14.05 – IL RITORNO DI ISRAELE I/IV (Zaccaria 12)

14.05 – Il ritorno di Israele I/IV (Zaccaria 12)

 

Con questo studio entriamo in un ambito molto particolare, quello che riguarda eventi che non interessano la Chiesa del tempo in cui viviamo e, anzi, riguardano essenzialmente il popolo d’Israele. Se il capitolo 12 di Zaccaria trova spazio in questa raccolta, è perché ha connessione con la parte finale di Luca 13.35 “Vi dico infatti che non mi vedrete, finché verrà il tempo in cui direte: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore»”.   

            Ora vi è un altro elemento da considerare e cioè che, in uno studio su profezie che riguardano avvenimenti futuri, occorre sempre guardarsi dal pericolo di facili sensazionalismi, del soddisfare quella curiosità naturale che si impossessa facilmente di chiunque sente parlare di eventi che devono ancora accadere. Non a caso si trovano in commercio molti libri che promettono rivelazioni sensazionali sul futuro, non necessariamente riferentesi al libro dell’Apocalisse, scritti pseudo spirituali come “la profezia di Celestino”, quelle di Nostradamus e molti altri.

Penso che, a meno di una rivelazione specifica dello Spirito di Dio, occorra attenersi al testo e svilupparlo aderendo il più possibile ad esso tenendo presente che allo stesso Giovanni venne ordinato di non scrivere alcuni eventi di cui fu testimone: “Dopo che i sette tuoni ebbero fatto udire la loro voce, io ero pronto a scrivere, quando udii una voce dal cielo che diceva: «Metti sotto sigillo quello che hanno detto i sette tuoni e non scriverlo»” (Apocalisse 10.14). In altri termini, occorre parlare di eventi futuri solo se esiste la certezza di affrontare fatti veramente destinati ad accadere nella giusta collocazione temporale e solo se inquadrati sotto la prospettiva dell’altrui edificazione.

Il libro di Zaccaria si divide in due parti: la prima, dai capp. 1 a 8, riguarda l’attività del profeta a Gerusalemme dal 520 al 518 circa. Si tratta di otto visioni in cui Zaccaria annuncia ai suoi contemporanei che la loro speranza non è stata vana e il Tempio verrà ricostruito per accogliere il Signore che verrà a stabilire il suo regno. La seconda, capp. 9 – 14, scritta da un altro uomo di Dio, è posteriore di due secoli e sposta l’asse profetico agli ultimi tempi, quando Israele verrà assalito dalle nazioni e verrà salvato da Dio, come vedremo, con un intervento diretto del Figlio. È quindi il tempo di cui ha parlato l’apostolo Paolo, senza scendere nei dettagli, nella lettera ai Romani che abbiamo citato nello studio precedente.

Il capitolo 12 riguarda una parte di quegli avvenimenti, in particolare quelli attinenti alle parole di Gesù “Vi dico che non mi vedrete, finché direte «Benedetto colui che viene nel nome del Signore»”. Il testo che utilizzeremo non sarà quello della CEI come abitualmente, ma della Bibbia di Gerusalemme.

 

1 Oracolo. Parola del Signore su Israele. Oracolo del Signore che ha dispiegato i cieli e fondato la terra, che ha formato il soffio vitale nell’intimo dell’uomo”.

 

Come in tutti i passi profetici che riguardano gli avvenimenti futuri, abbiamo sempre una presentazione che non è mai dell’autore tecnico del libro, cioè il profeta che, tanto negli scritti dell’Antico che del Nuovo patto, precisa sempre quando ciò che scrive è parola di Dio o opinione sua. In questo primo verso la prima parola è “Oracolo”, cioè “responso” e, per non lasciare subbi sulla sua provenienza perché anche i pagani o le divinità estranee avevano i loro, lo Spirito ha lasciato le credenziali di chi parla: ciò che seguirà è la “Parola del Signore su Israele”, quindi non su altri, e per non lasciare alcun dubbio viene detto che a parlare è lo stesso “Signore che ha dispiegato i cieli e fondato la terra”.

Notiamo la singolarità del verbo, “dispiegato”, non “creato” cioè aggiunge un dato a Genesi 1.1 quando leggiamo “In principio Iddio creò il cielo e la terra”: se qui la descrizione della creazione riguarda l’ambiente in cui l’uomo vive, Zaccaria si fa tramite di una descrizione più ampia dell’atto creativo di Dio che prima ha “dispiegato i cieli”, cioè ha dato inizio all’espansione dell’Universo, ha ordinato gli spazi dei sistemi stellari e solo allora ha “fondato la terra”, quando cioè poteva esistere, al pari degli altri, come pianeta, questa volta abitabile. E ci sono voluti milioni e milioni di anni, e l’espansione dell’Universo la Scienza ci dice sia ancora in corso.

Se le fondamenta sono le strutture portanti di un edificio e garantiscono che questo possa sussistere nel tempo, “fondato la terra” significa porla nelle condizioni di esistere fino a quando il Creatore non ne decreterà la fine coi “nuovi cieli e nuova terra dove dimora stabile la giustizia”. E se tutti parlano di “Big bang”, molti meno di “Big crunch”, cioè la certa implosione del creato.

Altro modo che ha di presentarsi il Signore è come Colui “che ha formato il soffio vitale nell’intimo dell’uomo”, cioè l’autore non solo della vita materiale come per tutti gli animali, ma del fatto che l’uomo è persona, individuo unico, in grado di determinare il proprio destino tramite il libero arbitrio. Il “soffio vitale” sappiamo che fu l’unico elemento che rese possibile che l’essere umano diventasse “anima vivente” – ricordiamo “Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere dal suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne anima vivente” –, che altri traducono, attenuando il concetto, con “essere vivente”.

Stupendo è in proposito per noi il parallelo con Giovanni 20.22 quando, risorto, Gesù disse ai Suoi “«Pace a voi!». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo»”.

Questo “soffio vitale” in Genesi è stato “formato nell’intimo dell’uomo” cioè in quella regione più personale e nascosta, il cervello e quindi la mente, che solo Dio è in grado di vagliare e conoscere nel profondo nonostante la conoscenza, limitata comunque, della psicologia, psicanalisi e altre forme. Presentandosi come il responsabile del creato e del fatto che l’uomo sia un individuo a parte tra gli esseri viventi perché dotato di anima, JHWH anticipa che quanto verrà proclamato si tratta di eventi che si verificheranno inevitabilmente nei tempi da lui decretati.

 

2Ecco, io farò di Gerusalemme come una coppa che dà le vertigini a tutti i popoli vicini, e anche Giuda sarà in angoscia nell’assedio di Gerusalemme. 3In quel giorno io farò di Gerusalemme come una pietra pesante per tutti i popoli: quanti vorranno sollevarla ne resteranno graffiati; contro di essa si raduneranno tutte le nazioni della terra.

 

Il verso 2 dà tre elementi degni di nota: Gerusalemme, la città che più di altre è il simbolo dell’ebraismo e capitale dello Stato di Israele, diventerà “come una coppa che dà le vertigini a tutti i popoli vicini”: la parola chiave del verso è “vertigini”, che sono sinonimo di mancanza di equilibrio. Chi ne soffre ha la sensazione di un movimento rotatorio o di sbandamento e non riesce a percorrere nessuna distanza. Gerusalemme qui dà questa sensazione dapprima “a tutti i popoli vicini”, ma poi a tutti gli altri indistintamente – la “pietra pesante per tutti i popoli” del verso 3 – ed è facile per noi, che sono convinto viviamo davvero negli ultimi tempi, pensare alla Gerusalemme “ufficiale”, quella nata politicamente il 14 maggio 1948 quando Israele proclamò la sua indipendenza provocando la immediata reazione di Egitto, Giordania, Siria, Libano e Iraq innescando un conflitto che durò quindici mesi e che videro, da parte israeliana, circa seimila morti.

Tutto questo fu solo l’inizio: Israele iniziò a ingrandirsi perché ogni ebreo sparso nel mondo aveva diritto di cittadinanza e di ingresso nel territorio e si può dire che quello Stato passò di guerra in guerra per sussistere; ricordiamo tra le più importanti la guerra dei sei giorni (1967), la guerra d’attrito dell’Egitto, quella del Kippur (1963) con Egitto e Siria e tutti i conflitti con l’OLP dal 1982 e, per gli anni 2000, la seconda guerra del Libano, l’operazione a Gaza del 2008. Certo sono dati molto essenziali, ma credo sufficienti ad aiutare a comprendere il concetto di “coppa che dà le vertigini a tutti i popoli vicini”. Neppure quanto sta accadendo attualmente a Gaza (ottobre 2023) è un caso.

Dalla seconda metà del verso 2 e per tutto il successivo, però, andiamo in un tempo ancora a venire perché “Gerusalemme”, quindi Israele come Stato, diventerà per volere di Dio “una pietra pesante per tutti i popoli”, cioè le decisioni militari e politiche da lei prese interferiranno coi piani delle altre nazioni al punto tale che una guerra sarà inevitabile; una guerra di proporzioni enormi perché “contro di essa si raduneranno tutte le nazioni della terra”. L’impossibilità delle relazioni diplomatiche con Israele è descritta con la figura della pietra pesante che causa lesioni a “quanti vorranno sollevarla”, qui citazione di un gioco piuttosto pericoloso in voga al tempo in cui viveva l’autore del passo, che consisteva nel fare sollevamento pesi utilizzando appunto una grossa pietra tonda che, nel caso in cui venissero a mancare le forze a chi gareggiava, poteva provocare traumi molto seri. Possiamo ricordare, anche se con significato diverso, Matteo 21.44, “Chi cadrà sopra questa pietra si sfracellerà, e colui sul quale essa cadrà, verrà stritolato”, in il riferimento è alla pietra angolare scartata dai costruttori, ma anche a quella grossa e pesante che, se non sollevata correttamente, può fare molto male a chi la vorrebbe utilizzare.

 

4In quel giorno, oracolo del Signore, colpirò tutti i cavalli di terrore e i loro cavalieri di pazzia, mentre sulla casa di Giuda terrò aperti i miei occhi, colpirò di cecità tutti i cavalli dei popoli.

 

“Cavalli”, “cavalieri”, “terrore”, “pazzia” e “cecità” sono termini da adattare al tempo in cui si verificheranno gli avvenimenti descritti al verso quarto: ci aiuta a comprendere il senso Salmo 76.5-8, “Furono spogliati i valorosi, furono colti dal sonno, nessun prode ritrovava la sua mano. Dio di Giacobbe, alla tua minaccia si paralizzano carri e cavalli. Tu sei davvero terribile; chi ti resiste quando si scatena la tua ira?”.

Tutti gli elementi citati da Zaccaria in questo verso si rifanno ad armi moderne, che Giovanni descriverà nel libro dell’Apocalisse col linguaggio che poteva utilizzare un uomo del suo tempo: i rimanenti termini, “terrore”, “pazzia” e “cecità”, credo siano un riferimento alla loro disattivazione nell’elettronica e nei sistemi di trasmissione; pensiamo a cosa vuol dire, ad esempio, restare senza la strumentazione GPS militare, senza i satelliti per le comunicazioni e il rilevamento, senza i radar. Armi non solo inutilizzabili, ma anche estremamente vulnerabili non solo quanto ad esse, ma soprattutto relativamente ai territori che avrebbero dovuto difendere.

Sì, ma qual è il significato di “In quel giorno”? Si tratta un momento unico, programmato dalla fondazione del mondo, che rientra nell’enunciato di Gesù in Matteo 24.36 “Quanto a quel giorno e a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli del cielo né il Figlio, ma solo il Padre” in quanto Creatore non solo dell’Universo, ma artefice del Piano di redenzione dell’uomo. Perché si realizzino le parole dell’apostolo Paolo che abbiamo letto, “allora tutto Israele sarà salvato”, occorrerà attendere proprio “quel giorno”, quello ultimo, quando una volta liberato Satana dopo il Millennio, scatenerà tutte le Nazioni contro Gerusalemme.

Leggiamo infatti: “Quando i mille anni saranno compiuti, Satana verrà liberato dal suo carcere e uscirà per sedurre le nazioni che stanno ai quattro angoli della terra, Gog e Magòg – popoli nemici di Israele –, e radunarle per la guerra; il loro numero è come la sabbia del mare. Salirono fino alla superficie della terra e assediarono l’accampamento dei santi e la città amata. Ma un fuoco scese dal cielo e li divorò” (Apocalisse 20.7-9).

Da notare, infine, il contrasto fra gli “occhi” di Dio, che li terrà “aperti sulla casa di Giuda”, e quelli dei suoi nemici, che avranno i loro “cavalli” colpiti di “cecità”.

Ecco, credo fortemente che Giovanni, scrivendo del “fuoco”, volutamente salta la parte di Zaccaria relativa alle manifestazioni dell’intervento del Cristo, che vedremo nella prossima parte.

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14.04 – IL LAMENTO DI GESÙ SU GERUSALEMME (Luca 13.34,35)

14.04 – Il lamento di Gesù su Gerusalemme (Luca 13.34,35)         

 

34Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te: quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! 35Ecco, la vostra casa è abbandonata a voi! Vi dico infatti che non mi vedrete, finché verrà il tempo in cui direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!».

 

            Direttamente connesso al verso precedente, quando Gesù disse che “non è possibile – o “conveniente” – che un profeta muoia fuori di Gerusalemme”, il verso 35 è una dichiarazione d’amore alla “Santa Città” che, rimanendo tale nei piani di Dio sotto la prospettiva di quella “celeste”, affidata agli uomini, ha fallito il suo mandato.

Iniziamo allora dal nome, “Gerusalemme”, che tradotto significa “fondazione di pace”, cioè Salem. Questo ci ricorda “Melchidedek, re di Salem” (Genesi 14.18), e soprattutto uno dei due monti su cui essa sorge, sul quale Abrahamo stava per sacrificare Isacco. Altro suo nome è Sion, essenzialmente “Segno”. E “Segno” infatti fu sempre: fu la “Città di Davide” in cui trasportò l’arca dell’alleanza e Salomone vi costruì il Tempio che andò a sostituire la tenda del convegno. L’area del Tempio occupava la cima del monte Moria, quello del sacrificio di Isacco. Sion fu il nome del Moria.

Gerusalemme, proprio in quanto figura spirituale, in un certo senso “Città di Dio” con il Tempio in cui JHWH dimorava, rappresentò sempre il termometro spirituale del popolo di Israele e dei suoi conduttori: fu per giudizio che la città ebbe le mura abbattute e la popolazione fu deportata (2 Re 25.1-21), per perdóno che nel 538 Ciro emanò il famoso editto che autorizzò il ritorno in patria degli ebrei.

Fu retta dai Persiani, occupata da Alessandro Magno (332 a.C.), dai re Tolomei d’Egitto e dai Seleucidi siriani, nel 167 abbiamo la profanazione di Antioco Epifane di cui abbiamo parlato, la riconquista con Giuda Maccabeo e poi nel 63 Pompeo, generale romano, la riconquistò insediandovi come re Erode il Grande.

Quello che è stato definito il “lamento di Gesù su Gerusalemme”, riportato identico da Matteo (13.34,35) anche se probabilmente si verificò in un altro momento, è anche un atto d’accusa: la città che coi suoi abitanti avrebbe dovuto illuminare il mondo, rifiutò questo compito uccidendo i profeti e lapidando quelli che erano stati inviati a lei; tramite loro Dio avrebbe voluto raccogliere il popolo sotto le Sue ali dove avrebbe ricevuto amore e protezione. Nello scorso studio erano stati citati Zaccaria figlio di Ioiadà, ucciso dal re Ioas, ma sono molti di più, come riassume Nehemia 9.25,26 quando leggiamo “Essi si sono impadroniti di città fortificate e di una terra grassa e hanno posseduto case piene di ogni bene, cisterne scavate, vigne, oliveti, alberi da frutto in abbondanza; hanno mangiato e si sono saziati e si sono ingrassati e sono vissuti nelle delizie per la tua grande bontà. Ma poi hanno disobbedito e si sono ribellati contro di te, si sono gettati la tua legge dietro le spalle, hanno ucciso i tuoi profeti che li ammonivano per farli tornare a te, e ti hanno insultato gravemente”. È comunque raccomandabile la lettura dei versi successivi che testimoniano l’indurimento di cuore del popolo cui si contrappone l’amore di Dio che chiama alla conversione.

L’uccisione dei profeti è riportata da molti passi dell’Antico Patto, ad esempio Geremia 2.30 (“La vostra spada ha divorato i vostri profeti come un leone distruttore”), ma è sufficiente andare alle parole di Gesù nella parabola dei contadini omicidi per capire la portata del misfatto operato dal popolo e dai suoi rettori: “Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo” (Matteo 21-35.36).

È chiaro che l’uccisione di un profeta è il rifiuto più eloquente di ascoltare il messaggio di Dio che lo ha inviato, talché “Il mio popolo non ha ascoltato la mia voce, Israele non mi ha obbedito: l’ho abbandonato alla durezza del suo cuore. Seguano pure i loro progetti!” (Salmo 81.12,13). Ma dove li avrebbero portati questi progetti, anche quelli di oggi? Nel nostro passo abbiamo parole differenti, ancora più crude perché dicendo “la vostra casa è abbandonata a voi”, che una traduzione migliore riporta con “La vostra casa è lasciata deserta”, si allude chiaramente a ciò che contiene, cioè il Tempio, centro di tutto il Giudaismo, in cui l’Iddio di Israele abitava: questi sarebbe stato lasciato vuoto, la presenza del Signore se ne sarebbe andata per sempre e la dimostrazione di ciò sarebbe stato proprio il fatto che tutta Gerusalemme sarebbe stata data in mano ad altri: nel 70 d.C. le armate di Tito conquistarono la città, ne abbatterono le mura e incendiarono il Tempio. In una guerra avvenuta anni dopo, nel 135, l’imperatore Adriano distrusse sistematicamente la città ricostruendola sul modello delle città coloniali romane e, tra l’altro, cambiò in nome da Gerusalemme a Ælia Capitolina.

Confrontando questi dati con le parole del pianto di Gesù su Gerusalemme in Luca 19.42-44 ne vediamo l’adempimento: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è nascosto ai tuoi occhi. Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte, distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata”.

Ad aggravare poi la drammaticità del tutto è il fatto che il rifiuto dell’ascolto del Figlio di Dio equivaleva a quello di Dio stesso e il libro del Levitico, quindi la Torah, annunciava le medesime, terribili conseguenze: “Se, nonostante tutto questo non vorrete darmi ascolto, ma vi opporrete a me, anch’io mi opporrò a voi con furore e vi castigherò sette volte di più per i vostri peccati. Mangerete perfino la carne dei vostri figli e mangerete la carne delle vostre figlie. Devasterò le vostre alture, distruggerò i vostri altari per l’incenso, butterò i vostri cadaveri sui cadaveri dei vostri idoli e vi detesterò. Ridurrò le vostre città a deserti, devasterò i vostri santuari e non aspirerò più il profumo dei vostri incensi. Devasterò io stesso la terra, e i vostri nemici, che vi prenderanno dimora, ne saranno stupefatti. Quanto a voi, vi disperderò fra le nazioni e sguainerò la spada dietro di voi; la vostra terra sarà desolata e le vostre città saranno deserte.” (26.27-33). Gerusalemme, allora, qui è un termine che riguarda la città quanto all’uccisione dei profeti, ma tutto Israele quanto a giudizio.

Ebbene, Gesù con le parole “Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i pulcini sotto le sue ali”, parla come Pastore del suo popolo e si riferisce non solo ai suoi tre anni di ministero, ma a tutte le Sue iniziative nella storia, attuate da Lui o dai profeti mandati perché lo riconoscessero una volta nato sulla terra. Come dice l’apostolo Pietro nella sua prima lettera (1.11), “essi cercavano di sapere quale momento o quali circostanze indicasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che le avrebbero seguite”. Le “volte” in cui Gesù volle raccogliere i figli di Gerusalemme (come simbolo e destinazione finale) furono davvero innumerevoli.

Il riferimento alle ali, poi, non è una forma poetica, ma la descrizione degli intendimenti di protezione come avvenuto con Giacobbe, poi chiamato Israele di cui è detto “Egli – il Signore – lo trovò in una terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo allevò, lo custodì come la pupilla del suo occhio. Come un’aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali” (Deuteronomio 32.10,11). Vediamo che alla “chioccia” qui è sostituita l’ “aquila” non perché rapace, ma per le altezze che è in grado di raggiungere oltre alla vista acuta, mentre il concetto di “nidiata” rimane intatto. Inoltre, la metafora delle ali non era certo sconosciuta: ricordiamo le parole di Booz a Rut in 2.12 del libro omonimo: “…sia davvero piena per te la ricompensa da parte del Signore, Dio d’Israele, sotto le cui ali sei venuta a rifugiarti”. Anche Salmo 36.8 e molti altri passi che non riporto alludono alla stessa situazione: “Quanto è prezioso il tuo amore, o Dio! Si rifugiano gli uomini all’ombra delle tue ali”.

Eppure Gesù dice “e non avete voluto!”. Qui l’attenzione da prestare è grande perché coinvolge anche gli uomini di ogni tempo: non è detto “…e non avete capito”, o “avete frainteso”, ma chiama in causa una volontà cosciente e lucida, una scelta paragonabile a Giovanni 5.40, “Voi non volete venire a me per cambiare vita”. La volontà infatti nasce dal cuore, dall’anima e dallo spirito dell’essere umano che, purtroppo, nella maggioranza dei casi preferisce fare affidamento alle proprie forze, convinto di scegliere e decidere da sé il proprio destino, convinto di vivere sempre un eterno presente e realizzando purtroppo quando ormai è tardi che così non è. E possiamo ricordare Proverbi 1. 28-31: “Allora mi invocheranno, ma io non risponderò, mi cercheranno, ma non mi troveranno. Perché hanno odiato la sapienza e non hanno preferito il timore del Signore, non hanno accettato il mio consiglio e hanno disprezzato ogni mio rimprovero; mangeranno il frutto della loro condotta e si sazieranno delle loro trame”.

Proseguendo nella lettura del nostro passo abbiamo l’ ”Ecco, la vostra casa è abbandonata a voi”, su cui torno ancora un attimo: abbiamo il motivo nel senso che “Ecco” qui ci da la modalità dell’abbandono: “Da ora innanzi non mi vedrete” nel senso che Gesù, Uno col Padre, con la Sua assenza provocherà l’invisibilità di Dio a quello che era il Suo popolo. Il rifiuto del Cristo quale Dio invisibile, “Padre per sempre” secondo Isaia, sarebbe stata cosa ben peggiore rispetto a quando Israele abbracciò l’idolatria e servì dèi stranieri.

A questo punto però vediamo che l’abbandono non sarà definitivo come rilevabile dal “finché diciate”, cioè “non mi riconoscerete per quello che sono”, cioè “Colui che viene nel nome del Signore”, parole tratte da Salmo 118.26 e che, per quanto dette dalla folla quando Gesù fece il suo ingresso trionfale in Gerusalemme (Matteo 21.9), hanno connessione al tempo della fine, quando Israele riconoscerà proprio in Lui il Messia promesso: quando Nostro Signore morì, Giovanni nel suo Vangelo fece due annotazioni in 19.36: “Questo avvenne perché si compisse la scrittura: «Non gli sarà spezzato alcun osso». E un altro passo della Scrittura dice ancora: «Guarderanno a colui che hanno trafitto»”.

Ora, se la prima è chiara perché il colpo di lancia del soldato romano non spezzò nessun osso e a Gesù non furono rotte le gambe perché era già morto, la seconda va oltre alla semplice constatazione del popolo della Sua morte, coinvolgendolo nel futuro: infatti “Non voglio che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi – disprezzando Israele –: l’ostinazione di una parte di Israele è in atto fino a quando non saranno entrate tutte le genti – cioè non sarà compiuto il numero dei salvati –. Allora tutto Israele sarà salvato, come sta scritto: «Da Sion uscirà il liberatore, egli toglierà l’empietà da Giacobbe. Sarà questa la mia alleanza con loro quando distruggerò i loro peccati». Quanto al Vangelo, essi sono nemici, per vostro vantaggio – nel senso che, se non lo avessero rifiutato, le dinamiche della salvezza sarebbero state differenti –; ma quanto alla scelta di Dio, essi sono amati a causa dei padri, infatti i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! Come voi un tempo siete stati disobbedienti a Dio e ora avete ottenuto misericordia a motivo della loro disobbedienza, così anch’essi ora sono diventati disobbedienti a motivo della misericordia da voi ricevuta, perché essi ottengano misericordia.” (Romani 11.25-32).

Sarà cura del prossimo studio esaminare, per quanto consentito dallo Spirito, le modalità del ritorno di Israele a Cristo: lo faremo esaminando il capitolo 14 del libro di Zaccaria.

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14.03 – DITE A QUELLA VOLPE (Luca 13.31-33)

14.03 – Dite a quella volpe (Luca 13.31-33)

 

31In quel momento si avvicinarono alcuni farisei a dirgli: «Parti e vattene via di qui, perché Erode ti vuole uccidere». 32Egli rispose loro: “Andate a dire a quella volpe: «Ecco, io scaccio demòni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno la mia opera è compiuta. 33Però è necessario che oggi, domani e il giorno seguente io prosegua nel cammino, perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme»”.

 

            L’episodio si apre con un gruppo di Farisei che esortano Gesù ad andarsene stante le intenzioni ostili di Erode. Ciò avvenne “in quel momento” secondo la nostra traduzione, o “In quello stesso giorno” stando ad altre, dopo la risposta alla domanda “Signore, sono pochi coloro che si salvano?”.

A questo punto, per analizzare il nostro passo, coi Farisei che si avvicinano a Nostro Signore e lo invitano ad andarsene perché Erode voleva ucciderlo, occorre ragionare sulle condizioni che si erano venute a creare: partendo dal “re”, è chiaro che la presenza di Gesù nei suoi territori, la Transgiordania, lo infastidiva anche perché gli rammentava l’omicidio di Giovanni Battista. Ricordiamo infatti Matteo 14.2, “Egli disse ai suoi cortigiani: «Costui è Giovanni Battista. È risorto dai morti e per questo ha il potere di fare prodigi»”, ma anche Marco 6.16 “Ma Erode, al sentirne parlare, diceva: «Quel Giovanni che io ho fatto decapitare, è risorto»”.

Una persona superstiziosa come Erode, quindi, preferì fare in modo che si allontanasse da quei territori utilizzando i Farisei di cui, come abbiamo già avuto modo di considerare, si era già servito per attirare Giovanni nella sua giurisdizione per poterlo catturare.

L’invito ad andarsene da quei luoghi “perché Erode ti vuole uccidere”, poi, rivela come i Giudei non avessero capito nulla di Gesù, essendo convinti che quella frase fosse sufficiente a intimorirlo quasi che fosse un uomo qualunque, desideroso di prolungare la propria vita il più possibile.

La risposta che questi ebbero, “Andate a dire a quella volpe”, conferma i rapporti che intercorrevano tra loro ed Erode: li tratta cioè come suoi agenti e al tempo stesso ne rivela la profonda inadeguatezza davanti alla morale di Dio, essendosi alleati con un uomo sanguinario, un “malvagio” sul quale è “la maledizione del Signore” (Prov. 3.33).

In uno scorso studio ci siamo occupati della “volpe” e ne abbiamo sviluppato il significato; qui possiamo affrontare brevemente il tema della persona calcolatrice e operante a danno degli altri: il malvagio è colui che prova piacere nel fare il male restando indifferente alle conseguenze che esso provoca, ma anche colui che è avverso, cattivo, spiacevole, porta dolore, ha forza negativa. E da queste caratteristiche è facile individuare una relazione con l’Avversario. C’è però un particolare visto nell’indifferenza alle altrui sofferenze, nel disinteresse alle esigenze del nostro simile che è il peccato di Sodoma e dei suoi territori: pensando alla soddisfazione della propria persona e pur di raggiungere la soddisfazione individuale, non si fa caso agli altri né tantomeno a ciò che Dio si aspetta da noi. Il peccato di Sodoma fu proprio l’indifferenza, la sopraffazione, la santificazione dell’egoismo che portò, tra le altre cose, ad esercitare la promiscuità sessuale, omosessualità compresa.

E infatti leggiamo in Romani 1. 18-32: “…L’ira di Dio si rivela dal cielo contro ogni empietà e ogni ingiustizia di uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia, poiché ciò che di Dio si può conoscere è loro manifesto; Dio stesso lo ha manifestato a loro. Infatti le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute. Essi dunque non hanno alcun motivo di scusa perché, pur avendo conosciuto Dio, non lo hanno glorificato né ringraziato come Dio, ma si sono perduti nei loro vani ragionamenti e la loro mente ottusa si è ottenebrata. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno scambiato la gloria del Dio incorruttibile con un’immagine e una figura di uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e rettili – l’idolatria –. Perciò Dio li ha abbandonati all’impurità secondo i desideri del loro cuore, tanto da disonorare fra loro i propri corpi, perché hanno scambiato la verità di Dio con la menzogna e hanno adorato e servito le creature anziché il Creatore, che è benedetto in eterno, amen. Per questo Dio li ha abbandonati a passioni infami; infatti, le loro femmine hanno cambiato i loro rapporti naturali in quelli contro natura. Similmente anche i maschi, lasciando il rapporto naturale con la femmina, si sono accesi di desiderio gli uni per gli altri, commettendo atti ignominiosi maschi con maschi, ricevendo così in se stessi la retribuzione dovuta al loro traviamento. E poiché non ritennero di conoscere Dio adeguatamente, Dio li ha abbandonati alla loro intelligenza depravata ed essi hanno commesso azioni indegne: sono colmi di ogni ingiustizia, di malvagità, di cupidigia, di malizia; maldicenti, nemici di Dio, arroganti, superbi, presuntuosi, ingegnosi nel male, ribelli ai genitori, insensati, sleali, senza cuore, senza misericordia. E, pur conoscendo il iudizio di Dio, che cioè gli autori di tali cose meritano la morte, non solo le commettono, ma anche aprovano chi le fa”.

Un passo lungo che era doveroso riportare e che andrebbe meditato frase per frase per i rimandi che contiene.

 

Rientrando ora al nostro testo i Farisei, che avrebbero dovuto essere le guide spirituali del popolo, intrattenevano cordiali rapporti con una persona, Erode, che apparteneva alla categoria dei malvagi verso i quali la Scrittura ha parole di ferma condanna. Abbiamo poc’anzi citato il libro dei Proverbi: vediamo che “Il malvagio nel suo cuore trama cose perverse” (6.14), quindi non è solo banale cattiveria, su di lui “sopraggiunge il male che teme” (11.8), “non resterà impunito” (11.21), è “travolto dalla propria cattiveria” (14.32), la sua via “è retta ai propri occhi” (12.15), è stato “fatto per il giorno della sventura” (16.4), “non cerca altro che la ribellione, ma gli sarà mandato contro un messaggero senza pietà” (17.11). Interiormente e senza saperlo, poi, “fugge anche se nessuno lo insegue” (28.1) e un fratello un giorno disse che “sta male anche quando sta bene”, tutto questo anche se “vive a lungo nonostante la sua iniquità” (Ecclesiaste 7.15). Infine, per quanto deuterocanonico, Siracide 11.33, “Guàrdati dal malvagio, perché egli prepara il male: che non disonori per sempre anche te”. Ecco il rimprovero, o se preferiamo la realtà, che Gesù dichiara con il “Dite a quella volpe”: possiamo dire che “ce n’è” per Erode, ma anche per i Farisei che con lui formano un tutt’uno.

 

Fatta questa premessa, giungiamo al messaggio di Gesù al verso 32 e 33, che divideremo in due parti. La prima: “Ecco, io scaccio demòni e compio guarigioni oggi e domani; e il terzo giorno la mia opera è compiuta”. Qui Nostro Signore dà la descrizione più visibile, immediata, del Suo operare, cioè ridare la dignità all’uomo visibilmente, oggettivamente schiavo dell’Avversario tanto nelle forme più gravi della possessione, quanto in quelle più “lievi” ma moralmente non meno penose della malattia e del peccato. Poi parla anche di un’ “opera compiuta”, quindi di tutto quello che aveva fatto e farà perché non uno “iota” della Legge passasse, fosse adempiuto.

C’è poi ”oggi”, “domani” e “il terzo giorno la mia opera è compiuta”, espressione proverbiale per indicare un tempo molto breve, ma anche quelli di Dio che non si possono conoscere.

I giorni cui Gesù fa riferimento qui sono i due mesi e mezzo che mancano alla Sua morte, a quel “Tutto è compiuto” che costituisce, in pratica, la firma al Suo testamento, poi sigillato dalla risurrezione.

 

Questa frase di Gesù, poi, è anche un riferimento al fatto che né Erode né i farisei suoi alleati avrebbero potuto fare alcunché per interferire in quel periodo rappresentato da “oggi, domani e il terzo giorno”.

La seconda parte del messaggio ad Erode, quella al verso 33, riprende inizialmente il tema dei tre giorni: era necessario che Gesù continuasse nel Suo cammino “Oggi, domani e il giorno seguente”, il suo ultimo periodo di cui il numero tre attesta la perfezione del compiuto soprattutto alla luce della Sua divinità e partecipazione del Padre e dello Spirito Santo. Sarebbero stati giorni in cui Nostro Signore avrebbe proseguito “nel cammino”, cioè nelle ultime fasi di quell’itinerario preparato per Lui e per Lui solo. La nostra attenzione qui si sposta proprio sul “cammino” che, per quanto abbia attinenza con la geografia, ha comunque le stesse caratteristiche di quello compiuto fino ad allora, cioè di guarigione, insegnamento, liberazione.

Infine abbiamo letto “…perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme”: altri più propriamente traducono “non sarebbe conveniente” e si tratta di una frase che ha due significati, il primo che, per quanto Antipa potesse essere crudele, non poteva eguagliare il Sinedrio e i Sommi Sacerdoti che avrebbero istigato il popolo a che fosse condannato, il secondo che proprio Gerusalemme, la “Santa Città” era quella che uccideva i profeti e lapidava coloro che gli erano mandati (Luca 13.34,35) come vedremo nel prossimo studio.

Abbiamo infatti il caso di Zaccaria figlio di Gioiadà, lapidato nel cortile del tempio per ordine del re, reo di aver detto “Perché trasgredite i comandi del Signore? Per questo non avete successo: poiché avete abbandonato il Signore, anch’egli vi abbandona” (2 Cronache 24.20-22), di Uria, figlio di Semaià, passato a fil di spada e gettato nelle fosse della gente comune (Geremia 26.20-23). Ricordiamo anche 2 Cronache 36.15 che ricorda la deportazione babilonese: “Il Signore, il Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora. Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio”.

Altro episodio che possiamo ricordare è in Matteo 23.29-35 quando Gesù ricorda che lo stesso odio contro i messaggeri di Dio viveva ancora nel cuore dei rettori del popolo del suo tempo: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che costruite le tombe dei profeti e adornate i sepolcri dei giusti, e dite: «Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non saremmo loro complici nel versare il sangue dei profeti». Così testimoniate contro voi stessi, di essere figli di chi uccise i profeti. Ebbene, voi colmate la misura dei vostri padri. Serpenti, razza di vipere, come potrete sfuggire alla condanna della Geenna? Perciò ecco, io mando o voi i profeti, sapienti e scrivi: di questi, alcuni li ucciderete  – Stefano, ad esempio – e crocifiggerete, altri li flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città; perché ricada su di voi tutto il sangue innocente versato sulla terra, dal sangue di Abele il giusto fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachia – o Gioiadà – che avete ucciso tra il santuario e l’altare. In verità vi dico: tutte queste cose ricadranno su questa generazione”.

Il sacrificio di Gesù il Cristo, sarebbe stato di liberazione e santificazione per pochi, di condanna senza possibilità di appello per molti. Amen.

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14.02 – COLORO CHE SI SALVANO II/II (Luca 13.26-30)

13.19 – Quelli che si salvano II/II (Luca 13.26-30) 

 

26Allora comincerete a dire: «Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze». 27Ma egli vi dichiarerà: «Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!». 28Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. 29Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. 30Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi».

 

            Il verso 26 esprime una prima reazione alla risposta “Non so di dove siete” (che verrà ripetuta due volte). Anche qui il Padrone di casa viene trattato dagli esclusi come uno smemorato e un ingrato stante il fatto che disconosceva la relazione di familiarità intercorsa un tempo tra di loro: fanno riferimento all’aver “mangiato e bevuto alla tua presenza” e al fatto che Lui avesse “insegnato nelle nostre piazze”, privilegi di fronte ai quali non avevano però saputo trarre alcun vantaggio spirituale. Di quel mangiare e bere e di quell’insegnamento era rimasto il ricordo formale, ma non l’immedesimazione, il partecipare, la vera appartenenza. E anche qui ci ricolleghiamo al sermone sul monte: “Non chiunque mi dice: «Signore, Signore» entrerà nel regno dei cieli, ma chiunque fa la volontà del padre mio che è nei cieli. In quel giorno molti mi diranno: «Signore, Signore, non abbiamo noi forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demòni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?». Ma allora io dichiarerò loro: «Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità»” (Matteo 7.21-23).

Da queste ultime parole, che vanno ad ampliare quelle su cui stiamo meditando e viceversa, vediamo un fatto nuovo e cioè che la categoria di persone che vuole entrare nel regno è differente dalla quella riportata da Luca: in Matteo abbiamo “profetato nel tuo nome”, cioè predicato, parlato di Lui e operato apparentemente per il bene, “scacciato demòni” e “compiuto molti prodigi” a conferma del fatto che il miracolo non sempre è detto che provenga da Dio, ma sia qualcosa di ambivalente nel senso che può attrarre un’anima alla vera fede, o distoglierla. E questa è una prima interpretazione; in realtà, l’ ”abbiamo”, è riferito alla storia di tutto il popolo di cui quei richiedenti si appropriano in quanto a lui appartenenti. Per quanto riguarda i miracoli, invece, a parte che molti furono quelli di cui Israele fu protagonista nella sua storia, credo che sia molto semplice stabilire se un discorrere di Dio o qualsiasi altra manifestazione provenga da Lui o dall’Avversario: basta vedere dove o a chi essa porta, se a Cristo oppure no, è sufficiente non limitarsi al vivere secondo una coscienza cristiana generica, ma a crescere nella dottrina, fondamentale per orientare le scelte della persona per non subire gli effetti di un pressapochismo sempre pericoloso perché, il più delle volte, si affida al semplice, immediato sentimentalismo.

Aprendo una brevissima parentesi, proprio il Vangelo, paradossalmente, si presta ad interpretazioni facili perché non si pensa che le parole di Gesù furono pronunciate stante la necessità di fornire un insegnamento essenziale ai presenti e sarà solo più avanti che gli apostoli, costituita la Chiesa, forniranno istruzioni dettagliate perché quelle fossero comprese ed inquadrate nella giusta misura. Viceversa Pietro, Giovanni, Giacomo, Giuda e Paolo non avrebbero scritto nulla. Senza dottrina non si cresce, non si va da nessuna parte, non è possibile praticare né tantomeno insegnare la Parola, leggere correttamente gli avvenimenti che riguardano noi o altri.

Vagliare gli spiriti, poi, è qualcosa che siamo chiamati a fare quotidianamente, per non cadere vittima di falsi “amici” o “fratelli”, come scrive l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera: “Carissimi, non crediate a ogni spirito, ma provate gli spiriti per sapere se sono da Dio, perché molti falsi profeti sono sorti nel mondo. Da questo conoscete lo Spirito di Dio: ogni spirito, il quale riconosce pubblicamente che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio; e ogni spirito che non riconosce pubblicamente Gesù, non è da Dio, ma è lo spirito dell’anticristo. Voi avete sentito che deve venire; e ora è già nel mondo” (4.1-6). Sono parole terribili se pensiamo al pressapochismo con il quale a volte valutiamo le persone che hanno a che fare con noi. Ecco perché, nelle nostre relazioni con il prossimo non credente e soprattutto non convertito nei fatti, non dovremmo mai lasciare che, al di là della cordialità e disponibilità comunque dovuta, questa persona diventi dominante su di noi finendo per condizionare le nostre scelte e la nostra vita.

 

Ora, concludendo il verso 26, è facile identificare nei postulanti gli ebrei non cristiani che ipocritamente, trovandosi la porta chiusa, ricorrono alla loro appartenenza formale al Popolo di Dio, mentre quelli di Matteo 7 sono da individuarsi anche nella Chiesa nominale, quella sterile, che sprona alla superstizione, che mira alle masse per scopi diversi dalla salvezza e dalla predicazione del Vangelo, che parla di bontà, pace, fratellanza e solidarietà lasciando accuratamente Cristo fuori da qualsiasi discorso, anteponendo a Lui le opere proprio come abbiamo letto. Infatti, non esiste anima salvata che non conosca Cristo Gesù e viceversa perché “Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me; così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore” (Giovanni 10.14). Questo citando il primo verso che mi viene in mente e sul quale ciascuno può fare i propri, ulteriori collegamenti, precisando che il perdóno, il risollevamento dell’uomo dalla propria condizione umiliante non era certo sconosciuto ai tempi di Gesù, perché “Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato. Beato l’uomo a cui Dio non imputa il delitto e nel cui spirito non è inganno. (…) Ti ho fatto conoscere il mio peccato, non ho coperto la mia colpa. Ho detto: «Confesserò al Signore le mie iniquità» e tu hai tolto la mia colpa e il mio peccato” (Salmo 32. 1-5).

Facendo un breve inciso, vediamo da questo verso che esisteva comunque un rapporto di conoscenza fra YHWH e il suo popolo ma questo, salvo rari casi, non era reciproco né lo poteva essere per l’assenza di un mediatore che sarebbe venuto dopo nella persona di Nostro Signore che avrebbe portato un’identificazione tra Lui e la creatura.

 

Ebbene, abbiamo al verso 27 il secondo disconoscimento del padrone di casa, al quale vengono aggiunte le stesse parole di Matteo, “Allontanatevi da me, voi tutti operatori d’ingiustizia”, fatto che Gesù aveva avvertito che si sarebbe verificato quando disse “Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli” (Matteo 10.32).

“Operatori d’ingiustizia” in contrapposizione a quelli “di pace, perché saranno chiamati figli di Dio” (Matteo 5.9): quindi la “pace” cui allude Nostro Signore non è quella tra uomo e uomo, ma tra uomo e Dio, indispensabile a costruire il rapporto con Lui (e con fratelli e sorelle) altrimenti perduto col peccato dei nostri progenitori. Infatti, “Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore” (Romani 5.1).

La confusione che regna al di fuori di questa regola è enorme e, lasciando scadere la genuinità del principio, lascia il campo aperto a dottrine diverse che portano alla sterilità e alla futura estromissione perché altro non fanno che ampliare l’ingiustizia, la sola che regna nel cuore dell’uomo non rigenerato. Ha scritto Papa Ratzinger: “Per entrare nella giustizia è necessario uscire dall’illusione di autosufficienza, dallo stato profondo di chiusura che caratterizza l’uomo irrigenerato e che è l’origine stessa dell’ingiustizia”.

In opposizione a questo sistema perverso abbiamo la Giustizia di Gesù, che viene dalla Grazia, “Il fatto che l’espiazione avvenga nel sangue di Gesù significa che non sono i sacrifici dell’uomo a liberarlo dal peso delle colpe, ma il gesto dell’amore di Dio che si apre fino all’estremo, fino a far passare in sé la maledizione che spetta all’uomo, per trasmettergli in cambio la benedizione che spetta a Dio”. Infatti “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge, diventando lui stesso maledizione per noi” (Galati 3.13).

Ecco cosa significa essere “operatori di ingiustizia”: rifiutare l’amore di Dio e ciò che Lui si aspetta dall’uomo perché, agendo così, si rimane vittima della propria condizione umana, si resta unicamente carne, si cresce e si muore senza alcuna prospettiva, si rimane nell’ingiustizia e se ne diventa “operatori”.

Ma c’è di più, perché tutto torna indietro nel senso che viene rispedito al mittente visto nel “pianto e stridore di denti” come reazione a due eventi correlati, cioè il vedere “Abrahamo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori” (v.28): Gesù cita le persone che hanno costruito il Suo Popolo, Abrahamo cui venne fatta la Promessa, Isacco che la rese tangibile, Giacobbe cui fu detto “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto” (Genesi 32.29). Poi i profeti, tramiti di YHWH per rivelare il Suo volere e piani al popolo.

Siccome però tutto è stato fatto in vista della venuta del Cristo, rifiutato da quelli rimasti fuori dalla porta, il “pianto e stridore di denti” è l’unica reazione possibile una volta compresa l’irrimediabilità della situazione e aver preso coscienza che sì, le cose avrebbero potuto essere diverse qualora si fosse accettato Gesù nel cuore.

Abbiamo allora il pianto per ciò che si è perduto e nello stridore la rabbia per non avere approfittato dell’occasione di salvarsi oltre all’invidia per quelli che sono stati accolti. Il loro sarà un assistere impotenti alla mensa del Signore i cui invitati, accolti e degni, verranno da ogni dove, dai quattro punti cardinali in cui vediamo la totalità delle genti senza distinzione di razza e posizione sociale.

Il sedere “a tavola nel regno di Dio” ha riferimento al banchetto nuziale, quando finalmente i credenti saranno riuniti al loro Redentore e non esisterà nient’altro che il piano di Dio finalmente concretato in tutti i suoi punti. Un banchetto in cui ognuno avrà il suo posto e in cui Gesù dice che sarà lui stesso a servire, come abbiamo letto recentemente nel finale della parabola dei servitori vigilanti: “Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità io vi dico, si stringerà le vesti ai fianchi, li farà mettere a tavola e passerà a servirli” (Luca 12.37).

Infine abbiamo il verso 30, divenuto proverbiale anche nel mondo, espresso più volte da Gesù che allude fondamentalmente alla perfetta conoscenza che ha del cuore di ognuno e di giudizio al di là delle apparenze. La frase la esprimerà a conclusione della trattazione sul discepolato, “Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli per il mio nome, riceverà ceto volte tanto e avrà in eredità la vita eterna. Molti dei primi saranno ultimi e molti degli ultimi saranno i primi” (Matteo 19.29,30; Marco 10.31).

Attenzione al “lasciare” che non ha nulla a che vedere con l’abbandono come purtroppo interpretato dalla maggioranza, ma è semplicemente uno spostamento affettivo come per Genesi 2.24: “L’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua moglie e insieme saranno una sola carne”.

Un’altra volta la distinzione ultimi-primi la troviamo alla fine della parabola degli operai delle diverse ore al capitolo 20 dello stesso Vangelo e in tutti i casi, comunque, si tratta di un avvertimento/invito a non adattarsi alle apparenze, all’esteriorità tanto da parte di chi fa distinzione fra “primo” e “ultimo” quando di chi invece si adopera per figurare tra i “primi” o gli “ultimi” per un proprio tornaconto personale.

Credo però che nel caso di specie Gesù, parlando a degli israeliti, voglia far riferimento ai capi religiosi che aspiravano “ai primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti” (Marco 12.39), “i primi posti nelle sinagoghe e i saluti sulle piazze” (Luca 11.43) e, per riflesso, anche a tutti coloro che, nel campo cristiano, agiscono per lo stesso tornaconto personale.

Per concludere, credo che la risposta di Gesù all’anonimo che gli chiese se fossero “pochi coloro che si salvano” sia di una consolazione unica da un lato, ma di una massima drammaticità dall’altro perché l’uomo abituato a pensare che vi siano rimedi e scappatoie per ogni cosa, o che fino ad allora era stato indifferente a qualsiasi richiamo alla conversione, alla fine si troverà nella condizione di non poter tornare indietro da un’esclusione che avrà scelto, responsabilmente, lui stesso. Amen.

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