13.17 – LA DONNA INFERMA (Luca 13.10-17)

13.17 – La donna inferma (Luca 13.10-17)

 

10Stava insegnando in una sinagoga in giorno di sabato. 11C’era là una donna che uno spirito teneva inferma da diciotto anni; era curva e non riusciva in alcun modo a stare diritta. 12Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse: «Donna, sei liberata dalla tua malattia». 13Impose le mani su di lei e subito quella si raddrizzò e glorificava Dio.14Ma il capo della sinagoga, sdegnato perché Gesù aveva operato quella guarigione di sabato, prese la parola e disse alla folla: «Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi guarire e non in giorno di sabato». 15Il Signore gli replicò: «Ipocriti, non è forse vero che, di sabato, ciascuno di voi slega il suo bue o l’asino dalla mangiatoia, per condurlo ad abbeverarsi? 16E questa figlia di Abramo, che Satana ha tenuto prigioniera per ben diciotto anni, non doveva essere liberata da questo legame nel giorno di sabato?». 17Quando egli diceva queste cose, tutti i suoi avversari si vergognavano, mentre la folla intera esultava per tutte le meraviglie da lui compiute.

 

            Con questo episodio ci troviamo di fronte al sesto miracolo dei sette operati da Gesù in giorno di sabato. Ricordiamo

  1. L’indemoniato nella Sinagoga di Capernaum (Luca 4.31-37);
  2. La suocera di Pietro (38-41);
  3. L’uomo dalla mano rattrappita (Luca 6.6-11);
  4. Il paralitico di Betesda (Giovanni 5.9-18);
  5. Il cieco nato (Giovanni 9);
  6. La donna inferma;
  7. L’uomo idropico (Luca 14.1-6).

Nulla sappiamo del villaggio in cui avvenne questo miracolo se non che l’itinerario di Nostro Signore prevedeva come destinazione finale Gerusalemme, il suo penultimo poiché, qualche verso più avanti in questo stesso capitolo, leggiamo che “Passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme”(22).

Gli argomenti su cui soffermare la nostra attenzione sono tanti a partire dal fatto che Gesù vede la donna inferma soltanto mentre parlava, o alla fine del suo discorso. Certo sapeva che l’avrebbe incontrata e guarita anche prima di entrare nella Sinagoga, essendo il Dio Onnisciente.

Altro elemento importante, così come avvenuto col paralitico di Betesda, malato da 38 anni, è appunto la durata della malattia che Luca quantifica in 18 anni, numero che ci parla prima di tutto del dominio e della potenza distruttrice del peccato sull’uomo, essendo agevole vedere nel 18 il risultato di un 6+6+6. Diciotto è un numero che ci parla di dipendenza, subordinazione e schiavitù, come da Giudici 3.14 che quantifica in questi anni la durata della schiavitù degli israeliti a Eglon, re di Moab. Poi abbiamo il giudizio, sempre su di loro, relativo al fatto che “Gli israeliti continuarono a fare ciò che è male agli occhi del Signore e servirono i Baal, le Astarti, gli dei di Aram, gli dèi di Sidone, gli dèi di Moab, gli dèi degli Ammoniti e quelli dei Filistei, abbandonarono il Signore e non lo servirono più. L’ira del Signore si accese contro Israele e gli consegnò nelle mani dei Filistei e degli Ammoniti. Questi afflissero e oppressero per diciotto anni gli Israeliti e tutti i figli di Israele che erano oltre il Giordano, nella terra degli Amorrei in Galaad”(Giudici 10.6-8).

Diciotto sono gli anni che ebbe Ioachin quando iniziò a regnare su Gerusalemme, ma di lui è scritto che “fece ciò che è male agli occhi del Signore”(2 Re 24.8) e fu solo per tre anni perché Nabucodonosor poi lo deportò a Babilonia: “Deportò tutta  Gerusalemme, cioè tutti i comandanti, tutti i combattenti, in numero di diecimila esuli, tutti i falegnami e i fabbri; non rimase che la gente povera della terra”(v.14). Possiamo ricordare anche le diciotto mogli (e sessanta concubine) di Roboamo, che “Quando il regno fu consolidato ed egli si sentì forte, abbandonò la legge del Signore e tutto Israele lo seguì”(2 Cronache 11.21 e 12.1). Nel Vangelo, infine, abbiamo letto delle “diciotto persone sulle quali crollò la torre di Siloe”(Luca 13,4).

Ecco allora cosa si cela dietro gli anni d’infermità di quella donna che, nella Sinagoga di un villaggio innominato, ascoltava le spiegazioni di Gesù su un passo della Scrittura che Luca non ha specificato.

Abbiamo poi la descrizione dell’innominata che si caratterizza attraverso due situazioni la prima delle quali è che “uno spirito la teneva inferma”e  poi “era curva e non riusciva in alcun modo a stare dritta”(v.11). E qui risiede l’importanza della situazione perché il testo non parla di una persona indemoniata che aveva manifestazioni di squilibrio mentale (infatti non sarebbe stata ammessa all’assemblea), ma del vero motivo della sua infermità: era “uno spirito”, in questo caso una forza ostile facente comunque capo all’Avversario, ricordiamo le parole “Questa figlia di Abrahamo, che Satana ha tenuto prigioniera per ben diciotto anni”(v.16).

 

La malattia, dal raffreddore alle metastasi, è sempre il frutto del peccato inteso non come qualcosa di specifico, ma della condizione di errore che abbiamo ereditato. Quando i nostri progenitori infransero l’unico comandamento ricevuto, infatti, scoprirono di essere nudi, quindi senza difese in assoluto, anche dagli agenti patogeni che si sarebbero manifestati in futuro. Le malattie, a prescindere dalla loro curabilità, e la morte sono allora gli effetti naturali, la conseguenza di questa infrazione originaria e non di uno spirito che debba per forza manifestarsi sempre e comunque.

Nonostante abbiamo un corpo soggetto ad ammalarsi anche a seguito di un sistema immunitario non sempre efficiente, ciò non toglie che l’uomo possa essere bersaglio di infermità che l’Avversario può gestire, come insegna il libro di Giobbe.

La domanda allora non è se tutte le malattie incurabili siano causate da uno spirito d’infermità né, come abbiamo letto nel Vangelo, cosa possa avere fatto una persona per caderne vittima, ma piuttosto va tenuto presente che ci sono dei casi in cui questo spirito negativo agisce. Il mutismo, la sordità, la cecità o altre gravi patologie possono avere indubbiamente una genesi traumatica, genetica o meccanica, ma la Scrittura ci dice che, in alcuni casi, potrebbero essere causati da una forza negativa attribuibile a Satana che, nel caso della donna del nostro episodio, agiva sui muscoli e le vertebre. E solo lo Spirito Santo può essere in grado di distinguere se le condizioni in cui versa la persona siano dovute a cause squisitamente mediche oppure il motivo dell’infermità sia un altro. Affermare che ogni malattia, anche specifica, sia dovuta ad uno spirito del male, vuol dire banalizzare una verità scritturale e abbracciare così la superstizione e l’incoscienza. In altri termini, se a quei tempi fossero esistite le radiografie, le RMN o le TAC, si sarebbe potuto constatare una condizione del corpo identica a quella che potrebbe avere oggi una persona nelle stesse condizioni, con la differenza che in quel caso, ad agire, era uno spirito impuro che aveva preso possesso di un corpo e, se gli fossero state somministrate le cure di cui possiamo disporre oggi, non avrebbero dato alcun risultato..

La donna guarita da Gesù è figura di tutti coloro che, vivendo senza Cristo nella loro vita, sono incapaci di muoversi dignitosamente a prescindere che siano più o meno sani. Al di là del paralitico, bloccato in ogni movimento o quasi, questa poteva spostarsi, camminare, ma guardando costantemente verso il basso. La visione dell’azzurro le era preclusa. Ecco allora che il significato di questa guarigione è enorme proprio perché ha riferimento col fatto che veramente Cristo Gesù libera non solo dalle infermità gravi, totalmente invalidanti, ma anche quelle che penalizzano in modo “parziale”, tra virgolette perché la sofferenza di quella donna era grande a prescindere.

Il significato di questa guarigione è da ricercare nella costrizione a guardare verso il basso, la terra e nient’altro, come qualunque uomo o donna non liberato/a.

Il testo ci dice che “Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse: «Donna, sei liberata dalla tua malattia»”: prendere atto della condizione in cui versava quella persona era cosa che facevano tutti, ma solo Lui la chiama a sé, cioè la invita. Se lei non Lo avesse ascoltato, non avremmo avuto la guarigione. Anche qui, il tutto avviene per iniziativa di Nostro Signore ed è il terzo miracolo in tal senso dopo il figlio della vedova a Nain e il paralitico a Betesda, personaggi per i quali Gesù provò una compassione tutta particolare dovuta al suo leggere le persone andando oltre la sofferenza che provavano per la malattia (e il dolore, per la vedova).

Anche qui degna di sottolineatura è la reazione dell’inferma che, una volta raddrizzata “glorificava Dio”, frase sulla quale ci siamo già soffermati in un altro episodio, ma è bello ribadire come attribuì a Lui, e al Figlio Tramite del Padre, la guarigione. Lei, in quanto “figlia di Abrahamo”, quindi della promessa lui fattagli da Dio, doveva essere “liberata da questo legame”che non aveva scelto e per il quale, forse, aveva smesso di pregare ritenendolo non risolvibile nell’attesa che venisse guarita con modi e in un momento che non si sarebbe mai aspettata.

Il tema dell’episodio è quindi quello dell’incontro con Gesù, purtroppo oggi sempre più raro perché ciò che viene predicato è in gran parte un cristianesimo “sociale”, una religione che fa a gara con quelle umane per attrarre uomini e donne “di buona volontà”, tutti pronti ad apparire sempre, ma mai a guardarsi dentro, a rinnovarsi. In altre parole, viene bandita la fede, quella che contraddistingue il cristianesimo dalle credenze delle religioni e non a caso è scritto “Senza fede è impossibile piacergli” (Ebrei 11.6). “Senza fede”, non “apparenza”.

Papa Ratzinger ebbe a scrivere importanti parole al riguardo, e cioè che la parola “credo” indica “conversione”, “cambiamento di mentalità”, “svolta dell’essere” e così permette agli uomini di condurre una vita “veramente umana”, quella che per quanto mi riguarda oggi è del tutto assente da una società sempre più propensa al precipitare, al collassare all’interno di se stessa. La fede mai è semplicemente una raccolta di dottrine, formule aride e datate da difendere con ostinazione – e qui vediamo la reazione del capo della Sinagoga – perché altrimenti sarebbe senza vita.

E l’incontro di Gesù con la donna inferma rappresenta proprio questo, l’incontro fra il vecchio e il nuovo, fra la religione che tutto vorrebbe stigmatizzare, regolare, rinchiudere in una pratica o un rito, e la libertà, l’eternità, l’immenso. E tutto ciò, quando si verifica, accade con una semplicità disarmante perché – cito sempre Ratzinger – “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva”. Credo sia per questo che vi sia stata la lode, da parte di quella donna ma non dell’arcisinagogo, al Dio Vivente e Vero. Quel miracolo, infatti, ha riferimenti he vanno ben oltre alla terribile malattia in atto da diciotto anni.

Dopo aver letto la replica di Gesù sulla questione del sabato, abbiamo un’altra testimonianza della Parola che libera: gli avversari di Gesù infatti “si vergognavano”– anche se la traduzione corretta sarebbe “furono confusi”–, ma la folla, tanto disprezzata dagli scribi e farisei, “esultava per tutte le meraviglie da lui compiute”.

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13.16 – LA PARABOLA DEL FICO STERILE (Luca 13.5-9)

13.16 – La parabola del fico sterile (Luca 13.5-9)   

 

6Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. 7Allora disse al vignaiolo: «Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?». 8Ma quello gli rispose: «Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. 9Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai»».

 

            Viene spontaneo supporre che Nostro Signore, che non lasciò mai nulla d’intentato per recuperare le Sue creature, espose questa parabola per far capire ai presenti cosa significasse la Sua presenza in mezzo a loro e dare la descrizione di quanto avrebbe fatto. Ora credo che l’attenzione del lettore debba per ora concentrarsi sui due alberi citati, perché la presenza del fico in una vigna è per noi anomala: abituati a una mentalità che vede la produzione e il guadagno al primo posto, quindi a una coltivazione intensiva che sfrutti ogni metro quadrato di terra, la presenza di un albero estraneo ci sembra uno spreco. Al contrario, ai tempi di Gesù ma anche prima, era frequente trovare un albero di fichi tra le viti ed era sinonimo di pace e prosperità, come da 1 Re 5.5 quando, sotto Salomone, “Giuda e Israele erano al sicuro; ognuno stava sotto la propria vite e sotto il proprio fico, da Dan fino A Bersabea, per tutti i giorni di Salomone”. Ancora, ricordiamo le parole del re d’Assiria al popolo: “Fate la pace con me e arrendetevi. Allora ognuno potrà mangiare i frutti della propria vigna e del proprio fico e ognuno potrà bere l’acqua della sua cisterna”(2 Re 18.31).

Dando un rapido excursus su ciò che questa pianta rappresenta, vediamo che è la prima, dopo gli alberi “della vita”e “della conoscenza del bene e del male”, a trovarsi in Eden. A differenza dei primi due, però, ci parla di qualcosa di temporaneo e soprattutto non adeguato a risolvere appieno i problemi dell’uomo, come leggiamo in Genesi 3.7: “Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture”. Questa conoscenza fu per Adamo ed Eva sconvolgente, perché per la prima volta nella loro vita si videro per quello che erano, privati dell’innocenza che li aveva caratterizzati fino ad allora: la loro non fu una vergogna dovuta dal fatto che i loro organi sessuali erano esposti, ma perché il loro corpo aveva perduto lo splendore che aveva. Consci di questo, cercarono di porvi  rimedio prendendo le foglie grandi del primo albero a portata di mano e intrecciandole, ma scoprirono subito che questo serviva a ben poco, del tutto inutile per il recupero dell’identità, nobiltà e soprattutto dignità perduta. Per questo c’è chi ha ipotizzato che fosse stato proprio il fico ad essere l’albero di cui l’Avversario aveva esortato Eva a mangiarne i frutti.

Il fico, inoltre, ci parla di sostituzione, di passaggio da una condizione di inadeguatezza ad un’altra di idoneità a seguito di un intervento di Dio, poiché sappiamo che quelle “cinture”che i nostri progenitori si erano fatte furono sostituite da un vestito fatto con pelli di animali: “il Signore Dio  – Lui e nessun altro – fece all’uomo e a sua moglie tuniche di pelli e li vestì”(3.21).

Accanto quindi all’utilità di questa pianta e dei suoi frutti, che venivano impiegati anche per scopo medicinale (l’impiastro sull’ulcera di Ezechia in 2 Re 20.7 e Isaia 38.21 a lui correlato), il fico è anche sinonimo di riposo, preghiera e studio della Torah come nel caso di Natanaele cui Gesù disse “Prima che Filippo ti chiamasse, ti ho visto sotto l’albero di fichi”(Giovanni 1.48), ma per la comprensione della nostra parabola va tenuto presente l’intervento di Dio che può essere in salvezza o in giudizio.

Quanto mai attinente è il capitolo 24 di Geremia cui gli viene spiegato il significato di una visione: “Il Signore mi mostrò due canestri di fichi posti davanti al tempio del Signore dopo che Nabucodonosor, re di Babilonia, aveva deportato da Gerusalemme Ieconia, figlio di Ioakim, re di Giuda. I capi di Giuda, gli artigiani e i fabbri li aveva condotti a Babilonia. Un canestro era pieno di fichi molto buoni, come i fichi primaticci, mentre l’altro canestro era pieno di fichi cattivi, così cattivi che non si potevano mangiare, Il Signore mi disse: «Che cosa vedi, Geremia?». Risposi: «Dei fichi, i fichi buoni sono molto buoni, quelli cattivi sono molto cattivi, tanto che non si possono mangiare»– l’uomo, senza rivelazioni di Dio, non può che constatare l’ovvietà delle cose -. Allora mi fu rivolta questa parola dal Signore: «Così dice il Signore, l’Iddio d’Israele: come si trattano con riguardo i fichi buoni, così io tratterò i deportati di Giuda che ho mandato da questo luogo nel paese dei Caldei.– notare “che ho mandato”, quindi la lettura della storia, di ogni storia umana, ha un suo perché spirituale che va al di là di ciò che accade in sé –. Poserò lo sguardo su di loro per il loro bene; li ricondurrò in questo paese, li edificherò e non li abbatterò, li pianterò e non li sradicherò mai più. Darò loro un cuore per conoscermi, perché io sono il Signore; saranno mio popolo e sarò il loro Dio, se torneranno a me con tutto il cuore. Come invece si trattano i fichi cattivi, che non si possono mangiare tanto sono cattivi, così dice il Signore, così io tratterò Sedecia, re di Giuda, i suoi capi e il resto di Gerusalemme, ossia i superstiti di questo paese, e coloro che abitano nella terra d’Egitto. Li renderò un esempio terrificante per tutti i regni della terra, l’obbrobrio, la favola, lo zimbello e la maledizione in tutti i luoghi dove li scaccerò. Manderò contro di loro la spada, la fame e la peste, finché non saranno eliminati dalla terra che io diedi a loro e ai loro padri”.

 

Il fico e la vigna della parabola stanno in un terreno unico, di proprietà di Dio, accuratamente separato dal resto del podere, la cui cura è stata affidata a una persona di Sua assoluta fiducia e infatti il Figlio, come Parola, ha sempre abitato e coltivato coloro che sono Suoi. È  proprio quest’ultimo albero, la vite, a parlarci di responsabilità, come rileviamo dalla parabola dei contadini omicidi di Luca 20.9-16. Inoltre, la vite-vigna ci parla del progetto e della cura visibile di Dio sul Suo popolo: “Hai sradicato una vite dall’Egitto, hai scacciato le genti e l’hai trapiantata. Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici ed essa ha riempito la terra. La sua ombra copriva le montagne e i suoi rami i cedri più alti. Ha esteso i suoi tralci fino al mare, arrivavano al fiume i suoi germogli. Perché hai aperto le brecce nella sua cinta e ne ha vendemmia ogni passante? La devasta il cinghiale del bosco e vi pascolato le bestie nella campagna” (Salmo 80.9-14).

Da questo passo, sorprendentemente legato a quello di Geremia 24 e al nostro, vediamo che entrambi, fico e vite, non sono autonomi nel loro sviluppo, ma hanno bisogno di cura e assistenza che non può che venire da Dio. E qui è impossibile non pensare a Gesù, in Giovanni 15 1-7 disse “Io sono la vite vera e il Padre mio l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio ce porta frutto, lo pota perché porti più frutto.(…) Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto”.

A questo punto è facile vedere nella vite ciò che vive nel e per l’amore di Dio e che da Lui stesso trae nutrimento – Israele prima e la Chiesa poi – e nel fico un albero piantato perché desse frutto senza che ciò avvenisse, quindi simbolicamente l’Israele di allora che da lontano appariva come un fico rigoglioso, ma una volta avvicinatosi il padrone della vigna risultava non avere quei frutti che prometteva in apparenza.

Anche qui è necessaria un’interpretazione che non sia a senso unico perché indubbiamente Gesù parla agli uomini del suo tempo, ma anche a noi e allora il fico va identificato sì nell’Israele che non portò alcun frutto nonostante i tre anni di ministero di Nostro Signore, ma anche in tutti coloro che nella Chiesa appaiono “belli di fuori”, ma dentro non hanno saputo sviluppare nulla nonostante la Sua presenza continua in essa, “tutti i giorni fino alla fine del mondo”.

Rimanendo però allo stretto argomento della parabola, vediamo che il padrone “Venne a cercarvi dei frutti, ma non ne trovò”, decretando la condanna della pianta: come ha scritto un fratello, “I frutti che Dio si aspettava dai Giudei, e che egli aspetta da ciascuno di noi, sono quelli della giustizia, di un cuore convertito, una volontà rinnovata, degli affetti rivolti a lui e una vita consacrata al suo servizio. Le foglie di professioni di fede e i fiori di promesse non bastano”.

Dalle parole del proprietario della vigna vediamo che questi non mette affatto in dubbio che il vignaiolo non abbia cercato di prendersi cura del fico e infatti non vi è per lui alcun rimprovero, ma solo l’ordine di eliminare la pianta perché avrebbe impoverito il terreno.

Da notare le parole del lavorante, che chiede la possibilità di prendersi cura dell’albero un altro anno nonostante il suo essere sterile: chiede un periodo in cui si occuperà di lui ancora di più, come un medico si prodigherebbe per salvare la vita ad un malato grave. Gli avrebbe zappato attorno e gli avrebbe messo il concime.

Tre anni di Ministero di Gesù non furono sufficienti a che il fico desse frutto? Poco importa, ve ne sarebbe stato un altro, figura del richiamo attraverso inviti continui: “La sapienza grida per le strade, nelle piazze fa udire la sua voce; nei clamori della città essa chiama, pronuncia i suoi detti alle porte della città: «Fino a quando, o inesperti, amerete l’inesperienza e gli spavaldi si compiaceranno delle loro spavalderie e gli stolti avranno in odio la scienza? Tornate alle mie esortazioni: ecco, io effonderò il io spirito su di voi e vi manifesterò le mie parole. Perché vi ho chiamati ma avete rifiutato, ho steso la mano e nessuno se ne è accorto. Avete trascurato ogni mio consiglio e i miei rimproveri non li avete accolti; anch’io riderò delle vostre sventure, mi farò beffe quando su di voi verrà la paura, quando come una tempesta vi verrà addosso il terrore, quando la disgrazia vi raggiungerà come un uragano, quando vi coglieranno angoscia e tribolazione. Perché hanno odiato la sapienza e non hanno preferito il timore del Signore, non hanno accettato il mio consiglio e hanno disprezzato ogni mio rimprovero”(Proverbi 1. 20-30).

L’anno in più che il vignaiolo chiede al padrone del campo, a differenza degli altri tre, credo che non possa venire quantificato altrimenti se non con un periodo dato all’uomo per rinunciare agli inganni che si è autoinflitto, al termine dei quali non potrà che essere gettato nel fuoco. Nel fico, allora, abbiamo non soltanto Israele, ma tutti coloro che, nella Chiesa, non portano frutto accontentandosi delle apparenze, appunto dell’avere rami e foglie quindi frequentare le assemblee, pregare meccanicamente impiegando formule imparate a memoria, magari impegnandosi in opere di carità, ma senza alcuna scintilla in loro, senza rinunciare a nulla di ciò che ritengono li caratterizzi nella vita, sociale o con se stessi non importa.

Per concludere, per quanto possa dirsi concluso un commento alla Scrittura che è infinita, a conferma del comportamento di Dio verso il suo popolo, possono citarsi due passi importanti di Isaia, uno sulla cura e un altro sul giudizio: “Io, il Signore, ne sono il guardiano, a ogni istante la irrigo; per timore che si danneggi ne ho cura notte e giorno. Io non sono in collera. Vi fossero rovi e pruni, muoverei loro guerra, li brucerei tutti insieme”(Isaia 27.3,4).

Dal secondo passo, invece, vediamo che se la vigna non riconosce tutte queste attenzioni, subirà il seguente destino: “Che cosa dovevo fare ancora alla mi vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi? Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La ridurrò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni”(Isaia 5.5-7).

Ecco allora la severa necessità che abbiamo, sempre, di guardare dentro di noi, perché non possiamo porre resistenza agli interventi di Dio nella nostra vita per poter portare un frutto a Lui gradito e accettevole. Amen.

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13.15 – SE NON VI CONVERTITE (Luca 13.1-5)

13.15 – Se non vi convertite (Luca 13.1-5) 

 

1 In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. 2Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? 3No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. 4O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? 5No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».

 

            Ci troviamo di fronte a un passo che, concettualmente, potrebbe essere considerato imparentato con quello in cui i discepoli, vedendo un uomo nato cieco e ritenendo la sua condizione dovuta a un’infrazione alla Legge, chiesero a Gesù chi avesse peccato, lui o i suoi genitori. Se però allora la risposta fu “Né lui ha peccato, né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio”, qui leggiamo “No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”: radice comune, quindi, vista nella negazione dell’opinione diffusa secondo cui un male materiale trovava la sua spiegazione in un male morale a monte. Però la “desinenza” è diversa.

Venendo ai fatti storici che vengono citati, il sangue dei Giudei e la torre di Siloe, va detto che non se ne trova traccia nella storia del tempo nel senso che Giuseppe Flavio non li riporta, ma è certo siano avvenuti perché Luca ne parla come se si trattasse di un fatto noto ai suoi lettori del tempo, primo fra tutti il sommo sacerdote Teofilo cui ha dedicato il Vangelo e gli Atti. Fra le ipotesi formulate in proposito quella che ha maggior credito vede in “quei galilei”degli Zeloti, setta fondata da Giuda il Galileo che, quando Augusto ordinò il pagamento delle tasse, insegnò ai suoi concittadini che non era lecito pagare il tributo a Cesare. Viene spontaneo allora ricordare la domanda posta a Gesù da alcuni farisei ed erodiani che “…vennero e gli dissero: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno, ma insegni la via di Dio secondo verità. È lecito o no pagare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare, o no?»”(Marco 12.14). Sappiamo la risposta, “Date a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio”, cose difficili entrambe.

La strage di quei galilei nel Tempio potrebbe allora essere avvenuta nel corso di uno dei numerosi tumulti che si verificavano, prodotti da loro a Gerusalemme per le feste, quando appunto la città era particolarmente sorvegliata dalle truppe di Roma. Invero di tumulti ve n’era stato in particolare uno, di Giudei, che protestarono perché Pilato aveva sottratto del denaro dalla cassa del Tempio per la costruzione di un acquedotto: a quel punto, il prefetto romano ordinò ai suoi soldati di mescolarsi coi dimostranti e di percuoterli con bastoni. Giuseppe Flavio testimonia che molti giudei morirono per i colpi ricevuti o per la calca della folla in tumulto.

Il crollo della torre, poi, è stato individuato nel cedimento di una delle torri costruite a salvaguardia dell’acquedotto che portava l’acqua alla piscina di Siloe a Sud dell’angolo orientale di Gerusalemme.

Riassumendo: Gesù viene interpellato a proposito dei due episodi che Luca ha riportato, in cui delle persone morirono, alcuni – viene a pensare – di spada, altri schiacciati dai massi e detriti della torre; l’importante, come accennato all’inizio, non era tanto lo specificare che ciò che era avvenuto a quelle persone non era una punizione per i loro peccati, ma, parole identiche in entrambi i casi, “Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo”, quindi di morte violenta che non penso sia riferita a quella del corpo.

“Se non vi convertite”è quindi l’unica indicazione che Gesù dà ai suoi interlocutori per evitare la morte e possiamo dire che la Sua sia una frase che, per quanto già annunciata da Giovanni Battista (“Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino”), sia un tassello importante per comprendere altre Sue parole.

Apriamo una breve parentesi sulla conversione e l’incontro con Gesù e consideriamo ad esempio Giovanni 6.35, “Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!”: possiamo stabilire che il “viene a me”presume un percorso animato da una ferma volontà di risoluzione. Se così non fosse, infatti, sarebbe tutto inutile, sarebbe un po’ come fanno quelle persone che si rivolgono a un medico, ma poi, quando propone una cura che a loro non sta bene, pretendono di continuarla a modo proprio, chiaramente non guarendo. Ora invece sappiamo dalla storia che ci propone il Vangelo che, prima ancora che Gesù si presentasse ufficialmente al mondo, c’era un invito al ravvedimento tramite la conversione. Appunto, “Se non vi convertirete”, cioè non vi trasformate divenendo qualcosa di diverso da quello che adesso siete.

Un tempo ero convinto che la conversione fosse la rinuncia a tutte quelle abitudini che avevo naturalmente ereditato dal mondo: con sofferenza, ma anche con entusiasmo, ho allora rinunciato a tante cose che purtroppo, presto o tardi, si ripresentavano in tutta la loro forza non avendo io capito che il privarsi di qualcosa può essere fatto solo quando si è compreso nel profondo il vantaggio che questo comporta. Se ci pensiamo, è quello che successo agli apostoli quando, una volta chiamati da Gesù, lasciarono ogni cosa e lo seguirono. E nessuno di loro tornò indietro alle loro vecchie abitudini e alla relativa tranquillità della vita di sempre. Nel mio caso, il “lasciare” degli apostoli lo riferisco all’orgoglio, alla volontà di possedere cose e persone, al valore che davo a quanto mi apparteneva e all’opinione che avevo di me stesso.

“Convertirsi”, per me, era tutto sommato un modo di presentarmi agli altri come qualcosa di diverso, ma era anche purtroppo un vestito che indossavo per non mostrare quello che effettivamente ero, cioè una persona che, per quanto animata da “nobili propositi”, era immatura e si nascondeva sotto quell’abito sperando che gli altri non notassero i disagi o le problematiche nelle quali mi dibattevo. Mi era sconosciuto il concetto che la “conversione” altro non era che diventare un tutt’uno col mio Signore e Salvatore, ferma restando la realtà della carne contrapposta a quella dello Spirito. Se è vero che ci si converte una volta, lo è altrettanto che pressoché quotidianamente si presenterà la scelta se agire in un modo o in un altro, secondo lo spirito o la carne. Ecco perché siamo provati ogni giorno. La conversione allora si basa proprio sulla convinzione, corroborata da prove certe dentro di noi, che non possiamo più essere quelli di prima, né lo vogliamo. È il risultato dell’elaborazione e dell’assimilazione della verità del Vangelo e del fatto che apparteniamo veramente a Gesù Cristo, Nostro Signore.

Ora esaminiamo la realtà degli episodi riferiti a Gesù in questo passo e i morti, chi per spada – ricordiamo “il sangue fatto scorrere”–  chi per schiacciamento sotto il peso della torre: per entrambi i casi è possibile un riferimento spirituale visto nella locuzione “allo stesso modo”; certo non poteva essere che, se gli uditori di Gesù non si fossero convertiti, sarebbero tutti morti uccisi o schiacciati dal crollo di una torre, ma ciò che Egli vuole rivelare è che, senza conversione, la persona è destinata a una fine violenta, qui evidentemente dell’anima.

Il primo strumento di morte è la spada, che troviamo per la prima volta in Genesi 3.24, quando Iddio “…scacciò l’uomo e pose a oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada guizzante, per custodire la via all’albero della vita”: quella via nessun essere umano l’avrebbe più potuta trovare. In questo caso la “spada”è figura del limite assoluto imposto all’uomo, che essendo diventato impuro a causa del peccato non avrebbe potuto più avere a che fare tanto con l’eternità quanto con la santità di Dio talché fu detto a Mosè “Tu non potrai vedere il mio volto, perché l’uomo non può vedermi e vivere”(33.20).

Per il tema del nostro verso, la spada, da sempre strumento di morte, è anche figura del giudizio: “Quanto a voi, vi disperderò tra le nazioni e sguainerò la spada dietro di voi – perché il giudizio arriva sempre quando uno meno se lo aspetta –, la vostra terra sarà desolata e le vostre città saranno deserte”(Levitico 26.33). Quest’arma è sinonimo di sterminio, come avvenne in tutti i casi in cui“a fil di spada”furono passati tutti gli abitanti delle città conquistate o gli eserciti di cui leggiamo negli scritti dell’Antico Patto, ma è anche uno strumento che appartiene al Signore: “Àlzati, Signore, affrontalo, abbattilo; con la tua spada – non la mia – liberami dal malvagio”(Salmo 17.23). Ho citato versi indicativi, che certo non sono i soli nella letteratura antica. Arrivando al Nuovo Testamento, questa è prevalentemente riferita allo Spirito Santo e alla Parola di Dio che separa ciò che è puro da ciò che è impuro, oltre ad essere strumento di difesa dagli attacchi dell’Avversario e dei suoi rappresentanti come da Efesi 6.17 quando si parla della “spada dello Spirito, che è la Parola di Dio”.

Fatte queste premesse, arriviamo così ad Apocalisse 19, quando appare il cavaliere bianco: “Poi vidi il cielo aperto, ed ecco un cavallo bianco; colui che lo cavalcava si chiamava Fedele e Veritiero; egli giudica e combatte con giustizia, (…) è avvolto in un mantello intriso di sangue e il suo nome è: il Verbo di Dio. (…) Dalla sua bocca esce una spada affilata, per colpire con essa le nazioni”(vv. 11-15). Riferito alle nazioni pagane che non avranno accolto il Figlio di Dio, è agevole raccordare quanto descritto dall’apostolo Giovanni col giudizio degli ultimi tempi, precisamente quelli che precederanno il Millennio. Illuminante in proposito i versi 20 e 21: “Ma la bestia fu catturata, e con essa il falso profeta, che alla sua presenza aveva operato i prodigi con i quali aveva sedotto quanti avevano ricevuto il marchio della bestia e ne avevano adorato la statua. Ambedue furono gettati vivi nello stagno di fuoco, ardente di zolfo. Gli altri furono uccisi dalla spada che usciva dalla bocca del cavaliere, e tutti gli uccelli si saziarono delle loro carni”.

“Perirete allo stesso modo”,quindi, perché non avrete la possibilità di salvarvi dalla spada, non essendovi convertiti. Ed ecco, fin da allora Gesù offre ai suoi uditori l’opportunità di scampare da questa morte terribile perché, se certo fa impressione il pensiero di venire uccisi nel corpo tramite quello strumento, la morte seconda in giudizio sarà molto più atroce. In mancanza di conversione, c’è dunque prospettiva di morte certa attraverso la spada.

C’è poi la fine la morte per il crollo della torre, quindi per schiacciamento, come purtroppo accade nei terremoti quando sono le case, che per noi rappresentano un riparo e che cerchiamo di rendere gradevoli alla nostra permanenza per quanto possibile, a collassare. Ebbene, la morte per schiacciamento si verifica quando un peso di notevole portata va a gravare su un corpo vivente. Il peso esiste per la gravità ed è quindi, poiché abitiamo la Terra, a lei strettamente attinente. Ed è sulla Terra che l’uomo pensa, agisce e costruisce la propria vita, non potendo esentarsi in alcun modo dal peccare, cioè agire in modo contrario alle aspettative e alla natura di Dio che lo ha creato e avrebbe voluto che vivesse in un Luogo, Eden, da Lui appositamente creato, circondato e protetto.

Arriviamo così al peso del peccato, di cui Davide scrisse “Mi opprime il peso delle mie colpe, ma Tu perdonerai i miei peccati”quindi liberandolo (Salmo 65.3). Il peccato separa da Dio, riduce l’uomo al fantasma di se stesso, lo priva della dignità che avrebbe se fosse a Lui unito e lo rende schiavo dell’avversario, incapace di qualsiasi forma di elevazione e soprattutto di liberazione da esso. E, soprattutto, resta. Ricordiamo in proposito le parole di Gesù ai Giudei nell’episodio del cieco nato: “Se foste ciechi non avreste alcun peccato; ma siccome dite: «Noi vediamo», il vostro peccato rimane”(Giovanni 9.41).

Infine, è proprio il peccato a uccidere perché ve n’è uno, quello delle origini, che viene individuato nella frase “il salario del peccato è la morte”(Romani 6.23) e al quale tutti devono sottostare, mentre vi è quello per scelta personale che determinerà “la morte seconda”cui scamperanno tutti coloro che, scegliendo di vivere la conversione, non ne saranno colpiti: “Per i codardi, gli increduli, gli abominevoli, gli omicidi, i fornicatori, gli stregoni, gli idolatri e tutti i bugiardi, la loro parte sarà nello stagno ardente di fuoco e zolfo, che è la morte seconda”(Apocalisse 21.8).

La domanda che si pone credo a questo punto sia: chi uccide? Colui che porrà queste anime nello stagno, o gli stessi uomini che non avranno “aperto il cuore all’amore della verità per essere salvati”(2 Timoteo 2.10)? Credo allora che a uccidere sarà il peccato con il suo peso che le anime dei non salvati avranno voluto tenersi addosso e che solo alla fine, dopo una quantità innumerevoli di segnali in tal senso, li schiaccerà inevitabilmente. Perché “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mansueto e umile di cuore, e troverete ristoro per le anime vostre. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero”(Matteo 11.28,29). Amen.

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13.14 – I SEGNI DEI TEMPI (Luca 12.54-59)

13.14 – I segni dei tempi (Luca 12.54-59)  

 

54Diceva ancora alle folle: «Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: «Arriva la pioggia», e così accade. 55E quando soffia lo scirocco, dite: «Farà caldo», e così accade. 56Ipocriti! Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete valutarlo? 57E perché non giudicate voi stessi ciò che è giusto? 58Quando vai con il tuo avversario davanti al magistrato, lungo la strada cerca di trovare un accordo con lui, per evitare che ti trascini davanti al giudice e il giudice ti consegni all’esattore dei debiti e costui ti getti in prigione. 59Io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo».

 

            “Diceva alle folle”ci lascia intuire che quanto detto da Gesù non sia necessariamente avvenuto dopo il discorso sulla divisione che era venuto a portare. “Folla”, poi, è un sostantivo che già di per sé rende l’idea di una moltitudine e, se Luca lo usa al plurale, può alludere al fatto che il principio qui esposto sia stato ripetuto più volte, a persone e in momenti diversi.

Per descrivere il comportamento dei presenti, fra i quali c’erano persone di ogni categoria e ceto compresi come sempre scribi, farisei e sadducei che lo sorvegliavano, Gesù prende ad esempio un metodo di osservazione in uso in quei territori che consentiva previsioni precise: le nuvole prodotte dall’evaporazione nel Mediterraneo erano portate dai venti su quel Paese e riversavano su di esso la pioggia. Abbiamo testimonianza di questo in 1 Re 18.43-45 quando Elia, dal monte Carmelo dopo avere pregato perché venisse la pioggia, “disse al suo servo: «Sali, presto, guarda in direzione del mare». Quegli salì, guardò e disse: «Non c’è nulla!». Elia disse: «Tornaci ancora per sette volte». La settima volta riferì: «Ecco, una nuvola, piccola come una mano d’uomo, sale dal mare». Elia gli disse: «Va’ a dire ad Acab: «Attacca i cavalli e scendi, perché non ti trattenga la pioggia! D’un tratto il cielo si oscurò per le nubi e per il vento, e vi fu una grande pioggia. Acan montò sul carro e se ne andò a Isreèl.”.

Nel secondo caso abbiamo lo scirocco che, prima di arrivare in Palestina, passa sul deserto arabico e lì arriva molto caldo per cui, quando il vento cambiava, tutti sapevano che le temperature si sarebbero alzate. Non furono questi i soli esempi portati da Gesù al riguardo e in Matteo 16.2-3 leggiamo queste parole rivolte ai farisei e sadducei che “si avvicinarono per metterlo alla prova e chi chiesero che mostrasse loro un segno dal cielo. Ma egli rispose loro: «Quando si fa sera, voi dite: «Bel tempo, perché il cielo rosseggia»; e al mattino: «Oggi burrasca, perché il cielo è rosso cupo». Sapete dunque interpretare l’aspetto dei cielo e non siete capaci di interpretare i segni dei tempi? Una generazione malvagia e adultera pretende un segno! Ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona». Li lasciò e se ne andò”.

 

Ecco allora la necessità di riflettere sul termine usato da Nostro Signore per qualificare chi era pronto a riconoscere i segni che annunciavano bello o cattivo tempo, ma non era in grado di riconoscere quello spirituale, “Ipocriti!”. Quei giudei infatti fingevano di ignorare i segnali che la Scrittura metteva loro a disposizione a partire dalle parole di Mosè fino a Malachia. C’era tutto un tesoro di conoscenza e profezie che avrebbero potuto mettere tutti, dal minimo del popolo ai sommi sacerdoti, nelle condizioni di riconoscere Gesù come Messia. Ricordiamo la Sua risposta agli inviati di Giovani Battista che gli chiesero da parte sua “«Sei tu quello che deve venire, o dobbiamo aspettarne un altro?». In quello stesso momento Gesù guarì molti d malattie, da infermità, da spiriti cattivi e donò la vista a molti ciechi. Poi diede loro questa risposta: «Andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciata la buona notizia. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!».” (Luca 7.18-23). Ora la risposta di Gesù a quei discepoli contiene un elenco di quei “segni”che i Giudei non volevano riconoscere.

E il tutto è aggravato dal fatto che gli storici del tempo attestano che proprio gli anni in cui Gesù visse erano quelli in cui era diffusa l’opinione che il Messia sarebbe arrivato. Ma per loro non poteva essere Lui nonostante avessero avuto la visita anche del Suo Precursore. Sappiamo che Mosè, citato poco prima, aveva detto in Deuteronomio 18.15 “Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me– cioè YHWH –.A lui darete ascolto”: chi sia questo“profeta pari a me”lo spiega l’apostolo Paolo in Galati 4.4, “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato di donna, nato sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli”.

Tornando sulle parole di Gesù ai discepoli di Giovanni Battista, un paralitico che si alza, un indemoniato che viene liberato, un lebbroso guarito e un morto che risuscita non costituivano un caso isolato, ma erano eventi che si verificavano in modo sistematico, non potevano essere attribuiti all’opera di un indemoniato o a quella di un impostore a meno di non rientrare nella categoria degli “Ipocriti”che qui non sono, come siamo abituati a interpretare, quelli che recitano una parte davanti agli altri, ma quelli che ingannano se stessi, quindi una categoria ancora peggiore. E sappiamo l’inganno a chi appartiene, da chi è gestito.

Nelle riflessioni cristiane oggi reperibili si dà spesso risalto all’ipocrisia al suo primo stadio, cioè la finzione verso gli altri, ma poco a quella più subdola in cui è l’uomo a mentire, simulare, fingere proprio con se stesso. Qualcuno scrisse che “solo in noi stessi abita il peggior nemico” e credo sia una verità. In Galati 6.3, ad esempio, leggiamo “Se uno pensa di essere qualcosa, mentre non è nulla, inganna se stesso”e penso a quanti si assumono ruoli e cariche nella Chiesa senza avere una chiamata da Dio, simulandola, o ai danni fatti da tutti coloro che, con quella erroneamente definita “buona fede” agiscono superficialmente in Suo Nome.

Sempre in Galati, ai due versi successivi a quello citato, abbiamo l’antidoto alla presunzione e viene stabilito il fatto che ciò che siamo davanti al Signore non è valutabile guardando al nostro prossimo né ostentando ciò che pretendiamo di essere: “Ciascuno invece esamini la propria condotta e allora troverà motivo di vanto solo in se stesso e non in rapporto agli altri. Ciascuno infatti porterà il proprio fardello.(…) Non fatevi illusioni: Dio non si lascia ingannare. Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato. Chi semina nella carne, raccoglierà corruzione; chi semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna”(vv.4-8).

La vita cristiana è fatta di ascolto, dedizione, preghiera, ma soprattutto vigilanza su noi stessi, quella che la carne rifugge, che in altri termini altro non è che la “veglia”che abbiamo recentemente affrontato, per quanto in modo sintetico e orientativo. E tutto ciò altro non è che un antidoto, perché l’obiettivo dei cristiani è camminare uniti “…fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo. Così non saremo più fanciulli in balìa delle onde, trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, ingannati dagli uomini con quella astuzia che trascina all’errore”(Efesi 4.13,14). Ho scritto “camminare uniti” perché questa è la Chiesa, dove l’unione è data dall’accettazione dei doni: “Egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio”(vv. 11-13).

A fronte di questi versi vediamo che il cammino spirituale della persona è facilmente soggetto a interferenze anche importanti perché, se uno fa un percorso isolatamente, può incorrere negli errori di cui Paolo ha trattato e, in una Chiesa in cui i doni sono gestiti da persone mature, quindi sono veri e non presunti, il confronto tra fratelli sarà quello che deve essere e non un braccio di ferro tra fazioni contrapposte, il famoso “tu dici, ma io ti dico” oppure “fatti in là perché io sono più santo di te”.

Abbiamo poi 2 Timoteo 3.12,13: “Tutti quelli che vogliono rettamente vivere in Cristo Gesù saranno perseguitati. Ma i malvagi e gli impostori andranno sempre di male in peggio, ingannando gli altri e ingannati essi stessi”, che si riallaccia a quanto detto da Gesù a proposito delle divisioni nello scorso capitolo e al contesto in cui parla nei versi oggetto di esame.

L’ipocrisia che abbiamo visto potrebbe essere definita “di seconda specie” ed è la più subdola perché, se nella prima chi finge ne è pienamente consapevole, chi mente a se stesso a volte non se ne rende neppure conto perché la disonestà – nel caso degli avversari di Gesù di quel tempo, ma anche di questo – arriva a tal punto da venire interamente assorbita dalla persona stessa.

“Come mai questo tempo non sapete valutarlo? Perché non giudicate voi stessi ciò che  giusto?”: con queste parole Nostro Signore pone la questione invitando i suoi detrattori anche a valutare un dato obiettivo e cioè che, come non avrebbero creduto a chi avrebbe voluto convincerli che la nuvola di ponente non era portatrice di pioggia o lo scirocco di caldo essendo segni chiari, avrebbero dovuto credere in Lui con la stessa convinzione perché portatore di un segno annunciato da millenni, la Sua venuta.

La seconda parte dell’intervento di Gesù, dai versi 58 al 59, è già stata affrontata quando abbiamo esaminato il discorso della montagna e contiene un profondo interrogativo ancora una volta preso a prestito dal mondo reale, quando il debitore era interamente nelle mani del creditore (e tale è il peccatore nei confronti di Dio). Senza un accordo, l’unica alternativa era finire davanti al magistrato che avrebbe disposto l’internamento in una prigione dalla quale il debitore sarebbe uscito solo dopo aver pagato “fino all’ultimo spicciolo”. La domanda allora è: se nella vita reale succede questo, in quella spirituale l’uomo potrà mai pagare “fino all’ultimo”il debito che ha con Dio?

L’ “amichevole accordo”contempla invece che le due parti, avverse perché Dio non può sopportare il male, s’incontrino, parlino, e chiaramente il debitore rinuncia ad ogni resistenza o per lo meno discute: “Venite e discutiamo, dice il Signore. Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve. Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana”(Isaia 1.18).  Così è stato per chiunque ha colto i segni dei tempi dello Spirito, ha contemplato il piano di Dio per lui e lo ha accettato. Amen.

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13.13 – NON PACE, MA DIVISIONE (Luca 12.49-53)

13.13 – Non pace, ma divisione (Luca 12.49-53)    

 

49Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso! 50Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto!
51Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione. 52D’ora innanzi, se in una famiglia vi sono cinque persone, saranno divisi tre contro due e due contro tre; 53si divideranno padre contro figlio e figlio contro padre, madre contro figlia e figlia contro madre, suocera contro nuora e nuora contro suocera».

 

 

            Per quanto alcuni temi siano stati già sviluppati, o per meglio dire introdotti in un altro studio, trovo sia giusto riproporli tramite alcune varianti. Occupandoci dei primi due versi, per noi nuovi, sono interessanti perché rispecchiano lo stato d’animo di Gesù, “venuto a gettare fuoco sulla terra” inteso non come quello distruttivo che conosciamo, ma lo stesso di cui scrive Malachia 3.3 che, guardando da lontano l’opera di Dio nei riguardi del Suo popolo, riporta: “Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire? Egli è come il fuoco del fonditore e come la liscivia dei lavandai. Siederà per fondere e purificare l’argento; purificherà i figli di Levi, li affinerà come l’oro e l’argento, perché possano offrire al Signore un’offerta secondo giustizia”.

Questa profezia è importante anche sotto l’aspetto della prima venuta del Figlio di Dio sulla terra, insopportabile e irresistibile per tutti i suoi avversari nel senso che non potranno avere argomenti di efficace contrasto di fronte a Lui, come in effetti fu e di cui è data testimonianza nei Vangeli. Essendo “come il fuoco del fonditore e la liscivia dei lavandai”, cioè una miscela di acqua bollente e cenere per lavare e sbiancare i panni, inizia la sua attività purificatrice su coloro che avrà scelto: “fondere e purificare” sono azioni che compie su un metallo inerte che, senza un intervento, resterebbe così com’è. Fondendolo e trasponendolo liquido da un recipiente a un altro, invece, l’argento viene purificato dalle scorie fino a raggiungere la purezza voluta. Notare l’elemento scelto, l’argento, sempre utilizzato per indicare l’uomo un tempo fatto a “immagine e somiglianza” di Dio. L’ultima parte del passo, poi, ci dà il fine per cui Nostro Signore venne nel mondo e cioè permettere agli uomini di poter elevare a Lui “un’offerta secondo giustizia”, quella che cioè non avrebbero mai potuto rivolgere, identificando quanti avrebbero creduto nei “figli di Levi” secondo Apocalisse 1.6: “A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen”.

 

Partiamo allora da questa base e occupiamoci del “fuoco”, primo elemento che Nostro Signore è venuto a portare come conseguenza della Sua venuta sulla terra, della Sua morte e resurrezione: è lo Spirito Santo che sarà fonte di illuminazione e guida, ma al tempo stesso causa di odio e divisione; è infatti lo Spirito di Dio che separa davvero i due mondi ai quali appartengono gli uomini, cioè quello dei Suoi figli, che attraverso lo Spirito si caratterizzano, e quello di coloro che si sono dati all’Avversario. Certo, la prima conseguenza di questo “fuoco” è la liberazione dal potere della carne, la capacità di agire in modo a lei assolutamente opposto come vediamo nell’episodio in cui lo Spirito Santo scese sui componenti della Chiesa di Gerusalemme e con la caratterizzazione di ciascuno attraverso i suoi doni, in parte diversi da quelli di un tempo.

La frase “e quanto vorrei che fosse già acceso”, qui così chiara, ha in realtà costituito un problema per tutti i traduttori stante lo stile secco e conciso che la caratterizza. Abbiamo infatti: “e che voglio, se è già acceso?” e “Che posso volere, se non che fosse già acceso?”. Tutte e tre le interpretazioni sono ugualmente degne di considerazione. La seconda, che vede il fuoco “già acceso” vede lo Spirito Santo già pronto per essere dato agli uomini (anticipazione e prospettiva), ma la prima e la terza ci mostrano la realtà del Gesù uomo: “quanto vorrei”. È certo che un Dio vuole, non vorrebbe, ma qui c’è la constatazione di Colui che volontariamente ha scelto di prendere il tempo dell’uomo e viverlo con lui per cui deve sottostare alle dinamiche della terra, dei suoi giorni, del cammino necessario fino alla morte del proprio corpo di carne. Quando Nostro Signore pronuncia questa frase il principio dell’eternità secondo il quale “davanti al Signore un giorno è come come mille anni e mille anni come un giorno solo” (2 Pietro 3.8) non valeva. “Quanto vorrei che fosse già acceso”, è uno stato d’animo chiaramente da collegare al verso 50 quando, parlando della Sua morte, il “battesimo nel quale sarò battezzato”, dice “e come sono angosciato, finché non sia compiuto!”.

Sarebbe stato un battesimo di sangue, quello riservato solo a Lui, che consentirà lo svolgersi di avvenimenti prima impossibili: “Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni – ecco una delle basi della fede –. Innalzato dunque alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire. Davide infatti non salì al cielo; tuttavia egli dice: «Disse il Signore al mio Signore: siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici come sgabello dei tuoi piedi” (Atti 2.32-35).

Gesù sapeva che il suo ultimo tempo era vicino e avrebbe voluto anticiparlo. E sappiamo che, quando l’ora di quel battesimo si avvicinava, portò i suoi discepoli a Gerusalemme con una risolutezza tale da lasciarli impressionati: “Mentre erano sulla strada per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro ed essi erano sgomenti: coloro che lo seguivano erano impauriti. Presi di nuovo in disparte i Dodici, si mise a dire loro quello che stava per accadergli: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani, lo derideranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno, e dopo tre giorni risorgerà” (Marco 10.32-34).

Ancora, teniamo presente che Nostro Signore sapeva che, “disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma quella di Colui che mi ha mandato” (Giovanni 6.38), avrebbe avuto in premio non solo “un nome che è al di sopra di ogni altro”, ma anche tutti coloro che avrebbe resuscitato: “Questa è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio – di persona come a quel tempo o in spirito come per noi oggi – e crede in lui – precisazione fondamentale – abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (Giovanni 6.40).

A questo punto, tornando ai nostri versi, Gesù sa che i discepoli non avevano ancora abbandonato l’idea che fosse un Messia nel senso umano del termine, cioè che avrebbe portato tranquillità e pace al suo popolo; per questo li disillude e li informa che, se sarebbero rimasti con lui, avrebbero certamente avuto “pace con Dio”, ma guerra con gli uomini che si sarebbe manifestata in tanti modi che qui vengono ristretti alla cerchia familiare perché solitamente simbolo di unità. Certo le sue parole riguardano non solo i Dodici, anzi gli Undici, ma tutti quanti sarebbero rientrati nel numero di quelli che avrebbero creduto davvero; la divisione di cui parla Nostro Signore si riferisce proprio all’àmbito ebraico, dove la tradizione religiosa si scontrerà con l’essere liberi da essa; basta ricordare quante volte proprio i Giudei cercarono di uccidere Paolo e tutti i complotti orditi contro di lui e, prima ancora, la lapidazione di Stefano.

Ora chi ha letto gli scritti dell’Antico Patto sa che là dove c’è chi agisce spinto dall’amore per Dio (da Lui ricambiato) e chi il mondo lo vive è sempre esistito un conflitto insanabile. Lo abbiamo visto a partire da Caino e Abele: l’uomo o gli uomini che appartengono profondamente alla carne non tollerano quelli che appartengono allo Spirito, o anche solo tendono verso di esso, e pertanto li combattono. È sufficiente dirsi cristiani e non condividere le loro idee o tendenze per suscitare reazioni negative.

Paolo spiegò molto bene questo stato di cose parlando dei figli di Agar e di Sara: “Voi, fratelli, siete figli della promessa, alla maniera di Isacco. Ma come allora colui che era nato secondo la carne – Ismaele, figlio appunto di Agar – perseguitava quello che era nato secondo lo spirito – Isacco –, così accade anche ora” (Galati 4.28,29). Si tratta di un’avversione istintiva, di un nulla in comune tra quella “luce” che venne subito separata dalle “tenebre” fin dal primo giorno della creazione, quando “Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre” (Genesi 1.3). Fu da quel gesto che la vita poté iniziare.

Certo è un principio che non solo l’apostolo Paolo si è limitato ad esporre: “Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelti dal mondo, per questo il mondo vi odia” (Giovanni 15.18,19). Da notare ciò che disse ai suoi fratelli che non credevano in Lui: “Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di esso io attesto che le sue opere sono malvage” (7.7). Ancora nella prima lettera di Giovani: “Questo è il messaggio che avete udito fin da principio: che ci amiamo gli uni gli altri. Non come Caino, che era dal maligno e uccise il suo fratello. E per quel motivo l’uccise? Perché le opere sue erano malvage, mentre quelle di suo fratello erano giuste. Non vi meravigliate, fratelli, se il mondo vi odia” (3.11.12).

Il mondo quindi “ama ciò che è suo” non può che recepire quanti non gli appartengono come qualcosa di estraneo, da eliminare, di ripugnante. Questo modo di reagire raggiungerà il suo culmine nel regime degli ultimi tempi, ma siccome sappiamo che fin dall’antichità è detto che “lo spirito dell’Anticristo viene, anzi è già nel mondo” (1 Giovanni 4.3), possiamo capire il perché incontriamo nel nostro cammino quotidiano persone spinte da uno spirito avverso e soprattutto quale, chi sia e da dove venga questo spirito. Amen.

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