.

Solo nel caso in cui l’essere umano rifiuta coscientemente e consapevolmente il messaggio del Vangelo “l’ira di Dio permane su di lui” ed ecco perché rifiutare lo Spirito Santo, che convince l’uomo di peccato, è l’unica bestemmia che non sarà perdonata.

C’è, nel colloquio con la samaritana, un crescendo di attenzioni da parte sua e un atteggiamento ben diverso da quello iniziale di diffidenza e, forse, ostilità nei confronti di un giudeo che osava chiederle da bere: “Signore, vedo che tu sei profeta. I nostri padri hanno adorato su questo monte, voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare”. Abbiamo qui un primo riconoscimento, perché il “profeta” non era e non è chi predice il futuro o vede il passato di una persona, ma chi ha una missione spirituale, non terrena. La samaritana quindi passò attraverso tre stadi: un primo diffidente e di ostilità per quanto non sfacciata, un secondo di ascolto perché accettò di conversare con Gesù, e un terzo di riconoscere in Lui un profeta. A questo se ne aggiungerà un quarto, di annuncio ai suoi conterranei.

La seconda parte del versetto è più difficile e ci domandiamo: la donna cerca di cambiare discorso sentendosi imbarazzata e non volendo che Gesù proseguisse a raccontarle la sua vita trascorsa, oppure, visto che aveva di fronte a lei un profeta, ne approfitta per avere una spiegazione autorevole su quale fosse il vero luogo dove adorare, stante la questione teologica che divideva i due popoli? È una domanda che si sono posti in molti. Io credo che Giovanni, che non era presente e scrive ricordando il racconto che gli fece Gesù, abbia scritto solo i punti salienti del dialogo, ma è la reazione della donna a rivelare quanto fosse in attesa di un annuncio: lasciò lì la sua anfora per andare a dire alla gente “Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?”. La diffidenza aveva lasciato posto a un senso di possibilità. Altri traducono “Non è costui forse il Cristo?”, ma il senso esatto espresso dalla forma grammaticale suggerisce una parafrasi nel senso di “Potrebbe esserci una benedizione così tra di noi?”.

Torniamo però leggermente indietro: la samaritana non poteva che difendere le sue tradizioni religiose che avevano un iniziale fondamento: aveva il pozzo costruito da Giacobbe, la tomba di Giuseppe, il monte Garizim, quello della benedizione in opposto al monte Ebal (Deuteronomio 11.29), luoghi importanti perché lì si riunirono tutte le dodici tribù, (sei sul Garizim e altrettante sull’Ebal), figura della pienezza dei piani di Dio e delle sue promesse. Se leggiamo Deuteronomio 27.11-26, possiamo vedere la terribile attualità che rivestono anche e oggi quelle parole: “11In quello stesso giorno Mosè diede quest’ordine al popolo: 12«Ecco quelli che, una volta attraversato il Giordano, staranno sul monte Garizìm per benedire il popolo: Simeone, Levi, Giuda, Ìssacar, Giuseppe e Beniamino; 13ecco quelli che staranno sul monte Ebal per pronunciare la maledizione: Ruben, Gad, Aser, Zàbulon, Dan e Nèftali. 14I leviti prenderanno la parola e diranno ad alta voce a tutti gli Israeliti: 15«Maledetto l’uomo che fa un’immagine scolpita o di metallo fuso, abominio per il Signore, lavoro di mano d’artefice, e la pone in luogo occulto!». Tutto il popolo risponderà e dirà: «Amen». 16«Maledetto chi maltratta il padre e la madre!». Tutto il popolo dirà: «Amen».17«Maledetto chi sposta i confini del suo prossimo!». Tutto il popolo dirà: «Amen». 18«Maledetto chi fa smarrire il cammino al cieco!». Tutto il popolo dirà: «Amen». 19«Maledetto chi lede il diritto del forestiero, dell’orfano e della vedova!». Tutto il popolo dirà: «Amen». 20«Maledetto chi si unisce con la moglie del padre, perché solleva il lembo del mantello del padre!». Tutto il popolo dirà: «Amen».21«Maledetto chi giace con qualsiasi bestia!». Tutto il popolo dirà: «Amen». 22«Maledetto chi giace con la propria sorella, figlia di suo padre o figlia di sua madre!». Tutto il popolo dirà: «Amen».23«Maledetto chi giace con la suocera!». Tutto il popolo dirà: «Amen». 24«Maledetto chi colpisce il suo prossimo in segreto!». Tutto il popolo dirà: «Amen». 25«Maledetto chi accetta un regalo per condannare a morte un innocente!». Tutto il popolo dirà: «Amen». 26«Maledetto chi non mantiene in vigore le parole di questa legge, per metterle in pratica!». Tutto il popolo dirà: «Amen».

            Tornando al dialogo con la samaritana, Gesù le ricorda due cose; la prima è che sta per arrivare il momento in cui l’adorazione sarebbe stata resa indipendente da un tempio e da un luogo, la seconda è che “la salvezza viene dai giudei” in riferimento alle promesse del Messia che sarebbe arrivato proprio dalla tribù di Giuda.

Voi adorate quello che non conoscete” era il motivo della presenza di Gesù in mezzo a loro, il motivo per cui “doveva passare per la Samaria”, lo stesso che consentì all’apostolo Paolo di predicare nell’areopago di Atene in Atti 17.22.31: “22Allora Paolo, in piedi in mezzo all’Areòpago, disse:
«Ateniesi, vedo che, in tutto, siete molto religiosi. 23Passando infatti e osservando i vostri monumenti sacri, ho trovato anche un altare con l’iscrizione: «A un dio ignoto». Ebbene, colui che, senza conoscerlo, voi adorate, io ve lo annuncio. 24Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo 25né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa: è lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa. 26Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio 27perché cerchino Dio, se mai, tastando qua e là come ciechi, arrivino a trovarlo, benché non sia lontano da ciascuno di noi. 28In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come hanno detto anche alcuni dei vostri poeti: «Perché di lui anche noi siamo stirpe».
29Poiché dunque siamo stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento e alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’ingegno umano. 30Ora Dio, passando sopra ai tempi dell’ignoranza, ordina agli uomini che tutti e dappertutto si convertano, 31perché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare il mondo con giustizia, per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti».

            Adorare “in spirito e verità” al di fuori quindi del rito, dei sacrifici offerti, del luogo, in una dimensione diversa non più legata e dipendente da intermediari: “l’ora che viene” di cui parlò Gesù alla samaritana fu assolutamente precisa e fu simboleggiata da un evento che sarebbe bastato a convertire chiunque: fu costituito dal momento in cui, alla morte di Gesù, “il velo del tempio si squarciò in due, dall’alto in basso” (Matteo 15.38). Ebbene quel velo, enorme che richiedeva 70 uomini per tirarlo giù, spostarlo e lavarlo, alto circa 20 metri e spesso 10 centimetri che secondo Flavio Giuseppe non sarebbe bastata la forza di due cavalli per lacerarlo, era quello che separava la zona dei sacerdoti dal Santo dei Santi in cui poteva entrare il sommo sacerdote solo una volta all’anno. Un segno più eloquente della fine di quel tempo non poteva esservi.

La samaritana, dopo l’intervento di Gesù sull’adorazione, gli rispose “So che deve venire il Cristo: quando verrà, ci annuncerà ogni cosa. Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te»”. L’innominata donna, profondamente scossa da quelle parole, non poteva dimenticare quanto Gesù le aveva detto: come sappiamo lasciò l’anfora a terra, che l’avrebbe impedita nel cammino, e corse in città parlando a chiunque incontrava. Il risultato è noto:39Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». 40E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. 41Molti di più credettero per la sua parola 42e alla donna dicevano: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo»”.

Veramente il salvatore del mondo”, un attestato di fiducia e fede piena che Gesù non trovò mai tra il suo popolo. I Samaritani, inoltre, lo definiscono in un modo nuovo, universale, a differenza dell’ostinata rivendicazione dei giudei. In un certo senso, si tratta di un attributo futuro per cui la gioia di quel popolo è di appartenenza universale. Da notare che il testo originale aggiunge “Il Cristo” dopo “il salvatore del mondo”.

È da notare, per concludere, che i samaritani saranno premiati, confermando la fede avuta in Gesù, diversi anni più tardi, poiché leggiamo nel libro degli Atti: “5Filippo, sceso in una città della Samaria, predicava loro il Cristo. 6E le folle, unanimi, prestavano attenzione alle parole di Filippo, sentendolo parlare e vedendo i segni che egli compiva. 7Infatti da molti indemoniati uscivano spiriti impuri, emettendo alte grida, e molti paralitici e storpi furono guariti. 8E vi fu grande gioia in quella città” (Atti 8.5-8).

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02.13 – LA SAMARITANA I/II (Giovanni 4.1-16)

2.12 – La Samaritana I/II (Giovanni 4.1-16)

 

1 Gesù venne a sapere che i farisei avevano sentito dire: «Gesù fa più discepoli e battezza più di Giovanni» – 2sebbene non fosse Gesù in persona a battezzare, ma i suoi discepoli -, 3lasciò allora la Giudea e si diresse di nuovo verso la Galilea. 4Doveva perciò attraversare la Samaria. 5Giunse così a una città della Samaria chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: 6qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. 7Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». 8I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. 9Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani. 10Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: «Dammi da bere!», tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva». 11Gli dice la donna: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? 12Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?». 13Gesù le risponde: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; 14ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». 15«Signore – gli dice la donna -, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua».

È curioso che Giovanni introduca l’episodio con un’annotazione di natura politica che ci informa di quanto fosse attenta l’attenzione dei farisei su tutto ciò che di nuovo si affacciava sulla vita religiosa del Paese: li abbiamo visti inviare i propri informatori quando il Battista svolgeva il suo ministero sulle rive del Giordano e mandare alcuni di loro, con sacerdoti e leviti, per interrogarlo direttamente, evitando di far proprio il messaggio che veniva rivolto a tutti gli ebrei, quindi anche a loro, consistente nel ravvedimento. Le autorità religiose di Israele non ritennero subito Giovanni per loro pericoloso, ma successivamente sì ed è probabile che abbiano avuto un ruolo determinante nel suo arresto e reclusione nel Macheronte, la fortezza di Erode su una collina sulle rive del Mar Morto. Giovanni Battista, come abbiamo, letto si era spostato a svolgere il suo ministero ad Àinon, o Enon, città sulla quale Erode non aveva giurisdizione perché facente parte della città libera di Scitopoli, a sua volta inserita nella Decapoli, autonome e indipendenti dall’impero. Trovandosi però Scitopoli, incuneata fra i due tronconi del territorio di Antipa, la Galilea e la Perea, fu probabilmente facile attirare il Battista con qualche stratagemma nella giurisdizione erodiana e farlo arrestare. Ora che i farisei stavano per liberarsi di lui, o di lui si erano già appena liberati, l’informativa che giunse a loro li mise in allarme perché Gesù faceva più discepoli e battezzava più di Giovanni.

Gesù decise di andare in Galilea non solo perché a conoscenza dei piani che i farisei avrebbero ordito contro di lui – ammesso che non fossero già in atto – ma per un importante dettaglio che ci viene dai Sinottici: Matteo 4.12 scrive “Quando Gesù seppe che Giovanni era stato arrestato, si ritirò nella Galilea, lasciò Nazareth e venne ad abitare a Cafarnao”, Marco 1.14 “Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il Vangelo di Dio”, Luca 3.20 “Ma il tetrarca Erode, rimproverato da lui – Giovanni Battista – a causa di Erodiade, moglie di suo fratello, e per tutte le malvagità che aveva commesso, aggiunse alle altre anche questa: fece rinchiudere Giovanni in prigione”. Su questo fatto torneremo più avanti; per ora basta sapere che il Tetrarca (Antipa), aveva intrecciato una relazione con Erodiade, già moglie di suo fratello Erode Filippo, ancora in vita, che poi sposò macchiandosi così di incesto oltre che di adulterio, essendo considerata la moglie “carne” del proprio marito e viceversa.

Ecco spiegate allora le ragioni dello spostarsi di Gesù dalla Giudea, quella maggiormente dominata dal potere religioso farisaico, alla Galilea: Egli sapeva che, ora che i farisei avevano risolto il problema rappresentato dal Battista, potevano concentrare tutte le loro attenzioni e congiure su di lui. Loro che si ritenevano gli unici depositari della Legge e della sua interpretazione, per non turbare gli equilibri dei rapporti con Erode, nulla avevano detto al re sulla sua relazione illecita.

Per raggiungere la Galilea i percorsi possibili erano due: il primo era molto frequentato e passava per Gerico attraversando la Perea; il secondo era più breve, ma passava per la Samaria, i cui abitanti non erano certo graditi dai Giudei (e viceversa) per le forti rivalità religiose che intercorrevano tra i due popoli. Ebrei e samaritani avevano ciascuno il loro tempio che ritenevano l’unico legittimo. I primi avevano sì la Legge, ma equiparavano la sua autorità alla loro tradizione, mentre i secondi ritenevano legittima la sola Legge data al popolo da Mosè.

I samaritani erano frutto di una mescolanza di razze, per quanto si dichiarassero appartenenti al popolo di Israele e si considerassero discendenti della tribù di Efraim e Manasse. Quando la città di Samaria fu distrutta dagli Assiri nel 721 a.C., questi deportarono la maggioranza degli ebrei e li sostituirono con altra gente di usi e lingue diverse che finì per mescolarsi con i pochi rimasti. Gli stranieri importati nel territorio samaritano avevano portato le loro credenze religiose e i loro culti, ma col passar del tempo prevalse quella dell’Iddio d’Israele, adorato sotto forma di vitello nei due santuari di Dan e Bethel. Più delle molte parole che si potrebbero spendere per spiegare ciò che avvenne nei tempi antichi, si può leggere 2 Re 17.23.41: “…Israele fu deportato dalla sua terra in Assiria, fino ad oggi. 24Il re d’Assiria mandò gente da Babilonia, da Cuta, da Avva, da Camat e da Sefarvàim e la stabilì nelle città della Samaria al posto degli Israeliti. E quelli presero possesso della Samaria e si stabilirono nelle sue città. 25All’inizio del loro insediamento non veneravano il Signore ed egli inviò contro di loro dei leoni, che ne facevano strage. 26Allora dissero al re d’Assiria: «Le popolazioni che tu hai trasferito e stabilito nelle città della Samaria non conoscono il culto del dio locale ed egli ha mandato contro di loro dei leoni, i quali seminano morte tra loro, perché esse non conoscono il culto del dio locale». 27Il re d’Assiria ordinò: «Mandate laggiù uno dei sacerdoti che avete deportato di là: vada, vi si stabilisca e insegni il culto del dio locale». 28Venne uno dei sacerdoti deportati da Samaria, che si stabilì a Betel e insegnava loro come venerare il Signore. 29Ogni popolazione si fece i suoi dèi e li mise nei templi delle alture costruite dai Samaritani, ognuna nella città dove dimorava. 30Gli uomini di Babilonia si fecero Succot-Benòt, gli uomini di Cuta si fecero Nergal, gli uomini di Camat si fecero Asimà. 31Gli Avviti si fecero Nibcaz e Tartak; i Sefarvei bruciavano nel fuoco i propri figli in onore di Adrammèlec e di Anammèlec, divinità di Sefarvàim. 32Veneravano anche il Signore; si fecero sacerdoti per le alture, scegliendoli tra di loro: prestavano servizio per loro nei templi delle alture. 33Veneravano il Signore e servivano i loro dèi, secondo il culto delle nazioni dalle quali li avevano deportati. 34Fino ad oggi essi agiscono secondo i culti antichi: non venerano il Signore e non agiscono secondo le loro norme e il loro culto, né secondo la legge e il comando che il Signore ha dato ai figli di Giacobbe, a cui impose il nome d’Israele. 35Il Signore aveva concluso con loro un’alleanza e aveva loro ordinato: «Non venerate altri dèi, non prostratevi davanti a loro, non serviteli e non sacrificate a loro, 36ma venerate solo il Signore, che vi ha fatto salire dalla terra d’Egitto con grande potenza e con braccio teso: a lui prostratevi e a lui sacrificate. 37Osservate le norme, i precetti, la legge e il comando che egli ha scritto per voi, mettendoli in pratica tutti i giorni; non venerate altri dèi. 38Non dimenticate l’alleanza che ho concluso con voi e non venerate altri dèi, 39ma venerate soltanto il Signore, vostro Dio, ed egli vi libererà dal potere di tutti i vostri nemici». 40Essi però non ascoltarono, ma continuano ad agire secondo il loro culto antico. 41Così quelle popolazioni veneravano il Signore e servivano i loro idoli, e così pure i loro figli e i figli dei loro figli: come fecero i loro padri essi fanno ancora oggi”.

Da quel tempo a quello di Gesù erano cambiate alcune cose: ai samaritani, disprezzati dagli ebrei e ritenuti assolutamente impuri, non fu concesso di partecipare alla ricostruzione del Tempio di Gerusalemme e da allora tra giudei e loro nacque una profonda inimicizia. Quel popolo costruì un proprio tempio sul monte Gherizim, poi distrutto 150 anni prima di Gesù da Giovanni Ircano I, re di Giuda e sommo sacerdote. Ciò acuì ulteriormente l’inimicizia tra i due popoli.

Il Maestro, quindi, arriva a un pozzo che esiste ancora oggi, profondo circa 35 metri, da solo, verso mezzogiorno, ed è impossibilitato a bere perché sprovvisto del necessario per attingere acqua, cioè di un recipiente e ancor di più di una lunga corda per calarlo. Anche Sichar esiste ancora, col nome di Askar e il pozzo dista da lei poche centinaia di metri. A 300 metri dal pozzo, c’è la tomba di Giuseppe dove attualmente vengono scortati a pregare i coloni israeliani in aperto conflitto con la popolazione araba alla quale, in quelle occasioni, è impedito di circolare liberamente. È questo un dato triste, ma che verrà utile per le riflessioni che potremo fare in altri studi.

A questo punto abbiamo l’incontro con la persona che Gesù aspettava, una donna particolare che in un certo senso farà da ponte tra Lui e il popolo samaritano: arriva poco dopo per attingere acqua e Gesù le chiede di farlo bere. La risposta che ottiene testimonia la situazione di tensione esistente tra Giudei e quella popolazione, ma Nostro Signore sposta immediatamente la questione sulla differenza tra l’acqua che avrebbe ricevuto dalla donna e quella che lui avrebbe potuto darle. Qui, pensando alla funzione vitale di questo elemento, ci viene immediatamente il ricordo di una frase che Gesù dette poco tempo addietro, citando la Scrittura, a Satana: “L’uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio”. Là abbiamo avuto il pane, figura di ciò che nutre il corpo, qui abbiamo l’acqua che lo fa vivere, dove il corpo è la figura dell’anima, paragone che la donna non comprende perché gli dice “Signore, dammi di quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua”.

Gesù però parlava di un’acqua viva, quella che solo lui avrebbe potuto e può dare, e lo fa con parole che trovavano le loro radici nei rotoli dei profeti. Infatti: “Attingete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza” (Isaia 12.3); “Io verserò acqua sul suolo assetato, torrenti sul terreno arido” (44.3), ma ancor più Geremia 2.12 quando il profeta rimprovera il popolo per bocca di Dio: “Oracolo del Signore. Due sono le colpe che ha commesso il mio popolo: ha abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si è scavato delle cisterne, cisterne piene di crepe, che non trattengono l’acqua”. Il paragone è sempre attuale nonostante siano passati secoli. In quest’ultimo passo e nelle parole di Gesù si parla di una differenza sostanziale tra l’acqua naturale, che disseta temporaneamente, e quella viva, che risolve il problema per sempre. Nel passo di Geremia il popolo aveva abbandonato l’unica sorgente possibile e aveva costruito delle cisterne che Dio definisce “piene di crepe, che non trattengono acqua” con una descrizione appropriata di quei manufatti che, viene da pensare, crepati materialmente non fossero, ma spiritualmente sì. Le cisterne che il popolo si era costruito costituivano un’alternativa per calmare una sete diversa, quella della carne. “Ha abbandonato me, sorgente di acqua viva”, cioè ha rifiutato di vivere per e di fede, dimenticando tutte le volte in cui il Signore aveva dimostrato tutto il suo piano per loro e la sua assistenza. “E si è scavato”, cioè ha voluto farlo, ha scelto, ha faticato pur di avere una esistenza lontana da lui: acqua per acqua, era meglio quella della “libertà”, dell’autonomia umana del tutto apparente e vana, piuttosto che quella che poteva essere raccolta direttamente alla fonte; per farlo, però, bisognava essere fedeli e avere soprattutto quell’atteggiamento che viene naturale una volta sottomessi a Dio. E viene qui in mente il “gran comandamento”, allora in embrione, dichiarato da Gesù a un anonimo dottore della legge in Matteo 22.37: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. È da lì e solo da lì che si sviluppa il rapporto Creatore – creatura e l’abbandonare la sorgente di acqua viva per bere alle cisterne rivela proprio quel distacco che si produce quando si ascoltano le interferenze della vita materiale che chiama ad altro, sempre in opposizione al richiamo di Dio.

Torniamo alla roccia in Horeb, figura velata del Figlio sempre presente: parlando di lei e del popolo di allora, Paolo scrive “…e tutti bevvero la stessa bevanda spirituale, perché bevevano alla stessa roccia che li seguiva, e la roccia era Cristo. Ma la maggior parte di loro non fu gradita a Dio e perciò furono sterminati nel deserto” (1 Corinti 10.4,5). Ecco perché, tanto al tempo della samaritana quanto ai nostri, è solo Cristo che può dare quell’acqua, con effetti totalmente nuovi visti in due distinti periodi: “Chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno”, condizione presente e futura ben diversa da quella dell’uomo ricco che, nella parabola del povero Lazzaro, trovandosi nei tormenti, disse ad Abrahamo “Abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito, perché questa fiamma mi tortura” (Luca 16.24).

L’acqua che solo Gesù può dare esenta dalla sete spirituale per sempre perché coinvolge profondamente la parte più intima dell’anima e dello spirito, i più suscettibili a provare un’insoddisfazione riguardo ai quali la carne, che beve l’acqua naturale, non sa come comportarsi: non esistono cose sulla terra in grado di placare la sete dell’anima. Gli interessi e passioni che possiamo avere, se coltivate anche seriamente e come teoricamente meriterebbero, si rivelano alla fine come un placebo perché viene, o verrà, sempre il punto in cui, tirando le somme, si scoprirà puntualmente di non aver realizzato nulla. Ci si ritroverà, al limite, con dei beni materiali che un giorno passeranno ad altri.

Il fatto di prendere l’acqua che disseta per sempre implica il chiederla a Cristo, il fidarsi di lui sapendo che dà a chi chiede: “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un pesce, gli darà al suo posto una pietra? Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!” (Luca 11.9). Ecco allora che, con queste parole, Gesù parla della necessità che ha l’essere umano di cambiare ottica: cercare la vita, l’acqua viva, è la prima cosa necessaria che non può non venire data, è quel valore inestimabile, che la maggioranza sottovaluta, descritto in Isaia 55.1-3: “O voi tutti che siete assetati, venite alle acque; voi che non avete denaro – idoneo a comprare quelle cose – venite, comprate e mangiate. Venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte. Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete dei cibi succulenti. Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete”.

La seconda parte del verso che riporta le parole di Gesù alla samaritana dice “L’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna”. Non sarà questa la prima volta che parlerà in questo modo: l’ultimo giorno in cui si celebrava la festa della Capanne, che commemorava il pellegrinaggio del popolo d’Israele nel deserto, disse gridando “Se qualcuno ha sete, venga a me e beva. Chi crede in me, come dice la Scrittura, fiumi d’acqua viva usciranno dal suo grembo. Questo disse dello Spirito che avrebbero ricevuto quanti avrebbero creduto il lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato” (Giovanni 7.37,38).

Ecco perché, alla samaritana, Gesù parla di un’acqua che avrebbe dato al futuro e non al presente: “L’acqua che io gli darò”. Lo Spirito sarebbe stato quindi una sorgente d’acqua zampillante, non fluente dalla terra o da una roccia, ma dal credente stesso, il cui unico scopo sarebbe stato in vista della vita eterna. Sarebbe stata quindi una caratteristica, una consolazione, un orientamento nel percorso, più o meno lungo, nella vita terrena sotto la prospettiva di quella eterna, una caparra.

Infatti “È Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo e ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori” (2 Corinti 1.22,23). E la “caparra” è un termine tecnico giuridico che, nel diritto civile, è una somma di denaro o una quantità di altre cose fungibili versata a titolo di reciproca e mutuale garanzia contro l’inadempimento di un contratto. La caparra dello Spirito, è data in questo caso da Dio all’uomo.

Possono degnamente concludere questa prima parte le parole dell’apostolo Paolo che spiega la realtà di chi ha scelto di appartenere a Cristo: “Sappiamo infatti che quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è come una tenda, riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli. Perciò, in questa condizione, noi gemiamo e desideriamo rivestirci della nostra abitazione celeste purché siamo trovati vestiti, non nudi. In realtà quanti siamo in questa tenda sospiriamo come sotto un peso, perché non vogliamo essere spogliati, ma rivestititi, affinché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita. E chi ci ha fatti proprio per questo è Dio, che ci ha dato la caparra dello Spirito” (2 Corinti 5.1-5).

La Samaritana, persona concreta, stupita che un giudeo le parlasse, prese alla lettera le parole di Gesù chiedendogli di dare quell’acqua anche a lei, risparmiandole così la fatica di venire tutti i giorni al pozzo ad attingere.

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02.12 – L’AMICO DELLO SPOSO (Giovanni 3.22-36)

2.11 – L’amico dello sposo (Giovanni 3.22-36)

 

22Dopo queste cose, Gesù venne con i suoi discepoli nel territorio della Giudea, e là rimase con loro e battezzava. 23Ora anche Giovanni battezzava in Enon, vicino a Salim, perché là c’era abbondanza di acqua e la gente veniva e si faceva battezzare 24perché Giovanni non era ancora stato gettato in prigione. 25Sorse allora una discussione da parte dei discepoli di Giovanni con i Giudei attorno alla purificazione. 26Così vennero da Giovanni e gli dissero «Maestro, chi era con te al di là del Giordano, a cui hai reso testimonianza, ecco che battezza tutti quelli che vanno da lui» 27Giovanni rispose e disse: «L’uomo non può ricevere nulla, se non gli è dato dal cielo. 28Voi stessi mi siete testimoni che io ho detto «Io non sono il Cristo, ma sono stato mandato davanti a lui». 29Colui che ha la sposa è lo sposo, ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, si rallegra grandemente alla voce dello sposo; perciò la mia gioia è completa. 30Bisogna che egli cresca e che io diminuisca. 31Colui che viene dall’alto è sopra tutti; colui che viene dalla terra è della terra e parla della terra; colui che viene dal cielo è sopra tutti. 32Egli attesta ciò che ha visto e udito, ma nessuno riceve la sua testimonianza. 33Colui che ha ricevuto la sua testimonianza ha solennemente dichiarato che Dio è verace. 34Infatti colui che Dio ha mandato proferisce le parole di Dio, perché Dio non gli dà lo Spirito con misura. 35Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa. 36Chi crede nel Figlio ha vita eterna, ma chi non ubbidisce al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio dimora su di lui»”.

Dopo il discorso di Gesù a Nicodemo, abbiamo le parole del Battista ai suoi discepoli che mette a confronto la sua opera con quella di Gesù che, dopo quel colloquio, ritenendo di aver concluso la sua permanenza in città, fosse meglio rivolgersi alle zone di campagna circostanti. Si mise così a predicare battezzando proprio come faceva Giovanni Battista che si trovava ad Enon (o Ainon) più a Nord anche se, come leggiamo in Giovanni 4.2, “non era Gesù a battezzare, ma i suoi discepoli”. Ci fu una disputa sulla “purificazione” con un giudeo, nei testi più accreditati al singolare e non al plurale, sulla differenza tra il purificarsi secondo la tradizione e quella del battesimo predicato da Giovanni e quello dai discepoli di Gesù, allora ancora identici nella forma e nella sostanza.

Giovanni, prima dell’inizio della vita pubblica di Gesù, era l’unico accreditato ad amministrare il battesimo in quanto era colui che Dio aveva designato per essere la “Voce d’uno che grida nel deserto «Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri»”. Non era ancora venuto il tempo in cui Gesù avrebbe detto a chi guariva “La tua fede ti ha salvato” e i miracoli fatti in Gerusalemme avevano lo scopo di qualificarlo esattamente come disse Nicodemo: “Noi sappiamo che nessuno può compiere i segni che tu fai, se Dio non è con lui”.

I discepoli di Giovanni, evidentemente convinti dell’unicità della predicazione del loro Maestro, avevano preso con una certa gelosia la notizia in base alla quale Gesù predicava e battezzava al pari suo, interrogati forse sulla eventuale differenza tra i due battesimi e sul perché uno amministrasse in un luogo e l’altro in un altro. Le parole dei suoi discepoli, con quell’ “a cui hai reso testimonianza” mostrano quanto non avessero capito che era in atto un profondo mutamento nella storia della salvezza, quasi a sottintendere “Guarda, tu l’hai qualificato davanti a tutti i presenti come l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo, e lui ti ricambia in questo modo”; per questo era necessario un distinguo tra di due ruoli, tra il privilegio che aveva avuto Giovanni, “mandato davanti a lui” e la persona del Cristo, dell’inviato con un unzione non umana, profondamente diversa per compiti e origine. E Giovanni Battista si qualifica, con un termine che per i lettori del vangelo è nuovo, “l’amico dello sposo”, proponendo un tema che verrà poi sviluppato in particolare dall’apostolo Paolo. L’insegnamento del Battista potrà essere qui visto per sommi capi e verrà ripreso più avanti, quando Gesù esporrà delle importanti parabole su questo tema.

Il distinguo tra le opere del precursore del Messia e il Messia stesso è definito con vari concetti e una premessa in base alla quale “L’uomo non può ricevere nulla se non gli è dato dal cielo” là dove il ricevere implica anche, nel verbo greco originale, “prendere”. I doni di Dio vengono dispensati, ma tocca al destinatario – appunto – prenderli e usarli, come nella parabola dei talenti esposta in Luca 19.12-27 (leggere) che ci parla di un uomo che parte per un paese lontano per ricevere il titolo di re e tornare, e dei servi che prendono dalle sue mani una moneta d’oro per farle fruttare nell’attesa.

Giovanni dice ai suoi discepoli, con questa frase, che solo nel caso di un dono dall’alto vi può essere un risultato, altrimenti la sostanza, il raccolto incorruttibile, non può esistere, come testimoniato dalle vicende esposte da Gamaliele e di cui abbiamo parlato in un’altra riflessione a proposito dei tanti sorti dal nulla che pretendevano di essere il Messia o un suo inviato, che poi scomparvero sepolti dalla storia o, nella storia della Chiesa, tanti fautori di errori interpretativi penalizzanti alcuni durati pochi anni, altri esistenti ancora oggi. Ogni uomo mandato veramente da Dio ha un’opera e un campo d’azione assegnatogli a prescindere da titoli e riconoscimenti umani; nel caso di Giovanni il ruolo che aveva era quello di essere “mandato davanti a lui” sì come voce nel deserto, ma anche come “amico dello sposo”, definizione nuova che non troveremo più, nella Scrittura, per nessun altro.

L’amico dello sposo, per i matrimoni di allora, chiamato dai greci Paranymphos, era l’incaricato di tutti i preliminari del matrimonio ed aveva una funzione tecnico-giuridica: domandava la mano della sposa, stringeva il contratto di matrimonio stabilendo la sua dote, preparava e presiedeva la festa nuziale e l’onore che aveva era direttamente proporzionale al rango delle due famiglie. Si trattava di un incarico delicato che richiedeva una fiducia assoluta e un’amicizia intima tra lo sposo e il suo amico. Per usare questi termini, sicuramente alla presenza dell’apostolo Giovanni e forse anche degli altri tre (Andrea, Pietro e Giacomo), il Battista doveva avere ricevuto un insegnamento molto profondo dallo Spirito perché vide, anche se in modo diverso, ciò che descrive il suo omonimo discepolo, poi diventato apostolo, in Apocalisse quando scrive “Udii poi come una voce di una folla immensa, simile a fragore di grandi acque e a rombo di tuoni possenti, che gridavano «Alleluia! Ha preso possesso del suo regno il Signore, il nostro Dio, l’Onnipotente. Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria, perché sono giunte le nozze dell’Agnello; la sua sposa è pronta: le fu data una veste di lino puro e splendente». La veste di lino sono le opere giuste dei santi” (19.6-8).

Qualificandosi così davanti a quei discepoli, Giovanni Battista fa un paragone perfetto. Lui preparava, poneva le basi per una Chiesa di cui, pur dovendo ancora formarsi, ne vedeva le sembianze nel suo futuro immediato e lontano, mentre l’apostolo la vide in tutta la sua perfezione nella visione della Gerusalemme celeste in cui “quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello” formeranno un tutt’uno con essa (Apocalisse 21.9-27). Giovanni Battista, da uomo attento e consapevole del proprio ruolo, sa che il momento in cui dovrà farsi da parte è imminente: “Bisogna che lui cresca e che io diminuisca” (v.30) e infatti la sua funzione diminuirà in modo proporzionale a quella con cui Gesù illuminava le persone coi suoi insegnamenti indicando la via verso il cielo, cioè lui stesso: “Io sono la via, la verità e la vita”. È l’amore vero, quello che non cerca il tornaconto personale, ma l’altrui. L’apostolo Paolo, poi, si servirà della relazione tra Cristo e la Chiesa per descrivere il rapporto matrimoniale tra credenti consapevoli: “Mariti, amate le vostre mogli come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola, e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Efesi 5.25-27).

Le parole di Giovanni Battista furono capite dai suoi discepoli, segno che non si era limitato a predicare il ravvedimento, ma aveva comunicato loro anche il piano di Dio tanto per il popolo eletto quanto per tutti quelli che sarebbero venuti un giorno, spiegando loro quanto fossero fuori luogo i sentimenti tipicamente umani che provavano, gli stessi che animarono poi i discepoli di Cristo quando gli dissero “Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e volevamo impedirglielo – originale “noi glielo impedivamo” – perché non ci seguiva” (Marco 9.38). Il problema non era che i discepoli di Gesù battezzassero e la gente accorresse a lui, ma la distinzione dei ruoli: stava per arrivare il tempo in cui Giovanni avrebbe dovuto mettersi da parte e Gesù diventare sempre più importante, accentrando su di sé la predicazione sostenuta dai miracoli, ciascuno dei quali illuminanti per i significati spirituali che rivestono. “Lui deve crescere, io invece diminuire” sono parole molto importanti, un rimprovero amorevole a quei discepoli che invece avrebbero voluto vedere il loro maestro crescere di importanza stante la vita che aveva condotto e la gente che veniva ad ascoltarlo: Giovanni, con quelle parole, ricorda loro che non aveva mai nascosto di essere un semplice messaggero: “Dopo di me, viene uno che è più grande di me”. Quel “più grande di me” era arrivato e non era uno qualunque, ma uno che “viene dall’alto” ed “è al di sopra di tutti” perché “viene dal cielo”, cioè da un luogo alto, inaccessibile, è l’unico che possa avere l’autorità per parlare di cose che altrimenti sarebbero ignorate e lo fa non perché ha studiato, ma “attesta ciò che ha visto e udito”.

In pratica, senza di lui, senza la sua voce che molti udirono allora ma che noi leggiamo, proseguiremmo la nostra esistenza nelle tenebre dell’ignoranza. Ecco il perché “Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una gran luce”! Ogni essere umano cammina alla luce del giorno, se non altro per un certo numero di ore per cui non ha bisogno di una luce supplementare a meno che questa non sia per illuminare la parte nascosta di lui, quella spirituale.

L’uomo, da solo, non ha modo di conoscere la verità. Lo dimostra la ricerca millenaria di un senso della vita attraverso la filosofia e la religione che, a volte, può anche giungere a frammenti di vero perché un cuore e una mente onesta non possono non pervenire alla conclusione che ciò che abbiamo è illusorio e non può salvare, ma qui il discorso è profondamente diverso: la verità è una, non irraggiungibile anzi vicina perché c’è chi l’ha portata e spiegata; uno che viene dall’alto, è al di sopra di tutti, che attesta ciò che ha visto e udito, verbi che non lasciano scampo perché escludono il sentito dire o una libera interpretazione di cui tanti si nutrono.

Come già avvenuto nel colloquio con Nicodemo nei versi da 16 a 21, non si può escludere che in quelli da 31 a 36 che stiamo leggendo vi sia un intervento dell’evangelista, essendovi parentela di contenuti e di forma col primo capitolo, l’inno di apertura, ma poco cambia perché l’apostolo Giovanni, eventuale autore dei versi, in questo caso estende i concetti che il Battista aveva ben chiari, salvo un dubbio che lo attanagliò quando era imprigionato nella fortezza del Macheronte sotto Erode Antipa: “Sei tu quello che deve venire, o dobbiamo aspettarne un altro?

Egli attesta ciò che ha visto e udito, eppure nessuno accetta la sua testimonianza”, “nessuno” usato per contrapposizione al “chi” successivo, che “conferma che Dio è veritiero” e il confronto “nessuno – chi” lo troviamo nell’episodio dei dieci lebbrosi guariti in Luca 17.11-19: qui, leggiamo che uno solo, samaritano quindi non appartenente alla congregazione di Israele, con gli altri nove ebrei che guarivano lungo il cammino, tornò indietro prostrandosi davanti a Gesù per ringraziarlo. “Ma Gesù osservò «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio all’infuori di questo straniero?» E gli disse «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato”.

A questo punto, abbiamo una descrizione dello sposo: “Colui che Dio ha mandato dice le parole di Dio: senza misura Egli dà lo spirito. Il Signore gli ha dato in mano ogni cosa”. Chi ha parlato delle cose del cielo, che ha visto e udito, non è un ambasciatore: ricordiamo le parole “Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra” (Matteo 28.18), che l’apostolo Paolo spiegò agli Efesini con queste parole: 1…7affinché il Dio del Signore nostro Gesù Cristo, il Padre della gloria, vi dia uno spirito di sapienza e di rivelazione per una profonda conoscenza di lui; 18illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità fra i santi 19e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi, che crediamo, secondo l’efficacia della sua forza e del suo vigore. 20Egli la manifestò in Cristo, quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli 21al di sopra di ogni Principato e Potenza, al di sopra di ogni Forza e Dominazione
e di ogni nome che viene nominato non solo nel tempo presente ma anche in quello futuro.
22 Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose:
23essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose”
(Efesini 1.20-22). “Perché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami Gesù Cristo è il Signore» a gloria di Dio Padre” (Filippesi 2.10,11). Ogni cosa il Padre ha dato il mano al Figlio, l’unico ad averlo rivelato.

E per concludere, Giovanni conclude il suo intervento con parole di netta separazione, le stesse che costituirono la prima azione di Dio alla creazione, quando con la luce divise la luce dalle tenebre: “Chi crede nel Figlio ha la vita eterna; chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio rimane su di lui”.

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