13.08 – L’INTERNO PIENO DI AVIDITÀ E CATTIVERIA (Luca 11.37-44

13.08 – L’interno pieno di avidità e cattiveria (Luca 11.37-44)     

 

37Mentre stava parlando,un fariseo lo invitò a pranzo. Egli andò e si mise a tavola. 38Il fariseo vide e si meravigliò che non avesse fatto le abluzioni prima del pranzo. 39Allora il Signore gli disse: «Voi farisei pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma il vostro interno è pieno di avidità e di cattiveria. 40Stolti! Colui che ha fatto l’esterno non ha forse fatto anche l’interno? 41Date piuttosto in elemosina quello che c’è dentro, ed ecco, per voi tutto sarà puro. 42Ma guai a voi, farisei, che pagate la decima sulla menta, sulla ruta e su tutte le erbe, e lasciate da parte la giustizia e l’amore di Dio. Queste invece erano le cose da fare, senza trascurare quelle. 43Guai a voi, farisei, che amate i primi posti nelle sinagoghe e i saluti sulle piazze. 44Guai a voi, perché siete come quei sepolcri che non si vedono e la gente vi passa sopra senza saperlo».

 

            Nelle scorse riflessioni è stato dato qualche accenno alla pericolosità del metodo o mentalità ”religiosa” e all’influenza negativa che può avere sulla persona che non fa altro che chiudersi in sé stessa privandosi di vere prospettive spirituali. Ecco perché Nostro Signore dirà, in un passo che affronteremo prossimamente, “Guai a voi, dottori della Legge, che avete portato via la chiave della conoscenza; voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare voi l’avete impedito”(v. 52). Stesso severo ammonimento si ritrova in Matteo 23.13: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti alla gente; di fatto non entrate voi, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarvi”. La religione è fatta di parole stantie mascherate da rivelazione, di usi e riti che possono suscitare anche ammirazione, ma si limitano a gesti accompagnati da espressioni e atteggiamenti di circostanza che durano lo stretto necessario alla funzione, per poi tutto tornare esattamente come prima. Non è stata minimamente coinvolta quella parte del cuore e dell’anima così importante da essere in grado di trasformare la persona accogliendo lo Spirito di Dio.

Bene, leggiamo che Gesù fu invitato a pranzo da un fariseo. Luca non ci dice i motivi che lo spinsero a riceverlo in casa sua; di fatto sappiamo che vi parteciparono anche dei dottori della Legge (v.45), scribi (v.53), quindi il chiamare Nostro Signore in quel gruppo poteva significare o che fosse ritenuto degno di sedere in mezzo a quel gruppo oppure, più probabilmente, per studiarlo onde raccogliere elementi per accusarlo.

La prima cosa che fece Gesù appena entrato fu, appositamente, quella di accomodarsi senza passare attraverso il rito dell’abluzione delle mani. Marco ci informa che “I farisei e tutti i giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alle tradizioni degli antichi (…)e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, stoviglie, di oggetti di rame e di letti”(7.3.4). Va specificato che per “tradizione degli antichi”, si intende più propriamente quella “degli anziani”, cioè dei loro maestri ai cui precetti erano oltremodo attaccati. Leggiamo ad esempio una nota di Rabbi Jose nel Talmud che recita “Colui che mangia del pane con mani non lavate è reo non meno che se fornicasse con una prostituta”.

Nella Legge, invece, il comando riguardava chi doveva officiare all’altare: “Farai per le abluzioni un bacino di bronzo con il piedistallo di bronzo; lo collocherai tra la tenda del convegno e l’altare e vi metterai acqua. Aaronne e i suoi figli vi attingeranno per lavarsi le mani e i piedi. Quando entreranno nella tenda del convegno, faranno un’abluzione con l‘acqua, perché non muoiano; così quando si avvicineranno all’altare per officiare, per bruciare un’offerta da consumare con il fuoco in onore del Signore, si laveranno le mano e i piedi e non moriranno. È una prescrizione rituale perenne per Aaronne e per i suoi discendenti, in tutte le loro generazioni”(Esodo 30.18-21).

Ecco allora che ci troviamo di fronte a un gesto anche provocatorio di Gesù, che ben conosceva la mentalità e il metodo dei suoi detrattori e fa in modo che venga notato: “Si meravigliò che non avesse fatto le abluzioni prima del pranzo”. Da notare che il testo si ferma a questa reazione perché, prima che si tramuti in sdegno, Nostro Signore inizia a parlare e lo fa citando i due recipienti, il bicchiere e il piatto, senza dare spiegazioni del suo mancato lavarsi le mani.

Vediamo ora il primo punto esposto nelle due versioni di Luca e Matteo, sulla quale torneremo: Luca ha “Voi farisei pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma il vostro interno è pieno di avidità e cattiveria”, Matteo“Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma all’interno sono pieni di avidità e intemperanza”(23.25). Il “bicchiere”e il “piatto”sono al tempo stesso un esempio reale e un pretesto per far sì che una eventuale persona onesta lì in mezzo potesse capire il collegamento con l’interezza della persona umana. Bicchiere e piatto, entrambi elementi atti a contenere liquidi e solidi, quindi ciò che nutre, sono al tempo stesso figura del corpo e di ciò che è in esso, altrimenti dire “ma il vostro interno è pieno di avidità e cattiveria”non avrebbe senso. Questa connessione è ancora più chiara in Matteo quando il “sono pieni”sarebbe un evidente errore grammaticale.

Ecco allora il perché dell’epiteto “ipocriti”, cioè “dediti alla finzione”, “attori”: la pulizia dell’esterno è svolta accuratamente perché è lì che gli altri guardano, ma l’interno può essere gestito a piacere e spesso in forte contrasto con ciò che viene simulato. È lo stesso metodo che usano i governi, le strutture pubbliche, i politici, purtroppo molti nella Chiesa a prescindere dalla sua denominazione di cui Paolo nella sua seconda lettera a Timoteo scrive“…gente cha ha una religiosità solo apparente, ma ne disprezza la forza interiore. Guàrdati da costoro!”(3.5). Ancora, a Tito “Tutto è puro per chi è puro, ma per quelli che sono corrotti e senza fede nulla è puro: sono corrotte la loro mente e la loro coscienza”(1.15).

Certo i due versi propongono due ritratti differenti anche se non troppo: da una parte i religiosi, cioè coloro che, come i nostri farisei del testo, curano l’apparenza e così facendo disprezzano la forza interiore della fede. Dall’altro invece, accanto alla semplicità di chi è puro, si contrappone la corruzione di chi è senza fede: si tratta di persone che sospettano sempre il male, si sentono continuamente minacciate da chi non li tratta e non si comporta secondo le loro aspettative, hanno la mente e la coscienza “corrotte”cioè viene da dire “inguaribili”. E la corruzione di mente e coscienza si riferisce all’incapacità di ragionare e provare sentimenti secondo Dio. Credo che se il vero cristiano, quello salvato, redento da Cristo che vuole camminare a Lui unito, tenesse presente questi versi, patirebbe molto meno le conseguenze derivanti da un confronto o frequentazione con simili personaggi.

La frase “Stolti, colui che ha fatto l’esterno non ha anche fatto l’interno?”vuole dimostrare a quegli scribi e farisei che, essendo l’uomo creato spirito, anima e corpo, non ha senso curare un solo elemento, quello peraltro più facile, senza considerare minimamente gli altri due, soggetti a patire molto più del corpo.

“Date piuttosto in elemosina quello che c’è dentro, ed ecco, per voi tutto sarà puro”. Altre traduzioni riportano “quello che è in vostro potere”, ma è comunque evidente la provocazione alla rinuncia, essendo i destinatari del messaggio pieni “di avidità e cattiveria”. Più avanti, in 12.33, Gesù dirà “Vendete ciò che possedete e datelo in elemosina; fatevi borse che non invecchiano, un tesoro sicuro nei cieli, dove ladro non arriva e tarlo non consuma”, frase che pone in evidenza il baratro che divide la carne dallo spirito, tra il tesoro in senso umano e quello spirituale. “Vendere”, sinonimo di guadagno, si annulla nel “dare” a vantaggio di altri.

Con “Date quello che c’è dentro”Gesù esorta così a sbarazzarsi di ciò che, considerato prezioso, ritarda il cammino spirituale. È al tempo stesso un invito ad oltraggiare la parte più interna dell’individuo, quella del bambino mai cresciuto che vorrebbe tenere tutto per sé e si contraria enormemente quando dovrebbe dare o dividere con altri. Possiamo raccordarci in proposito anche al digiuno vero: “Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti?”(Isaia 58.7).

La gestione del “mio” è la dimostrazione dell’attaccamento che la persona ha di sé. Tanto più un individuo è immaturo, quanto più sarà attaccato ai suoi averi e li difenderà ad oltranza; sul versante opposto abbiamo la prodigalità, che porta alla rovina allo stesso modo, disprezzando ciò che si ha e dilapidando le proprie sostanze. Possiamo dire che quanti difendono ciò che posseggono lo fanno perché sono consapevoli di non avere altro per cui rientrano in quella condizione descritta da Satana nel libro di Giobbe, che disse a Dio “Tutto quello che l’uomo possiede è pronto a darlo per la sua vita”(2.4), la sua e non quella di altri. Vita intesa come centro, averi nel senso più ampio del termine cioè l’indipendenza, la possibilità di agire come lui ha programmato, i propri ambiti d’azione o affettivi su cui ha costruito la propria esistenza. Solo di fronte alla morte o alla malattia grave è disposto a rinunciare ad essi, essendo in gioco la sua sopravvivenza, che poi altro non è che continuare ad agire come ha sempre fatto.

La religione, che non contempla l’ascolto di Dio ma di se stessi oppure del principio in base al quale si debba per forza venire esauditi attraverso un rito, rientra in questo tipo di ragionamento fuorviante e assurdo: “pensano di essere esauditi per la moltitudine delle loro parole”. E “pulire l’esterno”è il metodo per presentarsi agli altri consapevoli del fatto che l’esterno è ciò che si vede, tralasciando l’interno che è quello, immensamente più importante, che Dio vede, valuta e giudica.

“Pagate la decima sulla menta, sulla ruta e su tutte le erbe, e lasciate da parte la giustizia e l’amore di Dio”era la stretta osservanza di Levitico 27.30 “Ogni decima della terra, cioè delle granaglie del suolo e dei frutti degli alberi, appartiene al Signore: è cosa consacrata al Signore”, per cui pagarne la decima era poca cosa, potendosi trattenere la maggior parte. Ecco un altro modo per sentirsi in pace con la propria coscienza, ma lasciando “da parte la giustizia e l’amore di Dio”. Ricordiamo le parole di Michea 6.8, “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che il Signore richiede da te: praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio”. Il pagare la decima senza considerare questo, equivaleva a dire a YHWH “Hai avuto quello che chiedevi, adesso lasciami in pace”, mentalità che molti hanno ancora oggi ritenendo sufficiente partecipare alle riunioni domenicali della Chiesa che frequentano.

Con la frase “Queste erano le cose da fare, senza trascurare quelle”, poi, Gesù non contesta le usanze che scribi e farisei avevano, ma li riconduce, ancora una volta nel Suo Ministero, all’essenza delle cose.

L’amore nell’occupare i “primi posti”, alla luce di quanto si vede da sempre anche in campo cristiano e non solo nel mondo, credo non abbia bisogno di commento, mentre è l’ultima frase, quella dei sepolcri, ad essere importante perché il sepolcro era ritenuto un terreno contaminato e contaminante, per cui lo si tingeva di bianco soprattutto per fare sì che non venisse calpestato inavvertitamente. Se allora a contaminare era il sepolcro, oggi lo sono le persone che si mascherano, si mimetizzano, ci parlano con scopi che non sono mai quelli diretti, che aspirano al trionfo dei loro secondi fini. Qui dovrebbe aprirsi una grossa parentesi sul peccato appunto di inavvertenza, che rendeva per Legge colpevole colui che, senza saperlo, si rendeva reo di  una trasgressione e tale rimaneva fino a quando quel peccato non fosse stato rivelato. Per ora basta mettere il risalto il fatto che, chi opera come quegli scribi e farisei, anziché essere di aiuto al prossimo è di severo inciampo, dà un esempio che non può che portare un frutto cattivo, impedendo il conseguimento dell’unico obiettivo veramente importante, cioè la pace con Dio e soprattutto il perdurare di essa. Tutte finzioni destinate a venire arse dalla Sua luce, quando verrà in giudizio. Amen.

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13.07 – LA VERA BEATITUDINE (Luca 11.27-29)

13.07 – La vera beatitudine (Luca 11.27-29)          

 

27Mentre diceva questo, una donna dalla folla alzò la voce e gli disse: «Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!». 28Ma egli disse: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!».

 

            L’episodio in esame è riportato dal solo Luca, che possiamo considerare un’importante variante di ciò che è narrato quando “andarono da lui la madre e i suoi fratelli, ma non potevano avvicinarlo a causa della folla. Gli fecero sapere: «Tua madre e i tuoi fratelli stanno fuori e desiderano vederti». Ma egli rispose loro: «Mia madre e miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica»”(9.19-21). Fu una realtà-verità talmente importante da venire riportata da tutti gli altri sinottici, Matteo 12.46,50 e Marco 3.31-34, tra loro simili ma tutti degni di attenzione: alla notizia dei parenti che lo cercavano, Gesù risponde “«Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli!»”. Marco scrive, dopo analoga domanda,“Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli, perché chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre”.

Già in quest’occasione Gesù stabilì un importante principio e cioè che se come uomo aveva dei parenti come Dio le relazioni con loro avevano senso soltanto se avessero creduto in Lui perché era quello l’unico modo per stabilire un rapporto, al pari di tutti gli altri uomini e donne. Era finito il tempo in cui, dodicenne di ritorno dal tempo, è detto che “…venne a Nazareth e stava loro sottomesso”(Luca 2.51) cioè a suo padre e sua madre: doveva attendere che quel percorso comune a tutti gli altri israeliti, prima dei trent’anni, fosse concluso e nell’attesa “cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini”(v.52). Fu così che divenne maggiorenne col Bar Mitwah a tredici anni, dopo di che svolse il mestiere del padre per mantenersi, ma “a circa trent’anni cominciò il suo ministero ed era figlio, come si credeva, di Giuseppe, figlio di Eli”(Luca 3.23).

A tredici anni, quindi, Gesù era considerato come tutti gli altri ebrei pienamente responsabile delle sue azioni davanti a Dio e agli uomini. I trenta, poi, erano quelli in cui i Leviti erano ammessi ad effettuare il loro servizio che si protraeva fino al raggiungimento del cinquantesimo (Numeri 4.3). Quando Gesù pronunciò le parole su cui ci stiano soffermando, quindi, aveva una doppia indipendenza dalla sua famiglia di origine, vale a dire quella dell’età responsabile e quella dell’età del servizio.

Ora se nel caso dell’episodio riportato dai sinottici l’anonimo o gli anonimi che lo informarono del fatto che era cercato dalla madre e dai fratelli presumevano che avesse una reazione di riguardo umano, poi smentita dai fatti, qui a parlare è una donna che probabilmente era sua discepola e non poté trattenere il proprio entusiasmo a fronte di un discorso che il suo Maestro fece subito dopo la parabola dell’ “uomo forte”che abbiamo da poco esaminato: “Quando lo spirito impuro esce dall’uomo, si aggira per luoghi deserti cercando sollievo e, non trovandone, dice: «Ritornerò nella mia casa, da cui sono uscito». Venuto la trova spazzata e adorna. Allora va, prende altri sette spiriti peggiori di lui, vi entrano e vi prendono dimora. E l’ultima condizione di quell’uomo diventa peggiore della prima”(Luca 11.24-26).

Dobbiamo tener presente che quanto detto da Gesù fu conseguente alla liberazione dell’indemoniato muto, che secondo la versione di Matteo era anche cieco (12.22-45): evidentemente quella donna era stata sconvolta da quella guarigione ed aveva compreso le parole del Maestro che spiegava le conseguenze cui va incontro chi, beneficiato di un intervento di Dio così specifico, non si converte dandogli modo di entrare in lui. Sappiamo che i Giudei avevano i loro esorcisti ma non se si trattasse, in caso di successo, di un artificio o se effettivamente liberassero persone possedute. In ogni caso certo non erano in grado di spiegare le dinamiche illustrate da Gesù e, a giudicare dagli insuccessi ottenuti con la donna emorroissa, non sempre il risultato dei loro interventi era efficace.

Ecco allora la frase ad alta voce per farsi sentire, “Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato!”, pronunciata dal suo entusiasmo di donna e di madre di uno o più figli che certo non erano come Lui. Si trattò però di una frase infelice nel senso che, ancora una volta, limitava Gesù perché lo legava in qualche modo alle sue radici umane nel senso che, invece di esprimere la gioia come altri che dissero “Un profeta è sorto fra noi”, non vedeva altro che la soddisfazione  e l’orgoglio che secondo lei provava di sua madre Maria, definita dall’angelo Gabriele “favorita dalla grazia”. Nel suo magnificat Maria stessa dirà “d’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata”non perché “fortunata” ad avere un figlio così, ma per l’onore della scelta che Dio le aveva rivolto e per tutte le attenzioni di cui fu circondata dalla nascita di suo Figlio in poi passando attraverso la crocifissione dove verrà affidata alle cure dell’apostolo Giovanni. Ricordiamo che sicuramente vide Gesù risorto, che su di lei, come sui “circa centoventi”scese lo Spirito Santo a Gerusalemme, credo quindi consolata come pochi da quella “spada che ti trapasserà l’anima”, ancora una volta gli effetti dello Spirito che provò certamente anche in maniera dolorosa.

Credo che la vita di Maria, più che nei tentativi umani di ingerenza nella vita del figlio, sia da ricercarsi in quel suo costante conservare nel proprio cuore gli avvenimenti che si verificavano e non capiva interrogandosi sul loro significato anziché crogiolarsi nel fatto che avrebbe messo al mondo Uno che sarebbe stato “santo”e “chiamato Figlio dell’Altissimo”(Luca 1.35). Certo nel momento in cui guardò alla propria realtà umana, sbagliò, come nel caso in cui, assieme agli altri figli, “…uscirono per andare a prenderlo perché dicevano: «È fuori di sé»”(Marco 3.30).

La frase di quella anonima, quindi, era fuori luogo, non c’entrava nulla né con la realtà di Gesù, “nato di donna”come qualunque essere umano, né con quella di Maria sua madre, che non volle mai avere né mai ebbe un ruolo di rilievo nella Chiesa costituita dalla discesa dello Spirito Santo fino al termine degli scritti che costituiscono il Nuovo Testamento. Sarà poi il progressivo fraintendimento della Scrittura, le aggiunte ad essa e soprattutto le molte influenze pagane e idolatre che porteranno alla sua venerazione, attribuendole ruoli, compiti e funzioni che nulla hanno a che vedere con l’impianto evangelico e dottrinale originario.

La religione, cioè il rifiuto di un metodo serenamente e spiritualmente sano e critico di affrontare il testo sacro, ha fatto il resto. Come ben sappiamo dalle realtà che dovette affrontare e dalle Sue parole, Nostro Signore attaccò sempre il metodo religioso, che è attaccamento a precetti formali e metodi di ragionamento che esaltano la forma e il rito trascurando completamente la carità, l’amore e l’illuminazione che procede da Dio, impossibile se vengono a mancare i presupposti che la determinano.

A questo punto, tornando al nostro testo, le parole di Gesù demoliscono il concetto che la discepola innominata riteneva valido: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e l’osservano”. Va sottolineato che con quel “piuttosto”, che altri traducono “anzi”, sembra che Nostro Signore intenda mettere in secondo piano la figura di Maria, il che non è vero essendo traducibile il termine greco originale anche con “Sì, ma”. Ecco allora che questa risposta racchiude in sé l’esortazione a non pensare agli altri ma, in campo spirituale, fondamentalmente a se stessi perché il lavoro da fare nei nostri confronti è talmente tanto che non dovremmo avere il tempo di fare altro, nello specifico ad esempio di guardare la pagliuzza nell’occhio del nostro fratello perché così facendo ignoreremmo la trave che è nel nostro. Ricordiamo quando Pietro, parlando di Giovanni a Gesù risorto, si sentì dire: “Se voglio che egli rimanga finché io venga, a te che importa? Tu seguimi”(Giovanni 21.22): ciascun credente ha una via preparata per lui, è unico come uniche sono le sue sembianze fisiche.

Il primo messaggio, quindi, è la diversificazione dei ruoli, è l’invito-ordine a pensare prima di tutto alla posizione che ogni essere umano ha davanti a Dio: ascolti la Parola di Dio? È il primo passo perché questo determina la considerazione, la valutazione che poi porta alla decisione dell’accoglimento. E Maria queste cose le faceva e come tutti ebbe tanto il suo percorso quanto giunse poi alla propria scelta. Però, abbiamo letto all’inizio che “Mia madre e i miei fratelli sono questi: coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica”.

Tempo fa ho fatto presente che ci troviamo a meditare dei capitoli di Luca che appartengono al cosiddetto “libro del grande viaggio” in cui l’evangelista include episodi che non necessariamente rispecchiano un ordine cronologico preciso e infatti alcuni studiosi mettono in risalto che le parole di Gesù che stiamo considerando precedono di poco le altre, cioè quelle pronunciate quando arrivarono Maria e gli altri suoi figli a cercarlo e che infatti abbiamo citato.

La messa in pratica è quindi quella che conta, è la dimostrazione che l’ascolto ha portato all’unica conclusione possibile, quella dell’operatività perché “Non chiunque mi dice: «Signore, Signore» entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del padre mio che è nei cieli”(Matteo 7.21). Ancora, “Sapendo queste cose, siete beati se le mettete in pratica”(Giovanni 13.17) e da qui si può citare Giacomo 1.22-25: “Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi; perché se uno ascolta la Parola e non la mette in pratica, costui somiglia a un uomo che guarda il proprio volto allo specchio: appena si è guardato, se ne va, e subito dimentica com’era. Chi invece fissa lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla”. Amen.

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13.06 – CHI NON RACCOGLIE CON ME (Luca 11.21-23)

13.06 – Chi non raccoglie con me (Luca 11.21-23)

 

21Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo, ciò che possiede è al sicuro. 22Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via le armi nelle quali confidava e ne spartisce il bottino. 23Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde.

 

            Nel testo in grassetto ho omesso i da 14 a 20 perché già affrontati, che comunque ricordiamo:“Gesù stava cacciando un demonio che era muto. Uscito il demonio, il muto cominciò a parlare e le folle furono prese da stupore. Ma alcuni dissero: «È per mezzo di Beelzebul, capo dei demòni, che egli scaccia i demòni». Altri poi, per metterlo alla prova, gli domandavano un segno dal cielo. Egli, conoscendo le loro intenzioni, disse: «Ogni regno diviso in se stesso va in rovina e allo stesso modo una casa, divisa in parti contrarie, crolla. Ora, se anche Satana è diviso in se stesso, come potrà stare in piedi il suo regno? Voi dite che io scaccio i demòni per mezzo di Beelzebul. Ma se io scaccio i demòni per mezzo di Beelzebul, i vostri figli per mezzo di chi li scacciano? Per questo saranno loro i vostri giudici. Se invece io scaccio i demòni con il dito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio”. Si tratta di un episodio che anche Matteo ha riportato nel suo capitolo dodicesimo, versi 22-30.

Ora l’interessante è che Gesù approfitta dell’impossibilità che ha di sussistere qualunque “regno”, società o “casa”intesa sia come struttura mal progettata che come famiglia, “divisa in parti contrarie”non solo collegandolo a Satana (che organizzato dev’essere per forza), ma proponendosi come unica alternativa ad esso e lo fa con la parabola dell’ “uomo forte, bene armato”che “fa la guardia al suo palazzo”in cui evidentemente sono custoditi dei beni, come dalle parole “ciò che possiede è al sicuro”.

Questa descrizione, però, suggerisce una quiete e una sicurezza solo apparente, cioè destinata a durare fino a quando arriva “uno più forte di lui”col preciso intento di impadronirsi delle sue cose. L’ “uomo forte”combatterà con tutte le sue forze pur di difendere ciò che ha, ma sarà tutto inutile: vero è che l’esito della lotta è espresso al condizionale, “se arriva uno più forte di lui e lo vince”, ma lA storia ci insegna che quando abbiamo una struttura solida, questa non dura per sempre: potrà resistere a guerre e battaglie, ma presto o tardi arriverà qualcuno più potente che riuscirà ad annientarla. La sicurezza, insomma, dura fino a prova contraria e il suo scadere sarà è questione di tempo, luogo e spazio.

Notiamo che la caratteristica della vittoria sull’ “uomo forte”comporterà una cocente umiliazione: “gli strappa via le armi nelle quali confidava e ne spartisce il bottino”. È facile trovare una connessione con le due case, quella costruita sulla roccia e quella sulla sabbia in cui in una c’è resistenza all’impetuosità degli elementi e nell’altra no, ma ciò non toglie che entrambe, al loro costruttore, erano sembrate solide. Ciò che infatti difettava non era il materiale da costruzione impiegato, ma le fondamenta su cui poggiavano. Un uomo è quindi “forte”e una casa “solida” fino a prova contraria. La differenza che intercorre fra le due parabole, se mai, è che nel caso dell’ “uomo forte”il suo potere cessa nel momento in cui arriva uno più agguerrito di lui, mentre nelle due case abbiamo a determinare il resistere dell’una e la rovina dell’altra: “Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti che si abbatterono su quella casa”(Matteo 7.27), quindi una massa di eventi sfavorevoli e avversi.

Il significato della parabola dell’ “uomo forte”è allora diverso, si pone ad un livello parallelo perché nella casa ci si ripara e qui si mette qualcosa al sicuro e sotto custodia. Resta da vedere di e da chi, alla luce della frase del verso 23 “Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me, disperde”.

Gli scritti dell’Antico Patto riportano innumerevoli vittorie di uomini o di popoli su altri, tutti loro hanno conosciuto i loro tempi di prosperità e di miseria, sia essa materiale, morale e spirituale, ma qui il riferimento da sviluppare è quell’ “uomo più forte di lui”che Gesù fa irrompere nella sua narrazione. Lo colleghiamo – ad esempio – a Isaia 9.5,6 a proposito dello stesso Figlio: “Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà: Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace. Grande sarà il suo potere e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul suo regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e per sempre. Questo farà lo zelo del Signore degli eserciti”.

Se nel verso appena riportato abbiamo l’annuncio della venuta in dono del Figlio di Dio, in 49.24,25 troviamo due domande, con relativa risposta, riferite proprio a una forza che è ritenuta normalmente invincibile, ma che ha una sua scadenza: “Si può forse strappare la preda al forte? Oppure può un prigioniero sfuggire al tiranno? Eppure, dice il Signore: «Anche il prigioniero sarà strappato al forte, la preda sfuggirà al tiranno”.

Dobbiamo poi ricordare la fine del capitolo 53, noto per dare la descrizione delle sofferenze assolute del Figlio di Dio: “Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità. Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli”. “Farà bottino”, stesso termine che compare nel nostro testo di Luca.

Se quindi Isaia in questi scritti mostra ai suoi contemporanei – e chiaramente non solo – ciò che avverrà dalla dispensazione della Grazia e nelle successive, l’apostolo Paolo in Colossesi 2.15 spiega chiaramente la parabola dell’ “uomo forte”nella sua parte finale: “Con lui Dio ha dato vita anche a voi– i pagani – che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi– la Legge – che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce. Avendo privato della loro forza i Principati e le Potenze, ne ha fatto pubblico spettacolo, trionfando su di loro in Cristo”.

Quindi: la non circoncisione era il simbolo certo formale (ma non per questo meno importante) più evidente della non appartenenza al popolo di Dio e la Legge era quel “documento scritto contro di noi”di cui Satana si è subito impossessato per torcerla a suo vantaggio, tentando l’uomo. Sembra un controsenso quello di un Dio d’amore che dà all’uomo uno scritto che gli è sfavorevole, ma questo è solo in apparenza in quanto, con l’introduzione del peccato nel mondo, altro non poteva fare dal momento in cui decise di rivelare a Mosè il suo piano per farli uscire dall’Egitto e iniziare così a tessere ufficialmente il piano di redenzione per la sua creatura che si sarebbe dipanato di secolo in secolo fino a raggiungere quello della fine.

Ora quel “documento scritto contro di noi”è stato “inchiodato alla croce”, è rimasto lì al contrario di Lui che è risorto; in tal modo ha “privato della loro forza i Principati e le Potenze”, quindi tutte quelle entità la cui forza è anche descritta dal nome stesso, che ci tenevano prigionieri e incapaci di qualsiasi relazione con Dio salvo quella in giudizio e in condanna. Perché “Il nostro Dio è un Dio che salva; al Signore appartengono le porte della morte”(Salmo 68.21) e la prova dell’impotenza alla quale sono stati ridotti “i Principati e le Potenze”risiede proprio sia nella resurrezione che nella sua conseguenza immediata, cioè quei “prigionieri”che ha portato con sé: “Asceso in alto, ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini”, frase sempre appartenente a questo Salmo e di cui Paolo si serve in Efesi 4 trattando di una parte della Persona di Cristo, per poi concludere in 6.12, prima di trattare dell’ armatura del credente, con le parole “La nostra battaglia non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti”, termine quest’ultimo riferito a quei territori spirituali che sono comunque sopra di noi nel senso che ci sovrastano e tuttora vorrebbero la rovina dell’uomo “per sedurre, se fosse possibile, anche gli eletti”.

Ed ecco allora che, con la parabola che abbiamo cercato di esaminare, Gesù si dichiara come quella persona in grado di contrastare l’ “uomo forte”, vincerlo, strappargli le armi e spartirsi il bottino, figura di una guerra definitivamente vinta contro tutte le forze del male viste, appunto, nei “Principati”e nelle “Potenze”.

La conclusione di tutto questo insegnamento non può essere che lapidaria: “chi non è con me, è contro di me”, cioè: visto che io sono Colui che ha vinto Satana e la morte e l’ho fatto per voi, chi non mi accoglierà, per indifferenza, disinteresse o perché avrà preferito stare con l’ “uomo forte”, mi troverà contro di lui. Non è certo un caso se Matteo, nel riferire la stessa parabola di Luca, utilizza altri termini: “Come può uno entrare nella casa di un uomo forte e rapire i suoi beni, se prima non lo lega? Soltanto allora potrà saccheggiare la sua casa”(12.29) nel legare non è azzardato vedere un forte collegamento con Apocalisse 20.1-3: “E vidi un angelo che scendeva dal cielo con in mano la chiave dell’Abisso e una grande catena. Afferrò il drago, il serpente antico, che è diavolo e Satana, e lo incatenò per mille anni; lo gettò nell’abisso, lo rinchiuse e pose il sigillo sopra di lui, perché non seducesse più le nazioni, fino al compimento dei mille anni, dopo i quali dev’essere lasciato libero per un po’ di tempo”.

La seconda parte del nostro verso poi descrive un aspetto singolare dell’essere in e con Cristo, cioè il “raccogliere”e qui arriviamo alla gioia della mietitura – che sarà al tempo stesso tragedia per molti – che i credenti di ogni epoca e nazione condivideranno con il loro Signore. Per questo è detto “chi non raccoglie con me, disperde”: la mietitura è quell’azione che precederà l’eternità e l’ingresso in essa della Chiesa di ogni tempo, la Comunità degli Ek-kletoi, i “chiamati fuori” e nel “disperdere” cui Gesù fa riferimento vediamo il non frutto, un’azione inutile, il raccolto della fatica nella fatica. Perché c’è una porta, ora aperta, destinata a chiudersi e chi sarà fuori dimorerà nel “pianto e stridore di denti”. Amen.

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13.05 – L’AMICO IMPORTUNO (Luca 11.5-8)

13.05 – L’amico importuno (Luca 11.5-8)  

 

5Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: «Amico, prestami tre pani, 6perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli», 7e se quello dall’interno gli risponde: «Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani», 8vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono. 9Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. 10Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.

 

 

Il passo riportato viene posto da Luca subito dopo l’insegnamento del “Padre Nostro”; a differenza di Matteo, è da lui collocato dopo l’episodio di Marta e Maria quando leggiamo che, qualche tempo dopo, “Gesù si trovava in un luogo a pregare. Quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli»” (v.1). Il problema a questo punto è se ci troviamo di fronte a una diversa collocazione temporale dell’insegnamento del Padre Nostro, oppure se questa fu ripetuta non ai dodici, presenti nel racconto di Matteo, ma ad altri discepoli che, vistolo pregare in modo totalmente diverso da quanto facevano gli scribi e i farisei, capirono la necessità di venire istruiti anche attorno a questo argomento. Possiamo ricordare le parole dell’anonimo discepolo che chiese “Signore, insegnaci a pregare come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli” (v.1) da cui rileviamo che gli evangelisti hanno riportato solo una parte del messaggio del Battista agli uomini, cioè attinente alle sue funzioni di precursore. È tra l’altro impossibile che Gesù abbia trascurato un argomento così importante come la preghiera per affrontarlo solo negli ultimi mesi del Suo Ministero. Piuttosto possiamo dire che il “Padre Nostro” è talmente importante da essere citato per due volte, in momenti diversi, proposto da Luca in una versione più essenziale: “Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati. Anche noi infatti perdoniamo ad ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione” (vv.2-4).

Come nel sermone sul monte, in cui leggiamo “Chi di voi, al figlio che gli chiede un pane, darà una pietra? E se gli chiede un pesce, gli darà una serpe? Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono!” (Matteo 7.9,10), qui abbiamo l’esposizione di una breve parabola (più altri esempi), quella dell’amico importuno che riflette, attenendoci alla semplice narrazione, la realtà dei paesi caldi in cui non è raro che si scelga di viaggiare, per la maggior parte dell’anno, di notte. In ogni caso, non esistendo allora contenitori in grado di proteggere gli alimenti dalla calura, chi si spostava portava con sé quanto bastava per sfamarsi senza fare provviste, acquistandole poi di volta in volta. Era allora frequente che proprio di notte, capitando nei pressi di abitazioni di persone conosciute come anche di bottegai, il viaggiatore bussasse alla loro casa chiedendo da mangiare. Era una società diversa dalla nostra.

Ora, non avendo la persona interpellata dal viaggiatore da dargli alcunché, si reca da un altro e quindi gli rappresenta il problema. Costui, già addormentato, stanco ma comunque a letto, non si alza neppure ad aprire una finestra, ma risponde “dall’interno” dicendo “non posso alzarmi per darti i pani”: li avrebbe, ma non ha voglia di darli per pigrizia.

Chiaramente siamo chiamati a riflettere sulle parole del verso 8, “vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono”, che potrebbe lasciare intendere che l’insistenza e l’assillare il prossimo (e Dio per relazione) sia la chiave per ottenere le cose. Questa almeno è l’idea del religioso e dei bambini che sanno molto bene, se non hanno genitori responsabili, che possono ottenere dagli adulti ciò che vogliono continuando ad insistere capricciosamente assillandoli. È tra l’altro il motivo per cui i giochi per i bambini, nei grandi magazzini, sono sempre posti in basso o comunque alla loro altezza perché possano prenderli e litigare con gli adulti che il più delle volte, presi dalle necessità del fare compere, pur di farli tacere li accontentano.

In realtà Gesù ricorre a questa parabola, e ad altre di significato analogo, con lo scopo primario di far comprendere la “necessità di pregare senza stancarsi mai” (Luca 18.1) alla luce però dell’intelligenza, che della perseveranza e dell’insistenza dev’essere compagna. Abbiamo letto nella parte finale dei nostri versi la promessa “cercate e troverete”, il cui metodo è illustrato in Proverbi 2. 3-5, “…se appunto invocherai l’intelligenza e rivolgerai la tua voce alla prudenza, se la ricercherai come l’argento e per averla scaverai come per i tesori, allora comprenderai il timore del Signore e troverai la conoscenza di Dio”. Ecco, il paragone con l’argento è molto calzante perché si tratta di un metallo che si trova sempre legato ad altri, come il piombo da cui viene separato con difficoltà, essendo necessario fonderli, raffreddarli e rifonderli di nuovo con un procedimento complicato che prende il nome di coppellazione, quello usato nell’antichità. Il “cercare” di cui parla l’autore del libro dei Proverbi, e quindi Gesù nel nostro passo, non consiste in un tentativo svogliato o approssimativo, ma in un metodo serio e direi professionale.

Credo che, connesso al nostro racconto di Gesù, siano la tenacia, costanza e infaticabilità sostenute da Giacobbe in Genesi 32.25-29: “Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quello disse: «Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!». Gli domandò: «Come ti chiami?». Rispose: «Giacobbe». Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto contro Dio e gli uomini e hai vinto!»”. Giacobbe vuol dire “Colui che precede” e Israele “Colui che lotta con Dio”.

Anche qui abbiamo la presenza del Figlio in forma umana, come dalle parole “contro Dio e gli uomini” che un angelo non avrebbe mai potuto utilizzare: è il Figlio che mette alla prova Giacobbe che lotta con Lui instancabilmente a tal punto da costringerLo a colpirlo all’articolazione femorale non riuscendo nonostante tutto a fermarlo. Mosè non ci ha lasciato nulla di scritto sull’oggetto della contesa, ma dalle parole “Non ti lascerò se non mi avrai benedetto” è chiaro che a quell’uomo premeva di venire benedetto da Dio non accontentandosi delle parole di suo padre Isacco.

Anche l’articolazione con la quale Giacobbe fu colpito è figura della prova che Dio dà agli uomini perché non si inorgogliscano, come fu per l’apostolo Paolo per la “spina nella carne” che inutilmente chiese che gli venisse tolta (2 Corinti 12.7,8). Se quindi Gesù con la parabola oggetto di riflessione avesse voluto alludere a quanto dobbiamo pregare per un problema materiale, certo avrebbe fatto in modo che Paolo fosse guarito; invece scrive “Per questo, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza»”. Anche qui vediamo che l’apostolo, sperando di venire guarito dal Signore, pregò “per tre volte” e non con richieste continue e petulanti.

Tornando a Giacobbe vediamo che continuò a lottare nonostante il dolore causato dalla slogatura del femore, infortunio caratterizzato dalla fuoriuscita della testa del femore dall’acetabolo dell’osso iliaco: nella classifica delle emergenze mediche occupa un posto di rilievo e comporta spesso, come nel caso di Giacobbe, una lesione al nervo sciatico. Leggiamo infatti che, a conclusione dell’episodio in Genesi, ”Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuel e zoppiacava all’anca. Per questo gli israeliti, fino ad oggi, non mangiano il nervo sciatico che è sopra l’articolazione del femore, perché quell’uomo aveva colpito l’articolazione del femore di Giacobbe nel nervo sciatico” (32.32,33).

Giacobbe lotta con quell’uomo per tutta la notte fino a quando giunse l’alba, figura del chiarore della consolazione a fronte della notte, immagine dell’afflizione. Dalle parole “Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora” del Figlio di Dio in forma umana (v.27), che avrebbero tranquillizzato chiunque perché annunciavano la fine del combattimento, Giacobbe non si smosse perché, più del riposo, gli premeva essere benedetto e così avvenne. Abbiamo così in questo episodio la figura del combattimento della fede e della preghiera che trova la sua realizzazione, fra l’altro in 1 Giovanni 5.4,5: “Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?”.

Ora il senso dell’episodio di Genesi 32 è questo: Giacobbe, se avesse dovuto lottare con Dio nella sua forma spirituale, non sarebbe durato un solo infinitesimale frammento di secondo, ma in quella umana dimostrò tutta la sua volontà a tal punto che poco dopo disse “Io ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita mi è stata risparmiata” (v.30), anche qui figura del futuro, espresso, restando nell’Antico Patto, in Salmo 17.15: “Ma io nella giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua immagine” che anticipa 1 Giovanni 3.2, “Sappiamo però che quando egli sarà  manifestato noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è”.

Certo, la nostra parabola parla di “pane” chiesto all’amico per cui non possiamo pensare che il Signore non ci conceda anche quanto necessita per il nostro sostentamento, ma credo sia necessario spostare sempre l’attenzione sul significato spirituale delle cose. I nostri problemi materiali rientrano nel “dacci oggi il nostro pane quotidiano” (meglio tradotto con “necessario”) e col paragone che Gesù fa, nel sermone sul monte, con “i corvi” che “non seminano e non mietono, non hanno dispensa né granaio, eppure Dio li nutre. Quanto più degli uccelli valete voi!” (Luca 12.24). Fra l’altro, aggiungendo una nota strettamente personale ed altrettanto dolorosa, posso dire che fissarsi ed essere insistenti su cose che riteniamo necessarie senza chiederci davanti al Padre se lo siano davvero, potrebbe anche causare un esaudimento che poi ci si ritorce conto procurandoci sofferenze e fastidi per farci capire l’inopportunità della nostra posizione. Ci sono infatti dei lacci che tende l’Avversario, ma anche altri che, più o meno, siamo noi stessi a costruirci addosso perché siamo vittime della nostra stessa superficialità, o carnalità che dir si voglia.

È vero che l’uomo del nostro episodio chiede i pani, ma tale alimento è comunque figura di ciò che sta oltre, perché sappiamo che “l’uomo non vive di solo pane, ma di tutto ciò che procede dalla bocca di Dio” ed anche la parabola del giudice e della vedova, che solo apparentemente allude all’insistenza per avere qualcosa, termina con parole che vanno al di là dell’esempio: “Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente” (Luca 18.6-7).

Io credo che la prima cosa che abbiamo il diritto-dovere di chiedere in preghiera a Dio è il discernimento, cioè avere la possibilità che la nostra mente, attraverso lo Spirito, esca dalla umana ossessività che ci è propria. Dobbiamo tenere sempre presente che questa filtra tutte le nostre esigenze materiali e spirituali attraverso il nostro ego per cui istintivamente sbaglieremmo: di qui la preghiera per poter essere in grado, cercando alla luce della preghiera e dello Spirito, di poter abbracciare per quanto possibile il vero, reale, necessario alimento destinato a sostenerci per quello che possiamo essere, ricordando che “il Padre sa ciò di cui avete bisogno”: cosa possiamo dire di fronte al “sapere” di Dio che ci ha creati, che ci ha conosciuti prima della fondazione del mondo, che conosce il numero dei capelli del nostro capo?

Ecco perché il nostro episodio si chiude con tre promesse fondamentali, “sarà dato”, “troverete” e “vi sarà aperto” che si concretano nel momento in cui si “chiede”, si “cerca” e si “bussa”, azioni che solo il diretto interessato può intraprendere per ottenere ciò che cerca esattamente come la persona della parabola chiede con insistenza all’amico riluttante. E poiché si tratta di cose che Dio ha promesso, non può non mantenerle. Queste tre azioni vengono portate avanti da chi ha bisogno e riconosce che può trovare esaudimento solo presso di Lui: chiedo ciò che non ho, cerco ciò che mi manca, busso per entrare dove altrimenti non potrei stare sapendo, come dal verso decimo, che “chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto”. Amen.

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