13.12 – LA PARABOLA DEL SERVO FIDATO E PRUDENTE (Luca 12.41-48)

13.12 – Il servo fidato e prudente (Luca 12.41-48) 

 

41Allora Pietro disse: «Signore, questa parabola la dici per noi o anche per tutti?». 42Il Signore rispose: «Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente, che il padrone metterà a capo della sua servitù per dare la razione di cibo a tempo debito? 43Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così. 44Davvero io vi dico che lo metterà a capo di tutti i suoi averi. 45Ma se quel servo dicesse in cuor suo: «Il mio padrone tarda a venire» e cominciasse a percuotere i servi e le serve, a mangiare, a bere e a ubriacarsi, 46il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli.
47Il servo che, conoscendo la volontà del padrone, non avrà disposto o agito secondo la sua volontà, riceverà molte percosse; 48quello invece che, non conoscendola, avrà fatto cose meritevoli di percosse, ne riceverà poche. A chiunque fu dato molto, molto sarà chiesto; a chi fu affidato molto, sarà richiesto molto di più.

 

            Sarà necessario tornare in futuro su questa parabola, che verrà riesposta da Gesù in un altro momento divenendo così la penultima di quelle esposte ai Suoi. Guardando alle parabole fin qui esaminate non possiamo notare come vi sia una progressione sempre più alta verso la particolarità del messaggio: quella del “ricco stolto” fu pronunciata davanti a “migliaia di persone al punto che si calpestavano a vicenda”, quella dei servi che vegliano nell’attesa che il loro padrone rientri da una festa di nozze fu detta“ai suoi discepoli”e quest’ultima a Pietro, certo alla presenza degli altri, in vista degli incarichi che avrebbero ricoperto un giorno in seno alla Chiesa. Furono infatti gli apostoli, con la loro predicazione, che consentirono la sua nascita e diffusione nel mondo allora conosciuto e che vegliarono sul gregge loro affidato, come altri dopo la loro morte del corpo fino ad oggi. È altresì opinione dei sostenitori del primato di Pietro che Gesù, con questa parabola, abbia voluto indicargli il ruolo che avrebbe avuto, sottolineando le parole “amministratore”e “a capo della sua servitù”, ma è chiaro che qui il riferimento è a una persona che occupa un ruolo di responsabilità e sia da ritenersi in senso collettivo e non individuale, come vedremo. Se fosse giusta questa teoria, infatti, sarebbero da considerare “valide” solo le Chiese fondate da Pietro, ignorando il lavoro di Paolo, Giovanni e tutti gli altri. Ricordiamo anche Galati 2.9 quando si scrive“Giacomo, Cefa e Giovanni, ritenuti le colonne”: “le”, non “la”, con Pietro al secondo posto.

Proprio quest’apostolo, che si caratterizzava dagli altri per le molte richieste di spiegazioni a fronte delle parole di Gesù, era già intervenuto a seguito delle parole rivolte al giovane ricco che, quando fu invitato a seguirlo dopo avere abbandonato le proprie ricchezze, se ne andò rattristato. In quell’occasione chiese “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito: che cosa dunque ne avremo?”(Matteo 19.27). Ora qui si verifica la stessa cosa: Pietro non ha chiaro il concetto non dell’attesa operosa dei “servi”, ma piuttosto chi fossero, se cioè loro, i dodici, o tutti quelli che lo seguivano.

Ora, a una domanda così diretta, sarebbe stato semplice rispondere semplicemente “no, dico per voi”, o “per tutti”, ma Nostro Signore parla in modo tale che ciascuno dei presenti potesse darsi una risposta e soprattutto scegliere in chi identificarsi: “Chi è dunque l’amministratore fidato e prudente (…)?”, cioè in altri termini “Pensate di essere voi? Se sì, ascoltate cosa può succedere” e a questo punto viene esposta la parabola che abbiamo letto, che riguarda gli apostoli e quelli che sarebbero venuti dopo di loro senza – attenzione perché è molto importante – ereditare in alcun modo il loro ruolo, il loro compito, il loro valore. L’apostolo, infatti, è solo colui che ha vissuto con Nostro Signore e ha ricevuto tale carica-onore direttamente da Lui, come in Atti 1.21,22: “Bisogna dunque che, tra coloro che sono stati con noi per tutto il tempo nel quale il Signore Gesù ha vissuto fra noi, cominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di mezzo a noi assunto in cielo, uno divenga testimone, insieme a noi, della sua risurrezione”. Questo è uno dei motivi per cui Pietro non ottiene una risposta diretta, ma una nuova domanda.

Cerchiamo ora di esaminare il personaggio chiave del racconto di Gesù, chiaramente “l’amministratore fidato e prudente”, tradotto anche con “dispensatore leale e avveduto”: si tratta dell’economo, ruolo che nelle grandi case stava fra il maestro di casa e i servi e veniva incaricato, come Eliezer per Abramo o Giuseppe per Potifarre, della gestione della servitù, godendo della totale fiducia del suo signore. Non era un incarico da poco ed è facile pensare che il padrone, dando quella qualifica, dimostrasse la sua stima e onorasse così chi veniva scelto che, proprio per questo, cercava di adempiere nel migliore dei modi l’incarico. È la stessa cosa, per quanto in modo diverso, che avviene nella parabola dei dieci servi quando, dovendosi assentare il loro signore, li chiama perché facciano fruttare ciascuno la moneta d’oro che gli veniva consegnata (Luca 19).

Aggiornato al tempo della Chiesa, quindi dalla discesa dello Spirito Santo in Gerusalemme fino al ritorno di Cristo, è quanto esposto da Paolo agli anziani di Efeso poco prima che partisse:“Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha costituiti come custodi per essere pastori della Chiesa di Dio, che si è acquistata con il sangue del proprio Figlio” (Atti 20.28). Poi ricordiamo 1 Corinti 4.1,2 “Ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, ciò che si richiede agli amministratori è che ognuno risulti fedele”. Non c’è quindi alcun dubbio che Gesù, con questa parabola, si riferisca a chi ha da Lui ricevuto un mandato di responsabilità in mezzo alla Chiesa a prescindere dal o dai doni: se ciò è avvenuto, la persona è stata messa “a capo”da Dio non in senso autoritario, ma ha avuto il compito di dare “la razione di cibo a tempo debito”, naturalmente spirituale, oltre a “vegliare il gregge”, piccolo o grande non importa, che gli è stato affidato. Volendo, la grandezza del gregge può essere vista nei talenti della parabola ad essi relativa.

Purtroppo, una delle piaghe della Chiesa di Dio, a prescindere dalla sua denominazione, è quella dell’avere persone che scambiano il voler avere degli incarichi di responsabilità con l’essere effettivamente in grado di farlo secondo il volere del Signore e, non essendo da Lui costituiti allo scopo, finiscono per inquinare irrimediabilmente tutto il campo in cui operano sostituendo la gestione oculata dei doni, del messaggio e della stessa vita cristiana, con il compromesso, la politica e la gestione della Chiesa esattamente come lo farebbe una persona a lei estranea.

In pratica, anziché pensare alle persone loro affidate, pensano a loro stessi rientrando perfettamente nel secondo personaggio della parabola, quello che dice “in cuor suo”, esattamente come il ricco stolto che parlava a se stesso, “Il mio padrone tarda a venire”. Costoro usano il loro metro umano per valutare, attenti alle loro esigenze e non a quelle del principio dell’attesa che deve avere il subordinato nei confronti di chi a lui è superiore in oltraggio alla libertà che gli è concessa. E sì che si tratta di un servo che all’inizio sembrava essere fidato ed efficiente.

A proposito dell’indifferenza che può sorgere nel cuore di un credente un fratello amava dire che, se l’uomo sentisse male ogni volta che pecca, prima di agire male ci penserebbe. È ciò che scrive Salomone nel Qoèlet,“Poiché non si pronuncia una sentenza immediata contro una cattiva azione, per questo il cuore degli uomini è pieno di voglia di fare il male; infatti il peccatore, anche se commette il male cento volte, ha lunga vita”(8.11,12). Tuttavia il testo prosegue “Tuttavia so che saranno felici coloro che temono Iddio, appunto perché provano timore davanti a lui”.

La caratteristica di chi non è sottomesso alla Parola di Dio, è infatti quella di sottovalutarla, attenendosi al presente, al tangibile, a tutto ciò che passa lasciando un pallido ricordo: “Figlio dell’uomo, che cos’è questo proverbio che si va ripetendo nella terra d’Israele: «Passano i giorni e ogni visione svanisce»? Ebbene, riferisci loro: Così dice il Signore Dio; Farò cessare questo proverbio e non lo si sentirà più ripetere in Israele. Anzi riferisci loro: Si avvicinano i giorni in cui si avvererà ogni visione. Infatti non ci sarà più visione falsa né vaticinio fallace in mezzo alla casa d’Israele, perché io, il Signore, parlerò e attuerò la parola che ho detto; non sarà ritardata. Anzi, ai vostri giorni, o genìa di ribelli, pronuncerò una parola e l’attuerò». Oracolo del Signore Dio.”(Ezechiele 12.22-27).

È anche bello considerare che proprio Pietro, che ascoltò le parole di Gesù a seguito della sua domanda, scrisse nella sua seconda lettera: “Questo anzitutto dovete sapere: negli ultimi giorni si farà avanti gente che si inganna e inganna gli altri e che si lascia dominare dalle proprie passioni. Diranno: «Dovè la sua venuta, che egli ha promesso? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi, tutto rimane com’è al principio della creazione».”(3.3,4).

 

Se guardiamo al presente dei giorni, li vediamo passare quasi sempre uguali e apparentemente senza traccia di Dio anche se basta osservare anche superficialmente quanto è complesso e organizzato un organismo per rendersi conto di quanto sia impossibile che si sia strutturato per caso. Non si pensa che il Creatore ha lasciato agli uomini una traccia, dei segni per poterlo conoscere promettendo che, se cercato, si lascia trovare. E se quanto ha detto si è puntualmente avverato nella storia, è impossibile che non si concreti circa quegli avvenimenti che ha preannunciato, come nel caso che ci riguarda il Suo ritorno. E chi non ha acquisito fino in fondo il principio dell’eternità come appartenenza, non potrà che accedere alla constatazione della temporalità, “il mio padrone tarda a venire”, e guardare sempre più ad essa. Attento a curare le malattie del proprio corpo, non si cura di quelle dell’anima e dei pericoli che questa corre.

Il comportamento del servo che non adempie il suo compito nell’attesa del ritorno del suo signore è descritto con parole che alludono al suo egoismo, ma soprattutto al danno che procura a quelli come lui, che però non hanno avuto come un incarico di responsabilità: prima li percuote, cioè li fa soffrire e li umilia, poi mangia, beve e si ubriaca, cioè fa un utilizzo totalmente arbitrario di beni non suoi, e qui è per me facile individuare tutti coloro che torcono la Scrittura a loro vantaggio per avere guadagni o posizioni sociali che altrimenti non avrebbero, facendo leva sull’impreparazione degli altri. E così lo Spirito si spegne: “Non spegnete lo spirito, non disprezzate le profezie. Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male”, che altri traducono “parvenza di male”(2 Tessalonicesi 5.19-22).

Custodire la parola del Signore è dunque ciò a cui sono chiamati tutti i servi, a cominciare da quello che ha ricevuto l’incarico di provvedere agli altri quanto al nutrimento: “Ricorda dunque come hai ricevuto e ascoltato la Parola, custodiscila e convèrtiti perché, se non sarai vigilante, verrò come un ladro, senza che tu sappia a che ora verrò da te”(Apocalisse 3.3).

 

Il nostro testo descrive la punizione del servo. “Lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli infedeli”. Qui ci troviamo di fronte a una pericope assolutamente delicata perché altre traduzioni riportano “lo reciderà”, oppure “lo separerà”, espressione che sembra descrivere un’esclusione dal regno di Dio anche se manca quel “pianto e stridore di denti”di cui parla sempre Gesù quando allude alle conseguenze dell’esclusione. C’è anche un’allusione, come vedremo quanto torneremo nel parallelo di Matteo che esamineremo in futuro, alla morte mediante segamento del corpo.

Possiamo fornire qui, per ora, l’interpretazione più corretta, quella espressa al verso 47, quando le “molte percosse”è espressione che viene connessa alle punizioni corporali per reati che non contemplavano la morte, come in Deuteronomio 25.2,3: “Se il colpevole avrà meritato di essere fustigato, il giudice lo farà stendere per terra e fustigare in sua presenza, con un numero di colpi proporzionato alla gravità della sua pena. Gli farà dare non più di quaranta colpi perché, aggiungendo altre battiture a queste, la punizione non risulti troppo grave e il tuo fratello resti infamato ai tuoi occhi”. La “parte con gli infedeli”di cui Gesù parla credo si riferisca a quella dei servi che non hanno ottemperato alla volontà del padrone, che non beneficiano della sua benevolenza e considerazione, ma non vengono esclusi completamente dalla casa. Chi prendeva le battiture certo non moriva, ma soffriva molto e restavano certamente dei segni su di lui, quando non addirittura rimaneva storpio.

Ci sarà sofferenza, quindi, ma non la morte, esattamente come scrive l’apostolo Paolo a proposito del rendiconto: “Se l’opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l’opera finirà bruciata, sarà punito. Tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco”(1 Corinti 3.14,15). La punizione di Dio, quindi, equivarrà ad una vita ai margini del Regno perché “ciascuno riceverà la sua retribuzione a seconda di come avrà operato”perché “Noi tutti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, affinché ciascuno riceva la retribuzione di ciò che avrà fatto quando era nel corpo, sia in bene, che in male”(2 Corinti 5.10). Credo che di più non possiamo sapere perché la prospettiva cui ogni cristiano deve aspirare è quella del premio e non certo la punizione. E credo anche che comportarsi come se non ci fosse una “retribuzione sia in bene, che in male”equivalga a dire “il mio padrone tarda a venire”e quindi far del male a se stessi.

Per quanto il messaggio della parabola sia rivolto a chi ha compiti di responsabilità nella Chiesa, è l’ultimo verso a costituire un vero monito per tutti: “A chiunque fu dato molto– e cosa può esservi più grande della Grazia? – molto sarà richiesto; a chi fu affidato molto– ecco gli anziani e coloro che amministrano la Parola – sarà richiesto molto di più”. Da notare che quell’ “affidato molto”nell’originale è “dato in deposito”, che si collega ai talenti e alle dieci monete (mine) d’oro. Preghiera e veglia, attenzione a noi stessi perché, come scritto in 2 Timoteo 1.14, “Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato”. Amen.

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13.11 – LA PARABOLA DEI SERVITORI CHE VEGLIANO (LUCA 12.35-40)

13.11 – La parabola dei servi che vegliano (Luca 12.35-40)           

 

35Siate pronti, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese; 36siate simili a quelli che aspettano il loro padrone quando torna dalle nozze, in modo che, quando arriva e bussa, gli aprano subito. 37Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli. 38E se, giungendo nel mezzo della notte o prima dell’alba, li troverà così, beati loro!39Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora viene il ladro, non si lascerebbe scassinare la casa. 40Anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».

 

            C’è una notevole differenza fra la parabola del ricco stolto, pronunciata davanti alla folla, e quella dei servi che vegliano, rivolta da Nostro Signore ai suoi discepoli, quindi a una cerchia di persone più ristretta. Il messaggio qui contenuto possiamo dire allora che è “riservato”, rivolto a quanti hanno già fatto una scelta importante, quella di seguirLo e hanno bisogno di imparare da Lui perché, senza le Sue indicazioni, sarebbero ancora in balìa di loro stessi. Ecco allora che quanto esposto da Gesù, che verrà ricordato loro dallo Spirito Santo una volta risorto e salito al cielo, riguarda il modo che ha il cristiano di condurre la propria vita, “pronto, con le vesti strette ai fianchi e le lampade accese”.

Esaminiamo ora quanto avviene nella parabola da un punto di vista storico per poi fare alcuni accostamenti spirituali partendo dalla festa cui il padrone è invitato.

 

La festa di nozze: non esisteva un rito religioso per celebrare il matrimonio perché era considerato un fatto privato certamente fra l’uomo e la donna, ma soprattutto fra le famiglie cui gli sposi appartenevano; queste stabilivano tra loro una vera e propria alleanza organizzata dai rispettivi padri. Si celebrava solitamente dopo un anno di fidanzamento e la festa che lo coinvolgeva era grande a tal punto da durare anche una settimana. Il matrimonio era una questione anche di prestigio sociale talché non mancavano ospiti di riguardo essendo gli invitati scelti con molta attenzione, e qui si possono fare molte applicazioni sull’episodio delle “nozze di Cana” e a tutte le parabole in cui si citano le nozze. Un ruolo importante lo avevano gli amici dello sposo, che si occupavano del buon andamento della festa, di presentare gli invitati coi regali che portavano e di tutto quanto fosse funzionale al banchetto (ricordiamo il vino). Nulla era lasciato al caso.

Ora abbiamo un elemento importante e cioè che il padrone, nella nostra parabola, parte per una festa nuziale la cui durata era assolutamente sconosciuta ai servi: sarebbe potuto tornare tanto a notte inoltrata, quanto dopo più giorni e di qui la necessità di predisporsi ad accoglierlo senza trascurare i compiti loro affidati. Non sappiamo quante fossero le persone addette a quella casa, ma è certo che l’assenza del padrone avesse portato squilibrio nella gestione ordinaria del loro tempo perché restava il problema della notte, dove in condizioni normali tutti andavano a dormire per ritemprarsi dalle fatiche del giorno. Era impensabile che un servo, in quanto tale privo di diritti per quanto non come nel mondo occidentale o presso altri popoli, facesse attendere il proprio signore alla porta.

 

Nella nostra parabola Gesù quindi parla di servitori coscienziosi, quelli che “troverà ancora svegli”, che però in quanto esseri umani possono essere soggetti a stanchezza: come fare? Si tratta di combattere contro un nemico subdolo, cioè il sonno che inevitabilmente cerca di impossessarsi di chiunque affronta una veglia. I testi storici non ci hanno tramandato nei dettagli la vita di chi era preso a servizio, cosa che avveniva a causa della povertà o per ripianare debiti eventualmente contratti. In ogni caso era prevista la possibilità del riscatto e il servo veniva liberato dopo sette anni, al termine dei quali poteva decidere anche se restare presso il padrone per motivi affettivi; così leggiamo in Esodo 21.5,6: “Ma se lo schiavo dice: «Io sono affezionato al mio padrone, a mia moglie, ai miei figli, non voglio andarmene libero», allora il suo padrone lo condurrà davanti a Dio, lo farà accostare al battente o allo stipite della porta e gli forerà l’orecchio con la lesina e quello resterà suo schiavo per sempre”.

Rimane comunque il fatto, tornando alla parabola, che quei servi non sapevano quando il loro padrone sarebbe rientrato e alcuni di loro, volontariamente, per non dispiacergli e onorarlo, decidono di attenderlo. Credo che Gesù non abbia voluto qui porre la questione su come si organizzò il gruppo di persone per far fronte al problema del sonno, cioè se questi decisero di fare dei turni di attesa, se c’era chi dormisse di giorno per stare sveglio di notte o altro, ma piuttosto porre l’accento sulla veglia, che in pratica è il procedere contrario alle elementari esigenze del corpo che ha bisogno di sonno, dalle cinque alle dieci ore a seconda delle condizioni di salute e all’età delle persone. Ciò che rileva è: il padrone deve tornare e va aspettato perché, “quando arriva e bussa, gli aprano subito”.

Si tratta si un’attesa analoga a quella della parabola delle dieci vergini, che, “Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono”(Matteo 25.5), anche se lì l’accento è posto sul fatto che cinque di loro avevano l’olio per le lampade e le altre no.

 

La vita cristiana, quindi, è spiegata ai discepoli di Gesù con questa situazione, in vista del ritorno del Signore che disse “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”(Luca 18.8); di qui la necessità espressa all’inizio del nostro testo, “Siate pronti, con le vesti strette attorno ai fianchi e le lampade accese”. Esser “pronti”significa porsi nelle condizioni di reagire immediatamente a uno stimolo, a un richiamo, e a farlo nel migliore dei modi mettendo in conto tutto quanto possa succedere, essere in grado di fronteggiare qualunque situazione possa verificarsi nell’ambito per cui si è preparati; lo sanno bene coloro che appartengono a reparti particolari, come possono essere i Vigili del Fuoco o di pronto intervento di polizia o sanitario. Il più delle volte chi è “pronto” ha prima studiato, vagliato possibilità, si è preparato attraverso un addestramento specifico.

La prontezza di cui parla Nostro Signore è caratterizzata dall’avere “le vesti strette attorno ai fianchi”, cioè predisporsi al lavoro: a quel tempo, infatti, gli israeliti portavano lunghe tuniche che, quando svolgevano attività impegnative, venivano sollevate in modo che non intralciassero i movimenti e strette con una cintura attorno ai fianchi che, nel Nuovo Testamento, è sinonimo di verità (Ef. 6.14). L’apostolo Pietro poi scrive “perciò, cingendo i fianchi della vostra mente e restando sobri, ponete tuttala vostra speranza in quella grazia che vi sarà data quando Cristo si manifesterà”(1°.1.13). La verità del Vangelo, quindi, è quella che consente di operare in modo libero ed efficace per l’avanzamento proprio e di altri nel cammino della vita quotidiana.

È quindi la cintura del tipo appena visto in questi due passi che consente un’operatività esente da biasimo, tanto del prossimo che della Chiesa e quindi di Dio; se il termine “verità”può sembrare eccessivo, va precisato che essa è qualcosa che si costruisce e si scopre giorno per giorno se si è disposti a crescere davanti a Lui e a nessun altro. Alcuni commettono un grosso errore credendo di vivere ancora ai tempi della Chiesa di Gerusalemme, quando lo Spirito Santo si manifestava nei modi che tutti conosciamo: oggi il nostro edificio spirituale viene costruito poco a poco, sull’unica roccia ammissibile che è Gesù Cristo, che disse ai Suoi “Quando però verrà lo Spirito di Verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future”(Giovanni 16.13). Notare il termine, “vi guiderà”, che significa “precedere o condurre lungo un percorso” e non rendere di colpo una persona depositaria di chissà quali verità: la prima che l’uomo deve cercare è la propria salvezza in Cristo che “mi ha amato e ha dato se stesso per me”(Galati 2.20).

 

Terzo elemento illustrato da Gesù in questa parabola sono “le lampade accese”. La mancanza di uno solo di questi rende inutile ogni compito perché, se l’essere “pronti”si connette allo stato d’animo che anima la persona, le vesti cinte attorno ai fianchi sono figura del suo operare. Senza la lampada accesa ogni attività è impossibile non essendo nessuno in grado di lavorare al buio. La “lampada”, a parte questo, ha connessione con Matteo 5.16 quando fu detto “Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli”. Ecco perché il comportamento del credente dev’essere illuminato dalla Parola di Dio e non da altri elementi.

La lampada, per illuminare tutta la notte, doveva essere piena d’olio, figura dello Spirito Santo e della dignità profonda che conferisce all’uomo, e qui abbiamo un ulteriore richiamo alla parabola delle dieci vergini che abbiamo ricordato. Ancora, a conferma che lo Spirito riveste completamente l’uomo, ricordiamo che “la lampada del corpo è l’occhio. Perciò, se il tuo occhio è puro, tutto il tuo corpo sarà illuminato, ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo sarà nelle tenebre. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!”(Matteo 6.22,23). Ecco allora che, con questi versi, andiamo ben oltre alla semplice divisione fra luce e buio, ma veniamo avvertiti che possiamo scambiare l’una con l’altro perché “la luce che è in te è tenebra”, lungi dall’essere un ossimoro, ci parla di presunzione, arroganza, obiettivi carnali quali unici motori di una vita.

 

I servi della nostra parabola non portano panni e coperte nei pressi del portone di casa, ma restano svegli, attenti al minimo rumore, alla ricerca di quei segnali che possano avvisarli dell’imminente rientro del loro signore che, una volta giunto, compie qualcosa di assolutamente inaspettato: “Beati quei seri che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi – questa volta lui! –, li farà mettere a tavola e passerà a servirli”. Lui, il signore rispettato e temuto, che fino a poco prima di partire dava ordini e si aspettava che questi fossero rispettati, muta completamente atteggiamento e onora i suoi servi di attenzioni che certamente non si aspettavano: “passerà a servirli”, avvicinandosi ad ognuno di loro.

Di questa azione troviamo traccia in due passi, il primo quando Gesù laverà i piedi ai discepoli (Giovanni 13.3,4) ma ancor più, del tutto consono al nostro episodio, Apocalisse 7.17 “Non avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna, perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e il guiderà alle fonti delle acque della vita. E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi”.

Gesù, quindi, con questa parabola dà ai suoi discepoli, a prescindere dal tempo in cui sarebbero vissuti, degli elementi per guidarli nell’attesa tanto del Suo ritorno quanto della Sua chiamata attraverso la morte del corpo che anche lei sopraggiunge quando uno meno se lo aspetta. In ogni caso, però, “Quelle cose che occhio non vide né orecchio udì, né mai entrarono in un cuore d’uomo, Dio le ha preparate per coloro che lo amano”(1 Corinti 2.9). Amen.

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13.10 – LA PARABOLA DEL RICCO STOLTO (LUCA 12.13-21)

13.10 – La parabola del ricco stolto (Luca 12.13-21)         

 

13Uno della folla gli disse: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». 14Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». 15E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». 16Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. 17Egli ragionava tra sé: «Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? 18Farò così – disse -: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. 19Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!». 20Ma Dio gli disse: «Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?». 21Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».

 

            Prima di affrontare questa parabola va dato un breve cenno introduttivo, trattandosi di un racconto inserito solo da Luca. I versi da 1 a 10, che riportano il discorso di Gesù sul “lievito dei farisei”, sul temere non “coloro che possono uccidere il corpo, ma colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella Geenna”, la “bestemmia contro lo Spirito Santo”e la Sua assistenza a chi crede, sono già stati affrontati, ma senza sottolineare che furono pronunciati di fronte a una folla di “migliaia ai persone, al punto che si calpestavano a vicenda”(Luca 12.1).

Ebbene, fra tutta questa gente, ammettendo che il fatto sia avvenuto proprio in quel contesto, stava un uomo che non prestava la minima attenzione a quanto veniva detto, ma era angustiato perché aveva un fratello che non ne voleva sapere di dividere con lui un’eredità. Evidentemente, arrovellandosi su come risolvere il problema e considerata l’influenza che Gesù aveva sul popolo, pensò che nessuno meglio di Lui avrebbe potuto convincere quel congiunto ostinato, attaccato a quanto stava per ricevere al punto da rifiutarsi di dividere ciò che legalmente apparteneva ad entrambi. Questa è la lettura più immediata della situazione che stava a monte della richiesta “Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità”: potrebbe essere stato che il “fratello”in questione fosse un discepolo, che costui fosse un primogenito cui spettava una parte doppia del lascito oppure semplicemente un avido, ma non rileva perché l’importante è che per la prima e unica volta nei Vangeli abbiamo una richiesta a Gesù di intervenire in una questione tipicamente terrena che, nella fattispecie, veniva spesso risolta da un consiglio di famiglia o dal “mediatore”, più propriamente “addetto alla divisione”che solitamente apparteneva alla cerchia di amici comuni più stretti e al quale veniva conferito l’incarico.

Da qui in poi Gesù si rivolge ai presenti – “disse loro”– e all’ignoto che si era rivolto a Lui esponendo una parabola che ha per tema l’avidità e lo sguardo orizzontale, l’ascolto esclusivo di se stessi e, per meglio dire andando alle parole del discorso della montagna, il “servire a Mammona”dove la “servitù” si concreta con l’appartenenza e la dipendenza. Non era infatti contemplata la figura del dipendente prezzolato, che presta il servizio pattuito e se ne va, ma quella del servo che apparteneva al padrone cui spettava il compito di nutrirlo e dargli una dimora. Appartenere e dipendere, quindi; e il rapporto che il servo intratteneva col suo padrone influenzava la sua stessa vita.

 

Abbiamo dunque letto “E disse loro”, non direttamente a chi gli aveva chiesto un intervento su questioni finanziarie, ma a tutti. Il testo, fra l’altro, non specifica se questa persona avesse torto o ragione in quel dividere.

Fate attenzione e guardatevi da ogni cupidigia”, così tradotto da “pleonexìa” che sta ad indicare il desiderio di avere di più di quanto abbiamo diritto “perché – come abbiamo letto –anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede”(v.15): ricordiamo come premessa Proverbi 15.16, “È meglio aver poco con il timore di Dio che un grande tesoro con inquietudine”e 16.16 “Possedere la sapienza è molto meglio dell’oro, acquisire l’intelligenza è preferibile all’argento”che estendono il significato delle parole di Gesù in modo tale che “ciò che egli possiede”sono i beni in senso stretto, materiale: se infatti la “vita” vera dipendesse da ciò che una persona ha, il regno di Dio apparterrebbe ai “ricchi” e non ai “poveri” secondo la classificazione spirituale che conosciamo.

 

Venendo alla parabola, mi sono chiesto quale sia il soggetto, cioè se l’uomo ricco o la brama di possedere ed effettivamente la questione si pone poiché abbiamo un agente, appunto il ricco, totalmente succube della propria condizione di sottomesso al proprio spirito avido. Scrivendo agli Efesi l’apostolo Paolo dirà “Sappiatelo bene: nessun fornicatore, o impuro, o avaro, cioè nessun idolatra, ha in eredità il regno di Cristo e di Dio”(5.5). Poi, in Colossesi 3.5, ben sapendo che il credente è un essere umano e in quanto tale soggetto ad impulsi negativi che si porta appresso, scrive “Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è l’idolatria: a motivo di queste cose l’ira di Dio viene su coloro che gli disobbediscono”.“Non abbiamo portato nulla nel mondo e nulla possiamo portare via”(1 Timoteo 6.7) quanto mai letteralmente consono al nostro episodio, ed Ebrei 13.5,6: “La vostra condotta sia senza avarizia: accontentatevi di quello che avete, perché Dio stesso ha detto: «Non ti lascerò e non ti abbandonerò». Così possiamo dire con fiducia: Il Signore è il mio aiuto, non avrò paura. Che cosa può farmi l’uomo?”.

Tenendo a mente questi passi, possiamo esaminare il fatto narrato da Nostro Signore: un uomo già ricco si ritrova di fronte ad “un raccolto abbondante”e questo dà luogo a tutta una serie di ragionamenti che escludono nella maniera più assoluta tanto Dio quanto il suo prossimo. Abbiamo letto “ragionava fra sé”e questa credo sia la chiave di lettura. Mi viene in mente Maria, madre di Gesù, che “da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”, intenta quindi in un percorso di ricerca spirituale, onorata della visita dell’angelo Gabriele.

Nella parabola del ricco stolto, invece, ogni discorso è proiettato ad un futuro che gli apparteneva solo teoricamente, non sapendo quando sarebbe intervenuta la morte a scrivere la parola “fine” al suo percorso esistenziale. È da notare la posizione di quest’uomo: la sua campagna aveva “dato un raccolto abbondante”quindi le sue ricchezze non erano frutto di oppressione, estorsione o frode. Presumiamo fosse una persona onesta, diligente nel coltivare i propri campi e, per la dispensazione in cui viveva, sapeva che tutto questo poteva costituire una benedizione di Dio. Per noi, credo fosse un modo per metterlo alla prova perché, anziché ringraziare Colui che gli aveva consentito quei raccolti e provvedere agli altri come faceva Giobbe che in quello traeva la sua soddisfazione, fu vittima della propria sollecitudine. Possiamo dire che, tanto più crescevano i suoi raccolti, tanto più aumentava il suo desiderio di possesso.

Il nostro testo giustamente traduce “cupidigia”al posto di “avarizia”perché, mentre l’avaro non spende mai – c’è chi ha detto che l’avaro è il miglior custode dei beni degli eredi –, chi è affetto da cupidigia prova un desiderio intenso, una smodata avidità e bramosia, non provando altro che il piacere del possesso. Infatti, nel suo progetto, a un certo punto si apre uno spazio riservato al godimento di ciò che possiede chiamando in causa la propria anima, cioè tutta la sua persona: “Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divertiti”(v.19).

Sono importanti anche gli altri verbi: “Che farò?”, “Farò così”, “demolirò”, “costruirò”, “raccoglierò”, “dirò– ancora una volta –a me stesso”. Non meno importante è il possessivo “mio”, che il testo riporta per cinque volte, a sostegno di un egoismo che abbraccia tutti gli aspetti della sua persona. Quel ricco era diventato la perfetta dimora di se stesso nel senso che si era totalmente chiuso agli altri che, se li avesse aiutati, lo avrebbero certamente benedetto, come il già citato Giobbe che, in 29.12,13 disse “…soccorrevo il povero che chiedeva aiuto e l’orfano che ne era privo. La benedizione del disperato scendeva su di me e al cuore della vedova infondevo la gioia. Ero rivestito di giustizia come di un abito, come mantello e turbante era la mia equità”.

Mi sono chiesto se la “morale” di quest’uomo contemplasse la morte. Credo di sì, ma la considerava come un evento remoto o, meglio, sul quale sorvolare esattamente come un’altra “morale”, quella del “mangiamo e beviamo, perché domani moriremo”(1 Corinti 15.32) o del “Venite, io prenderò del vino e ci ubriacheremo di bevande inebrianti. Domani sarà come oggi, e molto più ancora”(Isaia 56.12). Occupàti nel cercare soddisfazione nelle cose di questa vita ignorandone il suo senso profondo, passano i giorni, i mesi, gli anni fino a quando non si è costretti ad ammettere che l’evento tanto esorcizzato, inutilmente quanto temuto (ed altrettanto ignorato), è giunto.

Va infine sottolineato non tanto che la morte e il giudizio saranno la fine di tutto, quanto il contrasto fra le parole del ricco e quelle che Dio gli rivolge: “Stolto”in opposizione al giudizio che quell’uomo aveva di se stesso, fiero del risultato raggiunto. “Questa notte”in contrasto ai “molti anni”che si prometteva e infine quella “vita”– meglio da tradurre con “anima”–  che riteneva sua proprietà, che invece gli sarebbe stata “richiesta”perché ogni vita ed ogni anima è sempre data in prestito.

In tutto questo c’è però un elemento che pochi notano e cioè il tempo verbale, “ti sarà richiesta”che, tradotto letteralmente, è “richiedono”: questo rende l’idea di quanto fosse imminente la morte del ricco (e la relativa sentenza), ma pone degli importanti interrogativi su chi fossero quelli che richiedevano quella “vita”, o “anima”. Credo che qui i parallelismi possano essere due, il primo dei quali è ancora una volta nel libro di Giobbe, quando Satana chiese che fosse tentato e gli fu posto come limite di non prendere la sua vita, cosa che nel caso del ricco non avvenne. Facciamo attenzione perché, nel caso del ricco di questa parabola, l’Avversario chiese a Dio ciò che era suo e gli fu concesso di prenderlo. Una seconda soluzione, che poi è parte integrante della prima, riguarda il giudizio finale, chiesto a gran voce come da Apocalisse 6.10, per quanto in un contesto diverso.

Non si può che ammettere come quel “richiedono”, col suo plurale, sia molto più drammatico perché sottintende il fatto che il “rendiconto” avvenga, come in effetti sarà, non solo davanti alla presenza di Dio: “Non sapete che i santi giudicheranno il mondo?”(1 Corinti 6.2).

Gesù termina la parabola con una domanda, “Quello che hai preparato, di chi sarà?”, in cui vediamo che ciò che resiste è il piano di Dio e non quello dell’uomo, perché “Sì, come un’ombra l’uomo che passa. Sì, come un soffio che si affanna, accumula e non sa chi raccolga”(Salmo 39.7). Ricordiamo anche le parole di Salomone “Ho preso in odio ogni lavoro che con fatica ho compiuto sotto il sole, perché dovrò lasciarlo al mio successore. E chi sa se questi sarà saggio o stolto? Eppure potrà disporre di tutto il mio lavoro, in cui ho speso fatiche e intelligenza sotto il sole. Anche questo è vanità”(Ecclesiaste 2.18,19).

A conferma poi che ai presenti non è stata raccontata una favola, abbiamo infine il monito “Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio”(v.21): ci sono allora due destini, o meglio solo due destinazioni possibili per gli uomini, guardare a se stessi, o arricchirsi “presso Dio”per vivere tutte le conseguenze delle direzioni prese.

E possiamo concludere queste riflessioni con 2 Corinti 4. 16,17: “Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria: noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne”. E più avanti Gesù dirà “Dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore”.Amen.

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13.09 – CONTRO I DOTTORI DELLA LEGGE (Luca 11.45-54)

13.09 – Contro i dottori della Legge (Luca 11.45-54)       

 

45Intervenne uno dei dottori della Legge e gli disse: «Maestro, dicendo questo, tu offendi anche noi». 46Egli rispose: «Guai anche a voi, dottori della Legge, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito! 47Guai a voi, che costruite i sepolcri dei profeti, e i vostri padri li hanno uccisi. 48Così voi testimoniate e approvate le opere dei vostri padri: essi li uccisero e voi costruite. 49Per questo la sapienza di Dio ha detto: «Manderò loro profeti e apostoli ed essi li uccideranno e perseguiteranno», 50perché a questa generazione sia chiesto conto del sangue di tutti i profeti, versato fin dall’inizio del mondo: 51dal sangue di Abele fino al sangue di Zaccaria, che fu ucciso tra l’altare e il santuario. Sì, io vi dico, ne sarà chiesto conto a questa generazione. 52Guai a voi, dottori della Legge, che avete portato via la chiave della conoscenza; voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare voi l’avete impedito».
53Quando fu uscito di là, gli scribi e i farisei cominciarono a trattarlo in modo ostile e a farlo parlare su molti argomenti, 54tendendogli insidie, per sorprenderlo in qualche parola uscita dalla sua stessa bocca.

 

            L’invettiva contro i dottori della Legge fu provocata da uno di loro, che avvertì coinvolta la propria categoria quando Gesù parlò di quanti amavano “i primi posti nella sinagoga e i saluti nelle piazze”. Ora, riconoscendosi nella citazione, quella persona non tollerava di venire paragonata a un sepolcro che non si vedeva e, passandovi sopra la gente, veniva resa impura. Questo è molto significativo perché era chiaro che Nostro Signore, in quel momento come in altri, non attaccava indistintamente tutta la categoria dei Dottori, ma solo quelli che, per comportamento e disposizione d’animo, mettevano in atto quanto da Lui denunciato. È come quando oggi qualcuno, tramite i media, attacca una determinata categoria di persone: chi si offende, non è mai chi svolge la professione correttamente, ma chi si sente punto nel vivo perché ha “la coscienza sporca”.

A questo punto era inevitabile che Gesù continuasse l’elenco delle colpe che coinvolgevano comunque anche gli scribi e farisei, avendo quelle categorie di persone più o meno un denominatore comune. Cito qui le parole usate da Matteo: “Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito”.

La “cattedra– o più correttamente “sedia”di Mosè”allude al posto su cui queste persone sedevano nella sinagoga, quella dei maestri, ma anche quella da loro occupata nel Sinedrio o nei tribunali inferiori per applicare la legge. Fossero stati integri, non vi sarebbe stato nulla di male, ma ritenendosi eredi di Mosè a prescindere dalle loro azioni – abbiamo letto la loro replica a Gesù “Noi siamo discepoli di Mosè”– senza possedere alcuna delle sue qualità e soprattutto il mandato, non erano altro che impostori del sacro. Ricordiamo a proposito della “sedia”, come si comportò Esdra che “aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava più in alto di tutti”(Nehemia 8.5). È detto poi che “i leviti spiegavano la legge al popolo e il popolo stava in piedi. Essi leggevano il libro della legge di Dio a brani distinti e spiegavano il senso, e così facevano comprendere la lettura”(vv.7,8). Teniamo presente questo far “comprendere”perché verrà utile più avanti. Da quel lodevole, splendido inizio, si era col tempo arrivati al punto descritto da Gesù.

Quando affronteremo il capitolo 23 di Matteo, dove più che in questo passo è analizzato il comportamento degli scribi, farisei e dottori della legge, potremo avere una visone più ampia delle nefandezze di costoro che, nel caso del passo in esame, comprendeva anche il totale disprezzo del debole. Così infatti scrive Isaia: “Guai a coloro che fanno decreti iniqui e scrivono in fretta sentenze oppressive, per negare la giustizia ai miseri e per frodare del diritto i poveri del mio popolo, per fare delle vedove la loro preda e per spogliare gli orfani. Ma che farete nel giorno del castigo, quando da lontano sopraggiungerà la rovina? A chi ricorrerete per protezione? Dove lascerete la vostra ricchezza? Non vi resterà che piegarvi tra i prigionieri o cadere tra i morti. Con tutto ciò non si calma la sua ira e ancora la sua mano rimane stesa”(10.1-4).

Qui vediamo anche come, progressivamente, ci avviciniamo al castigo profetizzato nel passo di Luca che stiamo esaminando cioè la generazione che sarà chiamata a rendere conto del sangue versato di tutti i profeti in quanto omicida dello stesso Gesù. La “rovina”abbiamo letto che sopraggiunge “da lontano”, se ne possono cioè vedere i segnali, ma vengono ignorati.

 

I Dottori della Legge, al tempo di Nostro Signore, sono paragonati poi a quelli che, avendo delle bestie da soma, li caricano di pesi talmente gravosi da sfinire chiunque, riconoscibili nell’infinità di precetti che imponevano al popolo richiedendone la rigida osservanza. Anche l’apostolo Pietro definì quelle usanze “un giogo che né i nostri padri né noi siamo stati in grado di portare”(Atti 15.10) e che si trattasse di pesi importabili erano loro a saperlo per primi, non volendo “muoverli neppure con un dito”, cioè standosene accuratamente alla larga fingendo però di adempierli. Ancora una volta abbiamo la differenza fra la religione e la fede nuova in Cristo, come scrive Paolo in Galati: “Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù– quello della Legge cerimoniale –. Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà nulla. Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella Legge: siete decaduti dalla grazia”(5.1-4).

Queste parole sono state scritte dall’apostolo per avvisare del danno provocato da quei Giudei convertiti che volevano tenere un piede nella Grazia e l’altro nella Legge, apparentemente non capendo che era la prima a far vivere e non la seconda, ma ponendo intoppi assoluti nel progresso degli altri nella fede.

Abbiamo così un’altra faccia dell’ipocrisia, quella più insidiosa che tanto male fa anche oggi nelle Chiese, dove basta assumere l’atteggiamento del rigore nei confronti degli altri per dare l’impressione che si faccia altrettanto con se stessi, ma non è così, come insegna l’episodio della donna adultera. E il modo stringato ed essenziale con cui Nostro Signore parla, lascia pensare che bastarono quelle parole per spiegarsi quanto bastava. E una volta tanto fu capito perfettamente, visto che l’ultimo verso del nostro passo ci parla dell’ostilità e dei tranelli dottrinali che tutti quei religiosi volevano porgli.

 

Altro capo d’imputazione nei confronti dei Dottori era il finto onore che attribuivano ai profeti, illudendosi di essere loro discendenti: consapevoli infatti che i loro avi avevano ucciso effettivamente molti inviati di Dio, ne condannavano le azioni riedificando e abbellendo i loro sepolcri per un tornaconto personale di rispettabilità quando il loro cuore, in proposito, non era affatto cambiato: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quanti sono mandati a te…”.  Ancora, di questi parlò Gesù nella parabola delle nozze, quando, di fronte agli inviati del re, disse “Ma essi, non curandosene, se ne andarono chi ai loro possedimenti, chi ai loro traffici; e gli altri, presi i suoi servitori, li oltraggiarono e li uccisero. E quel re, udito ciò, si adirò e mandò i suoi eserciti e distrusse quegli omicidi, ed arse le loro città”(Matteo 22.5-7).

Ricordiamo ciò che avvenne negli attimi che precedettero la lapidazione di Stefano in Atti 7.51-54: “«O gente testarda e pagana nel cuore e nelle orecchie, voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo; come i vostri padri, così anche voi. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Cristo, del quale voi ora siete divenuti traditori e uccisori; voi che avete ricevuto la Legge per mano degli angeli, e non l’avete osservata». All’udire queste cose, fremevano nel cuor loro e digrignavano i denti contro di lui”.

Trattando la fede dei profeti uccisi, in Ebrei 11.35-38 leggiamo “Altri poi furono torturati, non accettando la liberazione loro offerta, per ottenere una migliore resurrezione. Altri infine subirono scherni e flagelli, catene e prigionia. Furono lapidati, torturati, segati, furono uccisi di spada, andarono in giro coperti di pelli di pecora e capra, bisognosi, tribolati, maltrattati. Di loro il mondo non era degno”.

Questo, in sintesi, ciò che è l’eredità dei Giudei e ciò che sarebbe stata la loro sorte, vista sinteticamente in quel “mandò i suoi eserciti e distrusse quegli omicidi ed arse le loro città”di cui abbiamo letto. Furono parole specifiche perché quella cui Gesù parlava era la “generazione”a cui sarebbe stato “ridomandato conto, dal sangue di Abele fino al sangue di Zaccaria”, entrambi uccisi da persone serve dell’Avversario.

 

Il terzo capo d’imputazione nei confronti dei Dottori è quella di aver “portato via la chiave della conoscenza”, di non esserne entrati e di averne impedito agli altri l’accesso: il parallelo di Matteo riporta “avete chiuso il regno dei cieli davanti agli uomini, di modo che voi non entrate e nemmeno lasciate entrare quelli che stavano per entrarvi”(23.13); qui il regno dei cieli è la nuova economia evangelica rappresentata da un recinto di cui Legge e Profeti sono la porta che, per essere aperta, ha bisogno di una “chiave”che quelli hanno rimosso, rubato. La “chiave”è quella della conoscenza spirituale, quella rivelata “ai piccoli”e non quella letterale dei libri imparati a memoria. Ricordiamo ciò che disse Filippo a Natanaele, nella sua semplicità “Noi abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti: Gesù, figlio di Giuseppe, da Nazareth”(Giovanni 1.45).

La Legge, quindi, non è qualcosa da sottostimare o di chiuso per sempre: lo è se la si considera come unica via o porta per il regno dei cieli quando, come leggiamo in Galati 3.24,25, “è stata per noi un pedagogo fino a Cristo, perché fossimo giustificati per la fede. Sopraggiunta la fede, non siamo più sotto un pedagogo”. Infatti “La Legge possiede soltanto l’ombra dei futuri beni e non la realtà stessa delle cose”(Ebrei 10.1): una salvezza “sulla quale indagarono e scrutarono i profeti che preannunciavano la grazia a voi destinata”(1 Pietro 1.10,11).

Gesù però, con le sue parole, denuncia un peccato terribile, quello di avere svuotato totalmente di senso spirituale gli scritti loro affidati, perché insegnavano ed è a loro che il popolo faceva riferimento. Tutto era ridotto all’apparenza, ad un’interpretazione e ad una pratica fuorviante di modo che, qualora vi fosse un cuore onesto, veniva corrotto da un insegnamento perverso. Purtroppo questo accade oggi in molte Chiese, credo soprattutto in quella di Roma e dove, per interessi personali, si antepone il proprio interesse a quello di Dio oppure, nello specifico, ci si adatta al contesto mondano tanto per quanto riguarda le sue superstizioni, quanto per ciò che è il suo concetto di solidarietà, modernità ed equalizzazione delle menti. E il “Vangelo sociale” ne è un esempio. E dalle parole di Nehemia che abbiamo ricordato, confrontate con quelle di Gesù coi leviti che “spiegavano la legge al popolo”, rileviamo il degrado, l’allontanamento dalla parola pura a quella travisata.

L’errore dottrinale si verifica, allora, sempre consapevolmente: se non ameremo il Dio che professiamo di servire, non potremmo che amare noi stessi. Amando noi stessi, seguiremo le strade che la nostra istintività ci porterà a seguire ma, per difendere il nostro status, torceremo la Scrittura a nostro vantaggio e in questo troveremo il nostro riposo provvisorio. Amando però il temporaneo e non l’eterno, saremo inevitabilmente sconfitti senza nessuna prospettiva di luce perché, proprio in quanto avremo fatto della religione vuota il nostro esistere, avremo impedito la salvezza agli altri. Amen.

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