12.37 – IL BUON PASTORE II/II (Giovanni 10.14-16)

12.37 – Il buon pastore II/II (Giovanni 10.14-16)  

 

14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 

 

Abbiamo qui la definizione di “buon pastore” che Gesù dà di sé per la seconda volta: dopo essersi qualificato come l’unico, contrapponendosi al “mercenario” che non “dà la vita per le sue pecore”, qui parla dell’identità reciproca che intercorre tra Lui e i suoi animali in un rapporto di uno a uno. Ricordando infatti alcuni versi che abbiamo letto in proposito, le “conosce per nome” (10.3), nome che riassume l’identità della persona, che le ha dato un giorno e le verrà rivelato nella Nuova Creazione: “Darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato” (Isaia 56.5) e Apocalisse 2.17 in cui alla Chiesa di Pergamo è detto “Al vincitore darò della manna nascosta e una pietruzza bianca, sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce all’infuori di chi lo riceve”. Il “chiamare per nome” da parte di Gesù, quindi, è la rivelazione del piano che Dio ha per ciascun credente e della conoscenza perfetta che ha di lui, mentre la “pietruzza bianca”, nel mondo antico, era un’attestazione di innocenza, di vittoria nella gare di atletica e di benvenuto per gli ospiti.

Le pecore sono chiamate dal pastore “una per una”, cioè non si tratta di un gregge condotto al pascolo per dovere, ma per amore in cui ciascun animale ha un posto al suo interno che solo lui può occupare e in cui può esprimersi, trovare la ragione della sua esistenza, sostare nel territorio a lui assegnato.

Il riferimento a questi animali lo troviamo anche in Matteo e in Luca in cui Gesù parla del Suo intervento qualora una delle pecore si smarrisca: “Che cosa vi pare? Se un uomo ha cento pecore e una di loro si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti e andrà a cercare quella che si è smarrita? In verità io vi dico: se riesce a trovarla, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. Così è la volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda” (Matteo 18.12-14). Luca, invece, pone l’accento su un aspetto diverso: “Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta». Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione” (15.4-7).

Di questi due passi sono da sottolineare i numeri, uno dell’incompletezza (99) e l’altro del compimento (100) per cui è impossibile che il gregge possa essere definito completo, che possa soddisfare le esigenze del pastore se risulta privo anche di un solo capo ed è lo stesso principio che abbiamo trovato nella parabola delle zizzanie, quando proibisce ai suoi servi di estirparle prima della mietitura perché, sradicandole, le radici intrecciate avrebbero coinvolto nello strappo ne piantine di grano.

Gesù poi è il pastore che “dà la vita per le proprie pecore”, punto su cui si incardina tutto il messaggio del Vangelo che altrimenti non sarebbe un “lieto annuncio” perché tutti noi saremmo inchiodati al nostro (o nostri) peccato/i. Se non si fosse concretato il Suo sacrificio, descritto da Isaia 53.6 con le parole “Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti”, non sarebbe mai cambiato nulla nella nostra vita. E un gregge sperduto non ha nessuna prospettiva né tantomeno possibilità di sopravvivenza, cadendo inevitabilmente vittima degli animali predatori (ricordiamo Davide, che per salvare il suo gregge combatté con un leone e un orso in 1 Samuele 17.34,35: “Ma Davide disse a Saul: «Il tuo servo pascolava il gregge di suo padre e veniva talvolta un leone o un orso a portar via una pecora dal gregge. Allora lo inseguivo, lo abbattevo e strappavo la pecora dalla sua bocca. Se si rivoltava contro di me, l’afferravo per le mascelle, l’abbattevo e lo uccidevo. Il tuo servo ha abbattuto il leone e l’orso”).

Versi significativi a proposito di Gesù che ha dato la propria vita ne abbiamo in Efesi 5.2, “Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore”, Tito 2.14, “Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarsi da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le buone opere”. Solo quindi dando “se stesso per noi” avrebbe potuto “formare per sé un popolo puro” che gli appartenga, appunto il gregge.

E 1 Pietro 2.24 ribadisce il concetto: “Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce, perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia”.

 

Nel verso 14 del nostro passo, però, vediamo che il punto centrale è un altro, cioè “…così come il Padre conosce me ed io conosco il Padre”: in pratica, prima Gesù si dichiara come “il buon pastore”, poi parla del Suo rapporto col Padre e poi torna a parlare di sé, “do la vita per me mie pecore”. Abbiamo allora la descrizione della Sua posizione quale Unico Elemento, sulla terra e nei cieli, protagonista della rivelazione del Dio inaccessibile per cui c’è un “IO SONO” che ha creato il mondo, ciò che è in esso cioè dentro, sopra e sotto, e un “Io sono” fatto uomo che lo ha rivelato, Lui e nessun altro. Tutti coloro che sono venuti prima di Lui, hanno dato di Dio una versione limitata al loro tempo, funzionale per un piano che, nonostante la sua grandezza, era comunque limitato e dipendente da eventi successivi per la sua realizzazione; pensiamo ad esempio a Mosè che condusse il popolo fuori dall’Egitto, che diede la Legge, ma che non aprì le porte alla vastità enorme della Grazia come fece invece Gesù Cristo. E – va aggiunto – come solo Lui avrebbe potuto fare.

Ora qui Gesù mette sullo stesso piano la conoscenza che ha del Padre con quella che ha delle sue pecore e quindi si rinnova nella Sua funzione di Mediatore: “Tutto mi è stato dato dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo” (Matteo 11.27). È quindi Lui tanto chi ha aperto la via al Padre quanto chi lo rivela. La sua funzione mediatrice quindi non si limita al perdóno dei peccati e al rendere compatibile l’uomo con Lui, ma al rivelarlo affinché il credente, prima ancorato alla terra e al peccato, possa conoscere i Suoi misteri. In pratica, per dare una rivelazione piena di Dio, era necessario che Lui stesso si facesse uomo e parlasse come la sua creatura, fatto ben diverso rispetto a quei momenti in cui veniva suscitato un profeta, uomo e quindi imperfetto, che null’altro poteva comunicare se non ciò che Dio gli ordinava di dire agli altri.

Ricordiamo Giovanni 1.18, “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato”: quindi il Padre è portato al livello della nostra conoscenza nella persona del Figlio che è manifestazione della divinità. Infatti leggiamo “È in lui – Gesù Cristo – che abita corporalmente tutta la pienezza della divinità, e voi partecipate alla pienezza di lui, che è il capo di ogni principato e di ogni Potenza” (Colossesi 2.9). L’importanza del Figlio di Dio, anche “dell’uomo” perché a lui si è abbassato, è tale per cui “Tutto egli ha messo sotto i suoi piedi e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose: essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose” (Efesi 1.22,23).

 

A questo punto, tornando ai nostri versi, il 15 apre uno sguardo su quei popoli che, non appartenenti a quello di Israele, vivevano esclusi dalla possibilità di conoscere il vero Dio: “E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore”. Qui Gesù tocca un “tasto spiacevole” per gli Ebrei, che rivendicavano la loro esclusiva appartenenza a Dio e di cui abbiamo testimonianza in molti passi: in Lui si realizzano le profezie più velate, come abbiamo letto nel secondo cantico del Servo, “È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la salvezza fino all’estremità della terra” (Isaia 49.6). Anche 60.2,3, “Poiché ecco, la tenebra ricopre la terra, nebbia fitta avvolge i popoli; ma su di te risplende il Signore, la sua gloria appare su di te. Cammineranno le genti alla tua luce, i re allo splendore del tuo sorgere”.

 

Gesù però, dando questa panoramica sul proprio ufficio di Pastore, dà anche un’anticipazione di quanto avverrà, perché precisa che le “altre pecore”, che non appartengono al “recinto” di Israele, “Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore”. In tal modo, un altro tassello al grande mosaico che è l’Opera perfetta di Dio per il ricupero dell’uomo caduto, verrà aggiunto.

Non credo vi sia modo migliore e più chiaro per concludere queste riflessioni con la citazione di Efesi 2.11-18: “Perciò – la salvezza per fede – ricordatevi che un tempo voi, pagani nella carne, chiamati – con disprezzo – non circoncisi da quelli che si dicono circoncisi perché resi tali nella carne per mano d’uomo, ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza di Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio nel mondo. Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che di due – popoli, ebrei e gentili – ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che li divideva, cioè l’inimicizia, per mezzo della sua carne. Così egli ha abolito la Legge – perché l’ha adempiuta perfettamente –, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia. Egli è venuto ad annunciare pace a voi che eravate lontani – in quanto gentili – , e pace a coloro che erano vicini – in quanto popolo di Israele –. Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo spirito”. Amen.

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