15.05 – QUANDO VERRÀ IL REGNO DI DIO IV/IV (Luca 17.33-37)

15.05 – Quando verrà il Regno di Dio IV/IV (Luca 17.33-37)

 

33Chi cercherà di salvare la propria vita, la perderà; ma chi la perderà, la manterrà viva. 34Io vi dico: in quella notte, due si troveranno nello stesso letto: l’uno verrà portato via e l’altro lasciato; 35due donne staranno a macinare nello stesso luogo: l’una verrà portata via e l’altra lasciata». [ 36] 37Allora gli chiesero: «Dove, Signore?». Ed egli disse loro: «Dove sarà il cadavere, lì si raduneranno insieme anche gli avvoltoi».

 

Conosciamo il verso 33 per averlo citato e spiegato sommariamente in altri capitoli; qui, però, è citato in un contesto che non lascia adito a dubbi quanto a interpretazione, perché collegato a quanto abbiamo letto negli scorsi capitoli: “Come avvenne ai tempi di Noè, così ancora avverrà ai tempi del Figlio dell’uomo. Gli uomini mangiavano, bevevano, sposavano mogli, si maritavano, fino al giorno che Noè entrò nell’Arca; e il diluvio venne, e li fece tutti perire. Parimente ancora, come avvenne ai giorni di Lor, la gente mangiava, beveva, comperava, vendeva piantava e costruiva; ma nel giorno che Lot uscì da Sodoma, piovve dal cielo fuoco e zolfo, e li fece tutti perire: tal sarà il giorno, nel quale il Figlio dell’uomo apparirà. In quel giorno, colui che sarà sopra il tetto della casa, e avrà le sue masserizia dentro la casa, non scenda per toglierle e allo stesso modo chi sarà nella campagna non torni indietro. Ricordatevi della moglie di Lot” (vv.26-32).

Ora cosa ci rappresentano tutti questi esempi? La volontà di svincolarsi, da parte dell’uomo, rispetto a ciò che Lui vuole dalla Sua creatura. Abbiamo da poco sviluppato il tema di Noè e dei suoi contemporanei così come quello di Lot, ma meno quello degli altri. In ogni caso, Noè per salvarsi dovette rinunciare alla sua vita, che presumiamo tranquilla con la propria famiglia, per dedicarsi interamente alla costruzione dell’arca (e abbiamo visto cosa comportò il realizzarla), fatica che non si risolse certo con l’avvento del diluvio, ma che proseguì fino alla sua fine, dopo di che fu necessario ricominciare tutto da capo: coltivare, costruire, allevare animali. Noè e i suoi figli, quindi, furono tra quelli che non cercarono “di salvare la propria vita” intesa come la volevano i loro contemporanei, e per questo la trovarono. Allo stesso modo Lot, che si distinse dal resto dei Sodomiti e degli altri prima coltivando pietà e giustizia, poi abbandonando tutto ciò che aveva – per quanto con forte esitazione – assieme ai suoi parenti, così salvandosi.

Allo stesso modo abbiamo gli esempi di chi si trova sul tetto della casa e di chi a lavorare nei campi: di fronte alle parole di Gesù che invita a fuggire senza badare a ciò che si possiede, quindi lasciando in casa ciò che si ha (anche di più caro), sia esso a portata di mano o lontano. È questa, se ci pensiamo, una specie di morte perché si tratta di abbandonare qualunque cosa, perderla, scappare coi soli vestiti indosso. E penso a coloro che, come abbiamo visto precedentemente, si comportarono così avendo salva la vita nel senso che non perirono nella distruzione di Gerusalemme come gli altri. Certo, per poter ubbidire all’ordine di Gesù non dovevano appartenere a quella categoria di persone che vede nel possesso di cose e/o persone la propria espressione di sé.

Abbiamo poi l’esempio della moglie di Lot, la cui morte singolare trova una delle sue ragioni in 1 Corinti 10.6, “Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come essi le desiderarono”. Mi sono chiesto il perché del voltarsi indietro di questa donna, che certamente avrà ascoltato le parole di Lot che a sua volta le aveva avute dell’angelo “Fuggi, per la tua vita. Non guardare indietro e non fermarti dentro la valle: fuggi sulle montagne, per non essere travolto!” (Genesi 19.17): non trovo altri motivi nel suo riguardare se non nella curiosità o nel dolore (o in entrambi) perché, con la distruzione di quella città, moriva anche una parte dei suoi affetti e abitudini. Qualunque sia stata la sua reale motivazione, si tratta di un comportamento umanamente comprensibile, ma non spiritualmente perché avrebbe dovuto ascoltare la Parola di Dio. Se lei divenne “una statua di sale”, cioè un corpo morto, secco, direi cristallizzato, fu perché dette ascolto istintivamente alla propria carne che, paradossalmente, fu quella che la condannò. Per non voltarsi indietro, la moglie di Lot avrebbe dovuto annullare profondamente il proprio Io, cosa che non avvenne ed ecco che il voler “salvare la propria vita” riguarda anche quella più profonda, quella istintiva, nostra, che va persa se la si vuole “mantenere viva”. Io non vivo solo perché il mio battito cardiaco esiste, ma perché penso, voglio, ho, credo comunque in qualcosa e quando Gesù parla di “perdere la propria vita” fa proprio riferimento a ciò che possediamo e ci caratterizza come persone. Certo che siamo e restiamo unici, col nostro carattere e non saremo mai automi, ma qui si parla di “uomini nuovi”, di “nuove creature” che con quella di prima non hanno più niente a che fare.

E arrivare a questa condizione non è cosa che si possa fare in poco tempo, perché si finirebbe per tornare indietro; l’abbandono dev’essere qualcosa di progressivo, dev’essere attuato quando se ne è maturata la necessità, quando è Gesù ad abitare la persona e tutto il resto diventa superfluo. La rinuncia non è mai dolore, ma qualcosa che avviene con una spontaneità disarmante; quello che può provocare sofferenza è il trovarsi in situazioni dove la carne vorrebbe conseguire un risultato, ma questo non è ottenibile a meno di non perdere delle caratteristiche spirituali conquistate comunque con rinuncia. In altri termini Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni – per citare i primi quattro – rinunciarono a una tranquilla vita (sottolineo agiata) di pescatori perché consci di aver trovato il Messia, ma faticarono comunque e soprattutto soffrirono una volta diventati ufficialmente figli di Dio e servi di Gesù Cristo, comprendendo però l’importanza della scelta che avevano fatto e ben lieti che fosse stata irrevocabile.

 

Tenuto presente che qui Nostro Signore parla senza seguire una cronologia precisa, leggiamo di due persone che si troveranno in determinate attività e che di queste “una sarà presa, l’altra lasciata”: posto che è impossibile che queste parole si rifacciano alla distruzione di Gerusalemme, non resta altro che collegare il prendere e il lasciare al rapimento della Chiesa, “Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore” (1 Tessalonicesi 4.16,17).  Ancora, sappiamo che questo avverrà all’improvviso, con un’estrema rapidità: “Ecco, io vi annuncio un mistero: noi tutti non moriremo, ma tutti saremo trasformati, in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba. Essa infatti suonerà e i morti risorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati. È necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità” (1 Corinti 15.51-53).

Abbiamo però letto “In quella notte”: quale? Non è notte perché si sarà a letto a dormire, ma il riferimento è a quella della Sua assenza, quella in cui, in contrapposizione al “giorno” della Sua venuta, quando era il mezzo a noi, tutto farà presumere la sua mancanza, quando l’umanità avrà fatto definitivamente a meno di Lui e, forse, se ne sarà dimenticata. In Belgio si pensa di abolire l’ora di religione nelle scuole elementari – che comunque un riferimento a Gesù lo dava, per quanto blando – con quella di filosofia, in cui i bambini cresceranno nella confusione delle teorie, incapaci di orientarsi. O, meglio, verranno orientati in base alle direttive di uno Stato che obbedirà al “Principe di questo mondo”. Ora credo che, se non viviamo propriamente in quella “notte”, siamo comunque nella sera che la precede.

Non sarà certo sfuggita, nella lettura del nostro testo, l’assenza in questa versione del verso 36 e ciò è dovuto al fatto che, con ogni probabilità, si tratta di un aggiunta di un anonimo copista che, mosso dall’idea di completare un concetto secondo lui rimasto in sospeso, ha preso in prestito il testo di Matteo; il verso 36 infatti recita “Due saranno nella campagna; uno sarà preso, l’altro lasciato”. Le attività umane, essere a letto, macinare e stare ai campi, sono tese a dimostrare l’universalità dell’azione della chiamata attraverso i fusi orari.

A questo punto non poteva mancare la domanda dei discepoli che chiedono “Dove, Signore?”: in effetti Gesù non aveva menzionato alcun luogo e, soprattutto, mescolato eventi che sarebbero appartenuti ad epoche diverse e, a conferma che il comportamento umano sarebbe rimasto invariato rispetto a quello dei tempi di Noè, di Lot e di tutti gli altri, risponde in modo che per i discepoli sarebbe stato certamente criptico: “dove sarà il cadavere, lì si raduneranno insieme anche gli avvoltoi”. È interessante notare il sostantivo greco per indicare “cadavere” e qui occorre dar ragione a quanti sostengono che, purtroppo, nessuna traduzione potrà mai rendere lo stesso concetto della lingua originale: ptòma, oltre che “cadavere”, significa “caduta, disgrazia, sciagura, disfatta, errore, rovina, rottame”, per cui l’allusione è a tutto ciò che è conseguenza del peccato inteso come risultato dell’allontanamento volontario da Dio.

È quindi chiaro che la frase “dove sarà il cadavere, qui si raduneranno gli avvoltoi” allude non a una salma prossima ad essere divorata da quei rapaci, ma ha un senso molto più elevato ed ampio, riferendosi prima di tutto ad un’umanità già morta anche se vivente, che ha quindi perso senza alcuna possibilità di recupero qualsiasi possibilità di salvezza proprio perché avrà cercato di “salvare la propria vita”. E il ricordo della frase detta a quel tale che disse “Permettimi prima di seppellire mio padre”, “lascia i morti seppellire i loro morti”, può aiutarci nella comprensione.

“Gli avvoltoi”, tradotti anche con “aquile”, sono allora gli esecutori dei piani di Dio, siano essi un popolo con l’effige dell’aquila che si comporterà secondo i criteri di Deuteronomio 28.49 e seguenti, come abbiamo citato, oppure gli angeli, radunati per eseguire gli ordini negli ultimi giorni, o tempi, come parla diffusamente l’apostolo Giovanni nella sua Apocalisse, che hanno la funzione ora di aquila (animale che non lascia nessuno scampo) ora di avvoltoio, chiamato anche “spazzino del deserto”.

Concludendo, Gesù con questo discorso profetico dà ai discepoli una prima indicazione di qualcosa di molto più ampio che affronterà in seguito, cui Matteo dedica due capitoli e Marco uno. Partire, in questo panorama di eventi futuri, dal Luca, è importante perché, essendo il discorso più “leggero”, ci fornisce le chiavi interpretative per il successivo, che Dio concedendo affronteremo quando Nostro Signore starà a Gerusalemme per il poco tempo ancora a lui dato per concludere il Suo Ministero. Amen.

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