4.04 – APOSTOLI 4 (Luca 6.12-16)

4.4 – Apostoli IV (Luca 6.12-16)

 

 12In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. 13Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli: 14Simone, al quale diede anche il nome di Pietro; Andrea, suo fratello; Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, 15Matteo, Tommaso; Giacomo, figlio di Alfeo; Simone, detto Zelota; 16Giuda, figlio di Giacomo; e Giuda Iscariota, che divenne il traditore.”

BARTOLOMEO 

           Sappiamo che Natanaele e Bartolomeosono la stessa persona e che a lui si Filippo, non appena lo incontrò, gli parlò di Gesù che lo aveva da poco chiamato a seguirlo. Filippo, in questo modo, dette prova di essere una persona selettiva perché non parlò di Gesù a chiunque incontrava per la strada, ma si mise alla ricerca dell’amico col quale probabilmente aveva condiviso i discorsi su Colui che Giovanni Battista annunciava dicendo di non essere degno neppure di sciogliergli il laccio dei sandali. Se Filippo “era di Betsaida, città di Andrea e Pietro” (Giovanni 1.44), sapeva anche dello Spirito Santo sceso su di lui in forma di colomba, evento che agli attenti ebrei che aspettavano “la consolazione di Israele” non poteva sfuggire.

L’amicizia tra Filippo e Natanaele si basava allora, al di là di quella umana, proprio sul profondo interesse sull’arrivo del nuovo inviato di Dio per il quale abbiamo visto che lui pregava sotto il fico. Questo apostolo è una bella figura di uomo in attesa della rivelazione, della manifestazione del Signore aperta, nonostante la titubanza iniziale espressa con quel “può esserci qualcosa di buono da Nazareth?”; alla possibilità: all’affermazione “Noi abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, il figlio di Giuseppe, da Nazareth”, risponde con un’obiezione cui non fa comunque seguito un’esclusione categorica. E infatti, seguì Filippo che lo condusse da Gesù che lo definì “Un israelita in cui non c’è falsità”, o come traduce Diodati “in cui non vi è frode alcuna”.

Natanaele, allora, era una persona onesta dal punto di vista morale e spirituale, simile a quel Simeone di cui parla Luca definendolo “Uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione di Israele”: al primo, Simeone, ormai vecchio, fu concesso di vedere Gesù nato da poco, al secondo, il cui nome significa “Dono di Dio”, di condividerne il ministero pubblico.

Tornando al loro primo incontro, vediamo che Nostro Signore gli si rivela come colui che già lo conosceva, perché prima lo definisce come uomo in cui non vi era falsità e poi di averlo visto sotto l’albero al quale si recava per pregare, dichiarazioni che compendiano sia la conoscenza dell’uomo, ma soprattutto la sua presenza spirituale: “Prima che Filippo ti chiamasse, ti ho visto quando eri sotto il fico”. Natanaele capì immediatamente il messaggio: Gesù non lo aveva visto perché passava di là, nei pressi dell’albero, ma perché era testimone della sua preghiera che non riguardava argomenti quotidiani personali, ma la venuta del Messia con particolare riguardo all’annuncio del Battista di cui pregava perché potesse averne parte.

Sappiamo che, alle parole su di lui, rispose “Rabbi, tu sei il Figlio di Dio, il Re di Israele”, una dichiarazione di fede completa, non senza la gioia per le sue preghiere esaudite che fece sgorgare spontanea una testimonianza che addirittura precede quella di Pietro: Natanaele chiama Gesù Rabbi, cioè “Mio maestro” più che “Maestro” in genere, poi “Figlio di Dio” riconoscendogli un’origine non terrena, e infine “Re d’Israele”, confermando di credere pienamente nella Sua funzione messianica. Soprattutto, poi, è quel “Figlio di Dio” posto fra gli altri due titoli a rivelare che Natanaele riconoscesse a Gesù quanto scritto in Salmo 2.7-9: “Voglio annunciare il decreto del Signore. Egli mi ha detto «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato. Chiedimi e ti darò in eredità le genti e in tuo dominio le terre più lontane. Le spezzerai con scettro di ferro, come vaso di argilla le frantumerai”.

Soffermandoci molto brevemente su questa profezia, che ha per tema il sostentamento del Signore al Suo Consacrato, quell’ “oggi” si riferisce al momento in cui il Figlio sarebbe stato dichiarato agli uomini, cui segue la promessa dell’eredità sulle “genti e le terre più lontane”, cioè le popolazioni pagane che avrebbero creduto in Lui profetizzate da Noè stesso con le parole “Iddio allarghi Iafet, e dimori nelle tende di Sem” (Genesi 9.27). E la violenza che traspare dallo spezzare e frantumare è riferita non al destino finale di quelle genti e territori, ma di quella parte di umanità che muoverà guerra, in tempi che devono ancora venire, a tutto ciò che esulerà dalla religione dell’impero mondiale destinato a realizzarsi e di cui intravediamo oggi comunque il corpo.

Natanaele, chiamando Gesù in quel modo, si sentì certamente liberato, ascoltato, esaudito e stette sempre vicino a Gesù anche se di lui non sappiamo altro, se non che era di Cana di Galilea e fu testimone del miracolo dell’acqua mutata in vino. Era presente con tutti gli altri discepoli nella casa di Gerusalemme in cui si riuniva la Chiesa ed alcuni hanno ipotizzato che fosse uno scriba o comunque una persona versata nelle scritture: ciò coinciderebbe col fatto del fico, pianta sotto la quale gli scribi amavano studiare, con i tre attributi coi quali qualifica Gesù e con la stessa domanda su Nazareth perché gli scribi sapevano benissimo, come abbiamo visto nell’episodio in cui Erode si informa da loro su dove sarebbe nato il Messia, che era Bethlehem e non Nazareth il luogo in cui questi sarebbe nato.

 

LEVI MATTEO

Abbiamo sviluppato recentemente il carattere e la personalità di quest’apostolo nell’affrontare la sua chiamata, avvenuta mentre esercitava la sua professione. Era una persona colta, metodica e conoscitore delle scritture come ha testimoniato scrivendo il suo Vangelo, in lingua aramaica poi tradotto in greco, entrambe lingue parlate in Israele ai tempi di Nostro Signore. Scopo del suo scritto, il primo del canone, è quello di presentare Gesù come Re: “Dov’è il re dei giudei che è nato? Abbiamo visto spuntare la sua stella, e siamo venuti ad adorarlo” (Matteo 2.2). Parente di Gesù, era anche fratello di Giacomo di Alfeo, anche lui chiamato ad essere apostolo che nel passo di Luca è collocato al nono posto. Nel gruppo dei dodici, c’erano così tre coppie di fratelli.

 

TOMMASO

Non sappiamo quando avvenne la sua chiamata, ma è certo che seguisse il Signore come discepolo da tempo. Tommaso compare raramente, ma credo che per capirne il carattere occorra partire dal nome: “Toma” significa “Gemello” così come il suo nome greco, Didimo. Quando leggiamo quindi le traduzioni che scrivono “Tommaso detto Didimo” nei tre episodi narrati da Giovanni 11.16; 20.24 e 21.2, in realtà non abbiamo un soprannome, ma due nomi dal significato identico. Gemello è un doppio ed è indice di una personalità che, pur avendo indubbiamente dei pregi come la costanza di cui aveva dato prova seguendo Gesù nei suoi spostamenti da quando fu chiamato, era una persona spiritualmente instabile, in bilico tra il comprendere e non, capace di slanci impetuosi e di atteggiamenti che denotavano una mancata comprensione delle parole che sentiva da Gesù.

Il primo episodio, in Giovanni 11, è riferito alla malattia, poi morte, di Lazzaro che Gesù risusciterà e al clima che si era creato attorno a Lui da parte dei Farisei: quando Gesù dichiarò ai discepoli che voleva tornare in Galilea perché Betania, città di Lazzaro, era là, i suoi gli dissero “Maestro, i giudei poco fa cercavano di lapidarti, e tu vai di nuovo là?” (11.8), tranne Tommaso che sbottò dicendo “Andiamo anche noi a morire con lui!” (v.15), dichiarazione temeraria ma che dice molto su come Tommaso considerasse la propria vita e amasse il suo Maestro, pur con la sua natura rudimentale.

Abbiamo poi Giovanni 14, all’ultima cena, in cui rivela quanto poco avesse capito, o per meglio dire quanto poco in lui fosse rimasto, di tutte le parole che Gesù aveva detto in sua presenza: è un passo che molti conoscono ed è riferito alle ultime parole dette agli undici, poco dopo che Giuda era uscito dalla sala in cui mangiavano: “Il vostro cuore non sia turbato. Credete in Dio, e credete anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte stanze, se no ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto. E quando sarò andato e vi avrò preparato il posto, ritornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io siate anche voi. Voi sapete dove io vado e conoscete anche la via”. Facciamo ora attenzione alle parole di Tommaso, che prende la parola esprimendosi al plurale: “Signore, noi non sappiamo dove vai; come possiamo dunque conoscere la via?” (vv.1-5). Le parole successive di Gesù furono “Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se mi aveste conosciuto, avreste conosciuto anche mio Padre, fin da ora lo conoscete e l’avete visto”. Al che sappiamo che intervenne Filippo dicendo “Signore, mostraci il Padre e ci basta”.

Perché tanta ignoranza? Le reazioni dei discepoli testimoniano due realtà comuni a tutti gli uomini e connesse tra loro: la prima è che non basta sentire delle parole o un’esposizione chiara di concetti se non li si assimilano, soprattutto se questi hanno carattere spirituale. Si rischia di prenderli come dei dati di cui ne si intuisce l’importanza, ma senza un’illuminazione e la volontà onesta di capirle, ci si perde. La seconda è che, senza un’illuminazione, si corre il rischio di essere sterili, di fare magari molto, ma senza raccogliere un frutto. Con ciò non si vuole giudicare gli undici, ma fare un’applicazione alla nostra vita perché ci può essere lo zelo senza la conoscenza così come la conoscenza senza zelo che, entrambe, portano a un nulla, o a un poco, di fatto. Sempre Giovanni al capitolo 6 del suo Vangelo riporta un episodio interessante in proposito: si trovava nella sinagoga di Capernaum con molti giudei e discepoli quando Gesù prese a insegnare e fece un discorso che scandalizzò molti a tal punto che numerosi discepoli smisero di frequentarlo; fu quando disse che, se non avrebbero mangiato la sua carne e bevuto il suo sangue, non avrebbero avuto la vita in loro. Allora è scritto “Da quel momento molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui. Allora Gesù disse ai dodici: «Volete andarvene anche voi?» e Simon Pietro gli rispose «Signore, da chi ce ne andremo? Tu hai parole di vita eterna. E noi abbiamo creduto e abbiamo conosciuto che tu sei il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente»” (Giovanni 6.66-69). Ecco l’importanza del capire, del “credere” e “conoscere”: uno crede perché sperimenta, elabora dentro di sé, matura con tempi che non possono essere immediati, passo dopo passo, tempo dopo tempo, insegnamento dopo insegnamento.

La differenza esistente tra gli apostoli prima e dopo la discesa dello Spirito Santo credo che insegni questo: se Dio non dà una mente nuova, tutto resta inutile, vuoto, privo di risultato e qui sta la verità e l’essenza della condizione apostolica, perché lo Spirito Santo ricordò loro tutte le cose che Gesù aveva insegnato nella sua giusta dimensione. Non leggiamo più di errori dottrinali da parte degli apostoli, salvo un fraintendimento di Pietro sulla circoncisione. Forti di questo avvenimento, una parte del cristianesimo è convinta che sia sufficiente credere per venire illuminati su tutto e comprendere ogni passo della Bibbia che si legge, ma lo stato di apostolo fu unico e limitato agli undici, Mattia a parte che comunque era stato con loro per molto tempo. Purtroppo, costoro non tengono presente che la natura umana è ben presente in tutti e porta con sé presunzione, egoismo, o peggio integralismo, figlio di ignoranza e grettezza. Appartenere a una Chiesa non è appartenere a un gruppo da difendere, ma avere un’identità che si condivide con gli altri, è “essere uno” pur con le differenze di carattere, di doni e di chiamate. Ma ci vuole rispetto, carità reciproca e identificazione, altrimenti quella Chiesa sarà solo uno dei tanti gruppi religiosi che fanno propaganda. E si spegnerà spiritualmente.

Il terzo episodio di Tommaso è quello più conosciuto: non era con gli altri quando Gesù, risorto, si presentò a loro e, quando li raggiunse e gli dissero “Abbiamo visto il Signore”, rispose “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò” (20.25 e seguenti). Qui il “Gemello”, di nome e di fatto, dimostra due cose, cioè di non credere alla testimonianza degli altri e di difendere fino infondo quella parte di uomo in lui che si opponeva a credere una volta per tutte. Tommaso credo sia conosciuto ingiustamente come colui che non credeva perché poi riconoscerà Gesù come suo “Dio”, cosa che nessuno degli altri prima di allora aveva mai detto usando quelle parole. Tommaso dice agli altri che vuole verificare: non gli basta vedere Gesù risorto, vuole toccare con mano, esaminare che sia effettivamente Lui e non un sosia: dovevano esservi i segni dei chiodi non come cicatrici, ma ci avrebbe dovuto passare il dito e avrebbe dovuto mettere la mano nel costato, cioè nel torace, nel punto in cui entrò la lancia del soldato romano che causò la fuoriuscita di sangue ed acqua.

Giovanni ci informa che, quando Gesù ritornò ai dodici otto giorni dopo, non si oppose alla richiesta di Tommaso, non lo sgridò perché aveva messo in dubbio la sua risurrezione: “Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!»” (Giovanni 20.26,29).

Il giudizio di chi legge l’episodio è quasi sempre negativo su quest’apostolo, ma in realtà mostra una trasformazione definitiva da un essere a un divenire definitivo: non essere incredulo, ma (diventa) credente. Definendo Gesù “mio Dio”, Tommaso con quel possessivo capitola una volta per tutte. Don Claudio Doglio, nel suo “Personaggi giovannei” scrive a proposito dell’imperativo rivolto a Tommaso “È un cammino, è la prospettiva della vita, non diventare nella strada della incertezza, della infondatezza, della infedeltà, della sfiducia, ma diventa nella strada della fondatezza, della certezza, della fiducia, della fedeltà. Diventa, matura, cresci; nel dubbio, nella situazione doppia, scegli la strada giusta”.

Può concludere questa riflessione la beatitudine dichiarata da Gesù a tutti quelli che avrebbero creduto: la richiesta di Tommaso non è più possibile, il Figlio siede alla destra del Padre eppure il cristiano è il frutto della testimonianza dei dodici. Si crede per tanti motivi, ma primo fra tutti perché Egli è risorto, vincendo la morte e il peccato al nostro posto, perché avessimo vita nel Suo nome. Amen.

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4.03 – APOSTOLI 3 (Luca 6.12-16)

4.3 – Apostoli III (Luca 6.12-16)

12In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. 13Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli: 14Simone, al quale diede anche il nome di Pietro; Andrea, suo fratello; Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, 15Matteo, Tommaso; Giacomo, figlio di Alfeo; Simone, detto Zelota; 16Giuda, figlio di Giacomo; e Giuda Iscariota, che divenne il traditore.”

GIACOMO E GIOVANNI

            Tratteremo questi due apostoli assieme per i dati a disposizione che spesso li accomunano, oltre che per parentela intercorrente fra loro. Sappiamo che erano figli di Zebedeo che sulle rive del lago di Galilea aveva una flotta di barche e dei dipendenti, per cui erano benestanti, ma a differenza di Pietro e Andrea di cui è ricordato solo il padre, Giona, per Giacomo e Giovanni abbiamo anche il nome della madre, Salome, che si distinguerà per far parte del gruppo di donne che condivideva, coi discepoli, i viaggi con Gesù nel suo ministero. Faceva parte del suo seguito, ma soprattutto fu presente alla crocifissione come ci dice Matteo 27.55,56 quando scrive “Vi erano là anche molte donne, che osservavano da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo. 56Tra queste c’erano Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo”. Salome non solo seguirà Gesù fino alla morte sulla croce, ma voleva occuparsi anche del suo corpo per imbalsamarlo. Sarà una componente della Chiesa di Gerusalemme e probabilmente faceva parte di quelle 120 persone sulle quali scenderà lo Spirito Santo.

Marco ci dice che a questi due apostoli Gesù “diede il nome di Boanèrges, cioè figli del tuono” a significare secondo molti il loro carattere umano energico e impetuoso che si rivelò in alcuni episodi nei Vangeli: ad esempio Giovanni era tra quelli che volevano impedire a un innominato di cacciare i demoni nel nome di Gesù (Marco 9.38) e col fratello rivolsero al loro Maestro una richiesta che denotava poca riflessione e una forte ambizione umana, probabilmente sobillati dalla loro madre col la quale avevano parlato. Scrive sempre Marco: “Gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato»” (10.35-40). Matteo, nel passo parallelo, scrive che la richiesta fu portata avanti dalla loro madre Salome (20.20-24), ma il fatto che la risposta di Gesù anche in quella versione sia al plurale, “Voi non sapete quello che chiedete”, lascia supporre che i tre fossero concordi nel presentare quella richiesta. Questo episodio è scritto che provocò l’indignazione degli altri dieci apostoli: “All’udire questo, gli altri dieci furono indignati contro i due fratelli” (v. 24).

Altro passo particolare che denota il loro carattere lo troviamo in Luca 9.51,55: Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio”.

A parte questi dati mi risulta però difficile pensare che Nostro Signore li chiamò “figli del tuono” unicamente per il loro carattere, così come non credo abbia chiamato Simone “Cefa” perché era il più robusto di tutti; piuttosto, Lui che guardava non all’uomo ma al suo cuore e a quello che sarebbe diventato con l’opera della Grazia e dello Spirito Santo, pensava al “tuono” come quella voce e presenza di Dio che la maggioranza non comprende e che va rivelata. Dopo il discorso di Gesù sulla sua imminente morte e resurrezione, quando disse “Padre, glorifica il tuo nome”, leggiamo che “Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato»” (Giovanni 12.28,29). Un ultimo passo, che poi cronologicamente nella storia umana è il primo a mettere in connessione il tuono con la presenza di Dio, lo troviamo in Esodo 19.16: “Il terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore”.

Possiamo fare allora queste considerazioni: il tuono nella Scrittura è un suono sostitutivo di una realtà percepibile e pochi, ma incomprensibile a molti ed infatti, nel passo di Giovanni, fu quello sentito dalla folla e fu solo l’evangelista, e probabilmente quanti dei discepoli erano con lui, ad ascoltare le parole “L’ho glorificato e lo glorificherò ancora”. Ciò che non avvenne al battesimo di Gesù, quando la voce “Questo è il mio diletto figlio in cui mi sono compiaciuto” fu udita da tutti. Giacomo e Giovanni, allora, furono chiamati “figli del tuono” anche perché avrebbero rivelato ciò che Dio voleva fosse conosciuto dagli uomini senza possibilità di fraintendimento. Perché fossero formati, furono anch’essi testimoni di eventi che gli altri dodici non videro a parte Pietro: pensiamo alla trasfigurazione, alla resurrezione della figlia di Giairo, capo della sinagoga di Capernaum. A loro Gesù concesse di essergli vicini negli ultimi momenti nell’orto del Getsemani: “Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsèmani, e disse ai discepoli: «Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare». E, presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a provare tristezza e angoscia. E disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me». Andò un poco più avanti, cadde faccia a terra e pregava, dicendo: «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!». Poi venne dai discepoli e li trovò addormentati. E disse a Pietro: «Così, non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora? Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole». Si allontanò una seconda volta e pregò dicendo: «Padre mio, se questo calice non può passare via senza che io lo beva, si compia la tua volontà». Poi venne e li trovò di nuovo addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti. Li lasciò, si allontanò di nuovo e pregò per la terza volta, ripetendo le stesse parole. Poi si avvicinò ai discepoli e disse loro: «Dormite pure e riposatevi! Ecco, l’ora è vicina e il Figlio dell’uomo viene consegnato in mano ai peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino» (Matteo 26.36-46).

Giacomo e Giovanni realizzarono il loro compito di “figli del tuono” come testimoni ed effettivamente bevvero quel “calice” ed ebbero quel “battesimo” di cui parlò loro Gesù dopo la richiesta non corretta che gli rivolsero; ciò avvenne con la testimonianza che dettero entrambi il primo come componente di spicco nella comunità di Gerusalemme divenendo martire della Chiesa, fatto uccidere da Erode Agrippa I: “In quel tempo il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa. Fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni. Vedendo che ciò era gradito ai Giudei, vece arrestare anche Pietro” (Atti 12.1,2). Di Giovanni invece è noto che, pur non passando attraverso il martirio, subì tutte le forti persecuzioni di cui fu oggetta la Chiesa tanto per mano giudaica quanto sotto l’impero di Domiziano. Autore del quarto Vangelo, il più spontaneamente dottrinale, quello che può essere definito “il Vangelo dell’amore”, è autore di tre lettere e dell’Apocalisse, l’unico libro lasciato ai cristiani per riconoscere i tempi e gli eventi che avrebbero accompagnato la Chiesa nella sua storia dall’ascensione al cielo di Gesù al suo ritorno.

Giacomo, secondo una terminologia che non mi trova consenziente, è detto “il maggiore” per distinguerlo da un altro omonimo apostolo, che è già indicato negli elenchi come “Giacomo di Alfeo”. C’è poi anche un altro Giacomo, detto nel libro degli atti il “fratello del Signore”, che ebbe un ruolo importante nella Chiesa di Gerusalemme.

La singolarità del rapporto che Giovanni aveva col suo Maestro è descritta nel suo Vangelo dopo l’annuncio dell’imminente tradimento da parte di uno di loro: “I discepoli si guardavano l’un l’altro, non sapendo bene di chi parlasse. Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola a fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece cenno di informarsi chi fosse quello di cui parlava” (Giovanni 13.22-24). Giovanni accompagnerà Gesù fino alla crocifissione, che in quella occasione gli affidò sua madre: “Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo «Ecco tua madre». E da quell’ora il discepolo lo accolse con sé” (Giovanni 19.26,27).

È da notare che Gesù affida la propria madre a Giovanni quando Maria aveva altri figli e figlie che avrebbero potuto occuparsi di lei, ma non vi sarebbe stata la stessa parentela spirituale e quel discepolo sarebbe stato il più idoneo a sostenerla.

 

FILIPPO

Altro apostolo che conosciamo già in queste meditazioni cronologiche. Il suo carattere ed il retroterra culturale che lo caratterizzavano emergono proprio dai passi che abbiamo già affrontato: ricordiamo che mentre Giovanni e Andrea si recarono spontaneamente da Gesù, con Filippo che conoscevano fu il contrario: “Il giorno dopo Gesù volle partire per la Galilea, trovò Filippo e gli disse «Seguimi». Filippo era di Betsaida, la città di Andrea e di Pietro” (Giovanni 1.43,44). Il “Trovare”, che è tradotto anche con “incontrare”, se può significare imbattersi in qualcuno, implica però una ricerca, un’attesa. Certo Nostro Signore non s’imbatté per caso in Filippo perché sapeva che lo avrebbe incontrato e chiamato usando lo stesso invito che ebbe con Levi Matteo, “Seguimi”. E Filippo è scritto che subito dopo “trovò” Natanaele,: come Giovanni, Andrea e i loro fratelli, era un discepolo di Giovanni Battista che non solo non seppe trattenere la gioia del suo incontro col Maestro, ma diede prova di essere persona avveduta ed espansiva andando a cercare Natanaele (Bartolomeo) per dirgli “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i profeti: Gesù, figlio di Giuseppe, da Nazareth” (Giovanni 1.45). Persona discreta, scelse di non perdere tempo a convincerlo del fatto che Gesù fosse il Messia, ma preferì che fosse Natanaele stesso a sperimentarlo di persona con le parole “Vieni e vedi”.

Filippo era anche una persona aperta e pronta al servizio, come già abbiamo accennato mettendolo in relazione con Andrea nell’episodio dei greci che volevano vedere Gesù e, nell’occasione del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, fu messo alla prova dal Maestro con la frase “Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?” (Giovanni 6.5). Non ottenne altro che una risposta tecnica, cioè che duecento denari di pane non sarebbero bastati.

La figura di quest’apostolo, come accaduto con Pietro, è utile perché testimonia ancora una volta di quanto la natura umana sia sempre in opposizione alle esigenze, alle realtà di Dio e non possa comprenderle senza l’opera dello Spirito Santo: tornando ancora all’ultima cena, leggiamo ciò che avvenne dopo che Giuda uscì dalla sala.

Simon Pietro gli disse: «Signore, dove vai?». Gli rispose Gesù: «Dove io vado, tu per ora non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi». Pietro disse: «Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!». Rispose Gesù: «Darai la tua vita per me? In verità, in verità io ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte. Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: «Vado a prepararvi un posto»? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via». Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto». Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: «Mostraci il Padre»? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse.” (Giovanni 13.36-38; 14.1-11).

Abbiamo qui un quadro desolante: Pietro si dichiara pronto a dare la vita per il suo Maestro ma, terrorizzato, lo avrebbe rinnegato tre volte. Tommaso, dopo tre anni di vita comune con lui, non aveva ancora capito che Gesù se ne sarebbe tornato al Padre soprattutto dopo il suo discorso sulla casa dalle molte stanze e Filippo, completamente fuori contesto, gli dice che a loro sarebbe bastato che gli fosse mostrato il Padre dimenticando le parole “Io e il Padre siamo uno”. Questo episodio è la prova di quanto qualsiasi uomo, in quanto tale, sia naturalmente distante da Dio nel momento in cui segue i propri pensieri, dà retta ai suoi impulsi, cerca di capire con il proprio metro e intelligenza ciò che invece dev’essere lo spirito a comunicare. Vero è che lo Spirito Santo non era ancora sceso, ma ricordiamo che già da allora erano possibili rivelazioni da parte del Padre, come quando Pietro riconobbe in Gesù “Il Cristo, il figlio dell’Iddio Vivente”.

Concludendo, anche la storia di Giacomo, Giovanni, Filippo e come vedremo di tutti gli undici, testimonia che per ogni essere umano che accetta di far entrare Gesù Cristo nella propria vita non può che esistere un prima e un dopo, una progressione nella conoscenza, nella grazia e nell’amore ricambiato di Dio. E lo stesso Pietro, nella sua prima lettera, cita Isaia scrivendo “Ecco, io pongo in Sion una pietra angolare, eletta e preziosa. E chi crederà in lei non resterà confuso”.

 

GIACOMO DI ALFEO

            Sono davvero pochi i dati su questo nono apostolo salvo che, come abbiamo visto con Matteo, fosse suo fratello. Di lui si sa solo che faceva parte della Chiesa di Gerusalemme e che era presente alla discesa dello Spirito Santo sui suoi componenti.

 

SIMONE LO ZELOTA

Così chiamato da Luca, ma da Matteo e Marco “Simone il cananita” che, contrariamente a quando si possa pensare, non indica una provenienza geografica, ma ha lo stesso significato perché l’ebraico “qana” si riferisce alla corrente degli zeloti fondata da Giuda il galileo di cui parlò Gamaliele in Atti 5-37: “Dopo di lui – Teuda – al tempo del censimento sorse Giuda il Galileo, che trascinò dietro a sé molta gente; anch’egli perì e tutti coloro che lo seguirono furono dispersi”. Come per Giacomo di Alfeo, null’altro sappiamo di questo apostolo se non che era stato un appartenente di quel gruppo, che oggi i media definirebbero “terrorista”. Gli zeloti infatti erano nati da una rivolta contro il censimento di Quirino ed erano divenuti una setta che faceva incursioni e uccideva sia i cittadini dell’impero romano che gli ebrei sospettati di collaborare con loro. I romani li chiamavano “sicari”, cioè “pugnalatori” per la loro tecnica più diffusa descritta da Giuseppe Flavio nella sua “Guerra giudaica”: “in Gerusalemme nacque una nuova forma di banditismo, quella dei cosiddetti sicari, che commettevano assassinii in pieno giorno nel mezzo della città. Era specialmente in occasione delle feste che essi si mescolavano alla folla, nascondevano sotto le vesti dei piccoli pugnali e con questo colpivano i loro avversari. Poi, quando questi cadevano, gli assassini si univano a coloro che esprimevano il loro orrore e recitavano così bene da essere creduti e quindi non riconoscibili”. Se Simone lo zelota era uno di loro, resta un testimone di quanto profondo sia stato il cambiamento avvenuto in lui, che accettò di condividere la vita dei dodici accanto a un pubblicano come Matteo e a vivere le adunanze di chiesa non solo con ebrei.

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4.02 – APOSTOLI 2 (Luca 6.12-16)

4.2 – Apostoli II (Luca 6.12-16)

 

 12In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. 13Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli: 14Simone, al quale diede anche il nome di Pietro; Andrea, suo fratello; Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, 15Matteo, Tommaso; Giacomo, figlio di Alfeo; Simone, detto Zelota; 16Giuda, figlio di Giacomo; e Giuda Iscariota, che divenne il traditore.”

PIETRO

            Prima di iniziare a parlare di questo apostolo, ma anche di tutti gli altri, va tenuto presente che sarà necessario citare degli episodi o delle frasi che potranno essere sviluppate solo in parte. Le brevi note che si troveranno su tutti gli apostoli, quindi, vanno intese come dei semplici appunti in vista dell’approfondimento che verrà fatto quando si giungerà a commentare i passi veri e propri secondo la cronologia che ci siamo dati.

Dei dodici abbiamo quattro elenchi forniti dai sinottici e dal libro degli Atti, alcuni dei quali differiscono per nome e ordine, ma riferenti alle stesse persone. Pietro è il primo a comparire in tutti e Matteo scrive “Il primo è Simone, detto Pietro”, nome che sappiamo anticipatogli da Gesù nell’incontro che ebbe con lui per interessamento di suo fratello Andrea. In quell’occasione fu chiamato così in aramaico: “«Tu sei Simone, figlio di Giona; sarai chiamato Cefa», che significa pietra” (Giovanni 1.42). Cefa significa “sasso”, “pietra”, ma anche “roccia”, elementi da considerare perché costituiscono una profezia su di lui che riguardò la sua vita dopo la discesa dello Spirito Santo a Gerusalemme, ma è al tempo stesso connessa al fatto che fu Pietro il primo dei dodici a riconoscerlo come “Il Cristo, il figlio dell’Iddio vivente”. In quell’occasione Gesù gli disse “«Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli.E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli»” (Matteo 16.17-19). È questo un verso che purtroppo costituisce un terreno minato, un caso di contesa per la cristianità perché in essi la Chiesa Romana vede l’istituzione di Pietro come primo fra gli apostoli nel senso di capo e ha dato l’imprimatur a una versione che, con una licenza che quanto meno intristisce, al posto di “su questa pietra” ha “su di te”, stravolgendone il senso.

Pietro, per le ragioni che vedremo, era una persona dal carattere particolare e Gesù, chiamandolo Cefa, volle fare riferimento al ruolo che avrebbe avuto; nel verso di Matteo che abbiamo letto, impiegò il termine “pietra” definendo come tale la verità sulla quale poggia la fede del vero cristianesimo: Gesù è il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente. Simone sarebbe stato una pietra secondo quanto troviamo nella sua prima lettera in cui usa lo stesso termine: “Avvicinandovi a lui, pietra viva, rifiutata dagli uomini ma scelta e preziosa davanti a Dio, quali pietre vive siete costruiti anche voi come edificio spirituale, per un sacerdozio santo e per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, mediante Gesù Cristo” (1 Pietro 2.4). Ora l’apostolo fa un distinguo ben preciso fra la “pietra viva”, e le “pietre vive” divenute tali non per loro potere: queste costituiscono la Chiesa, composta da tutti coloro che credono e sono stati salvati di cui Gesù è la pietra angolare, la prima che viene posata e che sorregge tutto l’edificio, quella che i costruttori avevano disprezzato (Salmo 118.22), quella che Dio aveva “…posto come fondamento in Sion, una pietra provata, una pietra angolare e preziosa, un fondamento solido; chi confiderà in essa non avrà fretta di fuggire” (Isaia 28.16).

Se Gesù è quindi la pietra d’angolo, Cefa è una pietra come tutte le altre, ma particolare ed unica al tempo stesso proprio perché non solo sarà il primo a riconoscere in Gesù il Cristo, ma per tutto quello che darà in seguito, per il ruolo importante non solo di predicazione verso gli ebrei.

Cefa non sarà “la” pietra, ma “una” pietra e il testo di Matteo 16.18 su cui tanti hanno conteso significa proprio che Gesù avrebbe edificato la propria Chiesa non su Pietro come apostolo, ma sulla verità che lui espresse: “Tu sei il Cristo, il figlio dell’Iddio Vivente”. Pietro, attribuendo a Gesù il titolo di Cristo lo riconosce come il Messia che avrebbe dovuto venire un giorno e come “Figlio dell’Iddio vivente” cioè individua come procedenti da Dio tutti gli eventi che sarebbero accaduti, ammette che Gesù era non solo un inviato, ma dichiara chi veramente era, da dove venisse, la realtà spirituale e fisicamente eterna che lo contraddistingueva dagli altri. Impossibile una Chiesa che non si fondi su questa verità che non a caso fu minata dalle eresie che, fin dal primo secolo, iniziarono a mettere in discussione proprio la natura del Cristo. È da lì che si parte, dal Figlio di Dio che assunse forma di servo e che morì per noi. Senza quella dichiarazione di Pietro, fatta poi anche dagli altri, in cosa si crederebbe? Riconoscere Gesù nei termini che abbiamo visto è il primo passo, non ve ne possono essere di alternativi perché sarebbero inutili; non salva sapere che Lui è stato un pensatore e un predicatore d’amore, pace e fratellanza tra gli uomini: non è vero, è riduttivo, offensivo alla luce del fatto che, prima di tutto, Gesù mostrò l’amore dell’unico Dio vero e Santo a favore dell’uomo, così inadeguato e lontano, sacrificandosi per la salvezza di quanti lo avrebbero accolto.

Pietro fu un personaggio diverso dagli altri dodici: irruento, facile tanto ad entusiasmarsi quanto a cadere nella paura, energico e pronto a parlare a volte a sproposito nel momento in cui seguiva la propria umanità, era quello tenuto in più considerazione dal gruppo dei dodici senza che lo considerassero comunque un capo, vista la discussione che sorgerà tra loro in Marco 9.33,35: “Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». 34Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. 35Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti»”.

Pietro fu testimone, con Giacomo e Giovanni, di miracoli ed avvenimenti che gli altri apostoli non videro. Se il Vangelo ce lo dipinge come una persona molto “umana” nelle sue reazioni (l’orecchio tagliato di Malco, episodio che ci lascia supporre che quest’apostolo fosse corpulento, o il camminare sull’acqua salvo sprofondarvi dentro, il suo pianto amaro al terzo rinnegamento di Gesù), il libro degli Atti lo descrive come una persona di cui Dio si servì per la predicazione, istruendolo anche con visioni. Paolo lo cita come Cefa in Galati 2.9 come colonna della Chiesa assieme a Giacomo e Giovanni e qui, se vogliamo, possiamo vedere anche il significato di “roccia” come risultato dell’azione della Grazia che farà di lui un personaggio così importante per la predicazione del Vangelo e nell’edificazione della Chiesa primitiva essendogli affidato il compito di essere “l’apostolo degli incirconcisi”, cioè degli ebrei (Galati 2.8).

Pietro abbiamo detto essere interessante per la sua profonda umanità nel senso che, se fu un predicatore formidabile e per nulla timoroso di fronte all’autorità politica contraria al Vangelo, non fu esente da errori di comportamento trattando differentemente quanti si convertivano dal giudaismo e dal paganesimo. Si tratta di un episodio che può insegnare molto anche a noi perché possiamo capire quanto sia facile essere condizionati dalle nostre certezze presunte, dal nostro retaggio culturale. Il passo di riferimento è quello di Pietro che predica in casa del centurione romano Cornelio narrato in Atti 10.9-33. In quell’occasione, quando iniziò a parlare, l’apostolo disse “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga”. Ebbene, questo concetto fondamentale fu da lui dimenticato nonostante la visione avuta e le parole udite in quell’occasione.

Pietro dovette essere ripreso da Paolo per la preferenza che dava ai giudei convertiti rispetto ai pagani e questo, anziché squalificarlo, rivela quanto sia facile cadere nell’errore nonostante rivelazioni che poi, involontariamente e per la nostra natura defettibile, si dimenticano. Ed è da sottolineare che in Pietro la potenza di Dio operava non poco, vista la resurrezione di Tabità a Giaffa operata poco tempo prima dell’incontro con Cornelio e la sua famiglia. Questo ci fa tornare al principio dell’impossibilità dell’esistenza del “conduttore perfetto” perché, se esistesse, non ci sarebbe bisogno de “il Cristo, il Figlio del Dio vivente”. Pietro fu quindi “il primo” sotto le ottiche che abbiamo visto brevemente, ma non con funzioni direttive che ci autorizzino a ritenere che avesse autorità sugli apostoli: nella Chiesa non può esistere una gerarchia o una scala di importanza, ma uomini che hanno un dono e che lo esercitano rispondendo direttamente a Dio e che vanno riconosciuti, ma senza pensare ad un’autorità umana o di gradi come può accadere per l’esercito o altri corpi organizzati. La Chiesa di Cristo non può essere una multinazionale o una grande azienda, con dirigenti e operai, ma è una struttura spirituale, un tempio in cui ciascuno opera in base ai domi ricevuti e non dalle persone che “converte”, dal carisma umano o dalla cultura che possiede.

 

ANDREA

                  Sappiamo che fu il primo dei discepoli con cui Gesù Parlò, assieme a Giovanni. Il suo nome significa “Virile” o “Uomo di valore” e sappiamo essere fratello di Pietro, come lui pescatore, col quale aveva un rapporto di amicizia e di condivisione spirituale come rileviamo dalla frase che gli disse non appena lo incontrò, “Noi abbiamo trovato il Messia” (Giovanni 1.41). La Chiesa ortodossa, per questo episodio, lo definisce “Protòcletos”, cioè “il primo chiamato”. Come Giovanni, suo amico, era una persona sensibile e dette prova di riconoscersi peccatore e bisognoso del Cristo che sarebbe arrivato non limitandosi a farsi battezzare da Giovanni Battista, ma divenendo suo discepolo.

Andrea era una persona profondamente interessata alla predicazione di Gesù e desideroso di conoscere gli avvenimenti che avrebbero riguardato l’umanità in futuro. Leggiamo in proposito Marco 13.1-5: Mentre usciva dal tempio, uno dei suoi discepoli gli disse: «Maestro, guarda che pietre e che costruzioni!». Gesù gli rispose: «Vedi queste grandi costruzioni? Non sarà lasciata qui pietra su pietra che non venga distrutta». Mentre stava sul monte degli Ulivi, seduto di fronte al tempio, Pietro, Giacomo, Giovanni e Andrea lo interrogavano in disparte: «Di’ a noi: quando accadranno queste cose e quale sarà il segno quando tutte queste cose staranno per compiersi?»”. Questa fu una domanda che suscitò l’esposizione del cosiddetto “sermone profetico” e testimonia quanto Andrea, con gli altri tre che ebbero un rapporto con Gesù più ravvicinato che non i rimanenti otto,tenessero in considerazione le parole di Gesù in ogni cosa, comprese quelle che riguardavano avvenimenti non ancora avvenuti. Credo sia un particolare importante, perché un conto e credere a un miracolo che si constata di persona, e un altro è accettare per vere parole che non si ha modo di verificare.

Andrea, chiamato a seguire personalmente Gesù dopo la pesca miracolosa sul mare di Galilea con Pietro, Giacomo e Giovanni sulla quale abbiamo riflettuto, abitava con Pietro e sua moglie a Capernaum ed era di Betsaida. Come lo ha definito un caro fratello, era un “uomo di pubbliche relazioni” come vediamo nell’episodio degli ebrei greci che volevano vedere Gesù: “Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù” (Giovanni 12.20-22).

Andrea aveva già dato prova di interessarsi delle persone che venivano alle predicazioni di Gesù, come leggiamo nel miracolo della prima moltiplicazione dei pani e dei pesci: fu lui infatti ad indicare che, in mezzo alla fola, c’era “un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due piccoli pesci, ma cos’è questo per tanta gente?” (Giovanni 6.9). In proposito e aprendo una piccola parentesi, è degno di nota come Papa Francesco Bergoglio ha inquadramento l’episodio quando, urtando non poco la suscettibilità dei tradizionalisti, disse che i pani e i pesci non si moltiplicarono, «ma semplicemente non finirono, come non finì la farina e l’olio della vedova. Quando uno dice “moltiplicare” può confondersi e credere che faccia una magia. No, semplicemente è la grandezza di Dio e dell’amore che ha messo nel nostro cuore che, se vogliamo, quello che possediamo non termina”.

In effetti a parlare di moltiplicazione sono coloro che si sono adoperati per scrivere i brevi titoli che precedono gli episodi dei Vangeli e non i diretti Autori e scrivere di “moltiplicazione dei pani” risulta più immediato che non “i pani che non finirono”; il paragone con la farina e l’olio della vedova, poi, appare quanto mai pertinente perché abbiamo due casi, tra loro simili, il primo dei quali ricordato in 1 Re 17.14-16: si tratta di un miracolo che operò il profeta Elia alla vedova di Sarepta: “«La farina della giara non si esaurirà e l’orcio dell’olio non diminuirà fino al giorno in cui il Signore manderà la pioggia sulla faccia della terra». Quella andò e fece come aveva detto Elia; poi mangiarono lei, lui e la casa di lei per diversi giorni. La farina della giara non venne meno e l’orcio dell’olio non diminuì, secondo la parola che il Signore aveva pronunciato per mezzo di Elia”.In 2 Re 4.1-38, ve ne fu un altro, operato invece da Eliseo, in cui fu un vasetto d’olio a riempire tutti i vasi che la vedova fu in grado di farsi prestare dai vicini.

Vero è che nel miracolo dei pani e dei pesci è scritto che ne avanzarono dodici ceste, ma furono appunto di avanzi, non pani o pesci interi; è scritto che “Raccolsero dodici ceste piene di pezzi di pane e di resti di pesci. Or coloro che avevano mangiato di quei pani erano cinquemila uomini” (Marco 6.43,44). Del resto ricordiamo il miracolo delle nozze di Cana, in cui mutò la sostanza e non cambiò il numero degli otri. Il gesto creativo di Dio non può essere limitato, iscritto nei confini delle possibilità umane.

Andrea viene citato un’ultima volta nel libro degli Atti in cui abbiamo il quarto elenco degli apostoli ed è, come negli altri tranne che in Marco, citato al secondo posto. Leggiamo che, dopo l’ascensione, tutti erano soliti riunirsi in una casa, in una stanza al piano superiore di essa: “Tutti questi erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù, e ai fratelli di lui” (Atti 1.12-14).

Notizie successive non ce ne sono state trasmesse nel Nuovo Testamento, ma Eusebio di Cesarea, vissuto tra il 265 e il 340, considerato il primo ad occuparsi di storia della Chiesa, scrive che fu attivo in Asia Minore, lungo il Mar Nero, il Volga e a Kiev. Si tratta di un autore, Eusebio, i cui studi non sono accettati all’unanimità così come il suo racconto della morte di questo apostolo, tramite crocifissione a forma di “X” ancora oggi nota come “Croce di S. Andrea”.

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4.01 – APOSTOLI 1 (Introduzione)

4.1 – Apostoli, introduzione

L’elezione dei dodici apostoli costituisce, nel campo delle nostre riflessioni sui Vangeli, un episodio importante e molto particolare, che ci consente di dare uno sguardo panoramico sulla personalità e i ruoli che questi ebbero nella storia della salvezza. La loro scelta è posta da Marco e Luca prima del discorso della montagna, mentre Matteo la pone dopo, in occasione del loro invio in missione nelle città di Israele, ma non dice che la loro costituzione avvenne in quel momento lasciando intendere che l’elezione ad apostoli avvenne in precedenza.

Studiare l’elenco dei dodici e svilupparlo non è facile perché occorre orientarsi, passare attraverso passi nascosti stante la nostra attenzione umana che tende più a focalizzarsi sui discorsi, sui fatti così diversi tra loro che incontriamo nella lettura dei Vangeli più che sulle persone, soprattutto quelle nominate magari solo in un versetto su cui sorvoliamo. Anche per questo è necessaria un’introduzione allo studio sugli apostoli che ci impegnerà per un certo tempo, introduzione che terrà conto di molti punti e idee che, pur attinenti al testo, si svilupperanno considerando fatti e motivazioni non così immediate rispetto a Luca 6. L’elezione dei dodici fu un’iniziativa che ebbe radici molto profonde e nascoste al lettore; la stessa notte che Nostro Signore passò in preghiera al verso 12 tendiamo a considerarla come un fatto scontato, dimenticandoci forse di quanto una notte sia lunga, che chi si trova ad affrontarla deve farei i conti con le ondate di sonnolenza che arrivano fisiologicamente, dell’attenzione che cala e che la stanchezza prevalse su Pietro, Giacomo e Giovanni quando, invitati a pregare dal loro Maestro nell’orto del Ghetsemane in un momento di assoluta gravità, si addormentarono: “Così non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione: Lo spirito è pronto, ma la carne è debole” (Matteo 26.40).

Gli evangelisti non ci hanno trasmesso i contenuti della preghiera che Gesù elevò al padre prima di scegliere i dodici, ma posso pensare che fosse basata principalmente non tanto su chi scegliere, ma sullo sviluppo della loro elezione: Nostro Signore conosceva il cuore umano, il passato, il presente e il futuro di quelle persone, ma soprattutto le loro debolezze e sapeva che era a loro che veniva affidato il compito di essere i coadiutori nella predicazione prima e soprattutto dell’evangelizzazione dopo la Sua risurrezione: gli apostoli sarebbero stati i costruttori e i fondatori della Chiesa per cui la preghiera al Padre fu incentrata sul loro sviluppo, sulla loro crescita nella storia affinché fossero custoditi nella fede e sostenuti nell’ora del turbamento forte e violento che avrebbero avuto al suo arresto, sul fatto che fossero oggetto dell’attenzione divina in ogni loro passo e perché svolgessero fedelmente il loro ruolo di inviati. Un esempio di preghiera in questo senso lo troviamo al capitolo 17 del Vangelo di Giovanni in cui abbiamo le richieste al Padre non solo per tutti quelli che avevano creduto in Lui allora, ma anche per quelli che sarebbero venuti dopo: “9Io prego per loro; non prego per il mondo, ma per coloro che tu mi hai dato, perché sono tuoi. 10Tutte le cose mie sono tue, e le tue sono mie, e io sono glorificato in loro. 11Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi. (…)15Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno. 16Essi non sono del mondo, come io non sono del mondo. 17Consacrali nella verità. La tua parola è verità. 18Come tu hai mandato me nel mondo, anche io ho mandato loro nel mondo; 19per loro io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità.”.

La preghiera che Gesù rivolse al Padre prima di chiamare alcuni dei suoi discepoli “apostoli”, poi, è anche un esempio per tutti i credenti tenuti ad interrogarsi su quanto preghino e chiedano al Padre prima di effettuare delle scelte che inevitabilmente influenzeranno la loro vita spirituale e materiale. Se anche noi dessimo spazio a una preghiera di questo tipo quanto a dipendenza da Dio quando ci troviamo di fronte a dei bivi importanti, probabilmente non ci troveremmo a pagarne delle conseguenze amare dopo.

Gesù prega “tutta la notte” dimostrando così umanamente il proprio impegno spirituale e sceglie i dodici “quando fu giorno”, segno che c’è prima un tempo nascosto e riservato in cui prega per loro e uno ufficiale in cui li chiama: anche oggi, se un essere umano viene invitato a seguire Gesù credendo, viene chiamato dopo un tempo, che lui stesso ignora, in cui è stato progettato un percorso e un ruolo. Per questo un passo conosciuto recita “quand’anche camminassi nella valle dell’ombra della morte, io non temerei male alcuno, perché tu sei con me” (Salmo 22.4), perché la protezione di Dio è totale.

Padre e Figlio allora parlarono dei dodici, o per meglio dire di quegli undici che lo avrebbero seguito fino alla fine e dell’uno che avrebbe tradito morendo suicida, fatto previsto e di cui si parla nel Salmo 41.9 dove leggiamo “Anche l’amico in cui confidavo, anche lui che mangia il mio pane, alza contro di me il suo calcagno”, detto ebraico che significa “tramare contro qualcuno a sua insaputa”.

Altro argomento importante come premessa alla chiamata dei dodici è quello della “trasmissione” che ci fu: la volta scorsa abbiamo parlato del Servo scelto perché nessuno se non Gesù poteva portare a compimento l’opera che Padre, Figlio e Spirito Santo avevano progettato. Iddio quindi scelse il Servo, il Servo a suo volta scelse gli Apostoli senza alcun errore neppure riguardo a quello che lo tradirà.

Leggiamo in Marco “Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui. Ne costituì dodici, che chiamò apostoli, perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demoni” (3.13,14); Matteo scrive che “Chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia ed ogni infermità” (10.1); cioè fa due azioni distinte la prima delle quali è chiamarli, definirli, dare loro la qualifica di “apostoli” come coloro che, nella vita civile di allora, erano inviati a comunicare le decisioni giudiziarie. Ricordiamo che lo stesso Sinedrio, il massimo organo teologico – giudiziario di allora, si serviva di persone, chiamate “apostoli” per far pervenire le sue delibere alle varie comunità sparse per il territorio. L’apostolo non era un semplice inviato, un “Anghelos”, un messaggero, ma una persona fornita di credenziali che, nel caso dei dodici, furono quelle di avere “potere sugli spiriti impuri per cacciarli e guarire ogni malattia ed ogni infermità”, cioè quelle negatività chiaramente riscontrabili che l’uomo aveva contratto come conseguenza dell’incontro con Satana, quell’Avversario che la superstizione, la leggenda, la cinematografia e la credenza popolare tendono a raffigurare attraverso immagini e manifestazioni estreme, ignorando che la sua pericolosità consista nel mettere in atto tutto ciò che allontana l’uomo da Dio. Satana non si manifesta mai in tutto il suo orrore, ma in forme che lo mimetizzano e usando strumenti insospettabili come il serpente in Eden, animale conosciuto e non temuto da Eva fece prima di tutto l’errore di dialogare con un essere inferiore ponendolo sul suo stesso piano.

A dare la qualifica di “apostolo” è Gesù, lui solo. Fu una carica unica, non trasmissibile ad altri ad eccezione di quel Mattia che prenderà il posto di Giuda Iscariotha di cui leggiamo in Atti 1.15-26: “15In quei giorni Pietro si alzò in mezzo ai fratelli – il numero delle persone radunate era di circa centoventi – e disse: 16«Fratelli, era necessario che si compisse ciò che nella Scrittura fu predetto dallo Spirito Santo per bocca di Davide riguardo a Giuda, diventato la guida di quelli che arrestarono Gesù. 17Egli infatti era stato del nostro numero e aveva avuto in sorte lo stesso nostro ministero. 18Giuda dunque comprò un campo con il prezzo del suo delitto e poi, precipitando, si squarciò e si sparsero tutte le sue viscere. 19La cosa è divenuta nota a tutti gli abitanti di Gerusalemme, e così quel campo, nella loro lingua, è stato chiamato Akeldamà, cioè «Campo del sangue». 20Sta scritto infatti nel libro dei Salmi: «La sua dimora diventi deserta e nessuno vi abiti, e il suo incarico lo prenda un altro».21Bisogna dunque che, tra coloro che sono stati con noi per tutto il tempo nel quale il Signore Gesù ha vissuto fra noi, 22cominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di mezzo a noi assunto in cielo, uno divenga testimone, insieme a noi, della sua risurrezione». 23Ne proposero due: Giuseppe, detto Barsabba, soprannominato Giusto, e Mattia. 24Poi pregarono dicendo: «Tu, Signore, che conosci il cuore di tutti, mostra quale di questi due tu hai scelto 25per prendere il posto in questo ministero e apostolato, che Giuda ha abbandonato per andarsene al posto che gli spettava». 26Tirarono a sorte fra loro e la sorte cadde su Mattia, che fu associato agli undici apostoli”.

Come abbiamo letto, nella ricerca del nuovo, dodicesimo “apostolo”, lo stesso Pietro mette l’accento su una caratteristica storica ben precisa: deve essere un uomo che è stato presente per tutto il tempo in cui Gesù fu sulla terra dal Suo battesimo al giorno della Sua ascensione e quindi è una carica che nessuno può arrogarsi il diritto di ricoprire; lo stesso Paolo di Tarso, apostolo per i motivi che vedremo, scrisse agli Efesi in 4.10,11 “Colui che discese è lo stesso che anche ascese al sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose. Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri per preparare i fratelli a compiere il ministero allo scopo di edificare il corpo di Cristo finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la pienezza di Cristo”.

Ad Efeso Paolo c’era rimasto tre anni nel 60 circa, lui stesso scrive ai componenti di quella Chiesa che “Siete stati edificati sul fondamento degli apostoli e dei profeti”; ad Efeso pare che morì Giovanni in età molto avanzata tra gli anni 98 e 99 d.C.. Alla morte dei diretti testimoni della vita, morte e risurrezione di Gesù, nella Chiesa rimasero uomini con i doni di cui abbiamo letto, ma la qualifica di apostolo non è trasmissibile proprio per le ragioni di cui ha parlato Pietro e di cui abbiamo letto poc’anzi. Gli apostoli, inoltre, dovevano essere uomini ispirati sulla dottrina e la storicità di Cristo, testimoni reali dei miracoli, della predicazione e dell’esperienza del loro Maestro; tutto questo cessò alla loro morte perché quella carica era unica, specifica, riservata.

E Saulo di Tarso, che lui stesso si definisce “apostolo” per più volte? “Chiamato ad essere apostolo di Cristo per volontà di Dio” (1 Corinti 1.1), “…servo di Gesù Cristo, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il Vangelo di Dio” (Romani 1.1), “Paolo, apostolo non da parte degli uomini, né per mezzo di un uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha resuscitato dai morti” (Galati 1.1): per lui ci fu una chiamata particolare, ma soprattutto ebbe altrettanto particolari rivelazioni: “1Se bisogna vantarsi – ma non conviene – verrò tuttavia alle visioni e alle rivelazioni del Signore. 2So che un uomo, in Cristo, quattordici anni fa – se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio – fu rapito fino al terzo cielo. 3E so che quest’uomo – se con il corpo o senza corpo non lo so, lo sa Dio – 4fu rapito in paradiso e udì parole indicibili che non è lecito ad alcuno pronunciare. 5Di lui io mi vanterò! Di me stesso invece non mi vanterò, fuorché delle mie debolezze. 6Certo, se volessi vantarmi, non sarei insensato: direi solo la verità. Ma evito di farlo, perché nessuno mi giudichi più di quello che vede o sente da me 7e per la straordinaria grandezza delle rivelazioni” (2 Corinti 12.1-7). Paolo ebbe quindi questa esperienza e giunse a definirsi – certo non da sé – “prescelto ad annunciare il Vangelo di Dio” e a qualificare la sua predicazione contenuta nelle sue lettere come “Il mio Vangelo”: “Ricordati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio Vangelo” (2 Timoteo 2.8). Ecco perché abbiamo 12 apostoli oltre a uno, più tardi ma loro contemporaneo, che per annunciare il Vangelo si comportò coi pagani come Pietro coi Giudei.

Sono gli scritti dell’apostolo Paolo che, grazie alle sue visioni e alla trasmissione diretta della dottrina, ci permettono di crescere nella conoscenza di Dio avendo Gesù rivelato, nei suoi insegnamenti, fondamentalmente gli aggiornamenti alla Legge, le sue estensioni, cosa questa significasse alla luce del suo Ministero che lo rivelava quale unico inviato da Dio e, certo, quali cambiamenti sarebbero avvenuti. Molte delle applicazioni spirituali che possiamo fare sono possibili grazie all’opera di Paolo e non di altri.

Veniamo a un argomento particolare, che è quello del numero, che indica stabilità in modo molto superiore al quattro a misura dell’uomo e del creato in cui vive; il 12 è il risultato della moltiplicazione fra il 3, che potremmo definire il perfetto numero d’ordine spirituale, e il 4, numero d’ordine terreno. È anche la somma dei primi tre numeri pari (2, 4 e 6), più che il risultato della moltiplicazione del 2 col 6, cifre dell’imperfezione soprattutto il 6. In questo caso credo che il 2 ci richiami ai testimoni necessari (due o più) per confermare un evento (Deuteronomio 17.6). Ancora, nel nostro caso, questo numero ci parla di collaborazione: “Due uomini camminano forse insieme senza essersi messi d’accordo?” (Amos 3.3) e, per finire, Ecclesiaste 4.9 “Meglio essere in due che uno solo, perché due hanno un miglior compenso della loro fatica. Infatti, se vengono a cadere, uno rialza l’altro. Guai invece a chi è solo: se cade, non ha nessuno che lo rialzi”.

Prima di citare il 12 nella scrittura, vediamo alcune sue applicazioni nel mondo tangibile: 12 sono le paia dei nostri nervi cranici, delle vertebre toraciche, i semitoni che formano l’ottava nel sistema musicale occidentale, le ore meridiane e quelle notturne per un totale delle 24 del giorno, gli anni prima di arrivare alla pubertà, i mesi dell’anno che costituiscono un tempo che abbiamo e che viviamo senza conoscerne eventi e sviluppi se non quando sono avvenuti, i segni zodiacali. Nella numerologia, per quanto considerata una pseudoscienza, è interessante notare che questo numero sta a simboleggiare il sacrificio, la fatica fisica e morale, devozione e abnegazione.

Nella scrittura poi lo troviamo per la prima volta a indicare un periodo massimo di sopportabilità (Genesi 14.4 in cui abbiamo i dodici anni di servitù a Chedarlaòmer da parte dei cinque re) e non a caso il Creatore pose il termine di 120 anni alla vita dell’uomo. Questo numero coi suoi multipli rappresenta il punto d’incontro tra le esigenze, i progetti di Dio a favore della creatura e la creatura stessa. È una cifra che ci parla di dono e impegno, come nel caso delle dodici sorgenti e delle settanta palme dell’oasi di Elim (Esodo 15.27) trovate non a caso dopo le acque di Mara, imbevibili senza il bastone che Mosè vi buttò dentro.

Il 12 è un numero che è sempre presente nella storia del popolo di Dio, sia questo Israele o quello acquisito e costituisce una linea che, dalla sua nascita, non avrà mai fine come testimoniano le parole dell’apostolo Giovanni sulla Gerusalemme Celeste: “È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. 13A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte. 14Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello.
15Colui che mi parlava aveva come misura una canna d’oro per misurare la città, le sue porte e le sue mura. 16La città è a forma di quadrato: la sua lunghezza è uguale alla larghezza. L’angelo misurò la città con la canna: sono dodicimila stadi; la lunghezza, la larghezza e l’altezza sono uguali”
(Apocalisse 21.12-15).

Ora l’argomento del numero 12 è stato appena accennato, con un elenco volutamente limitato; in realtà è uno dei tanti temi immensi che troviamo nella lettura dell’Antico e del Nuovo Testamento ed è impossibile svilupparlo senza aprire capitoli nuovi che esulerebbero dal motivo per cui ho intrapreso la lettura dei Vangeli. Se però con i versi dell’Apocalisse citati abbiamo la visione dell’architettura finale di Dio, nell’elezione dei dodici siamo di fronte a un nuovo, importante passo nel lungo cammino della dispensazione della Grazia e questa cifra prenderà sempre di più la forma, lasciandola vedere da lontano, della Santa Città che ogni cristiano attende e in cui avrà una sua collocazione secondo la promessa di Gesù quando parlò della casa dalle molte stanze.

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