09.06: LA MISSIONE DEI DODICI: PECORE IN MEZZO AI LUPI (2). (Matteo 10.16-20)

9.06 – La missione dei dodici: V. Pecore in mezzo ai lupi II/II (Matteo 10.16-20)

 

16Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi, siate dunque prudenti come serpenti e semplici come le colombe. 17Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe:18e sarete condotti davanti ai governanti e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani. 19E quando vi consegneranno nelle loro mani, non vi preoccupate di come e di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento di che cosa dovrete dire;20non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi.”.

 

Dopo avere affrontato il tema a livello generale, scendiamo nel particolare tenendo presente che il testo riporta parole indirizzate prima di tutto ai dodici ma, tramandate dai sinottici e da Matteo in particolare, si tratta di concetti che hanno mantenuto la loro validità nel tempo. Possiamo considerare le parole di Gesù come delle verità destinate a venire aggiornate sia attraverso l’esperienza personale di ciascuno, sia tramite l’insegnamento degli apostoli anni dopo, soprattutto di Paolo nella lettera agli Efesi in cui mette in guardia i credenti sull’importanza di un percorso ben definito al fine di salvaguardare la propria vita spirituale. Esaminiamo così ciò che scrive in 6.10-18.

 

 

10Per il resto, rafforzatevi nel Signore e nel vigore della sua potenza”.

 

Chi non lo fa, per quanto salvato, è destinato a soccombere nel senso che non avrà le forze per reagire nel momento in cui sarà necessario. Se non ci si rafforza, si vivrà un percorso interiore sterile, destinato ad arricchirsi sempre più di vuoto, inconcludenza. Ricordiamo che il Padre è glorificato nel fatto che noi portiamo “molto frutto”. Rafforzarsi significa “diventare più forti”, e farlo “nel Signore e nel vigore della sua potenza” implica coltivare la fede per crescere nell’ascolto e messa in pratica della Sua parola abbandonando progressivamente tutto ciò che ritarda il nostro cammino con Lui. Ricordiamo sempre che quel giovane che, dopo l’incontro con Gesù che lo esortava a seguirlo dopo aver dato il ricavato dei suoi beni ai poveri, “se ne andò contristato perché aveva molte ricchezze”: il problema non erano le sostanze di quella persona, ma il suo attaccamento ad esse. Quel giovane avrebbe potuto avere qualsiasi altra cosa e non volerla abbandonare. A volte si pensa che ciò che ritarda il nostro avanzamento spirituale possa essere costituito da quanto abbiamo di più caro e non si considera che il problema vero risiede in noi, che se rimaniamo ancorati ai nostri beni materiali è perché non abbiamo ancora realizzato che possono essere solo strumenti e non costituire una fonte di riferimento, appagamento, un’espressione o un prolungamento di noi stessi.

 

 

11Indossate l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo”.

 

Il testo originale ha “tutta l’armatura” a sottolineare che vivere il giorno senza di lei, o mancante di alcune parti, può essere pericoloso alla luce delle “insidie” perché il diavolo, cioè “colui che disunisce, mette male, calunnia, contraddice” rivolge la sua azione distruttrice verso chiunque è figlio di Dio. E “insidie” è un termine generico proprio per sottolineare la multiformità delle azioni di questo personaggio la cui violenza non necessariamente dev’essere immediata. In Romani 13.12 leggiamo “La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce”, che sono tutti i mezzi che Dio ci ha donato, primo fra tutti la preghiera che è dialogo, ma soprattutto confronto derivante dalla consapevolezza di essere nulla senza di Lui (ricordiamo le parole “Io so che in me non abita alcun bene”). Il confronto tenebre – luce, o “notte – giorno” lo vediamo in 1 Tessalonicesi 5.8: “Quelli che dormono, dormono di notte e quelli che si ubriacano, di notte si ubriacano. Noi, invece, che apparteniamo al giorno, siamo sobri, vestiti con la corazza della fede e della carità e avendo come elmo la speranza della salvezza”. Nel nostro percorso, come dal verso 12, il cristiano si trova ad affrontare un combattimento che solo apparentemente ha a che fare con semplici uomini, ma con le forze che li dominano visto che le insidie vengono portate da loro in quanto strumenti dell’Avversario. Ricordiamo il Millennio, quel periodo in cui, essendo Satana legato appunto per mille anni, non ci sarà nessuna forma di violenza.

 

 

12La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti”.

 

È un verso importante, fondamentale perché senza di lui tenderemmo a considerare quanto accade di negativo nella nostra vita come un fatto accidentale, ma non è così: sappiamo infatti che Satana si è opposto sempre a Dio di riflesso e non frontalmente, apertamente, perché altrimenti non avrebbe avuto, né soprattutto avrà, alcuna possibilità di sopravvivere. Piuttosto, come al principio, il diavolo agisce contro l’uomo e sempre usando gli strumenti più congeniali allo scopo. E qui pensiamo al serpente, poi a Caino e alla sua discendenza che continua ancora oggi, spiritualmente e carnalmente. Dietro gli uomini avversi, quindi “carne e sangue”, c’è ben altro: sono i “Principati” e le “Potenze” spirituali negative, così chiamate per la loro pericolosità e forza cui Dio concede di avere potere sul mondo per selezionare, provare, vagliare, separare ciò che è santo da ciò che non lo è. Se quindi sono valide per i credenti le parole “nessuno potrà strapparli dalla mia mano”, è altrettanto vera la possibilità di menomare il rapporto con Lui impedendo la comunione che potrebbe instaurarsi. Ricordiamo ad esempio quanto avvenne a Giobbe che, per quanto inconsapevole del dialogo tra YHWH e Satana, nonostante quanto gli avvenne, fu ristabilito e non maledisse il suo Creatore. E infatti “Io sono persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Romani 8.38).

E va sottolineato che l’armatura che siamo chiamati a indossare non è nostra nel senso che non l’abbiamo costruita, ma è fornita direttamente da Gesù, di cui è detto che alla croce ha “privato della loro forza i Principati e le Potenze, ne ha fatto pubblico spettacolo, trionfando su di loro in Cristo” (Colossesi 2.15). Alla croce, con la Sua morte e resurrezione, li ha infatti ridotti al nulla nel senso che ha dimostrato quanto fossero impotenti nei Suoi confronti.

In un mondo di tenebre, la luce di Cristo è la sola in grado di orientare e di condurre “al porto sospirato” (Salmo 107.30). L’abitare degli spiriti del male “nelle regioni celesti”, poi, è un modo che l’apostolo Paolo ha per designare le dimensioni che sovrastano la vita dell’uomo e sul quale, a seconda della scelta che questi ha, hanno potere.

Come già sottolineato più volte, dobbiamo pensare che l’opera di Satana non sempre si manifesta con esempi eclatanti come nel caso degli indemoniati gadareni, ma può essere di semplice disturbo come nel caso in cui Abramo, dopo aver ricevuto la promessa secondo la quale avrebbe posseduto la terra di Canaan, fece un sacrificio di ringraziamento: leggiamo che, quando si concluse, “degli uccelli discesero sopra quei corpi morti, ed Abramo sbuffando li cacciò” (Genesi 15.11). Leggendo il verso verrebbe spontaneo considerarlo un evento naturale, ma se lo fosse stato l’autore (o gli autori) del libro non lo avrebbe menzionato: diciamo che, piuttosto, con quegli uccelli Satana volle disturbare quel momento di comunione tra Dio e Abramo, per quanto il sacrificio fosse tecnicamente terminato. Ora credo che questi due esempi possano chiarire molto bene cosa significhi “battaglia non contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e Potenze”.

 

13Prendete dunque l’armatura di Dio, perché possiate resistere nel giorno cattivo e restare saldi dopo aver superato tutte le prove”.

 

L’esortazione qui contenuta fa esplicito riferimento a un “giorno cattivo” che non credo si riferisca a uno come tanti con tentazioni “ordinarie”, ma a quello che porta situazioni, persone, condizioni che il credente si troverà ad affrontare senza volerlo o senza averle previste perché destinate ad arrivare “come un ladro di notte”, cioè cogliendo sempre la persona di sorpresa. Sarà in quel frangente che, se l’armatura di Dio sarà indossata come prevenzione, sarà possibile “restare saldi dopo aver superato tutte le prove”. E l’accostamento alle due case, una costruita sulla roccia e l’altra sulla sabbia, è inevitabile. Mi sono chiesto se l’armatura di cui parla l’apostolo Paolo in questa lettera sia qualcosa che va indossata continuamente, oppure no. Credo che si tratti di utensili da tenere a portata di mano, pronti all’uso perché il soldato, per quanto inviato in guerra, può benissimo non sapere quando verrà l’attacco. Ed ecco perché il vero cristiano deve tener sempre presente la propria missione, che non è quella di “suonare la tromba” davanti a sé per farsi vedere dagli altri, ma di essere preparato e pronto ad ogni evenienza. A questo punto Paolo cita gli elementi dell’armatura:

 

 

14State saldi, dunque: attorno ai fianchi, la verità; indosso, la corazza della giustizia; 15i piedi, calzati e pronti a propagare il vangelo della pace. 16Afferrate sempre lo scudo della fede, con il quale potrete spegnere tutte le frecce infuocate del Maligno; 17prendete anche l’elmo della salvezza e la spada dello Spirito, che è la parola di Dio”.

 

Leggendo il testo vediamo che nessuna parte del corpo è scoperta. Il testo originale dice “Preparatevi dunque al combattimento cinti di verità attorno ai lombi”, che dà un quadro diverso dai semplici “fianchi” di questa traduzione che suggeriscono l’operosità, ad esempio, del lavoratore dei campi di allora che, per non essere impedito nei movimenti, si tirava su la veste fissandola con una cintura. Cingersi la regione lombare indica voler proteggere i muscoli che sostengono il corpo, che gli garantiscono mobilità, come sanno bene anche quelli che soffrono di lombalgia e si ritrovano per periodi più o meno lunghi impediti nei movimenti anche più semplici. Avvolgersi in fasce i muscoli lombari, allora, equivaleva a salvaguardarli da quei colpi che avrebbero potuto essere trasmessi attraverso la corazza e avrebbero reso la persona più o meno temporaneamente invalida al combattimento. Un colpo ai lombari avrebbe reso il guerriero nell’impossibilità di difendersi e a venire trafitto da una spada o da una lancia. La verità è quindi la prima caratteristica che si deve indossare a protezione del corpo per il suo sostegno. Il verso 14 e ci rimanda anche Nostro Signore di cui è detto che “la giustizia sarà la fascia dei suoi lombi e la fedeltà la cintura dei suoi fianchi” (Isaia 11.5).

Secondo elemento è la corazza, chiaramente fatta per proteggere il corpo dai colpi, ma soprattutto il cuore, vero bersaglio di un nemico in un combattimento frontale. Quindi l’apostolo parla di indossare la giustizia, quella che ci è stata data quando abbiamo conosciuto il Padre attraverso il Figlio, quella che altrimenti non avremmo e che in quanto tale esclude l’ipocrisia, cioè la finzione, i secondi fini, il calcolo, l’agire per tornaconto personale. In poche parole significa obbedire a quell’ordine dato ad Abramo – visto che lo abbiamo citato – quando Dio lo chiamò dopo ben tredici anni di silenzio: “Io sono l’Iddio onnipotente. Cammina davanti a me, e sii integro” (Genesi 17.1). Ed essere integri non si riferisce a una condotta santa, ma a tutto il nostro essere, cioè ad averLo sempre presente nella nostra mente, riposare in Lui per fede e da Lui dipendere, oltre a tener sempre presente la Sua volontà.

Terzo elemento, i calzari ai piedi, per noi simbolo del cammino, della strada percorrere per “propagare il Vangelo della pace”. I calzari proteggono il piede impedendo ferite o traumi. A sua volta i piedi ci parlano dell’episodio di quanto Gesù li lavò agli apostoli perché altrimenti, simbolicamente, non avrebbero mai potuto affrontare un cammino spirituale, come rileviamo dalle parole dette a Pietro “se io non ti lavo, tu non avrai alcuna parte con me”. Riguardo ai calzari va detto che qui non si allude a una sorta di sandali, ma sono parte dell’armatura per cui proteggevano anche le gambe. Questi “calzari” si riferiscono a strumenti idonei per affrontare un terreno accidentato che logorerebbe subito delle calzature ordinarie.

Quarto elemento, lo scudo della fede, la sola a poter spegnere “tutte le frecce infuocate del Maligno”. La freccia era allora la più pericolosa fra le armi a disposizione. Veniva scagliata prendendo la mira, oppure lanciata dagli arcieri a gruppi verso l’alto e cadeva a grappoli sulle truppe, spesso decimandole. Colpisce in un punto preciso, ha un’alta capacità di penetrazione e mette immediatamente fuori combattimento anche se non colpisce organi vitali. È in grado di forare una corazza. “Spegnere tutte le frecce”, quindi non alcune, significa privare il dardo della sua pericolosità primaria vista nel fuoco, poiché si parla di materiale ad alto potenziale incendiario. E qui viene spontaneo pensare a quegli scudi che si portavano sul dorso nella formazione romana detta “a testuggine”. Avere lo scudo, quindi, significa possedere la fede che viene messa alla prova tutti i giorni, ma soprattutto in quel “giorno cattivo” di cui abbiamo parlato. Nelle frecce vediamo quindi tutte quelle prove destinate a colpirci nel profondo, logorarci, farci dubitare chiamando in causa la nostra mente che viene colpita per prima. Non a caso, il sesto elemento è l’elmo e viene citato subito dopo.

L’elmo è quello che protegge il capo, quindi il cervello, sede dell’anima e dello spirito dell’uomo e proprio per questo è il componente dell’armatura più importante: senza la salvezza, che ha portato lo Spirito Santo in dono e pegno, ogni combattimento è privo di senso perché già perso in partenza. Operare senza l’elmo e ciò che rappresenta significa essere già perdenti, mancare di coordinazione, intelligenza, sarebbe come se un soldato venisse inviato in battaglia senza alcun addestramento o comandanti. La salvezza, invece, abilita alla comunione con Dio e quindi alla formazione per passare indenni attraverso questo mondo che Lo rifiuta. Certo, vivere nel mondo non è cosa che lascia indifferenti. Pensiamo a Lot, di cui è detto che era contristato per quando vedeva, impotente, a Sodoma dove abitava, ma in 2 Pietro 2.7 leggiamo che Dio “Liberò invece Lot, uomo giusto, che era angustiato per la condotta immorale di uomini senza legge”. Ultima considerazione: l’elmo protegge la mente, quindi la possibilità di analizzare – spiritualmente stante la salvezza ad essa collegata – quando sta avvenendo e quindi trovare le strategie di reazione opportune.

La spada è il settimo ed ultimo strumento. È citato assieme al precedente, a lui unito dalla congiunzione “e” perché è quello che completa l’equipaggiamento e, stante l’importanza del numero sette, viene spontaneo pensare che presentarsi al combattimento mancanti di un solo di questi strumenti cadremmo nel sei, quindi nell’imperfezione e nella sconfitta. La spada è quella dello Spirito, della Parola di Dio che guida, insegna, protegge, forma, annienta tutto ciò che non ha a che fare con lei ed ecco perché costituisce un formidabile strumento di difesa e al tempo stesso di attacco.

Abbiamo poi il verso 18, a mio giudizio scritto a coronamento del tutto, a sostegno che nulla possiamo da noi stessi:

 

 

18In ogni occasione, pregate con ogni sorta di preghiere e suppliche nello Spirito, e a questo scopo vegliate con ogni perseveranza e supplica per tutti i santi”.

 

Abbiamo qui la descrizione della continuità che ci deve caratterizzare: “in ogni occasione”, “ogni sorta”, vegliate”, “ogni perseveranza e supplica”, quattro punti. La scrittura è perfetta, resiste al tempo per il nostro unico avanzamento e per la salvezza di quanti Dio lo cercano o lo attendono. Alla preghiera non c’è limite. La veglia serve a non venir sorpresi e la perseveranza è la sola che possa condurre ad un risultato, come quello che raggiunge l’atleta che si allena quotidianamente, o il concertista o chiunque abbia necessità di esprimere qualità rare al momento opportuno. La “supplica per tutti i santi”, invece, sta a testimoniare che i fratelli e le sorelle non possono essere lasciati soli nel loro cammino, ma occorre pregare per loro, perché siano sostenuti, protetti, aiutati. Perché la Chiesa non è composta da uomini e donne isolati, ma da anime che formano un tutt’uno con il Corpo di Cristo. Amen.

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09.05: LA MISSIONE DEI DODICI: PECORE IN MEZZO AI LUPI (1). (Matteo 10.16-20)

9.05 – La missione dei dodici: IV Pecore in mezzo ai lupi I/II (Matteo 10.16-20)

 

16Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi, siate dunque prudenti come serpenti e semplici come le colombe. 17Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe:18e sarete condotti davanti ai governanti e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani. 19E quando vi consegneranno nelle loro mani, non vi preoccupate di come e di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento di che cosa dovrete dire;20non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi.”.

 

Entriamo qui nel settore degli avvertimenti di Gesù ai dodici in cui non posiamo escludere che Matteo abbia radunato contenuti espressi in altre occasioni. La Parola di Dio, fiume che scorre, messaggio che si attualizza e si rinnova nel tempo con contenuti che si adattano progressivamente nella e alla storia umana, dà livelli di lettura che allargano il tema non solo alla missione che stava per essere intrapresa, ma alla Chiesa e a ciò che ogni discepolo di Gesù avrebbe incontrato. Quanto Nostro Signore predice ai Suoi, quindi, non è più ristretto allo specifico del mandato temporaneo di annuncio della vicinanza del Regno, ma si allarga a tutto il cristianesimo secondo i suoi differenti stadi e, infatti, non è difficile scorgere un primo adempimento delle parole di Gesù con quanto narrato nel libro degli Atti e con le persecuzioni che Pietro, Paolo ed altri, Stefano compreso, subirono fino al martirio. In questo capitolo, quindi, cercheremo di leggere il significato immediato delle parole del brano, e di attualizzarlo in parte ai nostri tempi.

Il verso 16, dopo l’ “Ecco” iniziale che annuncia un nuovo corso degli avvenimenti, si apre con “Io” che sottolinea la potenza e la volontà di chi manda ed è garanzia del fatto che Gesù conosca perfettamente i pericoli che corrono le sue “pecore“, animali incapaci difendersi che addirittura, in Luca 10.3 quando vi sarà la missione dei settanta, verranno paragonati ad “agnelli in mezzo ai lupi”. Si tratta di una realtà che copre un raggio molto vasto e che, limitatamente ai dodici, riguardava i pericoli che avrebbero potuto correre ma, per noi, contempla la possibilità che dai lupi non ne sia risparmiata neppure la Chiesa. Da notare che gli animali citati, pecore, lupi, serpenti e colombe, non sono “buoni” o “cattivi”, ma hanno un comportamento insito in loro: così sono per indole, istinto, “programmazione” al di là di qualsiasi giudizio morale; il loro comportamento è un dato di fatto, costituisce l’appartenenza a un ambito specifico di azione, un ruolo nell’ecosistema così creato. Certo, se il lupo in quanto animale non ha colpe, per quello spirituale va fatto un serio distinguo.

L’apostolo Paolo, parlando agli anziani di Mileto, disse “Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio, che si è acquistata col sangue del proprio figlio. Io so che dopo la mia partenza verranno fra voi dei lupi rapaci – certo non inviati da Cristo – che non risparmieranno il gregge” (Atti 20.28,29). Ecco allora che in mezzo a questo quadro desolante, se non ci fosse quell’ “Io” del verso 16, credo che mancherebbero le forze a chiunque, che nessuno avrebbe una speranza di riuscita nella sua missione o anche solo la più piccola possibilità di sopravvivere perché il lupo, animale predatore che può trovarsi in branco oppure da solo, non sempre uccide con l’unico scopo di nutrirsi.

Quindi, per evitare di venire sbranati, Gesù avverte “siate dunque – nel vostro interesse – prudenti come serpenti e semplici come colombe”, cioè andando contro il vostro istinto, ora naturale, di nuove creature, paradossalmente prendendo a modello l’essere che ha causato la rovina del genere umano, il serpente di cui in Genesi 3.1 è detto che era “il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto”. Naturalmente il serpente, non certo chi allora lo aveva abitato e che approfittò di questa sua caratteristica. Sappiamo che Satana agì in questo animale proprio per il suo carattere, ampliandolo e adattandolo ai suoi scopi di rovina. Certo non è un argomento sviluppabile in un solo capitolo, ma dando delle linee fondamentali a ciò che Gesù vuol dire ai dodici e a noi è che esiste una quantità enorme di fattori da considerare se davvero abbiamo intenzione di sviluppare un ministero di testimonianza e predicazione: l’essere inviati come “pecore in mezzo ai lupi” non significa venire mandati al macello, ma in un territorio in cui la presenza di questi predatori è certa. Eppure bisogna avere a che fare presto o tardi con loro per cercare di recuperare, mediante il Vangelo, chi lupo non è. Ecco allora che la prudenza e l’astuzia del discepolo non si manifesta con il mimetismo, ma con il reperimento delle strategie opportune per salvaguardarsi dall’opera dei lupi senza rinunciare alla semplicità della colomba, animale che, al pari della pecora, non è in grado di portare avanti linee di condotta in cui vi sia violenza. Ricordiamo in che forma discese su Gesù lo Spirito Santo. E queste due condizioni, l’essere mandati in mezzo ai predatori e l’essere prudenti e semplici, confluiscono in un solo principio, “Guardatevi dagli uomini“: là dove un animale avendo a che fare col proprio simile trova solitamente un’intesa o cooperazione, per l’uomo è diverso perché può sempre scoprire, spesso quando è troppo tardi, un nemico sotto mentite spoglie. E la storia umana, a qualunque disciplina si riferisca, è piena di soprusi, tradimenti, prevaricazioni. Chi ha creduto, per la stessa definizione di Gesù “I figli di questo mondo, nelle relazioni con quelli della loro generazione, sono più avveduti dei figli della luce”, non ha la necessaria astuzia per fronteggiarli, ma se non s’impone la prudenza come metodo, il calcolo e il discernimento mentre ha a che fare con loro, è destinato a subire conseguenze anche pesanti, a subire congiure, piani vessatori, tradimenti e pagarne le conseguenze.

Ora, al verso 17, questi “uomini” da cui Gesù raccomanda di guardarsi avrebbero consegnato i suoi discepoli ai “tribunali”, parola interpretata più che tradotta perché l’originale ha “concistori”, i cosiddetti “tribunali dei sette” istituiti in tutte le città a giudicare i reati “minori” somministrando pene amministrative o corporali, spettando ai romani comminare la pena di morte. La frase “vi flagelleranno nelle loro sinagoghe”, poi, si riferisce alle reazioni scomposte e isteriche, ma non per questo innocue, di cui abbiamo testimonianza nel libro degli Atti (la già citata morte di Stefano) e, ancor prima, con il processo a Gesù, l’Agnello di Dio per eccellenza di cui il salmista profetizza “Un branco di cani mi circonda, mi accerchia una banda di malfattori, hanno scavato le mie mani e i miei piedi. Posso contare tutte le mie ossa, essi stanno a guardare e mi osservano: si dividono le mie vesti, sulla mia tunica gettano la sorte” (Salmo 22.17-19). La lettura del secondo libro di Luca, poi, è piena di false accuse e complotti verso colo che annunciavano il Vangelo convertendo anche i giudei.

“Guardatevi dagli uomini”, dunque, cioè da chi non possiede altra caratteristica se non quella di vivere l’orizzontalità e non la verticalità della vita, quindi da chi appartiene al mondo e per il mondo vive fondando su di lui tutto il proprio essere. Questo comprende tutti gli affetti che possiamo avere, le amicizie estranee al nostro mondo spirituale che coltiviamo a nostro rischio, spesso dimenticando – parlo anche per esperienza e non solo perché così è scritto – che tra luce e tenebre non vi può essere nulla in comune. Spesso i tradimenti di varia natura o le perdite che subiamo trovano la loro origine in un nostro errore. “Guardatevi dagli uomini” è un consiglio amorevole che Gesù rivolge a tutti coloro che si ritengono o desiderano essere suoi discepoli, arrivando a scavare anche in quelli che dovrebbero essere gli affetti più cari: in questo stesso discorso dirà “i nemici dell’uomo saranno quelli stessi di casa sua” (v.36). L’appartenenza a Cristo e la relativa conversione, infatti, crea automaticamente una grande spaccatura che si fa tanto più profonda quanto più il seguire Gesù si fa evidente agli occhi di chi ci ha circondato fino a poco prima del nostro incontro con Lui. E qui ci sarebbe molto da dire sul fraintendimento colossale che inseriscono certe organizzazioni religiose pronte a vantarsi delle “persecuzioni” che i loro adepti subiscono da parte di familiari preoccupati per atteggiamenti e metodi che riguardano prese di posizione tese ad apparire più che il risultato dell’opera dello Spirito.

“Guardatevi dagli uomini” è un modo per ricordare che l’appartenere a questo genere, se qualifica ogni uomo e donna come individuo dotato di anima e quindi come essere superiore, può collocarlo tanto nella luce che nelle tenebre. Anzi, ricordiamo che l’apostolo Paolo giunge a dire “Un tempo eravate tenebre”, cioè vi identificavate con esse e avevate la loro medesima caratteristica (Efesi 5.5). Ricordiamo anche la frase “…figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione malvagia e perversa” (Filippesi 2.14).

“Guardatevi da” indica allora la metodologia per una profilassi preventiva e, nella Scrittura, incontriamo solo dieci inviti preceduti da questo verbo: abbiamo

 

1) il guardarsi dal praticare la nostra giustizia davanti agli uomini, primo passo verso l’ipocrisia;

2) dai falsi profeti per non cadere nelle loro reti;

3) dagli uomini (il nostro caso);

4) dal “disprezzare alcuno di questi piccoli” cioè chi è veramente semplice (18.10);

5) dal lievito degli scribi e dei farisei, collegato all’esercizio della falsa giustizia;

6) da ogni avarizia che poi è considerare una cosa esclusivamente come nostra (Lc 12.15);

7,8) dai cani e dai cattivi operai;

9) da quelli della mutilazione (Fil. 3.2) strettamente collegati a quegli ebrei che ponevano la circoncisione come indispensabile per essere considerati popolo di Dio;

10) dagli idoli (1 Gv 5.21).

 

Rinviando al un prossimo capitolo l’esame del metodo che può consentire alla pecora in mezzo ai lupi di sopravvivere, cerchiamo di concludere la lettura immediata del nostro passo: i discepoli sarebbero stati condotti “davanti ai governanti e ai re per causa mia”, letteralmente “rettori e re”, quindi davanti ai magistrati romani di vari ordini e gradi, proconsoli, pretori e procuratori oltre che ai “re”, riferimento ad Erode Agrippa e ai “Cesari” romani.

Ebbene, in questo frangente non saranno i discepoli a parlare, ma lo Spirito Santo dimorante in loro: non si tratterà di riportare frasi fatte, di compiere miracoli, ma di raccogliere ed esporre le proprie esperienze e conoscenze in modo tale da mettere quelle persone nelle condizioni di scegliere se continuare ad opporsi allo Spirito stesso, o cedere davanti a lui. Ricordiamo che se gli apostoli, dal primo all’ultimo, avessero dovuto assemblare i loro ricordi per evangelizzare senza venire illuminati dallo Spirito, avrebbero miseramente fallito. Ma ringraziamo Nostro Signore Gesù Cristo perché disse loro “Vi ho detto queste cose mentre io sono ancora presso di voi. Ma il Consolatore, lo spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che io vi ho detto” (Giovanni 14.26). Amen.

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09.04 – LA MISSIONE DEI DODICI: LA GRATUITÀ DEL DONARE E LA GESTIONE DI SÉ (Matteo 10.8-14)

9.04–La missione dei dodici: III. Gratuità del donare e la gestione di sé (Matteo 10.8-14)

 

8Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. 9Non procuratevi oro né argento né denaro nelle vostre cinture, 10né sacca da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché chi lavora ha diritto al suo nutrimento. 11In qualunque città o villaggio entriate, domandate chi là sia degno e rimanetevi finché non sarete partiti. 12Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. 13Se quella casa ne è degna, la vostra pace scenda su di essa; ma se non ne è degna, la vostra pace ritorni a voi. 14Se qualcuno poi non vi accoglie e non dà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dei vostri piedi. 15In verità io vi dico: nel giorno del giudizio la terra di Sòdoma e Gomorra sarà trattata meno duramente di quella città.”.

 

Abbiamo qui le istruzioni di Gesù ai dodici che per la prima volta sarebbero diventati davvero operativi, protagonisti della predicazione anche se in modo diverso da quanto avverrà dopo l’ascensione e la discesa dello Spirito Santo. Siamo infatti al tempo in cui la diffusione del Vangelo consisteva nell’annuncio del Regno di Dio “vicino” o “giunto” a Israele, popolo eletto che, credendo nel Messia promesso, avrebbe potuto determinare un nuovo corso storico per sé e per gli altri popoli. La vicinanza del Regno andava dichiarata a tutti indipendentemente dal loro grado di istruzione o condizione sociale e ciò avveniva ininterrottamente secondo il raccordarsi dell’eternità di Dio col tempo degli uomini: pensiamo che, a partire dall’annuncio della nascita di Gesù, nel giro di pochi decenni si erano registrati eventi miracolosi (le tante teofanie angeliche e tutti gli episodi ad esse collegati), la predicazione e il battesimo di Giovanni, il ministero di Gesù, i suoi discepoli che Lo seguivano e collaboravano con Lui per quanto potevano, la predicazione sostenuta dai miracoli. Ora abbiamo l’invio dei dodici dopo aver ricevuto potere su tutto ciò che era d’impedimento per una vita totalmente piena, cioè la malattia, la morte, la lebbra e la possessione demoniaca. Si tratta di quattro elementi di cui due sicuramente ”naturali” perché malattia e morte rientrano nella vita; gli altri invece non si sa come affrontare, sfuggono alla comprensione perché appartengono a una dimensione alla quale l’essere umano non pensa e vi si ritrova coinvolto suo malgrado. La lebbra, per la quale non c’era cura, modo che Dio allora aveva per giudicare la persona nella carne, sappiamo che rendeva chi ne era affetto totalmente emarginato dalla società e senza diritti. L’indemoniato, poi, non avendo più il controllo su di sé, viveva succube di colui, o coloro, che lo abitavano. Ecco allora la totalità dell’intervento che i dodici erano in grado di portare a quanti avrebbero accolto il loro annuncio, a conferma del fatto che non possono esservi limiti all’intervento di Dio.

Penso a come si saranno sentiti i dodici nell’esercizio delle loro funzioni che Gesù aveva conferito loro, che da battezzatori che ricalcavano le orme di Giovanni Battista, si ritrovavano a compiere quei miracoli che mai avrebbero pensato di poter fare, meditando così sulla differenza tra il seguire un profeta o il Figlio di Dio.

Va comunque rilevato che “risuscitate i morti” manca nei manoscritti più antichi e che, nei racconti evangelici, non abbiamo nessun dato circa resurrezioni operate dagli apostoli in questo primo periodo. Poco cambia perché Gesù, se avesse conferito ai Suoi tre ambiti di contrasto e non quattro, si sarebbe riservato quello sulla morte. Concedendo poi ai dodici di intervenire sugli altri elementi, quindi malattia, lebbra e possessione, avrebbe mantenuto il necessario distinguo fra coloro che esercitavano dei poteri concessi e Lui, Figlio dell’uomo e dell’Iddio vivente. Eppure, quel “chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie Colui che mi ha mandato”, ci parla di un’identità totale.

Leggiamo poi il primo ordine impartito, “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”, strettamente connesso a quanto appena conferito ai dodici tra i quali anche Giuda Iscariotha. Si tratta di un verità con la quale Nostro Signore stabilisce un primo, fondamentale pilastro dei rapporti che devono intercorrere fra chi del Vangelo è un operatore e chi un fruitore: Gesù aveva conferito un potere ai dodici e il suo ordine è teso potenzialmente ad evitare quei fraintendimenti carnali che si manifestarono altrove, come nel caso del mago Simone, che pregò gli apostoli di dare anche a lui il potere di trasmettere il dono dello Spirito Santo con l’imposizione delle mani (Atti 8.9-24). Questo Simone voleva che ciò avvenisse per poi fare altrettanto, ma facendosi pagare. Ricordiamo le parole di Pietro in proposito: “Possa andare in rovina tu e il tuo denaro, perché hai pensato di comprare con soldi il dono di Dio! Non hai nulla da spartire né da guadagnare in questa cosa, perché il tuo cuore non è retto davanti a Dio. Convertiti dunque da questa tua iniquità e prega il signore che ti sia perdonata l’intenzione del tuo cuore”.

Tanto le parole di Gesù ai dodici quanto quelle di Pietro al mago Simone aiutano a valutare la condizione spirituale di quelle Chiese, o credenti, che chiedono un contributo economico per opere che non possono essere valutate con un metro umano e quindi il denaro, doveroso compenso per una qualsiasi attività lavorativa, è qui completamente fuori luogo. Ecco allora che qualunque dono un credente abbia ricevuto non può venire esercitato a pagamento, ma dev’essere un libero donarsi per quanto, come vedremo, con accortezza.

Già con la proibizione di accettare denaro dai beneficiari dei miracoli abbiamo un primo, profondo distacco dal modo di ragionare umano, ma la seconda istruzione irrompe anche nel senso di prudenza che qualunque viaggiatore doveva (e deve) avere, predisponendo quanto potrà aiutarlo nel viaggio: gli apostoli non dovevano portare con sé oro, argento e denaro, tutti indici di una coscienziosa previdenza in quanto elementi che potevano essere scambiati in denaro e quindi ciò avrebbe evitato di portare con sé il peso eccessivo di molte monete. Poi niente sacca da viaggio (utilizzata per semplici provviste alimentari), vestiti di ricambio e sandali che però, venendo raccomandati in Marco, viene da pensare che ne fosse proibito un ulteriore paio. Infine, nell’elenco, non viene ammesso addirittura il bastone per sostenersi quando stanchi o da usare per difendersi da animali aggressivi. Il bastone era soprattutto quello strumento che qualificava la tribù di appartenenza della persona. Matteo specifica tutto ciò mentre Luca riporta “non prendete nulla per il viaggio”: i dodici avrebbero dovuto andare così com’erano, senza nient’altro che loro stessi e, soprattutto, la benedizione del loro Maestro perché “chi lavora ha diritto al suo nutrimento” cioè “io stesso provvederò a voi”.

Inviando i dodici in missione Gesù intende far scoprire loro cosa voglia dire lavorare per Lui, cioè stare sotto le Sue ali protettive e quindi dipendendo da Dio in tutto e per tutto ma, attenzione, fu uno stato temporaneo sul quale occorre riflettere per non cadere nell’approssimazione o peggio in un “romanticismo” fuori luogo: vero è che davanti a Nostro Signore ci siamo sempre, vero è che chi dirige la nostra vita è Lui come è Lui a proteggere e provvedere continuamente, ma non si può fare di questi principi una regola assoluta, qualcosa che debba avvenire per forza come lo fu per gli apostoli in missione. In altri termini, per chiarire il concetto senza ombre, Gesù inviò i Suoi con questi ordini per far capire loro quanto fosse fondamentale attenersi alla Sua provvidenza, ma successivamente non fu più così, anzi, ricordando proprio questa missione disse loro: “«Quando vi ho mandato senza borsa, né sacca, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?» Risposero: «Nulla». Ed egli soggiunse: «Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così chi ha una sacca; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. Perché io vi dico, deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato fra gli empi»” (Luca 22.35-37).

Sappiamo che quando Gesù “Fu annoverato fra gli empi” ne accettò le conseguenze anche di fronte al Padre che lo abbandonò e per questo, in quel lasso di tempo per quanto breve, non avrebbe potuto far nulla né per sé, né per altri: “Bisogna che noi compiano le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la note, quando nessuno può agire” (Giovanni 9.4)

Ricordiamo, a proposito del mantenersi, l’apostolo Paolo che lavorava perché non voleva essere di peso agli altri che avrebbero voluto sostenerlo con le offerte: “Voi ricordate, fratelli, il nostro duro lavoro e la nostra fatica: lavorando notte e giorno per non essere di peso a nessuno di voi, vi abbiamo annunciato il Vangelo di Dio” (1 Tessalonicesi 2.9). Ancora, “Noi non siamo rimasti oziosi in mezzo a voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato duramente, notte e giorno, per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darci a voi come modello da imitare” (2 Tessalonicesi 3.7-9). E più avanti si dirà che “Chi non vuole lavorare, non deve neppure mangiare” (v.10).

Quanto Gesù ordinò ai dodici nel nostro episodio, quindi, aveva lo scopo di far comprendere loro che erano un tutt’uno con Lui e che a Lui avrebbero sempre dovuto far riferimento per qualunque loro esigenza, ma questo non li esimeva dal sostenersi da sé in futuro, quando avrebbero poi affrontato la predicazione per formare la Chiesa, posto che il concetto di lavoro era molto diverso dal nostro così come il tempo che a lui si dedicava. Ecco che quindi fare di un episodio “dispensazionale” una regola appare fuori luogo e fuorviante, buono tuttalpiù per del “romanticismo cristiano” che rischia poi di evaporare alla luce della realtà della vita e portare al fallimento o a compromessi di varia natura per sopravvivere.

L’opera cristiana non può essere lasciata al caso, ma proseguendo nella lettura vediamo che è frutto di calcolo e previdenza perché, al verso 11, vengono date le indicazioni per l’alloggio, cercando una casa il cui proprietario sia una persona “degna” nel senso che goda la stima della città o del villaggio, oltre che appartenere alla categoria dei “giusti” come intesi allora. Il verbo impiegato per “cercare”, ecsetàsate, implica un “laborioso ricercare onde scoprire il vero”, quindi facendo appello anche al proprio discernimento. Lì i discepoli, a coppie, avrebbero dovuto dimorare, ma solo se la “casa” si fosse confermata disponibile all’accoglienza del messaggio che essi portavano. Nonostante “Pace a questa casa” fosse ed è tutt’ora un saluto comune in Oriente, in quel caso non si porgeva un augurio sincero e benevolo, ma la pace di Cristo, quella del Regno dei cieli vicino, del Vangelo: essendo impossibile non dichiararsi subito favorevoli o contrari, visto che non può esistere neutralità, ecco che quella “pace” avrebbe potuto scendere sui membri della famiglia, o tornare agli apostoli perché il Vangelo è veramente l’annuncio della “pace” fatta tra Dio e gli uomini che gli appartengono. E la vicinanza del Regno era appunto l’unico annuncio di pace possibile.

È interessante Luca che nel suo racconto fa dire a Gesù “Non passate di casa in casa” perché non solo cambiando dimora avrebbero potuto urtare la suscettibilità del primo ospitante e quindi turbare degli equilibri emotivi che dovevano restare fermi, ma anche avrebbero dimostrato poca oculatezza e sensibilità oltre a venir scambiati per girovaghi, o questuanti, o entrambe le cose. E certo i discepoli di Gesù non vivevano di espedienti.

Una casa, più case, un paese o una città avrebbero avuto la responsabilità di accogliere o rifiutare il messaggio evangelico e la reazione, in quel caso, avrebbe dovuto essere “scuotete la polvere dei vostri piedi”, secondo Marco 6.1 cui Luca 9.5 aggiunge “in testimonianza contro di loro”: lo scuotimento della polvere era un gesto che poteva essere capito molto bene perché usato dai Farisei che, rientrando in Giudea da un paese pagano, scuotevano la polvere dai sandali alla frontiera in segno di esclusione da qualsiasi rapporto coi gentili. Per gli apostoli questo gesto significava che non solo non intendevano portare con sé nulla che appartenesse a quella gente, ma che si liberavano da qualsiasi responsabilità derivante dalla condanna che avrebbe seguito il loro rifiuto. Lo scuotimento della polvere lo troviamo nel libro degli Atti ad Antiochia, quando “…i giudei sobillarono le pie donne della nobiltà e i notabili della città e suscitarono una persecuzione contro Paolo e Barnaba e li cacciarono dal loro territorio. Allora essi, scossa contro di loro la polvere dei piedi, andarono a Icònio” (Atti 13.50,51). Anche qui si trattò di un gesto che fu capito dai Giudei e con il quale i due, Paolo e Barnaba, si dichiararono non responsabili del giudizio che sarebbe caduto su quelli.

L’uomo che non conosce il messaggio del Vangelo, nel momento in cui gli viene offerto, ha davvero l’opportunità di determinare il proprio destino di eternità con o senza Cristo secondo quanto leggiamo in Romani 2.5-8: “Tu, però, con il tuo cuore duro e ostinato, accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, che renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che perseverando nelle opere di bene, cercano gloria, onore, incorruttibilità; ira e sdegno contro coloro che, per ribellione, disobbediscono alla verità e obbediscono all’ingiustizia”. L’uomo quindi, come già detto, deve inevitabilmente obbedire a qualcuno, è uno schiavo comunque nonostante non si ritenga tale. La differenza tra chi servire risiede nel fatto che con Cristo si ha sempre una scelta, mentre con Satana no.

C’è poi il riferimento a Sodoma e Gomorra, città tristemente note nell’antichità per il loro voler vivere in modo totalmente libero non tanto e non solo la sessualità, ma per il disprezzo assoluto delle esigenze altrui, dell’ospitalità e della correttezza dei rapporti umani. Ebbene gli abitanti di quei luoghi, educati agli istinti primitivi fin dall’adolescenza, che non ebbero informazioni o una predicazione su quali fossero le esigenze di Dio, saranno trattate nel giudizio finale meno duramente rispetto a tutti quelli che hanno disprezzato coscienziosamente la testimonianza del Vangelo. E tale affermazione è sostenuta dall’Amen di Gesù, “In verità io vi dico”. Ecco perché il messaggio è “Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori”. Amen.

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09.03 – LA MISSIONE DEI DODICI: DA CHI ANDARE (Matteo 10.5-14)

9.03 – La missione dei dodici: II. Da chi andare (Matteo 10.5-14)

 

5Questi sono i Dodici che Gesù inviò, ordinando loro: «Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; 6rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele. 7Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. 8Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date. 9Non procuratevi oro né argento né denaro nelle vostre cinture, 10né sacca da viaggio, né due tuniche, né sandali, né bastone, perché chi lavora ha diritto al suo nutrimento. 11In qualunque città o villaggio entriate, domandate chi là sia degno e rimanetevi finché non sarete partiti. 12Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. 13Se quella casa ne è degna, la vostra pace scenda su di essa; ma se non ne è degna, la vostra pace ritorni a voi. 14Se qualcuno poi non vi accoglie e non dà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dei vostri piedi. 15In verità io vi dico: nel giorno del giudizio la terra di Sòdoma e Gomorra sarà trattata meno duramente di quella città.”.

 

“Chiamare” e “dare” sono i due verbi sui quali ci siamo soffermati nello scorso capitolo. Nella nostra lettura ora se ne aggiunge un terzo, “ordinare”, che contiene le norme di comportamento dell’apostolo in missione, alcune delle quali limitate al periodo in cui gli inviati da Gesù avrebbero operato. Il discorso ai dodici è interessante perché non solo dà loro delle regole, ma anche, come vedremo, tutta una serie di avvertimenti perché non si trovassero impreparati di fronte alle manifestazioni negative che vi sarebbero state in conseguenza della loro missione. Per gli Apostoli furono sufficienti le parole del loro Maestro, per noi valgono tutte le numerose indicazioni-esortazioni che troviamo nelle epistole di Paolo, Pietro, Giacomo, Giuda e Giovanni lasciate alla Chiesa perché i suoi componenti le mettessero in pratica nel loro interesse.

La prima norma, quelle di non andare fra i pagani e non entrare nelle città dei samaritani, rivolgendosi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele, è di facile comprensione poiché non era ancora giunto il tempo per cui il Vangelo fosse predicato a chi non apparteneva al popolo eletto. Questo avverrà apertamente dopo il rifiuto delle autorità religiose della Sinagoga di Antiochia quando Paolo e Barnaba parlarono dicendo: “Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, noi ci rivolgiamo ai pagani” (Atti 13.46), realtà che vediamo implicitamente nel dono delle lingue parlate dai “centoventi” che componevano la Chiesa di Gerusalemme (2.1-13).

Gesù non compila un itinerario che i Suoi avrebbero dovuto rispettare, ma proibisce loro di entrare nelle città greche situate nella Decapoli dalla quale molti arrivavano per ascoltarlo e vedere i miracoli che faceva. Questa proibizione, come osservato da molti, fu di breve durata, ma necessaria per compiere il piano di Dio di fondare la Chiesa cristiana partendo dagli Ebrei. I Samaritani poi erano una razza mista, in origine pagani introdotti nel regno di Israele dagli Assiri per riempire il vuoto lasciato dalle dieci tribù deportate oltre l’Eufrate: quelli s’imparentarono così col rimanente ebraico lasciato in patria e a loro si assimilarono adottando la Legge di Mosè, ma venerando ancora i loro dèi. Quando il popolo, tornando da Babilonia, rifiutò di accettare la loro cooperazione nel costruire il Tempio a Gerusalemme, i Samaritani se ne costruirono uno sul monte Gherizim. Sappiamo che Gesù visitò i loro territori, come visto nell’episodio della donna samaritana e che là predicò, ma solo Lui sapeva cosa dire e poteva rivolgere loro un messaggio mirato. Da notare poi che, una volta risorto, le parole di Nostro Signore furono differenti: “…ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria fino a tutti i confini della terra” (Atti 1.8).

Ancora una volta troviamo la definizione “pecore perdute”: così, come già accennato, era descritto il popolo lasciato solo, o peggio male amministrato da pastori indegni. Isaia 53.6 scrive “Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada”, cioè pecore non in grado neppure di stare unite. Affondando le sue radici nell’Ebraismo, anche nel Cristianesimo vale la figura della pecora perduta, ma a causa della solitudine e disorientamento derivante dal peccato; l’apostolo Pietro scriverà “Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle anime vostre” (! Pietro 2.25). Gesù in persona quindi custodisce le anime di chi lo ascolta, fa la Sua volontà e viene così considerato Suo “amico”.

Per la regola in base alla quale ciò che troviamo scritto nel Vangelo ha una valenza per le persone che vivevano in quel tempo e ne ha un’altra – certo non di opposto significato – per noi, essere “pecora perduta” a causa del peccato e della propria eredità storica pagana con tutto ciò che questo comporta (filosofie di ogni tipo, metodologie di espressione e contenuti), è diverso da essere “pecora perduta” perché abbandonata a sé stessa da chi avrebbe dovuto occuparsi di lei, cioè gli Scribi e Farisei. Il fallimento dei pastori del popolo di allora, ma anche prima, è descritto in modo drammatico in Geremia che addirittura prende ad esempio alcuni animali che, a differenza degli uomini, hanno l’istinto che suggerisce loro cosa fare al tempo opportuno. Sono parole che valgono anche oggi: “Ho ascoltato attentamente: non parlano come dovrebbero. Nessuno si pente della sua malizia e si domanda «Cos’ho fatto?». Ognuno prosegue la sua corsa senza voltarsi, come un cavallo lanciato nella battaglia. La cicogna nel cielo conosce il tempo per migrare, la tortora, la rondine e la gru osservano il tempo del ritorno; il mio popolo, invece, non conosce l’ordine stabilito dal Signore. Come potete dire «Noi siamo saggi perché abbiamo la legge del Signore»? A menzogna l’ha ridotta lo stilo menzognero degli scribi! I saggi restano confusi, sconcertati e presi come in un laccio. Ecco, hanno rigettato la parola del Signore: quale sapienza possono avere?” (8.6-9).

Illuminante poi la profezia di Ezechiele 34.2-6 che oggi molti pastori del cristianesimo, indipendentemente dalla denominazione di appartenenza e/o gerarchia, dovrebbero meditare per ravvedersi: “Figlio dell’uomo, profetizza contro i pastori d’Israele, profetizza e riferisci ai pastori: «Così dice il Signore Iddio: guai ai pastori d’Israele, che pascono se stessi! I pastori non dovrebbero forse pascere il gregge? Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge. Non avete reso forti le pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza. Per colpa del pastore si sono disperse e sono preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate. Vanno errando le mie pecore su tutti i monti e su ogni colle elevato e nessuno va in cerca di loro e se ne cura”.

Ecco perché i dodici dovevano rivolgersi a Israele. Anteporre la predicazione ad altri quando l’elezione di quel popolo richiedeva un intervento che lo facesse tornare tale nella pratica, per di più con la presenza del Messia in mezzo a loro, rendeva qualunque altra iniziativa priva di senso, perché la precedenza non è qualcosa che si può interpretare, ma solo accogliere e rispettare. I Pastori che avevano fallito con le pecore di Israele non è che di punto in bianco avessero cambiato carattere e metodi, ma fu un processo molto graduale, avvenuto quasi senza accorgersene, dando spazio all’aggiungere e togliere elementi che la Legge proibiva: abbiamo letto le parole “A menzogna l’ha ridotta lo stilo menzognero degli scribi”. Poco a poco, introducendo nuove interpretazioni, incapaci di guardare il generale senza cui il particolare si svuota di significato, quei pastori avevano ridotto la pratica e la fede a una religione completamente arida e inutile. Ai tempi di Gesù si trattava di custodire, tramandare, insegnare una visione corretta dell’ebraismo, ai nostri si tratta di non inquinare le verità da Lui annunciate e sviluppate dagli Apostoli che parlarono e scrissero sotto la guida infallibile dello Spirito Santo.

E mi piace concludere questa parte con le parole di un illustre studioso della Scuola di Gerusalemme: “Anche nella storia della Chiesa il Grande Codice fu considerato cava da cui estrarre versetti infallibili perché rapiti dal loro contesto e denucleati della loro significazione, o unico orizzonte in cui circoscrivere il pensiero su Dio e sul Creato”. Senza contare l’azione infestante e dannosa che ha l’aggiungere e il togliere, che genera sempre un grave squilibrio nella relazione con Dio e nella creatura che, disinformata, non può che rientrare nella categoria delle pecore senza pastore. Aggiungo  su questo importante tema Geremia 50.6,7: “Gregge di pecore sperdute era il mio popolo, i loro pastori le avevano sviate, le avevano fatte smarrire per i monti; esse andavano di monte in colle, avevano dimenticato il loro ovile. Quanti le trovavano le divoravano e i loro nemici dicevano: «Non ne siamo colpevoli, perché essi hanno peccato contro il Signore, sede di giustizia e speranza dei loro padri»”.

Rimane a questo punto da riflettere sul verso 7, qui tradotto meglio che in altre versioni, “Strada facendo, predicate”: il messaggio abbiamo visto che allora doveva essere diretto a Israele, inteso a destare principalmente attenzione, svegliare le coscienze addormentate, preparare la via ad un più ampio ed esplicito insegnamento. Certo la frase “Il regno dei cieli è vicino” era ora supportata da molti più elementi rispetto a quelli che predicava Giovanni Battista, di cui è detto che non sorse tra i nati di donna uno maggiore di lui perché sappiamo che quando gli mandò a dire “Sei tu quello che doveva venire, o dobbiamo aspettarne un altro?” Gesù rispose: “…i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona notizia”. Ebbene ora anche dodici discepoli facevano lo stesso, salvo la predicazione nelle Sinagoghe perché non ne sarebbero stati in grado. Quello lo faceva Gesù e lo faranno gli stessi Apostoli una volta sceso lo Spirito Santo.

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