12.33 – IL CIECO NATO VI/VI (Giovanni 9.35-38)

12.33 – Il cieco nato VI (Giovanni 9.35-38)         

35Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». 36Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». 37Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». 38Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui. 39Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». 40Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». 41Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: «Noi vediamo», il vostro peccato rimane».

Secondo un metodo ormai collaudato individuiamo i due verbi che caratterizzano la prima parte del verso 35, “seppe” e “trovò”, che indicano l’onniscienza di Gesù che non si limita all’acquisizione di  un dato, ma a reagire positivamente nei confronti della creatura che lo cerca. Possiamo dire che l’uomo da Lui guarito fu provato attraverso tre passaggi: primo, il non opporre resistenza al suo operare quando gli applicò l’impasto di fango sugli occhi; secondo, recarsi alla piscina di Siloe e lavarsi, azione che solo la fede o un forte senso di disponibilità poteva produrre, e infine il terzo, quello più difficile, sostenere l’inchiesta–processo imbastito dal Sinedrio. La condotta dei cieco guarito fu sempre nitida, potremmo dire esemplare, senza lasciarsi influenzare dall’autorevolezza umana dei componenti di quell’organo inquirente e giudicante. Un vile o un codardo avrebbe sicuramente inventato qualcosa pur di non subire le conseguenze del venire “cacciato fuori” da quell’aula: la vita l’aveva infatti recuperata a prescindere, cos’altro avrebbe potuto succedergli? Ricordiamo ad esempio l’episodio in cui furono guariti dieci lebbrosi (Luca 17.11-19), quando solo uno tornò a ringraziare Nostro Signore che disse “Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove, dove sono?”.

A modo suo, il cieco nato aveva difeso tanto Gesù, attribuendo solo a Lui la guarigione, quanto la verità del miracolo: aveva solo detto il vero, abbiamo detto “senza aggiungere né togliere” incurante delle azioni ritorsive del Sinedrio. Possiamo dire che fece tutto ciò che poteva per rendere una testimonianza piena e fedele. Il “seppe” di Nostro Signore implica questo e non il venire a sapere dagli altri che era stato estromesso dalla Congregazione di Israele. Il “sapere” di Gesù va individuato nella frase detta a Mosè in Esodo 3.7, “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze”.

Il “sapere” di Gesù implica il riconoscere chi gli appartiene fra i tanti come nella parabola delle dieci vergini quando cinque di loro, gridando alla porta chiusa “Signore, Signore, aprici!” si sentirono rispondere “In verità vi dico: non vi conosco” ed è impossibile non citare le lettere alle sette Chiese di Apocalisse, ciascuna delle quali inizia con “conosco”: “le tue opere, la tua fatica e la tua perseveranza” (Efeso), “la tua tribolazione, la tua povertà” (Smirne), “che abiti dove Satana ha il suo trono” (Pergamo), “le tue opere, la carità e la fede, il servizio e la costanza e so che le tue opere sono migliori delle prime” (Tiàtira), “le tue opere, ti si crede vivo, e sei morto” (Sardi), “le tue opere” (Filadelfia), “le tue opere, tu non se né freddo, né caldo” (Laodicea). Notiamo la conoscenza di Gesù non si limita ai fatti, ma soprattutto a ciò che è all’origine delle scelte delle Chiese, quindi le motivazioni più recondite.

Il “sapere di Gesù” quindi è lo stesso, come Lui, “di ieri, di oggi e di sempre” (Ebrei 13.8) attraverso i secoli e i millenni, “sa” e “trova” chiunque provvedendo a lui in salvezza o in giudizio: “Anche se penetrano negli inferi, di là li strapperà la mia mano; se salgono al cielo, di là li tirerò giù; se si nascondono in vetta al Carmelo, di là li scoverò e li prenderò; se si occultano al mio sguardo in fondo al mare, là comanderò al serpente di morderli; se vanno in schiavitù davanti ai loro nemici, là comanderò alla spada di ucciderli” (Amos 9.2-4) per non parlare del monito in Geremia 49.16: “Anche se come l’aquila ponessi in alto il tuo nido, di lassù ti farò precipitare”. Ecco l’ambivalenza del “trovare” di Dio, che nel nostro episodio è di luce, consolazione e libertà.

C’è un altro verbo che caratterizza il nostro passo ed è: “disse”. Gesù, quando parla a un uomo, lo onora sempre indipendentemente dal fatto che accolga o meno ciò che dice e la Sua parola, come in Isaia 55.10,11 non torna indietro a vuoto: “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia seme al seminatore e pane da mangiare, così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata”. E qui, per l’episodio in esame, la Parola non tornò indietro né per il cieco, né per i farisei perché comunque diede un risultato positivo per uno e negativo per gli altri. E anche nel gruppo di ostili, aveva dato comunque un frutto perché sappiamo che “alcuni dei farisei credevano in lui”.

Inoltre, il “dire” di Gesù porta sempre una nuova realtà, una nuova visione e conoscenza: non ha mai parlato a un uomo senza stravolgerne l’esistenza in bene, quando Lo ha accolto. E qui lo scopo di Nostro Signore è quello di farsi conoscere come rileviamo dalla domanda posta: “Credi nel Figlio dell’uomo?” che il cieco guarito non sapeva chi fosse. Nostro Signore qui intervenne chiedendo una risposta che quell’uomo non sapeva dare ed è un espediente da Lui spesso utilizzato per portare la persona a verità sconosciute e altrimenti irraggiungibili senza il Suo aiuto, per noi oggi dello Spirito Santo. Va rilevato che “Figlio dell’uomo” compare in alcuni codici, mentre più usato è “Figlio di Dio”, quindi Gesù vuole qui rivelarsi nella Sua identità superiore e nel proprio ruolo di Signore e liberatore. Il cieco lo aveva pubblicamente riconosciuto come “Profeta”, ma non bastava, alla luce della conoscenza, perché altrimenti quel termine avrebbe implicato che dopo di lui dovesse arrivarne un altro. Chi gli stava davanti era prima il “Figlio di Dio”, poi il “Figlio dell’uomo”.

La risposta che Gesù ebbe conferma la semplicità, e al tempo stesso la serietà, dell’innominato che non si limita a chiedere chi fosse questo “Figlio di Dio”, ma precisa “…perché io creda in lui?”: era consapevole di non parlare con una persona qualunque, ma con chi lo aveva guarito, avendolo riconosciuto senza alcun dubbio dalla voce. Nel suo buio, prima Lo aveva sentito parlare e, nella luce della vista recuperata, poteva ora osservarne il volto, quello che purtroppo noi non abbiamo visto, ma che vedremo “come il sole quando splende con tutta la sua forza” (Apocalisse 1.13) non più soggetti al nostro corpo di carne sempre pronto a umiliarci.

“E chi è il Figlio di Dio, perché io creda in lui?” rivela che quell’uomo non aspettasse altro che capire chi fosse nei dettagli Colui che lo aveva guarito. “Il Figlio di Dio” era qualcosa di ben superiore al “Profeta” che sapeva lo aveva guarito e per questo vengono chieste delucidazioni per poter “credere in lui”. E sono convinto che qui il “credere” è usato con un significato che va ben oltre al ritenere reale una persona, ma per identificarsi in lei nelle modalità consentite ad una creatura inferiore al creatore. “Lo hai visto, è quello che parla con te”: basta poco per riconoscerlo. Gesù, come Via, Verità e Vita è sempre davanti all’essere umano, solo che non sa riconoscerlo. Siamo da lui circondati, eppure a volte non lo vediamo così come a volte reagiamo con la nostra umanità e non con lo Spirito che ci è stato dato.

Il cieco aveva recuperato la vista e in Gesù vedeva un uomo come lui, ma saputo chi fosse, “il Figlio di Dio”, prontamente rispose “Io credo, Signore” e subito Giovanni aggiunge “e l’adorò”, quindi una testimonianza a parole supportata dall’unico atto in quel momento possibile visto nell’adorazione, cioè nel prostrarsi a terra che il nostro evangelista utilizza sempre e solo per indicare l’adorare. E il nostro episodio si chiude così perché è questo il fine di ogni creatura. L’adorazione del cieco nato fu quindi al tempo stesso punto di arrivo per quanto riguardava la sua esistenza trascorsa, ma punto di partenza per la nuova: cacciato dal Sinedrio, quindi scomunicato, sono convinto che divenne un discepolo attivo di Gesù perché, avendo testimoniato di Lui, non avrebbe potuto avere la stessa forza che avrebbe avuto all’interno del gruppo dei discepoli cui desiderava unirsi (ricordiamo la frase “volete diventare anche voi suoi discepoli?”). L’ignoto cieco fu così guarito e riscattato completamente perché recuperò la vista e la dignità, vale a dire non avrebbe più mendicato, termine quest’ultimo riferito al dipendere da altri non solo per il proprio sostentamento materiale, ma anche moralmente, cercando quella solidarietà e comprensione che gli altri danno solo a parole o, nel migliore dei casi, a modo loro. Il nostro personaggio, quindi, ebbe una vita nuova nel corpo, nella mente e nello spirito.

Veniamo così al termine: Gesù, soprattutto a Gerusalemme, possiamo dire che era ormai diventato un vero e proprio sorvegliato speciale per cui era sempre controllato dai farisei, di persona o tramite loro spie. Ebbene qui pronuncia una frase particolare, “È per un giudizio che sono venuto in questo mondo”: è una frase che potrebbe essere ritenuta in contraddizione con un’altra secondo cui “Dio non ha mandato suo Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui” (Giovanni 3.17), oppure “Voi giudicate secondo la carne, io non giudico nessuno” (8.15): il “giudizio” di cui parla Gesù nel nostro passo, però, si riferisce a quell’automatismo che si genera nel momento in cui una persona si pone di fronte alla Sua parola, diventando un figlio di Dio oppure il suo esatto contrario. Ecco perché “coloro che non vedono”, cioè chi sa di non avere risposte e le cerca, “vedano”, “e coloro che vedono, diventino ciechi”, categoria alla quale appartengono tutti quei personaggi convinti di avere sempre la risposta pronta per ogni cosa, portatori della loro verità, in questo caso religiosa come i farisei e tutti gli oppositori della parola di Dio. Così, come non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere.

Ed ecco, puntuale, l’intervento farisaico, “Siamo ciechi anche noi?”, cioè “Vorresti dire che noi, guide del popolo onorati da tutti, siamo ciechi?”. Sarà l’apostolo Paolo a descrivere, adattata ai tempi della Grazia ormai aperti, la posizione dei Giudei nella sua lettera ai Romani 2.17-24: “Ma se tu ti chiami Giudeo e ti riposi sicuro sulla Legge e metti il tuo vanto in Dio, ne conosci la volontà e, istruito dalla Legge, sai discernere ciò che è meglio, e sei convinto di essere guida dei ciechi, luce di coloro che sono nelle tenebre, educatore degli ignoranti, maestro dei semplici, perché nella Legge possiedi l’espressione della conoscenza e della verità… ebbene, come mai tu, che insegni agli altri, non insegni a te stesso? Tu che predichi di non rubare, rubi? Tu che dici di non commettere adulterio, commetti adulterio? Tu che detesti gli idoli, ne derubi i templi? Tu che ti vanti della Legge, offendi Dio trasgredendo la Legge! Infatti sta scritto: Il nome di Dio è bestemmiato per causa vostra tra le genti”.

Ancora una volta la risposta di Gesù non fu un “sì” o un “no”, ma si fece strumento di considerazione e meditazione: “Se foste ciechi, non aveste alcun peccato” perché non fareste alcun danno. Come il cieco nato ora guarito, sareste prudenti e, spiritualmente parlando, disposti a rivedere le vostre posizioni per venire alla luce. “Ma siccome dite: «Noi vediamo», il vostro peccato rimane”: impossibile infatti cercare la verità se si è già convinti di possederla. Ci si rende assolutamente impermeabili ad essa anche solo essendo convinti che mai la si potrà raggiungere, perché in questo caso non resta che fare dell’ignoranza il proprio credo ed essere ciechi non significa necessariamente vivere nel buio, ma anche usare una luce alternativa a quella della Parola di Dio, per vedere e muoversi nell’oscurità ritenendo che la luce soggettiva sia quella vera. Come fanno in molti anche oggi.

Infine le parole di Gesù sul peccato che “rimane”, cioè non può venire tolto, verranno da Lui ripetute, con diversa estensione, in Giovanni 15.22-25: “Se io non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero alcun peccato, ma ora non hanno scusa per il loro peccato. Chi odia me, odia anche il Padre mio. Se non avessi compiuto in mezzo a loro opere che nessun altro ha compiuto, non avrebbero alcun peccato; ora invece hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio. Ma questo perché si compisse la parola che sta scritta nella loro Legge: Mi hanno odiato senza ragione”. Amen.

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13.32 – IL CIECO NATO V/VI (Giovanni 9.24-34)

12.32 – Il cieco nato V (Giovanni 9.24-34)          

 

24Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». 25Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». 26Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». 27Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». 28Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! 29Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». 30Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. 31Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. 32Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. 33Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». 34Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori.

 

Il fatto che i Giudei avessero organizzato un processo, per quanto a senso unico, lo rileviamo dal “chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco”, indice del fatto che fosse stato fatto allontanare per non sentire la testimonianza dei suoi genitori. Molto indicativa è la frase “Da’ gloria a Dio!” che, in due passi dell’Antico Patto, è impiegata per esortare a una confessione. Così avvenne quando Giosuè esortò Acan a confessare di aver violato la legge sull’interdetto, “Figlio mio, da’ gloria al Signore, Dio d’Israele, e rendigli lode. Raccontami dunque che cosa hai fatto, non me lo nascondere” (Giosuè 7.14), e quando i Filistei, colpiti da bubboni, restituirono l’Arca del Patto: “…e date gloria ad Dio d’Israele. Forse renderà più leggera la sua mano su di voi, sul vostro dio e sul vostro territorio” (1 Samuele 6.5). Collegando questi passi, quindi, il Sinedrio esorta il cieco a confessare l’ipotetico espediente a cui era ricorso per ricuperare la vista, perché “Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore”.

Un’altra interpretazione riguardo al “Da’ gloria a Dio!” è l’invito a glorificare solo Lui per quella guarigione, essendo impossibile che fosse stato sanato da un violatore del sabato ma, pur logica, pare debole: i farisei, estremamente tortuosi, volevano andare alla radice del problema e così, se il cieco confessava di essersi inventato tutto, quel miracolo non sarebbe mai esistito. Era contemplato che un lebbroso potesse guarire e per questo c’erano i sacerdoti, deputati a decretare la scomparsa della malattia, ma che un cieco tornasse a vedere o un paralitico a camminare, no; rientrava nel caso dei miracoli che però avvenivano sempre per diretto intervento di un profeta, quando non di un angelo.

Come è stato osservato, “I farisei volevano far credere a quell’uomo di avere scoperto l’inganno, sicché non gli serviva a nulla perseverare nella menzogna. In pratica ricorsero a quell’artificio utilizzato spesso di indurre un accusato a confessare facendogli credere che i suoi complici hanno confessato ogni cosa per cui, continuando a negare, danneggia se stesso”. Quindi: era impossibile che Dio avesse concesso a Gesù, trasgressore del sabato e quindi peccatore, un simile potere di guarire, per cui non restava che dare “gloria a Dio” e confessare cosa effettivamente era accaduto.

Il metodo inquisitorio del Sinedrio fu però prontamente demolito dall’interessato, che diede una risposta fondata sui fatti: non conosceva Gesù, per quanto ne aveva sentito parlare, e prudentemente dice “Se sia un peccatore non lo so” (per quanto lo aveva definito “Profeta” poco prima), ma restava il fatto che “Una cosa so – la sola importante –: ero cieco e ora ci vedo”. “Ero” e “ora”, cioè tutta la vita che aveva condotto prima dell’incontro con Gesù e l’ “ora” in cui ne iniziava per lui una nuova; era quella su cui i Giudei dovevano basarsi, il fatto da cui partire e spettava a loro spiegarlo, perché la fede non si basa su una o più ipotesi o probabilità, ma soprattutto certezze. Anche per noi il riscatto “da questo misero corpo votato alla morte” è avvenuto col sacrificio di Cristo per cui “Io sono persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Romani 8.38): “ero” e “ora”, “eravamo” e “ora”, passato e presente come preludio al futuro, tempi in cui si riassume tutta la storia individuale dell’uomo che sceglie Gesù come proprio Signore e Salvatore, “Mio Signore e mio Dio”, come gli disse Tommaso.

Infatti “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Romani 5.8), “Se, quando eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita” (5.10). Noi, che “eravamo per natura meritevoli d’ira, come gli altri” (Efesi 2.3), “come eravamo simili all’uomo terreno, così saremo simili all’uomo celeste” (1 Corinti 15.49). Gesù, come ha fatto con quel cieco, ha prodotto una trasformazione profonda che avvertiamo esattamente come chi “era” cieco e “ora” vedeva. Ogni altra considerazione in merito per sminuire o demolire quanto avvenuto si faceva insignificante, non valeva nulla perché il fatto parlava da solo.

Ora sappiamo dal testo che i Giudei tornano a quanto avvenuto chiedendogli di raccontarlo di nuovo, un’assurdità perché la testimonianza fornita fino ad allora era assolutamente chiara. Era evidente che, riascoltando il racconto dalla viva voce dell’inquisito, speravano di trovarvi qualche contraddizione o un punto debole: tutto interessava al Sinedrio tranne la ricerca della verità per cui il cieco guarito rifiuta di farsi loro strumento e arriva addirittura ad ironizzare su di loro: “Perché volete ascoltarlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?”.

L’ultima domanda contiene elementi importanti visti nel “forse”, “anche voi” e “suoi discepoli”: penso che il primo sia stato pronunciato in senso ironico perché i discepoli seguirono Gesù dopo essere venuti ed aver visto, cioè constatato chi Lui fosse, mentre in quel caso tante domande ripetute e tutti i tentativi per demolire la testimonianza di quell’uomo non avrebbero portato da nessuna parte; “anche voi”, poi, ci conferma che il cieco innominato desiderava conoscere e seguire Gesù oltre al fatto che sapeva dell’esistenza di “discepoli”. Ricordiamoci che abitava nei pressi del Tempio, che tutti lo conoscevano anche come mendicante e che i rapporti fra le persone allora erano molto diversi da quelli di oggi: a prescindere dal fatto che chiedesse l’elemosina, era comunque uno del popolo di Gerusalemme e con lui la gente si fermava – per quanto non tutti – parlando del più e del meno, ma soprattutto di Gesù che era in città già da qualche giorno e cosa aveva fatto. Se con l’ “anche voi” il cieco abbia voluto sottintendere “oltre a me”, abbiamo un chiaro distinguere fra i due elementi, lui e il Sinedrio; da una parte abbiamo chi aspettava di conoscere chi lo aveva guarito e dall’altra chi non credeva e chiedeva dettagli inutili: “una cosa so”, bastava quella.

La reazione a quello che il Sinedrio interpretò come un oltraggio fu quella di stabilire immediatamente una divisione: “Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè”, cioè siamo la sua discendenza spirituale, i suoi eredi perché se fu lui a dare la Legge di Dio al popolo, adesso noi ne siamo i custodi.

C’è qui, prima della risposta data dall’innominato, un particolare significativo, cioè che i farisei “lo insultarono”; è un dettaglio che passa quasi inosservato e compare solo una volta nei Vangeli, qui. Si sottolinea così l’ira e l’offesa del Sinedrio che, definendolo “discepolo”, rappresenta l’insulto più grave che potessero dargli, preannunciante la sua scomunica.

A questo punto emerge un’altra caratteristica dell’inquisito, quella di una persona in grado di cogliere il messaggio basilare delle Scritture: “Sappiamo – notare che utilizza il plurale – che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. (…). Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla”.

Queste frasi rivelano molto su chi le ha pronunciate perché non sono una citazione di versi precisi, ma la loro elaborazione. Dalle sue parole rileviamo che quell’uomo non si era mai identificato nei “peccatori” di professione e sperava di essere da Lui ascoltato, come in effetti avvenne ed ecco perché Gesù disse di lui “è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Quindi, il cieco nato non aveva utilizzato la sua invalidità e sofferenza come giustificazione per ribellarsi a Dio, ma al contrario cercava di fare “la sua volontà”. Sono molti che bestemmiano anche per il più piccolo contrattempo e mi chiedo, sotto quest’ottica, cosa avrebbe potuto fare quest’uomo se non coltivare un perenne risentimento nei confronti di Colui che aveva permesso che nascesse così. Sarebbe stato naturale, se quel cieco avesse avuto un ego smisurato come purtroppo oggi possiedono in tanti.

Altra sottolineatura possibile sta nelle parole “Proprio questo mi stupisce: che voi non sapete di dove sia”: i “discepoli di Mosè” facevano riferimento a  lui per il ruolo di ammaestramento e condotta del popolo che aveva avuto, ma ignoravano volutamente il fatto che prima di tutto ebbe un’elezione diretta e fu da Dio assistito e guidato prima del popolo stesso, senza contare che non si crogiolò mai nel suo ruolo, ma fu sempre attento a valutare e ad ascoltare tanto Colui che lo aveva chiamato quanto i propri simili. Quasi sempre si tende a guardare la Legge come a qualcosa di punitivo, costrittivo e non si pensa che, accanto a passi “penalizzanti” ve ne sono di liberatòri e di assistenza – ad esempio – per il povero, per l’orfano, la vedova e lo straniero che comunque doveva integrarsi perfettamente col popolo di Dio diventandone parte attiva. E posiamo ricordare anche gli avvertimenti a non fare preferenze in giudizio tra il ricco e il povero-

Che i farisei fossero sì “discepoli di Mosè”, ma perversi, lo dimostra il passo riferito alle modalità di riconoscimento per chiunque pretendesse di essere un profeta: “Quando un profeta parlerà in nome del Signore e la cosa non accadrà e non si realizzerà, quella parola non l’ha detta il Signore. Il profeta l’ha detta per presunzione, non devi avere paura di lui” (Deuteronomio 18.22). Sono parole che hanno la stessa logica e semplicità del “ero cieco e ora ci vedo”, non è necessario un grande studio o esegesi per capirle. Cosa dovesse accadere al falso profeta è descritto al verso 20: “Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome  una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire”. Quindi dei veri “discepoli di Mosè” non avrebbero avuto nessuna difficoltà a mettere insieme i dati necessari su Gesù per riconoscerlo come il “Figlio di Davide, colui che doveva venire”.

Il passo in esame termina nell’unico modo possibile, cioè con la reazione farisaica che ancora  una volta spranga il cuore di fronte alla logica proposta dalle parole del cieco guarito, “Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?”: ancora una volta emerge lo spirito contrario di queste persone. Lo giudicano “nato tutto nei peccati” basandosi su ciò che quell’uomo era, incuranti di quello che “ora” era diventato. Un fratello ha detto un giorno che “la carità è paziente, ma l’errore non può” e qui abbiamo la dimostrazione più palese perché uno spirito contrario a Dio non può che attaccare violentemente, con parole o con fatti è irrilevante, chi è dalla Sua parte. “Tu” e “noi” sono i pronomi che stabiliscono la distinzione, la “gran voragine” che divide chi è figlio di Dio da chi non lo è ed il “bello” è che sono gli stessi Giudei a rimarcarla, per quanto presuntuosamente si ritenessero dalla parte giusta.

L’espulsione dalla sala del Sinedrio, violenta perché è scritto “lo cacciarono fuori”, preludeva alla scomunica di cui abbiamo già accennato, ma ecco che qui abbiamo un secondo intervento di Nostro Signore, non meno importante del primo quando lo aveva guarito: “Gesù seppe che lo avevano cacciato fuori” e si mise a cercarlo, trovandolo.

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12.31 – IL CIECO NATO IV/VI (Giovanni 9.18-23)

12.31 – Il cieco nato IV (Giovanni 9.18-23)

 

18Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. 19E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Come mai ora ci vede?». 20I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; 21ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». 22Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. 23Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!».

 

Il verso 18, anticipato alla fine del nostro scorso capitolo per dare una conferma dell’ostinazione dei Giudei a non credere al miracolo – ma in realtà a rigettare completamente tutta l’opera di Gesù –, presenta un’interessante particolarità vista nel “finché”, che potrebbe farci pensare ad un suo riconoscimento tardivo. In realtà, quel “finché non credettero” significa “finché non ammisero” nel senso che, avuta la prova dai genitori del cieco che era effettivamente nato così, subito trovarono il modo per appigliarsi ad altri motivi per sminuire il miracolo. In realtà, chiamando quei parenti diretti, abbiamo un primo tentativo per rifiutare quanto avvenuto: li convocano per interrogarli sperando che o non riconoscessero il figlio, oppure non confermassero la sua invalidità dalla nascita. “Finché” indica quindi il momento in cui i Giudei rinunciarono al loro piano d’attacco, teso a mettere in dubbio la cecità di quell’uomo, ideandone uno nuovo.

In realtà, quanto fu ordito dai membri del Sinedrio fu un vero e proprio processo, come rilevabile dalle tre domande rivolte ai genitori del cieco, per quanto una di esse sia latente:

  1. “È questo vostro figlio?”;
  2. “Ci confermate che è cieco dalla nascita?”;
  3. “Come mai ora ci vede?”.

Rispondere alle prime due domande non costituiva certo un problema, ma la terza era molto insidiosa perché chiamava in causa non il riferire un fatto (come ogni testimone è chiamato a fare), ma introdurre nel dibattimento una deduzione o il riferire quanto eventualmente detto da altri. Per questo leggiamo che ai primi due punti risposero senza esitare, mentre sul terzo si trovarono in difficoltà prima di tutto psicologica, “avevano paura dei Giudei”, e chi frequenta le aule di giustizia sa bene che un buon giudice, o presidente di un Collegio, presta sempre la massima attenzione affinché le Parti (Difesa o Accusa) non intimidiscano o mettano in difficoltà psicologia chi è chiamato a deporre.

Ci chiediamo cosa potessero sapere i genitori del cieco al riguardo: pur essendo probabile che mendicasse nei pressi di casa sua,  era difficile che fosse controllato dal padre o dalla madre sia perché maggiorenne, sia perché non correva pericoli in quanto autonomo nonostante il grave handicap. Credo sia difficile che avessero assistito al primo incontro del loro figlio con Gesù mentre non si può escludere che, una volta tornato con la speranza di incontrare chi lo aveva guarito, sia andato dai genitori ed abbia raccontato loro come aveva ricuperato la vista. In alternativa, avrebbero potuto anche essere presenti quando, nel luogo in cui era solito mendicare, era stato riconosciuto come la persona che, fino a poco prima, era sempre stata cieca. Fatto sta che alla terza domanda il padre e la madre di quell’uomo risposero in modo logico e tale da non dire il falso: “Come ora ci veda, non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé” (v.20).

Analizzando la loro risposta vediamo che quel “non lo sappiamo”, anche se probabilmente il nome di chi aveva guarito il loro figlio lo conoscevano, non può essere considerato mendacio in virtù della presenza del diretto interessato. La terza domanda era quindi inopportuna e ininfluente ai fini dell’inchiesta: “ha l’età” significava che non era più sotto la loro tutela legale e che quindi si trovava nella piena condizione di riferire su fatti e persone, oltre ad essere responsabile di fronte alla Legge.

La loro fu una risposta prudente per non venire coinvolti in quel provvedimento dei Giudei che avrebbe decretato la morte civile di una persona che “lo avesse riconosciuto come il Cristo”. E qui abbiamo la ragione della paura non solo di quelle due persone, ma anche di tutti coloro che esitavano a farsi discepoli di Gesù, in un modo o nell’altro perché Lo si poteva seguire tanto facendo parte del suo gruppo, quanto personalmente, testimoniando che appunto Lui era “Il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente”.

Il fatto della scomunica dalla congregazione di Israele per chiunque avesse riconosciuto Gesù come “il Cristo” è interessante perché non sappiamo quando fosse stata istituita, ma comportava conseguenze estremamente umilianti a tal punto che Gesù stesso avviserà i suoi discepoli che ciò sarebbe accaduto. La sinagoga infatti, luogo in cui predicò spesso, è anche rappresentata come luogo che attrae i religiosi e gli ipocriti – si veda l’amore per avere là “i primi posti” ( Matteo 6.2 e 5; 23.6 e rif.) –, ma soprattutto provoca sofferenze in chi crede in Lui:  “Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe” (10.17); “…metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni” (Luca 21.12), oppure lo stesso Giovanni 16.2 “Vi scacceranno dalla sinagoghe; anzi, viene l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio”. Ricordiamo infine la confessione dell’apostolo Paolo quando era uno zelante fariseo: “In tutte le sinagoghe cercavo spesso di costringerli con le torture a bestemmiare e, nel colmo del mio furore contro di loro, davo loro la caccia perfino nelle città straniere” (Atti 26.11).

La scomunica dalla sinagoga era una punizione che poteva variare di intensità: alla base avevamo l’esclusione da essa per trenta giorni in cui lo scomunicato veniva trattato come un pagano – nessuno lo salutava né tantomeno gli rivolgeva la parola, ad esempio – e non poteva avere alcun contatto con la propria famiglia o conoscenti. Si passava poi alla esecrazione, cioè una maledizione di cui Dio era testimone per cui la persona era maledetta temporalmente o definitivamente. L’individuo diventava poi anàtema, termine che negli scritti dell’Antico Patto allude alla distruzione completa dei nemici di guerra.

Ecco allora che a questo punto credo che siamo chiamati a prendere la frase “avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga” come punto di partenza per una panoramica di raggio più ampio. Il termine “Sinagoga”, etimologicamente parlando, è di origine greca ed è composto da “syn”, insieme, e “ago”, condurre, poi tradotto come “luogo in cui ci si riunisce”. Potremmo dire che il termine allude a un cammino comunitario, per cui teoricamente non potremmo trovare nulla di meglio. Ma si tratta di una comunità che, alla luce del Vangelo, è purtroppo deviata nel senso che si presenta come qualcosa di non più attuale, passata, composta da persone religiose che però hanno sostituito alla fede e alla reale appartenenza a Dio tramite il proprio Figlio la ritualità, l’abitudine, la parvenza, l’attaccamento alle proprie tradizioni e  – sotto certi aspetti meravigliosa – scienza.

In più abbiamo una terribile definizione in Apocalisse 2 e 3.9, “sinagoga di satana” sulla quale possiamo riflettere a prescindere dal contesto originale della lettera a Smirne e Filadelfia. La sinagoga, dopo la resurrezione di Cristo e la nascita della Chiesa, è diventata un “cammino insieme” ingannatore ed infatti ad essa si è sempre contrapposta, uccidendo e cercando di uccidere chiunque la pensasse diversamente, non onorando YHWH, secondo loro, nella sua forma più pura. E questo è avvenuto dal martirio di Stefano in poi.

Ora “sinagoga” possiamo anche riferirla a qualcosa non necessariamente ebraico, ma a tutto quello che propone un “cammino insieme” non fondato direttamente su Cristo, ma su Satana che di Lui e della Chiesa è l’Avversario. Chiunque, singolo, gruppo, organizzazione o Stato, si dichiari fondato sulla solidarietà, fra i popoli o gli uomini in genere, e la pace lasciando Cristo fuori dalla porta non potrà fare altro che identificarsi nella “sinagoga di Satana” che si traveste e si maschera per ingannare e sedurre l’uomo. “Sinagoga di Satana” è la politica, sono stati ed è l’impero in formazione, le organizzazioni umanitarie e per estensione tutto ciò che si presenta al cittadino con obiettivi che vogliano migliorare la sua vita sulla terra. Non a caso, in particolare oggi, “comunità” è in termine più abusato anche negli spot pubblicitari che notoriamente fanno leva su ciò che manca al loro target. E l’essere umano tende sempre a prestare la sua attenzione a ciò di cui è privo.

Sotto questo aspetto, quindi, la “sinagoga di Satana” è ovunque ed è parente stretta di quella “dottrina dei Nicolaiti”, che compare sempre in Apocalisse 2 6 e 15, setta gnostica sorta nella Chiesa che non ammetteva la divinità di Cristo. Per andare però alla radice della loro dottrina, basta fare l’etimologia del nome, da “nìke”, cioè “vittoria”, e “làos”, popolo, quindi “popolo che vince”, anche qui tramite un cammino unitario, lo stesso inganno della torre di Babele i cui intenti erano gli stessi, così banali, di ogni impero: “Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra” (Genesi 11.4). Ecco perché, come Salomone osservò, “Non vi è nulla di nuovo sotto il sole”.

Avviandoci alla fine di queste riflessioni e dati sugli spunti identificativi a proposito della “sinagoga di Satana”, vanno sottolineate le conseguenze che portavano gli scomunicati di quella ai tempi di Gesù, cioè la morte civile, che poi non differisce più di tanto rispetto a quella reale: oggi, infatti, se un tempo la pena per i reati era la prigione, stanno moltiplicandosi le pene pecuniarie di entità anche molto forte, in grado di ridurre il condannato a una vita davvero di isolamento e di stenti che non è raro sfocino in casi di suicidio. La propaganda e gli incentivi a far sì che i pagamenti in denaro contante vengano progressivamente aboliti altro scopo non hanno di quello del pieno controllo da parte degli Stati nell’attesa che arrivi quello unico, sui conti correnti dei cittadini che si vedranno prelevate in automatico le somme che Tribunali, Governi o Enti da loro delegati decideranno.

Credo fermamente che siamo testimoni di una trasformazione sempre più veloce verso quell’ultimo regime che triterà ogni cosa sotto i suoi piedi, preferibilmente quanti, come ai tempi di Gesù e delle sinagoghe ormai a lui e ai suoi discepoli apertamente ostili, dichiareranno di credere in Lui. Conosciamo molto bene il passo di Apocalisse 13.17 relativo alla “Bestia che sale dalla terra”, cioè dagli istinti umani, che opererà insieme a quella “che nasce dal mare”, cioè dalla confusione, adorata da “tutti gli abitanti della terra, il cui nome non è scritto nel libro della vita dell’Agnello, immolato fin dalla fondazione del mondo”. La seconda bestia “fa sì che a tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi, ricevano un marchio sulla mano destra o sulla fronte, e che nessuno possa comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome”: morte civile esattamente come avveniva nel nostro episodio.

“Non vi è niente di nuovo sotto il sole” perché Satana, nell’attesa della sentenza finale, è condannato a replicare sempre se stesso, a ripetersi perfezionando sempre di più la sua opera in attesa del suo capolavoro finale e finito che verrà distrutto. Per questo siamo chiamati a vegliare riconoscendo il tempo ormai breve. E citando una frase di Ingmar Bergman, “è come guardare in controluce l’uovo di un serpente: attraverso la sottile membrana, riesci a vedere il rettile perfettamente formato”.

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12.30 – IL CIECO NATO III/VI (Giovanni 9. 8-17)


12.30– Il cieco nato III (Giovanni 9.8-17)   

 

8Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». 9Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». 10Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». 11Egli rispose: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: «Va’ a Sìloe e làvati!». Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». 12Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose: «Non lo so».

13Condussero dai farisei quello che era stato cieco: 14era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. 15Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». 16Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso tra loro. 17Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!».

 

La lettura di questi versi, pur nella sua semplicità, presenta degli aspetti che vanno sottolineati, prima dei quali è “i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante”. Il fatto che alcuni di quelle persone fossero dei “vicini” ci indica che il cieco chiedeva l’elemosina a pochi passi da dove risiedeva, presumibilmente ancora coi suoi genitori che verranno poi chiamati dai Giudei a testimoniare. I primi ad essere posti davanti all’avvenuto miracolo furono quindi i suoi vicini di casa e ben riporta “mendicante” la nostra versione poiché ve ne sono altre che hanno “cieco” in osservanza al testo originale di altri manoscritti. È però opinione comune che la parola “cieco” sia stata sostituita a “mendicante” da un copista che volle porre ulteriormente in risalto il miracolo operato da Gesù.

In ogni caso tanto quelli che conoscevano quella persona da tempo quanto i testimoni occasionali della sua presenza costante a elemosinare  – il testo originale ha “che siede e mendica” al tempo presente – mettono in dubbio la sua identità perché, evidentemente, il recupero della vista ne aveva mutato l’espressione del volto e la postura.

Confermata la sua identità ai presenti – “Sono io!” – alla domanda “in che modo ti sono stati aperti gli occhi?” risponde senza enfatizzare nulla – si potrebbe dire “senza aggiungere né togliere” – quasi che quanto avvenuto in lui fosse un fatto naturale nel senso che non rileviamo, dal suo comportamento, manifestazioni che caratterizzarono altri guariti, come la donna emorroissa che si avvicinò a Gesù “tutta tremante”, o di tutte quelle altre persone che, di fronte alla scomparsa delle loro infermità, proclamavano a tutti il mutamento del loro stato.

Questo, a conferma anche di altri dettagli visti prima come l’ubbidienza all’ordine di Gesù di andarsi a lavare a Siloe e non a una fonte comune, ci parla dell’obiettività e razionalità di questa persona che prima di tutto attribuisce la sua guarigione a “l’uomo che si chiama Gesù” e poi racconta i fatti così come avvenuto senza omettere nulla. Potremmo dire, ricordando il monito a chi tratta la Scrittura, “senza nulla aggiungere o togliere” e, dato che Gesù non era più presente e nemmeno i suoi discepoli, si suppone, credo con fondatezza, che fu lo stesso cieco guarito che raccontò a Giovanni quanto avvenuto in loro assenza.

Quell’uomo disse solo quello che sapeva e così farà una volta condotto dai farisei: perché da loro? Perché i presenti non potevano fare diversamente: a differenza sua, sapevano chi era quel “Gesù” che lo aveva guarito. Considerando che si trattava di un miracolo avvenuto di sabato, avrebbero voluto prendere Nostro Signore e portarlo dai suoi “autorevoli” oppositori, ma non potendo farlo perché se ne era andato, condurre l’ignoto ex non vedente dai rettori del popolo era l’unica azione possibile. Infatti Giovanni stesso scrive “Era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi”. Sappiamo che di sabato i farisei e relativi accoliti proibivano addirittura di raccogliere un frutto caduto da un albero, figuriamoci l’affetto che ebbe su di loro la guarigione di un cieco nato, alla quale all’inizio non credettero nonostante la chiara presenza di testimoni che conoscevano quell’uomo da prima. Condurre “dai farisei” va letto come “davanti al Sinedrio” che sappiamo si riuniva tutti i giorni e, di sabato, poteva essere convocato d’urgenza. E così avvenne proprio per intervento diretto di quanti, riconosciuto il cieco, vollero usarlo quale ulteriore strumento di accusa contro Gesù.

I sinedriti allora ascoltarono i presenti e poi “gli chiesero di nuovo come avesse riacquistato la vista”, cioè dopo aver ascoltato il fatto, chiesero al diretto interessato di raccontarlo un’altra volta: ora il racconto è più sintetico non perché Giovanni volesse risparmiarsi la fatica – quante volte Mosè ripete nei suoi libri gli avvenimenti importanti? – ma perché quell’uomo guarito si stava spazientendo di fronte a tanta insistenza che non capiva. Ciò che era avvenuto e raccontato bastava, non aveva senso ripeterlo, ma ecco che il suo racconto, come sempre quando Gesù compie un miracolo “scomodo”, genera in alcuni repulsione e forte volontà di contrastarne la verità, e in altri attrazione, volontà di comprendere.

“Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato»” è la reazione raccontata per prima probabilmente in quanto parere della maggioranza dei presenti. Notiamo quanto sia primitiva l’affermazione: non si considera il miracolo come punto dal quale partire per valutare la potenza dell’intervento di Nostro Signore che aveva liberato una persona dalla prigionia della cecità per molti anni e della vergogna da lui provata di fronte al prossimo che lo giudicava un peccatore (lui o i suoi genitori), ma si guarda al sabato istituito da Dio perché l’uomo potesse riposarsi non per far nulla, ma per meditare senza distrazioni sull’ “opera delle sue mani”. Ora, credo che migliore occasione, quel giorno, non potesse essere loro offerta.

Una piccola parte del Sinedrio, però, ragionò in modo diverso: “«Come può un peccatore compere segni di questo genere?». E c’era dissenso fra loro”. Attenzione a queste parole perché implicano il fatto che Gesù fosse santo. Sicuramente fra le persone che parlarono così vi furono Nicodemo e Giuseppe d’Arimatea, che fra l’altro, sempre leggendo la frase in modo esteso, avevano capito che non vi era stata alcuna violazione del sabato, istituito per l’essere umano e quindi per i peccatori.

Ricordiamo che, proprio alle stesse persone, Gesù aveva detto cose importanti quando guarì, sempre di sabato, il paralitico a Betesda: “Ora, se un uomo riceve la circoncisione di sabato perché non sia trasgredita la legge di Mosè, voi vi sdegnate conto di me perché di sabato ho guarito interamente un uomo? Non giudicate secondo le apparenze; giudicate con giusto giudizio!” (Giovanni 7.23). Un invito evidentemente non ascoltato, dire non ricordato volutamente perché la persona che segue se stessa non può tollerare alcun concetto diverso dal proprio: sia giusto o meno, lo ostacola e quindi va rimosso.

A proposito del “dissenso”, ricordiamo anche quanto avverrà dopo poco tempo: “Molti di loro dicevano: «È indemoniato ed è fuori di sé, perché state ad ascoltarlo?». Altri dicevano: «Queste parole non sono di un indemoniato; può forse un demonio aprire gli occhi ai ciechi?»”. Tutto questo avverrà poco tempo dopo, quando Gesù parlerà di Sé come “buon pastore” e possiamo notare che l’ “aprire gli occhi ai ciechi” è in ricordo del nostro episodio che la parte avversa a Nostro Signore aveva volutamente dimenticato.

Il “dissenso” sorto è allora frutto del mettere assieme ciò che è malleabile e aperto e ciò che è invece “ostinato”, caratteristica fortemente negativa; pensiamo a Siracide 3.26,27 “Un cuore ostinato alla fine cadrà nel male, chi ama il pericolo in esso si perderà. Un cuore ostinato sarà oppresso da affanni, il peccatore aggiungerà peccato a peccato”, dove “alla fine” ci rivela come le persone che hanno questa caratteristica, oltre a vivere male, cadranno in esso come coronamento di tutto il loro operato, “alla fine” cioè senza poter porre più rimedio alla loro condizione.

A proposito dell’ostinazione, di cui le vicende del faraone sono e saranno sempre un emblema, ricordiamo le parole di Ezechiele 3.7: “La casa di Israele non vuole ascoltare te, perché non vuole ascoltare me: tutta la casa di Israele è di fronte dura e di cuore ostinato”. L’apostolo Paolo in Romani 2.5 e 9.19 scrive “Tu, però, con il tuo cuore duro e ostinato, accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio”, e “Dio quindi ha misericordia verso chi vuole e rende ostinato chi vuole”.

Il cuore. La sede del nostro “tesoro” quindi ciò che abbiamo di più caro (Matteo 6.21). Esprimiamo con la bocca ciò che sovrabbonda in lui (12.34), può diventare insensibile e da lui, soprattutto, quando non è rigenerato da Dio, “provengono propositi malvagi, omicidi, adultèri, impurità, furti, false testimonianze, calunnie” (15.19). Quando è ostinato e indurito, cioè non esiste alcuno spazio perché la Parola di Dio faccia breccia, non vi è nulla da fare.

A questo punto del racconto, chiaramente non portando ad alcun risultato il “dissenso” fra le parti, i Giudei chiedono al diretto interessato: “«Tu, cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!»”. Abbiamo una domanda e una risposta. Penso che la prima venne posta perché il cieco guarito desse ragione a una fazione piuttosto che a un’altra perché era ormai chiaro che di lui al Sinedrio importasse ben poco. “Tu, cosa dici di lui?” non era riferito al miracolo, ma alla persona di chi lo aveva prodotto. Cosa sapeva il guarito di Gesù? Probabilmente ne aveva sentito parlare cogliendo qualche discorso, ma non lo aveva mai incontrato se non quando, chino su di lui, gli aveva messo il fango sugli occhi e gli aveva parlato.

Per le conoscenze che aveva ed esperienza acquisita, non poteva rispondere diversamente, “È un profeta”: una conclusione semplice, la sola possibile, ma che verrà fermamente respinta dai cuori ostinati, che, a queste parole, arriveranno a non credere che fosse stato cieco: “Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista” (v.18).

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