09.14 – LA MISSIONE DEI DODICI: PACE SULLA TERRA I (Matteo 10.34-36)

9.14 – La missione dei dodici: XIII. La pace sulla terra (Matteo 10.34-36)

 

34Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada. 35Sono infatti venuto a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre e la nuora da sua suocera; 36e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa”.

 

Nel versi precedenti abbiamo visto come, quando gli uomini si troveranno davanti a Cristo, verranno da Lui riconosciuti o rinnegati. A parte le considerazioni fatte in proposito si può dire che questi versi, pur riguardando tutti gli uomini, non escludono quelli che nella Chiesa si professano credenti, ma poi vivono con una condotta non consona alla loro professione di fede o l’abbandonano o ancora, a fronte di dover pubblicamente riconoscere la propria appartenenza a Cristo, la negano per ragioni di interesse personale. Si tratta di un tema molto delicato che l’apostolo Paolo, parlando di quelli che “sono stati una volta illuminati e hanno gustato il dono celeste, sono diventati partecipi dello Spirito Santo e hanno gustato la buona parola di Dio e i prodigi del mondo futuro”, afferma che possono arrivare a un punto estremo, di non ritorno: “tuttavia, se sono caduti, è impossibile rinnovarli un’altra volta portandoli alla conversione, dal momento che, per quanto sta in loro, essi crocifiggono di nuovo il Figlio di Dio e lo espongono all’infamia” (Ebrei 6.4,6). Sono parole importanti e quel “se cadono” non è riferito a quei peccati che possiamo sempre commettere nella nostra carne, appunto cadendo, ma a un ritorno definitivo e volontario all’uomo vecchio, allo stato di separazione da Dio che si aveva prima della conversione, quindi un rinnegamento. È come dire, a fronte di una fede professata pubblicamente, “mi sono sbagliato”.

Ricordiamo poi che il “riconoscere” da parte di Gesù non comporterà solo il conferimento di quel “lasciapassare” perché “concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio”, ma l’attribuzione di un posto preciso nella “casa dalle molte stanze” che avverrà non senza sorprese visto che “molti ultimi saranno primi e molti primi ultimi”. Si tratta di occupare un posto preannunciato molte volte negli scritti del Nuovo Patto ed esposto in parabole, come quella delle dieci vergini o del gran convito in cui viene trovato uno che non aveva il vestito delle nozze, ma anche nei posti in un banchetto in cui ci sarà chi si troverà vicino o lontano da chi è a capotavola o, ancora, in quel “vuoto incolmabile”, o “gran voragine” che separa il ricco da Lazzaro, per non parlare dei talenti ricevuti e ridomandati.

Ciò che rileviamo immediatamente dai versi di oggi, però, è quello che potremmo definire un controsenso visto nel “Principe della pace” che sulla terra, anziché essa, porta “la spada”, strumento di offesa e difesa al tempo stesso. Per la prima volta la spada è citata in Genesi 3.24, quando viene consegnata ai Cherubini perché difendano l’accesso al giardino di Eden che aveva visto una relazione perfetta con il Creatore diventata poi impossibile a causa del peccato. Da lì in poi la “spada” fu per gli uomini uno strumento spesso terribile e portatore di morte anche su vasta scala, con lo sterminio di interi popoli. Figura anche del giudizio di Dio è comunque fondamentalmente riferita alle conseguenze dell’opera dello Spirito Santo e della Sua parola, che sappiamo essere “più acuta di una spada a doppio taglio” perché, appunto, separa ed è su quest’azione che si baserà non tanto il nostro studio, ma la nostra stessa vita.

Quando mi sono chiesto da dove iniziare la lettura cronologica del Vangelo ho deliberatamente scelto di non partire dalle genealogie di Matteo e Luca come sarebbe stato logico aspettarsi, ma dall’inno con cui Giovanni apre il suo scritto, che subito parla contemporaneamente di benedizione e gioia, ma anche di esclusione: “A tutti coloro che l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio”. Non tutti gli uomini hanno creduto e crederanno. Possiamo dire allora che il Vangelo si apre immediatamente con una distinzione tra chi è figlio di Dio e chi no, annuncia questa importante verità in modo che tutti scelgano di appartenere a Gesù Cristo.

Non solo, ma qualora si andasse a Matteo 1, non si potrebbe fare a meno di notare che anche lì esiste una profonda divisione, un taglio netto, con la citazione di personaggi che svilupperemo limitatamente a questo contesto: al versi 2 e 3 leggiamo infatti “Abrahamo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli. Giuda generò Fares e Zara da Tamar…”. Ciò che potrebbe apparire, anche nei versi successivi, come un elenco di nomi tesi a dimostrare che Gesù fosse realmente discendente da Davide e quindi di Abrahamo, nasconde dei significati che potrebbero applicarsi anche a tutti i suoi discendenti.

Abrahamo, il cui nome originario era Abramo, fu chiamato quando era ancora idolatra e non conosceva il Signore: “Vattene dalla tua terra – nella quale sei cresciuto e che conosci –, dalla tua parentela – quindi dai tuoi legami affettivi più profondi, ma anche abitudinari – e dalla casa di tuo padre – che ti ha cresciuto e al quale hai ubbidito –, verso la terra che io ti indicherò”, quindi senza sapere dove, affidandosi a Lui completamente (cap. 12).

Più tardi Abrahamo, per suggellare il patto con YHWH che più volte gli aveva rivelato i Suoi piani per lui, dovette istituire la circoncisione come segno esteriore di appartenenza al popolo di Dio cui dovevano sottoporsi anche gli stranieri che venivano accolti. Rifiutare la circoncisione equivaleva a volersi esentare dall’elezione, rifiutare il patto con Dio, ed era punita con la morte.

Proseguendo, leggiamo il nome di Isacco, che associamo immediatamente all’episodio del suo sacrificio dimenticando che, prima di questo, c’era stata una separazione spirituale dal fratello Ismaele, dal quale discenderanno i popoli arabi, che usava prepotenza verso di lui e lo dileggiava: “Sara vide che il figlio di Agar l’egiziana, quello che lei aveva partorito ad Abrahamo, scherzava – nel senso di dileggiarlo – con il figlio Isacco” (Genesi 6.9). E Ismaele, per quanto aiutato da Dio, “abitò nel deserto e divenne un tiratore d’arco” (21.21) mentre Isacco proseguì, compatibilmente con la dispensazione nella quale viveva, il suo percorso spirituale non senza affrontare le difficoltà della vita come tutti.

La spada la vediamo ancora con Giacobbe, che propose ad Esaù, che in quanto primogenito doveva essere il più responsabile e d’esempio, di vendergli la primogenitura, cosa che fece, ritenendola di valore inferiore a una minestra. Di questi due fratelli leggiamo che “…Esaù divenne abile nella caccia, un uomo della steppa, mentre Giacobbe era un uomo tranquillo, che dimorava sotto le tende” (25.27). Tutto il cammino di questi due uomini testimonia interessi e atteggiamenti opposti, per quanto la spada in senso letterale, cioè come violenza, non compaia mai salvo come intenzione perché, per un certo tempo, Esaù voleva uccidere il fratello.

Quando poi leggiamo in Matteo 1.2 “Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli”, la separazione si fa ancora più acuta: pensiamo a Simeone che profanò il talamo del padre, ancora a lui e Levi che sterminarono i Sichemiti dopo un piano studiato accuratamente, a tutti i fratelli (tranne Beniamino) che furono concordi nello sbarazzarsi di Giuseppe, vendendolo a una carovana di Ismaeliti. Il motivo fu non tanto di antipatia nei suoi confronti, ma perché non potevano sopportare il fatto che non fosse come loro: “Or Giuseppe riferì al padre di chiacchiere maligne su di loro” (Genesi 37.2), là dove una traduzione più corretta riporta “riferì la mala fama che andava intorno a loro”.

Infine, arriviamo a “Giuda generò Fares e Zara da Tamar”: come Giacobbe ed Esaù erano gemelli e nacquero in modo curioso perché “Durante il parto, uno di loro mise fuori una mano e la levatrice prese un filo scarlatto e lo legò attorno a quella mano dicendo: «Questi è uscito per primo». Ma poi ritirò la mano, ed ecco, venne alla luce suo fratello. Allora ella esclamò: «Come ti sei aperto una breccia? E fu chiamato Fares – cioè rottura, separazione –. Poi uscì suo fratello, che aveva il filo scarlatto alla mano, e fu chiamato Zara – cioè nascita dolce, agevole –“ (Genesi 38.28,29). Due nomi eloquenti.

Ora, con questi riferimenti all’Antico Patto, vediamo che è sempre esistito un confine tra gli uomini, una divisione tra chi tendeva verso Dio e chi invece lo respingeva preferendo i territori della propria carne. Ebbene ancor di più questo si verifica nella nuova era della Grazia, in cui lo Spirito Santo agisce apertamente avendo costituito un popolo che non abita più in una terra promessa, ma in mezzo alle genti, al paganesimo davvero multiforme, a un mondo che mira più che in passato a infrangere le barriere anche solo morali dimentico del fatto che “Dio ha messo l’Eterno nel cuore dell’uomo” (Ecclesiaste 3.11), quindi un naturale tendere a lui molto più rilevabile nel passato, quando c’era un codice d’onore e dignità, che nei tempi in cui viviamo.

Avendo citato spesso il libro della Genesi, ricordiamoci quanto detto da YHWH al serpente: “Io porrò inimicizia fra te e la donna – perché da essa sarebbe un giorno venuto il Cristo – fra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”. Sappiamo molto bene quale sia il significato delle ultime parole, ma si fa meno caso al fatto che qui si parli di due stirpi, una che proviene dal serpente e l’altra dalla donna: naturalmente il riferimento è a quella della genealogia menzionata da Matteo e Luca, ma per riflesso comprende quella di coloro che “da Dio sono nati”. Ecco allora che l’inimicizia fra la progenie della donna e quella del serpente, secondo le parole di Gesù che molti hanno sperimentato su di loro, si sarebbe insinuata anche nelle famiglie dove i legami avrebbero dovuto essere più forti che altrove.

Nostro Signore quindi non dice parole nuove come potrebbe sembrare, ma cita Michea 7.6 “Il figlio insulta suo padre, la figlia si rivolta contro la madre, la nuora contro la suocera e i nemici dell’uomo sono quelli di casa sua”, dimostrando così che esiste uno scorrere del tempo e il manifestarsi di forze avverse in crescendo che non deve meravigliare il discepolo, anzi rallegrarlo perché attraverso queste manifestazioni ha un segnale dell’avvicinarsi del gran Giorno: “L’uomo è scomparso dalla terra, non c’è più un giusto tra gli uomini: tutti stanno in agguato per spargere sangue, ognuno con la rete dà la caccia al fratello. Le loro mani sono pronte per il male: il principe avanza pretese, il giudice si lascia comprare, il grande manifesta la cupidigia, e così distorcono tutto. Il migliore di loro è come un rovo, il più retto una siepe di spine” (7.2-4).

Le parole di Gesù, che purtroppo per ragioni di tempo stiamo spezzando in più episodi, vengono pronunciate per preparare il discepolo a vedere le manifestazioni negative del suo prossimo, che presto o tardi si troverà a sperimentare, come un effetto naturale e inevitabile. Disse anche in un’altra occasione: “Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia. (…). Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola, osserveranno ance la vostra. Ma tutto questo vi faranno a causa del mio nome, perché non conoscono colui che mi ha mandato” (Giovanni 15.18-21).

C’è quindi un conoscere e un non conoscere, entrambi risultato di una volontà di essere dalla parte di Dio, costantemente, o di quella del mondo naturale destinato a perire. La spada che Gesù è venuto a portare, è allora la naturale conseguenza della Sua elezione a figli verso di noi. Ma al di là di tutto, ciò che tutta la Storia sacra insegna a partire da quando Adamo e sua moglie furono estromessi da Eden, è che Iddio tesse un piano per ciascuno dei suoi figli non meno complesso del suo stendere i cieli nell’universo. Amen.

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09.13 – LA MISSIONE DEI DODICI: CHI MI RICONOSCERÀ II (Matteo 10.32,33)

9.13 – La missione dei dodici: XII. Chi mi riconoscerà II/II(Matteo 10.32,33)

 

32Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; 33chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli”.

 

Nel capitolo scorso ho cercato di affrontare il passato e il presente della persona che, a un certo punto della vita, fa un’esperienza personale con il Dio Creatore e Salvatore. Il “presente” è stato sviluppato guardando un solo aspetto, credo attinente ai versi di Gesù che stiamo sviluppando e può essere quindi considerato come tutta quella serie di azioni e comportamenti, positivi o negativi, che compiamo nel nostro quotidiano ogni giorno della nostra vita e che portiamo con noi. In pratica, il bagaglio di peccato che avevamo prima dell’incontro col Figlio è stato da Lui tolto con la nuova nascita; con ciò abbiamo avuto la possibilità di ripartire da zero, di iniziare una nuova vita esattamente come può avvenire per un ergastolano cui viene concessa la grazia.

Il presente allora rappresenta un concetto molto più complesso di quello cui siamo abituati nel senso che, pur essendo costituito dall’oggi, dall’attuale, dalla contemporaneità, comprende anche tutta la storia dell’uomo salvato e redento da Dio dal momento in cui sa di avere ricevuto il Suo perdono e Lo riconosce come unico in grado di guidare la propria vita.

Sono stato crocifisso con Cristo e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Galati 2. 19,20): pur passando gli anni, come credenti, ci troviamo in un ambito simile a quello dei dodici inviati in missione, di cui sappiamo che non avrebbero dovuto portare con sé nulla a parte la promessa-certezza che sarebbero stati oggetti di tutta l’assistenza del Padre, oltre che a quella del Figlio. Certamente i giorni sarebbero trascorsi, ma sempre sotto l’ottica di quel “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del tempo”, o come altri traducono “dell’età presente”, o “del mondo”.

Il nostro presente è fatto di momenti che si assommano, si accumulano portando gli elementi della vita che concretiamo giorno dopo giorno per cui il passato non è lo ieri tecnico, quello che definiamo abitualmente, in quanto sempre facente parte dell’oggi. Può apparire un concetto filosofico, ma non lo è. Come cristiani il passato non ci appartiene più esattamente come il futuro umano stante il fatto che la nostra unica prospettiva, stante l’incertezza della vita, è la nostra eternità in Cristo. Sarà nella misura in cui avremo riconosciuto il Figlio nel presente come linea continua che determinerà il nostro futuro, cioè il Suo “riconoscerò”: questo determinerà la separazione netta fra ciò che gli uomini avranno vissuto nel peccato o nella grazia.

Si realizzeranno così le parole dell’apostolo Paolo in 2 Timoteo 2.19-22 che descrivono la vita cristiana: “Tuttavia le solide fondamenta gettate da Dio resistono e portano questo sigillo: Il Signore conosce quelli che sono suoi, e ancora: Si allontani dall’iniquità chiunque invoca il nome del Signore. In una casa grande però non vi sono soltanto vasi d’oro e d’argento, ma anche di legno e di argilla; alcuni per usi nobili, altri per usi spregevoli. Chi si manterrà puro da queste cose – cioè da un comportamento non consono alla fede – sarà come un vaso nobile, santificato, utile al padrone di casa, pronto per ogni opera buona. Sta’ lontano dalle passioni della gioventù; cerca la giustizia, la fede, la carità, la pace, insieme a quelli che invocano il nome del Signore con cuore puro – perché lo si può invocare anche mantenendo la propria carnalità, ma senza risultato –“.

 

IL FUTURO

“Cerca di capire quello che ti dico, e il Signore ti aiuterà a comprendere ogni cosa – perché senza il Suo intervento anche la Parola rimane impenetrabile –. Ricòrdati di Gesù Cristo, risorto dai morti, discendente di Davide, come io annuncio nel mio Vangelo, per il quale soffro fino a portare le catene come un malfattore. Ma la parola di Dio non è incatenata! Perciò io sopporto ogni cosa per quelli che Dio ha scelto, perché anch’essi raggiungano la salvezza che è in Cristo Gesù, insieme alla gloria eterna. Questa parola è degna di fede: se perseveriamo con lui, con lui anche vivremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà; se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso” (Ibid. vv. 7-13).

A parte gli innumerevoli approfondimenti possibili su questi versi, nella parte finale abbiamo tre “se” ai quali si associano le relative conseguenze. Il primo ci parla di perseveranza, cioè il persistere, mantenersi fermo e costante nei propositi, nelle azioni, nello svolgimento di un’attività. Questa azione comporta il vivere futuro, cioè il non conoscere la morte dell’anima, la fine, oltrepassandola: “Se perseveriamo con lui, con lui anche vivremo”.

Il secondo “se” si riferisce al rinnegamento e, perché avvenga, deve riguardare chi un giorno ha creduto, poiché il significato della parola implica “il dichiarare – quindi pubblicamente, a uno o più testimoni – di non aver conosciuto una persona che si è conosciuta, rifiutando con questo atto gli obblighi o i legami di obbedienza, di affetto o di rispetto che a essa legano”. “Se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà” sono parole che indubbiamente si legano al nostro verso 33, “anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli”. Anche questo è futuro.

Il terzo “se” sottolinea la nostra defettibilità, fragilità umana che tocchiamo con mano tutti i giorni nonostante i nostri buoni propositi e il nostro parlare: “se siamo infedeli”. L’infedeltà è un contrassegno negativo che a nessun uomo maturo piace ammettere perché denota debolezza, volubilità che porta a non osservare la fede dovuta. L’infedele abusa della fiducia risposta in lui da altri. È incostante nell’amore, negli affetti e in genere nel rispetto di quei vincoli che sono imposti dalla natura o da un patto. Ebbene, piaccia o no, così siamo tutti più o meno, perché soggetti a cadere, distrarci, dare la prevalenza alla carne quel tanto o quel poco che basta per rovinare quanto abbiamo fatto. Siamo inaffidabili, come testimonia il comportamento umano di Pietro che per tre volte disse di non conoscere il suo Maestro avendo alla fine quasi una crisi nervosa: “Allora egli cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco quell’uomo!»” (Matteo 26.77), là dove altri traducono “cominciò a maledirsi”. La fedeltà di Dio, però, lo perdonò e lo accolse portandolo al futuro dopo il suo presente – attenzione – non di rinnegatore, ma di salvato per fede e di Suo strumento fino alla morte. “Se siamo infedeli” allude quindi a tutti quei comportamenti che possiamo sempre assumere temporaneamente che contraddicono l’impegno assunto con Cristo e si concludono con il perdono, certo dopo la nostra confessione di peccato e relativo abbandono di quanto ci ha caratterizzato negativamente.

In Salmo 17.15 leggiamo “…ma io nella giustizia contemplerò il suo volto, al risveglio mi sazierò della tua immagine”, futuro che attende chiunque ha creduto vivendo in positivo i tre “se” di cui abbiamo accennato. Fu sempre l’apostolo Paolo a descrivere il divario tra l’essere uomo nella carne e l’esistere nel cielo: “Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto” (1 Cor. 13.12). L’adesso, il presente, è comunque caratterizzato dall’imperfezione, dal vedere “come in uno specchio”, quindi orientandosi con difficoltà perché la visione in uno specchio è al contrario, e dal conoscere “in modo confuso” perché la sapienza di Dio, al contrario della nostra, è perfetta. Ed è bello considerare che il Padre, dall’eternità che non contempla tempi, ci conosce già ora in toto, al contrario di noi: infatti leggiamo al futuro, “ma allora conoscerò perfettamente, come io sono conosciuto”.

Anche l’apostolo Giovanni, consapevole della difficoltà di descrivere umanamente quale sarà il nostro futuro se non per simboli, dopo aver ribadito che già possediamo la cittadinanza del regno dei cieli, usa parole che pongono l’accento sulla totale identità che troveremo nell’Unico Dio, vivente e vero: “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1 Giovanni 3.2). Cadranno quindi tutte quelle barriere che avevano fino ad allora impedito agli uomini di vederlo perché “l’uomo non può vedermi e vivere” (Esodo 33.23).

Sul futuro della nostra vita dopo la morte, per lo meno per quelli che dovranno passare attraverso di essa, si potrebbero citare molti altri passi, ma non credo che si possa sapere nei dettagli cosa e come saremo. Paolo, riferendosi a tutta la Chiesa al suo rapimento, scrive “E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, che viviamo e che saremo ancora in vita, verremo rapiti insieme con loro nelle nubi, per andare incontro al Signore in alto, e così per sempre saremo con il Signore” (1 Tessalonicesi 4.16,17). In quel “per sempre” ciascuno troverà la sua collocazione precisa ed eterna in base alle sua aspettative spirituali più profonde per cui, parlando per simboli, vivrà per sempre o dentro o a margine della società del cielo, mai fuori. Perché sappiamo che molti ultimi saranno primi e viceversa, così come in un gran convito ci sono posti vicini o lontani da colui che ha mandato gli inviti. Perché avremo un nome “che nessuno conosce se non chi lo riceve” (Apocalisse 2.17)

Squarci di luce ce li dà il libro dell’Apocalisse che riporta lodi incessanti che si ripetono davanti al Trono di Dio: abbiamo la descrizione di una comunione totale, diversa perché la preghiera che già ognuno di noi, pur nella sua limitatezza, eleva al Padre per lo Spirito, risente comunque della nostra dimensione umana; in quella spirituale celeste, però esisterà una perfezione trovata e una gioia incontenibile mai provata prima. Sarà scomparso ogni ricordo, difetto o timore. Ed ogni uomo, così com’è, deve finire nella morte o nella vita, entrambe eterne.

Il Figlio, quindi, riconoscerà o rinnegherà ciascun essere umano perché, in quanto autore dell’unico sacrificio perfetto, nessun altro potrà dare il Suo benestare a che l’anima di ciascuno venga accolta. Amen.

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09.12 – LA MISSIONE DEI DODICI: CHI MI RICONOSCERÀ I (Matteo 10.32,33)

9.12 – La missione dei dodici: XI. Chi mi riconoscerà I: passato e presente (Matteo 10.32,33)

 

32Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; 33chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli”.

 

Possiamo dire che “Perciò” fa riferimento a tutti i discorsi precedenti coi quali Gesù ha dato ai discepoli degli avvertimenti, oltre che rassicurarli della cura che il Padre avrebbe avuto di loro nonostante fossero stati, e siano, “pecore in mezzo ai lupi” che avrebbero così subito persecuzioni, ostacoli, disistima da parte del prossimo, avversione, essere “odiati da tutti”. A questi elementi così negativi, ma inevitabili, fa da contrasto la Rocca, il Rifugio, l’Onniscienza di Dio con la quale i cristiani formano, secondo la promessa, un tutt’uno, condizionato dal “riconoscere” l’Unico in grado di provvedere veramente a loro. Questa unicità, poi, mette in guardia chi crede dalla necessità di una verifica che è sempre tenuto a fare su di sé, guardandosi dal misticismo, dal protagonismo visto nel sermone sul monte quando fu trattata tutta una serie di azioni, come l’elemosina e la preghiera fatte in pubblico per essere notati dagli altri, o dalla moltitudine di parole che si vorrebbe usare convinti di essere meglio ascoltati.

Tutto parte dal “riconoscere”, verbo particolare che comprende vari significati e racchiude il passato, il presente e il futuro della vita dell’essere umano. “Riconoscere” significa percepire o individuare qualcuno o qualcosa come già noto, distinguere, discernere cogliendone le caratteristiche specifiche, ammettere, accettare per vero, confessare, dichiarare di conoscere, approvare, accettare ufficialmente come legittimo. “Riconoscere”, quindi, è un verbo che implica una storia, quella di ciascun credente che, grazie alla rivelazione di Gesù Cristo, ha un passato, un presente e un futuro.

 

IL PASSATO

È ciò che appartiene al tempo trascorso. È qualcosa che può influenzare il presente, è un carico che portiamo con noi e col quale, presto o tardi ci troviamo a fare i conti. Ognuno di noi ne ha uno ed è qualcosa che non può tornare, purtroppo o per fortuna a seconda delle esperienze vissute. Il carattere della persona, in parte ereditato dai propri genitori, si forma con gli anni a partire dall’infanzia e dall’educazione ricevuta e risale, come deduciamo senza ombra di dubbio dal libro della Genesi, dalle origini, quindi alla storia della propria famiglia se non addirittura alla nazione stessa di appartenenza, è quello che qualcuno ha definito “bagaglio storico”. Non scegliamo quindi solo di nascere, ma neppure il tipo di nucleo famigliare nel quale saremo inseriti, quindi poveri, benestanti o ricchi, persone d’onore, ladri o sfruttatori. Tutto questo parlando a grandi linee e per fare sinteticamente un’introduzione. C’è un passato collettivo visto nella storia di un popolo, e ce n’è uno individuale, del singolo, di cui ci occuperemo, poiché l’esperienza che ciascuno può avere con Dio è prima strettamente personale e poi si concreta nella collettività, cioè nella Chiesa che il Cristo rappresenta con la sua testimonianza e presenza nel mondo.

Si nasce, si cresce, emergono col tempo attitudini, aspirazioni, interessi, viviamo prendendo progressivamente coscienza del fatto che non tutto ciò che vorremmo essere o diventare potrà concretarsi, reagiremo tanto alla gioia quanto alla sofferenza in base alla nostra personalità che nel frattempo si consoliderà, ma a prescindere dal reddito, dal lavoro e da tutto quanto comporterà la vita orizzontale, resteranno le domande importanti di sempre, cioè chi sono, perché esisto, dove vado. E scopriremo che avremo bisogno di uno scopo per vivere perché senza di questo, senza un progetto, la vita non avrà senso. Comunque sia ci verrà proposto, in maniera diretta o indiretta, il messaggio del Vangelo al quale saremo liberi di rispondere accogliendolo o rifiutandolo: “Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori” (Ebr. 3.7,8).

Il più delle volte non si tratterà di un annuncio a sorpresa, ma di un incontro, di un arrivo dopo un percorso di ricerca al quale si giungerà dopo un tempo speso a risolvere i molti perché ai quali nessuno avrà potuto rispondere: non la politica, non il volontariato, non la scienza, non la psicologia o la psicoanalisi che a volte possono aiutare nel percorso orizzontale, quello della vita terrena. Se si verificherà l’incontro personale con Gesù Cristo, dopo un cammino in cui non si saranno subite passivamente i precetti di una religione, ma si saranno cercate nel Vangelo le risposte ai dubbi chiedendosi il perché delle cose, vorrà dire che lo Spirito stesso avrà condotto la persona a Lui. E allora, e solo allora, l’uomo scoprirà di non avere alcuna speranza se non in Colui che in Isaia 48.12 e 16 si presentò con queste parole: “Sono io, io solo, il primo e anche l’ultimo. Sì, la mia mano ha posto le fondamenta della terra, la mia destra ha disteso i cieli. (…) sin da quando questo avveniva, io ero là”.

Di colpo, il passato cesserà di esistere nel senso che non avrà più alcun valore perché sarà stato oggetto di perdóno. Amos scrive “Non ero profeta, né figlio di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomòro. Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge” (7.14) e non esiste vero credente che non ricordi il momento in cui è stato chiamato e in cui ha risposto, ricordando com’era: “Io ero insensato e non capivo, stavo davanti a te come una bestia”, dice il salmista in 73.2.

Il passato, quello che ci aveva caratterizzato fino a poco prima, sarà veramente tale perché chi avrà creduto sarà messo di fronte alla cancellazione, remissione di quel debito di peccato che non avrebbe mai potuto pagare a Dio e che il Cristo ha estinto al suo posto sulla croce come Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo. Sarà posto nella condizione di non essere più uno schiavo perché, guardandosi indietro, potrà rispondere come in Deuteronomio 6.22 “Eravamo schiavi del faraone in Egitto e il Signore ci fece uscire dall’Egitto con mano potente”, dove quel Paese e il suo capo sono figura del mondo e di Colui che in realtà lo governa.

Il passato di chi crede è anche descritto con parole che illustrano la banalità del vivere secondo i desideri dell’anima allevata nel peccato, termine nel quale va incluso tutto ciò che non è spirituale: “Anche tutti noi, come loro – quelli che vivono nel mondo e per esso – un tempo siamo vissuti nelle nostre passioni carnali secondo le voglie della carne e dei pensieri cattivi: eravamo per natura meritevoli d’ira, come gli altri. Ma Dio, ricco in misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete stati salvati” (Efesi 2.3-5).

Purtroppo quando si parla di “passioni” o “desideri della carne”, o anche “peccato”, per la cultura pagana fuorviante dalla quale proveniamo, viene spontanea l’associazione al sesso, ma non è così, essendo il “peccato” una pratica oppositiva alle esigenze di Dio e la “carne” , di cui siamo fatti, tutto ciò che è estranea allo Spirito. Di qui la necessità di dominarla. Forse il modo migliore per descrivere scritturalmente questo stato è reperibile in Tito 3.3: “Anche noi un tempo eravamo insensati, disobbedienti, corrotti, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell’invidia, odiosi e odiandoci a vicenda”.

Il passato rientra anche in Ebrei 8.12 “Perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati”, e sarà ed è lì che si potrà chiudere col periodo trascorso ciascuno nella sua via per iniziarne uno nuovo. Il passato lascerà posto al presente.

 

IL PRESENTE

È l’inserimento come “concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio”, che col passato dà un taglio netto, non ricucibile a meno che non si tratti di un’adesione a Cristo temporanea, frutto di un moto di un animo instabile: “Non illudetevi – e l’illudersi comporta molti aspetti –: né immorali, né adulteri, né depravati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori – ecco i frutti della “carne” spiegati in breve – erediteranno il regno di Dio. E tali eravate alcuni di voi! Ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio” (1 Corinti 6.9-11). Questo lavacro consiste in un perdóno incondizionato, cioè indipendentemente dai peccati commessi, in un trapianto da un ambito in cui la carne era dominante in un altro in cui essa può e deve essere dominata, cioè nel passaggio “dalla morte alla vita”. La creatura umana vive così una condizione che consiste nell’avere una responsabilità vista nel mantenimento della nuova dignità ricevuta: infatti “Un tempo anche voi eravate stranieri e nemici, con la mente intenta alle opere cattive; ora egli vi ha riconciliati nel corpo della sua carne mediante la morte, per presentarvi santi, immacolati e irreprensibili dinnanzi a lui; purché restiate fondati e fermi nella fede, irremovibili nella speranza del Vangelo che avete ascoltato, il quale è stato annunciato in tutta la creazione che è sotto il cielo e del quale io, Paolo, sono diventato ministro” (Colossesi 1.21-23).

C’è quindi un presente che è punto di partenza, e una linea di continuità vista nel “purché”, un presente di luce che tiene memoria del passato buio che ciascuno di noi ha avuto, perché “Un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità” (Efesi 5.8). Sono parole impegnative che costituiscono la nuova vita del credente, perché se alla “bontà” non seguono le altre avremo un comportamento squilibrato, privo di dignità e quindi suscettibile a fraintendimenti da parte del nostro prossimo.

Il presente è un “ora”, un “adesso” continuo, tutti i giorni della nostra vita, che si apre verso il futuro riservato a coloro che, come abbiamo letto all’inizio di questa serie di studi “non di sangue, né di volontà di carne, né di volontà di uomo, sono nati da Dio”. Perché “Con Lui – Gesù Cristo risorto – Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe” (Colossesi 2.13), verso dedicato proprio ai pagani un tempo alieni dal popolo di Dio.

Il presente comporta quindi un primo riconoscere, quello di non avere altre alternative per la propria esistenza futura se non in Gesù Cristo, attribuendo a Lui solo il merito della nostra nuova nascita: questo avviene prima personalmente, accogliendolo, poi pubblicamente attraverso il battesimo e un’esistenza di testimonianza mediante un lungo percorso di identificazione e formazione in cui si giunge al punto in cui il “riconoscere” assume i connotati di una testimonianza diretta e specifica al nostro prossimo.

“Chi mi riconoscerà davanti agli uomini” comporta l’uscita da un involucro personale e intimo per evolversi verso una professione di fede pubblica indipendentemente dal quantitativo di individui cui ci si rivolge. E contiene la promessa “anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli”, per la quale ogni cristiano vive e nella quale trova senso alla sua esistenza. Perché può dire, come l’anonimo guarito in Giovanni 9.25, “Una cosa io so: ero cieco, e ora ci vedo”. Amen.

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09.11 – LA MISSIONE DEI DODICI: NON ABBIATE PAURA III (Matteo 10.26-31)

9.11 – La missione dei dodici: X. Non abbiate paura III: voi valete (Matteo 10.26-31)

 

26Non abbiate dunque paura di loro, poiché nulla vi è di nascosto che non sarà svelato né di segreto che non sarà conosciuto.27Quello che io vi dico nelle tenebre voi ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo nelle terrazze. 28E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geenna e l’anima e il corpo. 29Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro. 30Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. 31Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri.

 

Il terzo invito a non avere paura, sottolineato dal “dunque” come il primo, ha la caratteristica di venire formulato dopo un breve ragionamento che riguarda i passeri e i capelli contati.

Il passero, animale che fino a poche decine di anni fa era molto diffuso in città e campagne, oggi sta scomparendo per varie ragioni (drastica riduzione degli insetti correlata all’inquinamento e soprattutto all’aumento dei pesticidi), ma era ben conosciuto anche 4mila anni fa: curiosamente attivo, socievole, che con le sue dimensioni e comportamento suggerisce qualcosa di piccolo, pacifico e indifeso, nidifica in colonie ma non disdegna momenti in cui si apparta per osservare l’ambiente circostante, come osservato in Salmo 102.8 (“Resto a vegliare: sono come un passero solitario sopra il tetto”). Stante la sua diffusione e la facilità con cui poteva esserne notato il comportamento, è citato negli scritti dell’Antico Patto in altri due passi: ricordiamo Salmo 84.4 “Anche il passero trova una casa e la rondine il nido dove porre i suoi piccoli” e Proverbi 26.2 “Come il passero che svolazza, come la rondine che volteggia, così una maledizione immotivata non ha effetto”.

Ora viviamo in una cultura basata fondamentalmente sul freddo interiore, sulla fretta, sulla frenesia nel lavoro, negli spostamenti da un luogo all’altro e sulla superficialità delle relazioni sociali: in un simile contesto, in cui c’è posto solo per i propri pensieri senza far caso all’ambiente circostante, l’uomo dimentica che esiste un mondo che vive al di là dei suoi egoismi e dei progetti che fa di tutto per realizzare; in altre parole non pensa che c’è un Dio Creatore che non ha mai smesso né di curarsi della sua opera, ma che questa è finalizzata ad un’altra, quel mondo perfetto su cui Satana e il peccato non avranno alcun potere perché non esisteranno più. Nell’ambiente in cui vivevano gli Autori dei libri in riferimento è detto degli animali, allora inseriti in ecosistemi ancora non compromessi, “Tutti da te si aspettano che tu dia loro cibo a tempo opportuno, tu lo provvedi, essi lo raccolgono; apri la tua mano, si saziano di beni. Nascondi il tuo volto, li assale il terrore; togli loro il respiro: muoiono, e ritornano nella loro polvere. Mandi il tuo spirito, sono creati, e rinnovi la faccia della terra” (Salmo 104. 27-31). Questo perché “Sono mie tutte le bestie della foresta, animali a migliaia sui monti. Conosco tutti gli uccelli del cielo, è mio tutto ciò che si muove nella campagna” (Salmo 50.11).

Bene, la citazione di questi passi colloca le frasi di Gesù in un contesto in cui anche le creature più piccole e apparentemente insignificanti hanno un ruolo sulla terra, quello di vivere contribuendo alla vita stessa sulla terra, e che non sono abbandonate a loro stesse, neppure i “due passeri” che in Matteo “non si vendono forse per due soldi?” e in Luca “Cinque passeri non si vendono forse per due soldi?” (12.6): va detto, per chi vuole approfondire brevemente, che qui la nostra traduzione semplifica perché si tratta dell’asse romano, moneta di rame equivalente a un decimo del denaro, d’argento. Sotto l’asse vi erano il quadrante (che di lui era la quarta parte) e il picciolo che dell’asse ne era l’ottava.

Quindi una persona poteva comprare due passeri per un quattrino, ma se ne prendeva cinque uno di loro praticamente non veniva contato, pagandoli come se fossero quattro: una creatura alla quale veniva attribuito scarso valore. Eppure Luca, a seguito del passo parallelo citato, aggiunge “eppure nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio”, cioè Gesù ci dice che per ciascuno di loro il Signore ha una cura personale perché se così non fosse avrebbe sbagliato a crearli. E si può sottolineare che tutto avviene nonostante il mondo che conosciamo sia destinato a logorarsi e finire, distrutto dall’avidità e dell’assoluta irresponsabilità dell’uomo che oggi, ignorando gli innumerevoli allarmi lanciati da studiosi e scienziati, sembra faccia tutto il possibile per abbatterne l’equilibrio. Ignorare l’esistenza delle altre forme di vita equivale a porre le basi perché la propria venga progressivamente annullata. E così sarà.

Tornando in tema, ciò che dice Gesù ai dodici è l’estensione di un concetto già espresso nel sermone sul monte quando disse “Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro?” (Matteo 6.26): allora Nostro Signore invitava le folle a considerare la differenza fra le creature inferiori, cui Iddio dà cibo al tempo opportuno, e l’uomo per il quale esiste un piano di salvezza; qui invece c’è una dichiarazione specifica, “voi valete più di molti passeri”, dove “più” e “molti” esprime il concetto di superiorità che ha l’uomo di fronte a Lui. Se quindi Dio si occupa delle cose minute, come i passeri cui viene attribuito un valore così basso, quanto maggiormente avrà cura dell’uomo che Lo accoglie?

E qui s’inserisce un nuovo elemento, quello dei capelli del nostro capo, il cui significato va oltre l’immediata lettura del verso che ci autorizza a pensare che il Signore sappia di noi ogni cosa. Il capello, nella Scrittura, ha diversi significati: indipendente dalla calvizie, una loro disposizione irregolare sul capo andava approfondita perché non si trattasse di lebbra, malattia diversa da quella oggi conosciuta. Ricordiamo Levitico 13.40 Chi perde i capelli del capo è calvo, ma è puro. 41Se i capelli gli sono caduti dal lato della fronte, è calvo davanti, ma è puro. 42Ma se sulla parte calva del cranio o della fronte appare una piaga bianco-rossastra, è lebbra scoppiata sulla calvizie del cranio o della fronte; 43il sacerdote lo esaminerà: se riscontra che il tumore della piaga nella parte calva del cranio o della fronte è bianco-rossastro, simile alla lebbra della pelle del corpo, 44quel tale è un lebbroso; è impuro e lo dovrà dichiarare impuro: il male lo ha colpito al capo”.

I capelli caratterizzavano esteriormente chi li portava e, pur potendo venir tagliati, non erano ammesse acconciature tese a variare forzatamente la fisionomia della persona: “Non vi taglierete in tondo il margine dei capelli, né deturperai ai margini la tua barba. Non vi farete incisioni sul corpo per un defunto, né vi farete segni di tatuaggio. Io sono il Signore” (Levitico 19.27,28). I capelli erano lasciati crescere nel caso del Nazireo, il consacrato a YHWH, strapparseli era segno di grande sdegno, come fece Esdra di fronte alla mescolanza della “stirpe santa” con popolazioni pagane: “All’udire questa parola, stracciai il mio vestito e il mio mantello, mi strappai i capelli del capo e la barba e mi sedetti costernato”. Tagliarseli con rasatura era segno di grande duolo: “Tàgliati i capelli, ràsati la testa per via dei tuoi figli, tue delizie: allarga la tua calvizie come un avvoltoio, perché vanno in esilio lontano da te” (Michea 1.16) e, infine, qualificano l’uomo di Dio come persona saggia: “I capelli bianchi sono una corona d’onore ed essa si trova sulla via della giustizia” (Proverbi 16.31).

Data questa breve ed essenziale panoramica, vediamo dei riferimenti più concettualmente vicini al nostro caso: il capello è qualcosa di molto sottile potendo variare in spessore da 0,06 a 0,1 millimetri. Ne perdiamo da 40 a 120 al giorno quasi senza che ce ne accorgiamo e per questo uno di essi viene utilizzato come elemento per rafforzare un concetto già chiaro di per sé; ricordiamo Salomone, che disse di Adonia “Se si comporterà come un uomo leale, neppure un suo capello cadrà a terra; ma se in lui sarà trovato qualche male, morirà” (1 Re 1.52).

Il capello può quindi essere una sorta di unità di misura riferito all’insignificante, ma anche alla precisione, come nel caso dei seicento uomini ambidestri, “capaci di colpire con la fionda un capello senza mancarlo” (Giudici 20.16) eppure, nonostante sia così sottile e privo di valore, dice Gesù che “non puoi fare un solo capello bianco, o nero” (Matteo 5.36) a conferma di quanto siamo impotenti di fronte a ciò che non controlliamo perché esula dalla nostra competenza. Tinture a parte, ovviamente.

Tirando le file di questo lungo passare attraverso versi che comunque andavano citati, leggiamo le parole di Luca che riferisce anch’esso le parole di Gesù ai discepoli: “Sarete traditi perfino dai genitori, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto” (21.16.18), parole che, riguardo alla frase finale, verranno ripetute tali e quali in Atti 27.34 quando l’apostolo Paolo parlerà ai marinai della nave in tempesta che lo trasportava a Roma. Le parole di Gesù, quindi, nei versi di Luca vanno oltre la morte perché, nonostante questo avvenimento, non perderemo nulla di ciò che è nostro.

Poi, tornando al nostro passo, c’è quel “Perfino”, cioè “anche” – come scrive Luca –, o “addirittura” a conferma della totalità del piano di Dio per l’uomo che non ha tralasciato nulla affinché possa realizzarsi in Lui. Del resto, così ha fatto quando ha stabilito i perfetti equilibri di un Universo e di una Terra destinata a passare, ma non le Sue parole.

Il “valete più di molti passeri” è da tener presente soprattutto alla luce dei versi riportati in Luca 17.7-10 che vogliono porre l’accento non su un signore dispotico, ma sulla necessità che il servizio sia scevro da pretese o ambizioni varie, lasciando a Dio il compito della retribuzione e di ogni decisione a nostro riguardo: “Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: «Vieni subito e mettiti a tavola?». Non gli dirà piuttosto: «Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi, finché io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu»? Si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare»”.

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