14.14 – TRE PARABOLE: IL FIGLIO PRODIGO 3/4 (Luca 15.22-24)

14.14 – Tre parabole – 3, il figlio prodigo 3 (Luca 15.22-24)

 

22Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. 23Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa.

 

Questi due versi sono interamente dedicati alla reazione del padre e alle sue parole ed iniziano con l’avversativa “Ma” che introduce qualcosa che il figlio non si aspettava: era convinto di finire un discorso che si era preparato, quello di chiedere un posto tra i servi, e si ritrova accolto con una gioia che lo sorprende. Non è una banalità affermare che, se si vive in un peccato, professionalmente o incidentalmente a causa della propria defettibile natura (persistendo in esso), quando si ritrova il Padre dopo avergli confessato la colpa e averla abbandonata, si scopre un mondo che va al di là delle nostre aspettative.

Ricordando la frase che il giovane avrebbe voluto pronunciare, “Trattami come uno dei tuoi salariati”, vediamo che il riferimento è a quelle persone che venivano prese e pagate a giornata, come insegna la parabola dei lavoratori delle diverse ore. È una frase che andava a rafforzare la precedente, “Ho peccato verso il Cielo e davanti a te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”: conscio del fatto che nella casa paterna non gli apparteneva più nulla, avrebbe voluto dire che da ora in poi avrebbe lavorato per mantenersi.

Il padre non solo non gli lascia finire il discorso, ma ordina che gli fosse fatto indossare “il vestito più bello”, di mettergli “l’anello al dito” – anche se la traduzione corretta è “un” – e “i saldali ai piedi”, anche se vedremo che sandali non erano. Cerchiamo ora di analizzare questi tre elementi.

 

Il vestito più bello

Il vestito, da sempre, qualifica la persona e molto si può capire del suo carattere e condizione osservando come viene indossato e dalla cura con la quale è tenuto. Il vestito a volte rivela la funzione che ha un individuo nella società e in ogni caso serve per renderci presentabili agli altri. Ciò che indossava quel giovane era quanto di più umiliante ci fosse perché non solo si portava addosso lo sporco dei maiali, ma anche il risultato dell’impossibilità di lavarlo decentemente, la polvere, il sudore, insomma tutto quanto si era accumulato nel tempo passato a custodire i porci e a camminare da quel “paese lontano” fino a casa.

Questo ci parla del fatto che quando l’essere umano compare davanti a Dio è sempre impresentabile perché, a prescindere dalla vita che ha vissuto fino a quel punto, si troverà sempre a indossare qualcosa di inadatto: il problema non è cosa si è fatto prima dell’incontro con Lui, ma che il vestito è comunque sporco, impossibile da lavare come leggiamo in Geremia 2.22, “Anche se tu ti lavassi con soda e molta potassa, resterebbe davanti a me la macchia della tua iniquità”. Ecco il perché della parabola degli invitati alle nozze in cui a tutti i convenuti, tranne uno, era stato inviato un vestito dal padrone di casa ed ecco perché proprio quell’uno viene cacciato fuori.

Abbiamo anche Isaia 61.10 che introduce un altro elemento di questa parabola: “Io gioisco pienamente  nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti della salvezza, mi ha avvolto con il mantello della giustizia, come uno sposo si mette il diadema e come una sposa si adorna di gioielli”. Qui abbiamo un soggetto, il Signore, che riveste una persona, cioè toglie un abito inadeguato e ne mette uno nuovo che mai potrebbe comprare coi propri mezzi: è Lui a vestire con le “vesti della salvezza”, ma non solo, avvolge “con il mantello della giustizia”, la persona.

È solo la gioia del padre, e del suo amore per il figlio ritrovato, che lo porta a far sì che quello indossasse “il vestito più bello”: non “uno” dei tanti, ma “il”, vale a dire che, una volta indossato, quel giovane avrebbe potuto essere considerato più di tutti gli altri perché nessuno avrebbe potuto vestire in quel modo senza il consenso del padrone di casa. Per il solo fatto di essere tornato a casa, quindi, il figlio ex prodigo viene posto in una posizione privilegiata, addirittura migliore di quella del fratello maggiore che, mentre accadevano queste cose, era al lavoro nei campi.

 

Un anello al dito

È importante specificare che un conto è tradurre “un” e un conto “lo”: il determinativo infatti allude a un oggetto unico, l’indeterminativo a qualcosa di generico, per quanto importante trattandosi non di un semplice gioiello, ma di un segno di autorità che va ad affiancarsi al vestito. A proposito dell’anello ricordiamo Giuda, che lo diede a Tamar come pegno (Genesi 38.18), quelli che portavano Giuseppe, Jezebel, Aman, Mardocheo. Per capire l’anello vale la citazione di Genesi 41.41,42: “Il faraone disse a Giuseppe: «Ecco, io ti metto a capo di tutta la terra d’Egitto». Il faraone si tolse di mano l’anello e lo pose sulla mano di Giuseppe – particolare da tenere a mente perché verrà utile più avanti –; lo rivestì di abiti di lino finissimo e gli pose al collo un monile d’oro”.

Ora quel padre, ordinando ai servi di mettere al figlio minore “un anello al dito” non voleva significare che fosse diventato di punto in bianco la sola autorità – o comunque quella più alta – della casa, ma che gli era stata data una responsabilità e una funzione che prima non aveva. E viene da pensare, credo a ragione, che l’anello lo portassero anche il padre e il fratello.

Altra osservazione che costituisce un eccellente parallelo con Giuseppe: in realtà il genitore non dice ai servi “mettetegli l’anello al dito”, ma “date l’anello nella sua mano” e non è una sottigliezza così tanto per fare della pignoleria perché se l’anello fosse stato messo al dito da uno dei servi avrebbe costituito un’azione passiva da parte del figlio ritornato che, invece, doveva accettare, indossandolo, quanto gli veniva dato in mano. Lo stesso fece Giuseppe: entrambi, mettendosi al dito l’anello, si impegnavano a vivere in modo nuovo, accettando non un ordine, ma una proposta. L’anello era in un certo qual modo la firma che veniva apposta al contratto e possiamo paragonarlo al battesimo, fondamentale per la persona che è stata salvata e ha maturato la sua intenzione di entrare nella famiglia di Dio.

 

I sandali

Ancora una volta va fatta una correzione al testo: personalmente, per l’analisi, faccio riferimento a tre versioni, la Diodati del 1641, quindi non ancora deturpata da interventi a volte molto discutibili, la traduzione letterale di Don Piero Ottaviano sul sito Didaskaleion, e il testo greco. Ebbene, Diodati al posto di “sandali” usa “scarpe” e gli altri due “calzari” a indicare che il terzo elemento dato al figlio tornato a casa era qualcosa che i servi non portavano.

Se i sandali erano un oggetto idoneo al camminare per le strade o per svolgere le attività comuni, i calzari erano sinonimo di una vita diversa, che pochi potevano condurre.

 

Considerando quanto finora esaminato, va fatta una precisazione importante e cioè che questa parabola non va vista, in questa parte del pentimento e della riabilitazione, come qualcosa di immediato, ma, nel momento in cui si desidera decifrarla per portarla al mondo reale, di progressivo, qualcosa che dura nel tempo. A parte tutto ciò che è stato scritto, il vestito più bello che viene dato, per noi, ha attinenza sicuramente con la nuova dignità acquistata vista nella nostra “adozione a figli” (Galati 4.5), ma ancor più con il percorso di santificazione al quale siamo chiamati.

E per indossare un nuovo vestito occorre mettere da parte il vecchio, “La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce” (Romani 13.12). Ancora Efesi 4.20-24: “ma voi non così avete imparato a conoscere il Cristo, se davvero gli avete dato ascolto e se in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare con la sua condotta di prima l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità”.

Infine, il passo più impegnativo: “Non dite menzogne gli uni agli altri: vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza ad immagine di colui che l’ha creato”. Impegnativo perché non sempre riusciamo a rinnovarci tutti i giorni: fuori dalla meditazione, dalla preghiera personale e dalle riunioni di Chiesa, qualora essa sia degna di tale nome, esiste un mondo dominato da un principe che allarga sempre i più i suoi domìni manifestandosi nel modo che tutti noi constatiamo e restarne fuori non è facile. È un mondo dove l’ingiustizia si traveste da giustizia, in cui se si cerca la giustizia si trova la legge, la dignità è assente e quei sentimenti che, indipendentemente dalla fede, un tempo potevano formare le persone predisponendole alla ricezione di un messaggio anche solo morale, vengono repressi e se possibile cancellati dalla memoria. E questo a volte, quando viene “toccato con mano”, può essere molto disturbante.

Il vestito, l’anello e i calzari sono tutti oggetti che, perdurando la situazione di peccato, quel giovane non avrebbe mai potuto possedere, permettersi; invece, gli sono stati donati gratuitamente. E qui possiamo avere un riferimento a Giosuè, che davanti all’Angelo del Signore “Era rivestito di vesti sporche e stava in piedi davanti all’angelo, il quale prese a dire a coloro che gli stavano intorno: «Toglietegli quelle vesti sporche». Poi disse a Giosuè: «Ecco, io ti tolgo di dosso il peccato, fatti rivestire di abiti preziosi»” ( Zaccaria 3.3,4).

Al figlio prodigo, successe così. All’umiliazione del peccato, fu sostituita la pienezza della grazia e fu posto in grado, con i tre elementi che gli vennero consegnati, di camminare in novità di vita. Solo una volta vestito con gli elementi che il Padre volle che vengano dati al peccatore pentito questi può essere reso presentabile agli occhi di Dio, a se stesso e agli altri; viceversa potrà essere solo protagonista di una mediocre e noiosa commedia recitata da attori scadenti che, a volte, dimenticano la propria parte.

A noi e a chiunque si pente della propria vita e dei propri errori sono stati offerti il vestito, l’anello e i calzari, doni di cui dovremo un giorno rendere conto e di qui la necessità di pregare e agire per non essere colti in un doloroso rimprovero.

Infine, abbiamo la festa che viene data immediatamente con una motivazione che usa termini contrapposti fra loro, “morto – tornato in vita”, “perduto – ritrovato” che sicuramente colpirono l’uditorio di Gesù perché andavano a completare entrambe le parabole prima esposte e contemporaneamente ampliandole perché, lontani dal Padre, c’è sempre uno stato di morte. “Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete stati salvati” (Efesi 2.4), perché “eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime” (1 Pietro 2.25).

Ultima osservazione credo sia doverosa farla sul cibo che il padre avrebbe offerto al figlio pentito, certo non paragonabile a quello che assumeva in quel “paese lontano”: là, caduto in rovina, non poteva neppure prendere le carrube per i porci; tornato dal padre, però, si trovò nella situazione opposta, soprattutto per la dignità che aveva non solo riacquistato, ma che si era in un certo senso accresciuta. Così è stato anche per me e, non essendo un privilegiato nel senso umano del termine, anche per tutti coloro che del figlio prodigo hanno fatto l’esperienza. Amen.

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14.13 – TRE PARABOLE: IL FIGLIO PRODIGO 2/4 (Luca 15.20-21)

14.13 – Tre parabole – Il figlio prodigo 2/4 (Luca 15.20-21)

 

20Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio».

 

In questa seconda parte cercheremo di affrontare il punto centrale della parabola, cioè il comportamento del padre del giovane che, ricordiamo, aveva fatto una spietata disamina della sua situazione e soprattutto di ciò che l’aveva creata.

Il verso 20 ci presenta cinque azioni che compie il padre verso di lui che non vanno certamente ignorate: lo vide, ne ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. La prima è “lo vide” certo non per caso, non perché, per riposarsi magari dal fare dei conti o dall’aver tenuto una lunga riunione coi suoi amministratori, si affacciò alla finestra per snebbiarsi le idee. Piuttosto, questo scorgere e riconoscere il figlio “quando era ancora lontano”, è indice tanto del fatto che quell’uomo era in attesa del suo ritorno, quanto della conoscenza che aveva del suo carattere. Si può dire che, se accettò di dare al secondogenito la parte di eredità che gli chiedeva, fu per consentirgli di fare delle esperienze dolorose che lo maturassero, conoscendo le sue attitudini, il carattere e le intemperanze. Un padre, se tale è, conosce il proprio figlio e imposta per lui la strategia educativa più idonea per renderlo in grado di presentarsi agli altri senza essere umiliato. Quindi, quello della parabola, acconsentendo alla partenza del proprio figlio minore e dotandolo di quanto gli chiedeva, sapeva come avrebbe speso il suo denaro, cosa avrebbe fatto, i legami sbagliati che avrebbe intessuto, le sue cadute perché in un “paese lontano” non avrebbe saputo vivere autonomamente, soprattutto con dignità, nonostante pensasse l’esatto contrario. Quel territorio era per lui sinonimo di libertà fuori dal controllo di qualsiasi precetto anche solo morale cui altrimenti avrebbe dovuto sottostare.

Ora il padre lo vede e lo riconosce “quando era ancora lontano”: cosa vide? Un puntino, una figura umana? E ancora, quanto era “lontano” dalla casa, uno o due centinaia di metri, o chilometri? Fu visto da un territorio pianeggiante, o da un’altura? L’importante è che lo riconobbe e basta, ma fu quasi un sesto senso, oppure lo vide arrivare da una strada o da una direzione presso la quale passavano in pochi?

In mezzo alle cinque azioni che il padre compie, non possiamo dimenticare che ve n’è una del figlio, cioè che torna a piedi perché non aveva più nulla di suo, tanto meno un mezzo di trasporto animale, asino o cavallo che potesse essere. E quel ritorno lo compie da “un paese lontano” non solo per usi e costumi, ma anche quanto a chilometri, quindi con sofferenza questa volta fisica, senza sandali ai piedi e non sappiamo se, casualmente, nel suo lungo percorso abbia incontrato qualcuno, carovana o mercante, che gli abbia consentito di salire su un carro per alleviargli la fatica di un lungo viaggio, ben diverso da quello che aveva fatto all’andata, pieno di sé, convinto di conquistare chissà chi e chissà cosa.

 

Tutti questi elementi ci portano al secondo punto, “ebbe compassione”, cioè si immedesimò nel vissuto più recente del figlio conoscendo la natura umana sempre pronta a cadere, a sbagliare, non calcolare bene ciò che si è in rapporto a che si vuole, a sopravvalutandosi sempre. Certo, per avere “compassione” quell’uomo non si limitò a considerare che suo figlio aveva vissuto tristi esperienze, ma piuttosto le mise in relazione al pentimento, quello che fa più male degli insuccessi e dei piedi che sanguinano perché si tratta di qualcosa che nasce dal dolore di un cuore sconfitto da se stesso. Chi ha provato pentimento sa che è già punizione, non ha bisogno di altra pena. Chi è autenticamente pentito è perché ha già elaborato, pensato, ha già emesso una sentenza su di lui e questa è sempre molto amara.

Terza azione che, se vista sotto il metro dell’orgoglio umano, lascia stupiti, è “gli corse incontro”, che rivela tanto la gioia del padre, quanto il voler risparmiare al figlio ulteriore fatica. Fosse stata una persona animata da risentimento o si fosse offesa, certamente avrebbe aspettato che il figlio bussasse alla porta e si umiliasse, ma invece gli corre incontro. Un fratello ha scritto in proposito che “se il peccatore fa un passo verso di Lui, Dio ne fa dieci per incontrarlo per mostrargli il suo amore” ed è una dinamica che ogni credente ha sperimentato. Attenzione, perché quando parlo di “credente” e di “cristiano” mi riferisco a chi ha avuto una reale esperienza col Signore, non a quelli che frequentano la Chiesa restando sempre se stessi, lasciandolo fuori dal loro cuore e dalla loro vita ricordandosi di Lui quando desiderano “sentirsi buoni” o provare emozioni false, carnali, ipocrite. E penso a quanti magari recitano il “Padre nostro” offendendo quel “rimetti a noi i nostri debiti come li rimettiamo ai nostri debitori” proseguendo a coltivare rancori, invidie, chiudendo non solo ostinatamente il cuore, ma sigillandolo ancora di più.

 

La quarta e la quinta azione sono le più difficili da capire umanamente, “gli si gettò al collo e lo baciò” perché ci aspetteremmo, forse, che la prima iniziativa debba spettare al figlio che ha sbagliato: lui aveva voluto i soldi e andarsene? Lui avrebbe dovuto chiedere perdono, ma non è così, la sua presenza, com’era vestito e la mancanza di sandali ai piedi era già sufficiente e parlava più di mille richieste di scuse. Certo il nostro testo non potrà mai descrivere gli occhi dell’uno e quelli dell’altro o il linguaggio non verbale che spesso dice molto di più di tante parole. Quel padre, poi, non badò allo stato di impresentabilità in cui il figlio si presentava ed altrettanto fa con chiunque ritorni a lui poiché il peccato rende sempre la persona in tali condizioni che, come vedremo ma comunque già sappiamo, dovrà essere vestita a nuovo.

Nello scorso studio abbiamo citato le parole di Geremia 31.18, “Dopo il mio smarrimento, mi sono pentito; quando me lo hai fatto capire, mi sono battuto il petto, mi sono vergognato e ne provo confusione perché porto l’infamia della mia giovinezza”, ma al 19 Iddio dice “…per questo il mio cuore si commuove per lui e sento per lui profonda tenerezza”.

Il gettarsi al collo del figlio e baciarlo costituiscono un segnale di disponibilità e di perdono assoluto talché ogni parola, da entrambe le parti, era superflua e infatti abbiamo solo la prima parte di quanto quel giovane aveva pensato di dire al padre: manca “non sono più degno di essere considerato tuo figlio, trattami come uno dei tuoi salariati”.

Sia il gettarsi al collo di una persona quanto il baciare sono sinonimi di comunione e appartenenza che supera divisioni e rancori, come possiamo leggere in Genesi 33.4 nell’incontro fra Esaù e Giacobbe: il secondo, per le dinamiche accadute negli anni, temeva fortemente che il fratello avesse intenzioni violente nei suoi confronti, ma “Esaù gli corse incontro, lo abbracciò, gli si gettò al collo, lo baciò e piansero”. Possiamo anche ricordare l’incontro in cui Giuseppe si rivelò ai suoi fratelli che lo avevano venduto a una carovana di egiziani: “Allora egli si gettò al collo di suo fratello Beniamino e pianse. Anche Beniamino piangeva, stretto al suo collo. Poi baciò tutti i fratelli e pianse. Dopo, i suoi fratelli si misero a conversare con lui” (Genesi 45.14,15).

 

Arrivati a questo punto è giusto considerare il significato spirituale delle dinamiche fin qui esposte, cioè andare a reperire, se non tutti, i principali punti di meditazione questa volta offerti, più che ai “pubblicani e peccatori” presenti, all’uditorio colto – e altrettanto indifferente – di Gesù. Parlando la parabola del figlio prodigo di pentimento e perdono, il primo verso cui rivolgersi è reperibile in Salmo 32. 5: “Ti ho fatto conoscere il mio peccato, non ho coperto la mia colpa. Ho detto: «Confesserò al Signore le mie iniquità» e tu hai tolto la mia colpa e il mio peccato”. E infatti il figlio dice “Ho peccato contro il cielo e davanti a te”.

Salmo 103.8-14: “Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. Non è in lite per sempre, non rimane adirato in eterno. Non ci tratta secondo i nostri peccati e non ci ripaga secondo le nostre colpe. Perché quanto il cielo è alto sulla terra, così la sua misericordia è potente su quelli che lo temono; quanto dista l’oriente dall’occidente, così egli allontana da noi le nostre colpe. Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che lo temono, perché egli sa bene di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere”. Quella che avremmo potuto non essere osservando un solo comandamento.

Per la profondità e la stretta attinenza all’episodio è sicuramente da riportare Isaia 57.17,18: “Per l’iniquità della sua avarizia – che è tenere per sé – mi sono adirato, l’ho percosso, mi sono nascosto e sdegnato; eppure egli, voltatosi, se n’è andato per le strade del suo cuore. Ho visto le sue vie, ma voglio sanarlo, guidarlo e offrirgli consolazioni”.

Ezechiele 18.26-28 è dedicato all’errore, al ripensamento delle proprie azioni e alla conversione: “Se il giusto si allontana dalla giustizia e commette il male e a causa di questo muore, egli muore appunto per il male che ha commesso. E se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà”. Nello specifico, il “giusto” erano i farisei e il “malvagio” i pubblicani, il cui ravvedimento era molto più vicino che non agli altri.

Michea 7.18,19: “Quale dio è come te, che toglie l’iniquità e perdona il peccato al resto della sua eredità? – Israele –. Egli non serba per sempre la sua ira, ma si compiace di manifestare il suo amore. Egli tornerà ad avere pietà di noi, calpesterà le nostre colpe. Tu getterai in fondo al mare tutti i nostri peccati”.

 

Il perdono del padre umano, quindi, è arrivato al pari di quello soprannaturale del quale è figura, perché il pentimento del figlio era assolutamente sincero, reale, frutto di un’elaborazione interiore profonda, come avviene per chiunque si rivolge a Dio per chiedere la remissione di un peccato: “Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro. Sì, le mie iniquità io le riconosco, il mio peccato mi sta sempre dinanzi” (Salmo 51.4,5). Perché? Perché senza il perdóno di Dio, il peccato rimane e tortura. Amen.

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14.12 – TRE PARABOLE: IL FIGLIO PRODIGO 1/4 (Luca 15.20)

14.12 – Tre parabole – 3, il figlio prodigo 1/4 (Luca 15.11-20)

 

 

11Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». 20Si alzò e tornò da suo padre.

 

L’ultima delle tre parabole esposte da Gesù quel giorno è forse quella che colpisce, più profondamente perché offre dinamiche particolari e un esempio di ciò che succede da sempre, vale a dire un carico di speranze, progetti, illusioni che svaniscono per far trovare la persona coinvolta di fronte alla dura realtà delle cose. È una parabola di completamento delle precedenti – e non solo – perché mostra l’opera dello Spirito Santo e la misericordia del Padre verso l’uomo che cade vittima della propria autonomia.

Ora la prima sottolineatura la possiamo fare sul numero due, relativo ai figli: si tratta di una cifra che abbiamo già sviluppato con esempi e che è ambigua nel senso che può indicare tanto collaborazione e sostegno reciproco, quanto rivalità, contrasto e opposizione come in questo caso: abbiamo un figlio maggiore, sempre presente nella casa e lavoratore irreprensibile (il verso 25 ci dice che “era nei campi” e il 29 “ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando”), e uno minore che, irretito dai suoi progetti e convinto di potersi gestire, chiede anticipatamente la divisione dei beni.

Va detto che la Legge obbligava la spartizione dell’eredità in percentuali precise, vale a dire che tutto veniva diviso in parti uguali di cui due andavano al primogenito e una a ciascuno degli altri figli come si legge in Deuteronomio 21.16,17.

Ciò che vi è di particolare in questa parabola è che la richiesta del figlio minore è anomala nel senso che non vi era nulla, nel codice civile ebraico, che desse la facoltà di chiedere la porzione di eredità quando il genitore era ancora in vita mentre qui non solo ciò avviene, ma abbiamo un padre che in un certo senso sacrifica una parte di ciò che ha per soddisfare i desideri del figlio minore.

La lettura del verso 13, col più giovane che “raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano” ci consente di osservare alcuni aspetti del suo carattere: quel ragazzo prende tutto ciò che è suo nel senso che il suo desiderio di indipendenza, e ancor di più la ferma convinzione di farcela da solo, giunge al punto tale da non voler lasciare nulla di proprio nella casa che lo aveva visto crescere. Ciò è indice della volontà di dare un taglio netto, non lasciando nulla di sé, fosse anche solo un ricordo; potremmo dire che nel suo gesto si può leggere una volontà di rinnegare le proprie origini, a dire “finora ho vissuto in base a ciò che gli altri si aspettavano da me, d’ora in avanti farò ciò che voglio io”, alludendo al fatto che nella casa paterna si sentiva un subordinato, una persona non libera, costretto in un lavoro che lo infastidiva.

E infatti, guardando alla seconda parte del racconto, il figlio maggiore lavorava nei campi, il padre era un uomo ricco che aveva diversi lavoranti alle sue dipendenze e, oltre all’agricoltura, si dava anche all’allevamento.

Altro elemento sulla psicologia del figlio minore lo vediamo nelle parole “partì per un paese lontano”, che vanno ad accrescere quanto detto prima sulla sua volontà di dare un taglio netto col passato. In un “paese lontano” nessuno ti conosce, quindi non solo puoi ripartire da zero a costruire la tua vita, ma puoi fare nuove amicizie, intessere nuovi rapporti anche se – attenzione – ciò che animava quella persona non era tanto costruire quanto vivere sperperando averi che erano suoi solo in apparenza. Avere un’eredità (terrena) infatti consiste nel venire in possesso di beni che altri ci hanno lasciato e per cui non abbiamo faticato.

Spiritualmente, il “partire per un paese lontano” e vivere seguendo i propri impulsi significa fare lo stesso ragionamento espresso in Giobbe 21.14: “…dicevano a Dio: «Allontànati da noi, non vogliamo conoscere le tue vie»”. Si può ricordare ancora Salmo 10.4.6 che anticipa quanto accadrà al personaggio della nostra parabola: “Nel suo orgoglio il malvagio disprezza il Signore: «Dio non ne chiede conto, non esiste!»; questo è tutto il suo pensiero. (…) Egli pensa: «Non sarò mai scosso, vivrò sempre senza sventure»”.

Sono versi scritti più di 2.500 anni da noi, eppure assolutamente attuali. Abbiamo letto “questo è tutto il suo pensiero” e si commenta da solo, è il riassunto non solo di tutte le idee e i ragionamenti della persona, ma anche della sua vita; qualunque cosa faccia, il distillato finale è quello, si riassume nella negazione dell’esistenza di Dio. E siccome chi pensa così è terribilmente superficiale, ecco che guarda il presente come se fosse eterno: nulla potrà turbare l’ “equilibrio” costruito e le preoccupazioni, gli imprevisti, le malattie riguarderanno sempre gli altri.

Asaf, il cui nome significa “Colui che raccoglie”, levita e cantore al tabernacolo, guardando l’apparente prosperare di chi vive lontano da Dio, ha scritto: “Io per poco non inciampavo, quasi vacillavano i miei passi, perché ho invidiato i prepotenti, vedendo il successo dei malvagi. Fino alla morte infatti non hanno sofferenze e ben pasciuto è il loro ventre. Non si trovano mai nell’affanno dei mortali e non sono colpiti come gli altri uomini. Dell’orgoglio si fanno una collana e indossano come abito la violenza – fisica o morale non importa –. (…) dicono: «Dio, come può saperlo? L’Altissimo, come può conoscerlo?»” (Salmo 78.2-7).

Se Asaf guarda alla vita nel presente di colui che vive lontano da YHWH (esattamente come il figlio prodigo) anche se la sua esistenza si conduce senza problemi apparenti fino alla morte, Geremia va alla radice riportando le parole di Dio e cioè che chi corre dietro al nulla diventa lui stesso un nulla (2.5), quindi pula di grano che verrà gettata nella fornace.

Così poi l’apostolo Paolo, in Tito 3.3, riassume l’esistenza del cristiano prima dell’incontro con il Cristo: “Anche noi un tempo eravamo insensati, disobbedienti, corrotti, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell’invidia, odiosi e odiandoci a vicenda” perché, per prosperare, l’uomo inevitabilmente danneggia il proprio simile. Il raggiungimento del benessere non potrà mai soddisfare chi non è in grado di saziarsi, di “dire basta” come i tre elementi, “anzi quattro” di Proverbi 30.

 

Proseguendo nella lettura, vediamo quale fu lo stile di vita adottato dal protagonista della parabola: visse in modo dissoluto, cioè permettendosi tutto ciò che potesse soddisfare la sua carne, quindi penso al gioco, a pranzi e cene dove ingozzarsi, al sesso disordinato, tutte cose che portano in breve tempo all’esaurirsi di un patrimonio soprattutto se si tratta di una riserva che non viene mai alimentata da entrate, come in questo caso. È ancora il libro dei Proverbi ad ammonire contro uno stile di vita disordinato, in particolare dalla frequentare la “donna straniera” simbolo di corruzione perché i suoi costumi, lontani da quelli di un israelita che ha ricevuto un tipo di educazione diversa, traviano quasi senza accorgersene (e Salomone lo imparò a sue spese): “Tieni lontano da lei il tuo cammino e non avvicinarti alla porta della sua casa, per non mettere in balìa degli stranieri il tuo onore e i tuoi anni alla mercé del crudele, perché non si sazino dei tuoi beni i forestieri, e le tue fatiche non finiscano in casa di uno sconosciuto e tu non debba gemere alla fine, quando deperiranno il tuo corpo e la tua carne”. (5.11)

La caduta del figlio prodigo. Come descritta, completa il triste quadro fatto poc’anzi: l’onore di quell’uomo era stato ormai ampiamente compromesso perché si era ritrovato con un nulla in mano, i suoi beni li aveva ceduti ad altri e cominciava a deperire per cui andò da una persona che conosceva, suo compagno di bagordi e ricco, che non trovò nulla di meglio che mandarlo nei suoi campi a pascolare dei maiali. Ciò, per un ebreo, è quanto di meglio si può usare per esprimere la degradazione umana, senza contare che un appartenente ad un facoltoso e onorato casato israelita si ritrovava ad allevare maiali, in più alle dipendenze di un incirconciso, di un pagano.

Può essere spesa anche qualche parola sull’ignoto conoscente del figlio prodigo: per nulla memore dell’ “amicizia” trascorsa, lo umilia dandogli un impiego che non gli consentiva neppure di mangiare decentemente, del tipo “Va’ e cura i miei maiali” senza dargli uno stipendio se pur misero.

E tutti quelli coi quali aveva fatto feste, che avevano preso il suo denaro? Svaniti. Tutto si riassume in Proverbi 28.19 “Chi va dietro agli uomini da nulla sarà saziato di povertà”, certo sia materiale che spirituale. Si rivela allora in tutta la sua concretezza l’impossibilità di rispondere con argomenti convincenti davanti a Dio per riparare ai nostri sbagli, come in Giobbe 9.4: “come può un uomo aver ragione dinnanzi a Dio? Se uno volesse disputare con lui, non sarebbe in grado di rispondere una volta su mille. Egli è saggio di mente, potente di forza: chi si è opposto a lui ed è rimasto salvo?”.

La frase “Avrebbe voluto saziarsi delle carrube di cui si nutrivano i porci, ma nessuno gli dava nulla” rivela tutto il disinteresse dell’uomo che, costretto dalla sua limitata visione a pensare solo a se stesso, non si cura dei suoi simili.

Il passo “Chi coltiva la sua terra si sazia di pane, chi insegue chimere si sazia di miseria” (Proverbi 28.19 credo sia utile per introdurre i pensieri che a un certo punto iniziano a sorgere nel cuore del protagonista della parabola: prima leggiamo che “ritornò in sé”, fatto non così comune quanto possa sembrare, perché alcuni persistono nel proprio stato di errore indipendentemente dalle sofferenze che provano. Questa persona, però, guarda alla sua condizione con obiettività e ripensa al proprio passato ricordando non tanto se stesso, ma i dipendenti del padre che avevano “pane in abbondanza, mentre qui io muoio di fame!” (v.17). Poteva ricordarsi dei privilegi che il padre gli concedeva, ma non lo fa; piuttosto collega la differenza che intercorreva fra la sua posizione di lavorante coi maiali e quella degli altri, i dipendenti di suo padre, che vivevano nella dimora che aveva lasciato. A proposito del “ritornò in sé” c’è chi ha ipotizzato che il “pianto e stridore di denti” delle anime perdute sarà causato proprio dal fatto che “torneranno in loro” quando il tempo dato per pentirsi sarà scaduto una volta per sempre. E certo non è un pensiero sbagliato.

Si tratta di un percorso che ci anticipa il profeta Geremia in due passi che illustrano molto bene come avviene il pentimento in un certo senso “costrittivo”: “La tua stessa malvagità ti castiga e le tue ribellioni ti puniscono. Renditi conto e prova quanto è triste e amaro abbandonare il Signore, tuo Dio, e non avere più timore di me” (2.19), questo perché Dio aspetta sempre il pentimento di chi lo ha abbandonato, o del peccatore. Infatti: “Mi hai castigato e ho subìto il castigo come un torello non domato. Fammi tornare e io ritornerò, perché tu sei il Signore, mio Dio. Dopo il mio smarrimento, mi sono pentito; quando me lo hai fatto capire, mi sono battuto il petto, mi sono vergognato e ne provo confusione, perché porto l’infamia della mia giovinezza” (31.18,19).

Dalla lettura dei pensieri di quest’uomo possiamo rilevare qualcosa di singolare che denota il suo pentimento, cioè che non desidera tornare a casa per rioccupare il posto di prima, convinto di averlo perduto, ma di avere un posto da dipendente: “Padre, ho peccato davanti al Cielo – quindi davanti a Dio – e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio, trattami come uno dei tuoi salariati”. Da queste parole vediamo che non tanto andandosene da casa sua, ma vivendo come ha vissuto aveva “peccato davanti al cielo”, cioè dimenticato deliberatamente gli insegnamenti che gli erano stati impartiti, compresi i versi che abbiamo citato, visto che sono sempre stati fatti rimandi agli scritti dell’Antico Patto.

L’ultimo verso, “Si alzò e tornò da suo padre”, rende già operativo il pentimento: si alza, come aveva fatto prima dell’abbandonare la casa paterna, ma con tutt’altro intento. Si alza e parte: non aveva nulla da prendere con sé, solo i vestiti che aveva, sporchi, logori, ben diversi da quelli che aveva fino a qualche tempo prima, quanto non sappiamo perché ciò che importa non è il tempo che passa, ma le decisioni che si prendono. Sono questi vestiti che saranno l’emblema, il marchio temporaneo del suo fallimento, oltre a costituire testimonianza di un’esistenza condotta in modo sbagliato.

Infine, possiamo anche osservare che, nella sua decisione di tornare, quest’uomo manca completamente il timore di venire respinto: credo che l’importante per lui fosse tornare, dire al padre ciò che aveva da dire e poi rimettersi alle sue decisioni. Questo è importante perché ci mette in grado di capire che, quando si vuole avere riscatto da un errore commesso, c’è un solo percorso da seguire e cioè confessare il peccato senza giustificazioni o enfatizzazioni di sorta: “Ho peccato contro il cielo e contro di te” sono parole che riassumono un’esistenza sbagliata spesa in non sappiamo quanto tempo, ma certamente non poco.

Per questa persona il pentimento fu generato dal constatare la degradazione obiettivamente raggiunta e i suoi effetti, e la stessa cosa può avvenire anche per noi perché sono convinto che la parabola del figlio prodigo riguardi tutti, credenti compresi, soggetti a sbagliare e a rivendicazioni di autonomia soprattutto nel tempo della loro giovinezza in fede quando, per ignoranza, presunzione o mancata assimilazione per esperienza dei principi che vengono a conoscere, a un certo punto decidono di partire, convinti di poter sussistere. Sappiamo però che Gesù già disse ai suoi “Senza di me non potete far nulla”. Amen.

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14.11 – TRE PARABOLE: LA MONETA PERDUTA (Luca 15.8-10)

14.11 – Tre parabole – 2, la moneta perduta (Luca 15.8-10)

 

8Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? 9E, dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto». 10Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte.

 

“La moneta”. Purtroppo nelle traduzioni cosiddette moderne il lettore si trova da un lato agevolato a capire nell’immediato di cosa si tratti, ma penalizzato in tutto quello che è il contorno che consente di capire meglio il messaggio, o contesto che sia. Il greco infatti non ci parla di “dieci monete”, il cui valore è quanto mai indefinito, ma di “dramme”.

La dramma, o dracma, costituiva l’unità monetaria principale presso i popoli ellenici dell’antichità, aveva multipli e sottomultipli oltre a poter essere “pesante” o “leggera” e quindi avere un valore diverso. La moneta che ci interessa è quella d’argento, che era assimilata al “denaro” che costituiva la paga ordinaria giornaliera di un operaio. Da qui possiamo dedurre che le “dieci dramme” costituissero i risparmi della protagonista della parabola.

Da notare poi il personaggio, una donna, che nella precedente era un uomo (il pastore) e nella prossima sarà addirittura un padre, a sottolineare l’universalità del problema quando qualcosa che si ha di caro si perde, sia esso animale, cosa o persona. E Gesù offrì tre esempi proprio perché desiderava che i suoi uditori, a seconda della loro personalità, se non tutti, ne comprendessero almeno uno per fare poi le considerazioni del caso e, ricordandosi degli altri due, giungere ad una piena comprensione del messaggio. Da qui possiamo considerare che il Vangelo, e per riflesso tutta la Scrittura, sono semplici quando devono comunicare ciò che serve all’uomo come primo elemento per giungere alla verità dell’amore di Dio per la propria salvezza: non serve cultura, conoscenza del greco o dell’ebraico, ma un cuore onesto che cerchi perché altrimenti quel “cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto” non costituirebbe una verità.

La donna ha “dieci dramme”, anche qui da vedere come numero che esprime la quantità ideale turbata appunto dalla mancanza di quell’ “uno” che rende il “nove”, come il “novantanove” precedente, simbolo dell’incompletezza.

Quelle “dieci dramme” erano il punto di arrivo, il risultato di un risparmio, qualcosa che stava ad indicare una tranquillità raggiunta per poter sopperire a un momento di bisogno che prima o poi sarebbe eventualmente (o certamente) arrivato. Qui sta la chiave di lettura della parabola perché Gesù non avrebbe certo potuto prendere a modello una persona avara, che sì avrebbe cercato la dramma come quella donna, ma unicamente per puro amore di possesso perché quell’ “uno” in meno avrebbe rappresentato qualcosa di intollerabile a fronte di un progetto di arricchimento, cosa che qui non è: la scoperta di un elemento mancante nel gruppo dei dieci e il conseguente accendere la lampada (perché le case dell’epoca erano buie), spazzare la casa e cercare la dramma “accuratamente finché non la trova”, sono tutte azioni che denotano l’importanza che viene dato alla moneta a livello di principio, avendo un valore che, assieme alle altre nove, non è trascurabile.

Ecco allora che Gesù, con la parabola della pecora smarrita, spiega l’amore del pastore per il suo animale e con quella della dramma rivela quanto è prezioso per lui il peccatore. Proviamo a pensare un attimo: entrambe, pecora e dramma, sono ricerche non facili. Il pastore deve rinunciare a starsene in casa, vicino all’ovile, a riposare meritatamente dopo una giornata (o mezza) di lavoro. Per trovare la pecora perduta deve fare della strada, presumibilmente molta, sotto il sole, sa che sarà inutile pensare a una logica nel percorso che può aver fatto il suo animale e per questo deve andare dappertutto, percorrere siepi, fossi, radure, fermarsi ad ascoltare se per caso giunge al suo orecchio qualche belato.

Per la dramma, poi, non so se ci siamo mai trovati nella condizione di cercare qualcosa di piccolo come una moneta, che sappiamo esserci caduta in casa: una moneta, se cade di costa, rotola e può andare a infrattarsi in mille posti. Il principio che quella è preziosa, frutto di un sacrificarsi perché una cosa è il risparmiare e tutt’altra l’accumulare, spinge quella persona a tutta una serie di accorgimenti per il recupero di quell’elemento che si è perso.

Anche qui, come nel caso del pastore, vi è poi il rallegrarsi coi suoi simili a ritrovamento avvenuto: “ho trovato la moneta che avevo perduto”, parole importanti perché quel “che avevo perduto” pone l’accento sull’affanno e la preoccupazione che aveva destato in lei quella perdita. Ha scritto un fratello: “Siccome non è la compassione, ma l’interesse che anima questa donna nella sua ricerca, così l’amore di Dio viene rivelato in una forma tutta nuova. Il peccatore non è più ai Suoi occhi un essere sofferente come la pecora, ma è una creatura preziosa, perché fatta a sua immagine, una sua proprietà la cui perdita provoca un vuoto nel suo tesoro”. Da qui vediamo che anche il peccatore porta dentro di sé come contrassegno il fatto di essere a immagine di Dio, salvo che non sia posseduto da un angelo dell’Avversario, per cui il non credere o peggio porsi in opposizione a lui costituisce un oltraggio che, se non interviene il ravvedimento, comporterà l’essere “gettato di fuori” come i personaggi di parabole che abbiamo incontrato e incontreremo.

Cosa significa allora il ritrovamento della dramma? Il ripristino dell’equilibrio, il ritrovamento di un altro mattone per la costruzione dell’edificio spirituale di Dio, un altro elemento che si aggiungerà ai tanti salvati che costituiranno la Sua Sposa che lo attende.

Possiamo poi osservare le due parabole sotto un altro aspetto: la pecora si perde, per quanto sia priva di orientamento, per sua volontà perché decide si andare da sola, la dramma perché è pesante ed inerte e c’è chi ha giustamente sostenuto che “negli uomini caduti il peccato è al tempo stesso attivo e progressivo. In altri termini i peccatori scelgono il proprio corso e vanno errando per loro decisione – ecco la pecora –, ma gravitano verso il male in virtù di una corruzione innata che agisce come legge nelle loro membra”. E qui abbiamo la dramma, che col suo peso non può che cadere a terra a seguito di un trasporto o di uno spostamento anche breve.

Questo comprende tutti gli uomini e ci porta alle parole dell’apostolo Paolo che, meditando sulla sua natura umana e sull’incapacità della Legge a salvare, paragonando le due dispensazioni, Grazia e Legge, scrive: “Sappiamo che la Legge è spirituale – perché proveniente da Dio –, mentre io sono carnale, venduto come schiavo del peccato – come conseguenza della trasgressione di Adamo –. Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. (…) Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. Infatti nel mio intimo acconsento alla Legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che combatte contro quella della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra” (Romani 7.14-23).

Ecco spiegato, credo nel modo migliore, gli effetti del peso della dramma, già comunque constatabile nel fatto che si sia perduta.

Se vi fosse stata immobilità, né la pecora né la moneta si sarebbero perse. Non solo, ma la stessa cosa si può dire qualora, nelle nuove dinamiche di Dio con la creazione, Eva non avesse a un certo punto scelto di infrangere il comandamento ricevuto e Adamo non le avesse dato ascolto facendo la stessa cosa. La leggerezza è di Dio, ma il peso è dell’Avversario e con lui si cade, ci si perde, si rimane umiliati sempre. Si rimane col freddo nell’anima perché il sole proposto da Satana è apparente, illusorio, non scalda; si vede l’immediato e non si va oltre, l’archivio delle rivendicazioni si espande, il rancore causato dalla differenza fra ciò che si desidererebbe e ciò che si ha ci fa implodere, l’attaccamento all’idea di ciò che vorremmo essere o avere, che si scontra con la realtà di ciò che siamo o abbiamo, genera un disagio e una paura patologica. Chi non ha soffre perché è mancante, chi ha soffre ugualmente perché teme di perdere. E qui ricordo la frase “Al malvagio sopraggiunge il male che teme” (Proverbi 10.24).

Allo stesso modo, così come la leggerezza appartiene a Dio e il peso a Satana, l’appartenenza e la separazione sono sempre competenza dell’Uno e dell’Altro.

Ma degno di ringraziamento in preghiera è il verso 24, sempre di Romani 7: “Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!”. Al capitolo successivo poi: “Ora, dunque, non c’è nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Perché la legge dello Spirito, che dà vita in Cristo Gesù, ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte”.

Ecco allora cosa contempla il ritrovamento della pecora e della dramma: la creazione di un nuovo equilibrio. Princìpi e parole che prima sembravano vuoti/e prendono forma, si inizia a leggere correttamente la vita e le sue prospettive, si ha un porto cui approdare, un riparo certo, l’unico possibile proprio perché trovati da Dio.

E allora arriviamo all’esempio della chioccia che tiene i suoi pulcini sotto le ali, comprendiamo Salmo 40.3 “…mi ha tratto da un pozzo di acque tumultuose, dal fango della palude; ha stabilito i miei piedi sulla roccia, ha reso sicuri i miei passi”. Che in questa vita ci siano degli incerti o persone assolutamente convinte delle loro scelte, in realtà, senza la mano di Dio su di loro, cammineranno sempre nell’errore, in quello che presto o tardi presenta il conto che non potrà che approdare al “pianto e stridore di denti” perché “Il Signore rende sicuri i passi dell’uomo: come può l’essere umano conoscere la sua strada?” (Proverbi 20.24). Ecco perché si perde, ecco il perché della direzione sbagliata e del peso.

Al contrario è l’esperienza di chi è stato ritrovato che troviamo in Salmo 139 1-12: “Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu conosci quando mi siedo e quando mi alzo, intendi da lontano i miei pensieri, osservi il mio cammino e il mio riposo, ti sono note tutte le mie vie. La mia parola non è ancora sulla lingua ed ecco, Signore, già la conosci tutta. Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano. Meravigliosa per me la tua conoscenza, troppo alta, per me inaccessibile. Dove andare lontano dal tuo spirito? Dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo, là tu sei; se scendo negli inferi, eccoti. Se prendo le ali dell’aurora per abitare all’estremità del mare, anche là mi guida la tua mano e mi afferra la tua destra. Se dico: «Almeno le tenebre mi accolgano e la luce intorno a me sia notte»m nemmeno le tenebre sono per te tenebre e la notte è luminosa come il giorno; per te le tenebre sono come luce”. Amen.

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14.10 – TRE PARABOLE: LA PECORA SMARRITA (Luca 15.3-7)

14.10 – Tre parabole – 1, la pecora smarrita (Luca 15.3-7)

3Ed egli disse loro questa parabola:4«Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? 5Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, 6va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta». 7Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.

Può sembrare anomalo trovare un nuovo commento su una parabola già ampiamente affrontata, così come trattare ancora della pecora, animale sviluppato molte volte in questi incontri e citato da Gesù molto spesso. In realtà queste riflessioni daranno per scontato quanto trattato in precedenza andando a sviluppare particolari non affrontati a suo tempo.

Senz’altro è da sottolineare il “disse loro”, ai “pubblicani e peccatori” che “si accostarono a lui per ascoltarlo”, ma anche agli scribi e farisei che stavano comunque in disparte. Altro elemento da notare è che in questa occasione Nostro Signore non espone una parabola, ma tre, tutte in relazione fra loro e sulle quali saremo chiamati a “tirare le somme” alla fine.

C’è poi necessariamente un compito da adempiere, che è quello di considerare le parole della parabola, apparentemente analoga, riportata da Matteo 18.12-14: “Che cosa vi pare? Se un uomo ha cento pecore e una di loro si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti e andrà a cercare quella che si era smarrita? In verità vi dico: se riesce a trovarla, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. Così è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda”.

In realtà i due evangelisti riportano la stessa parabola con parole diverse perché differenti furono le circostanze in cui fu esposta: secondo Matteo Gesù desidera porre l’accento su quanto siano preziosi i credenti agli occhi di Dio (“è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda”), mentre Luca parla più della perseveranza, fatica e successo del Pastore che ci dà un dettaglio visto nella “allegrezza nel cielo per un solo peccatore che si converte”.

In Matteo Gesù parla ai discepoli, liberi di chiedergli spiegazioni e ulteriori dettagli, in Luca il messaggio è rivolto a una categoria di persone diversa che doveva capire immediatamente il messaggio perché si erano avvicinati a lui “per ascoltarlo”, quindi avevano urgente bisogno di sapere cosa rappresentavano loro per Lui e per il Padre piuttosto che venire ammaestrati attorno alla Legge come, ad esempio, avvenne nel sermone sul monte quando si trattava di presentare, a persone inserite a pieno titolo nella Congregazione di Israele e quindi frequentanti la Sinagoga e i suoi maestri, la Legge e i Profeti.

Qui, il messaggio di Nostro Signore si fa diretto, specifico sulla condizione sociale del suo uditorio, cioè i “perduti”, gli “smarriti”, i “figli bisognosi di un padre misericordioso” più che di un giudice, per quanto giusto. Le parabole sono tre perché dare altri esempi non sarebbe stato possibile in quanto tre è il numero della perfezione di Dio; fossero state quattro, l’accento si sarebbe posto sull’uomo che, nei confronti dell’Eterno, può essere soltanto debitore. Poi, qualora fossero ancora presenti, gli scribi e i farisei avrebbero potuto avere degli elementi in più per capire la loro posizione, fuori tanto dal concetto delle pecore perdute quanto dal numero dei veri “giusti” anche alla luce dei dettagli nascosti nelle parabole, ma che loro avrebbero potuto individuare.

Come già annotato in un precedente capitolo, i numeri 100 e 99 sono figura rispettivamente della completezza e dell’incompletezza, di ciò che si ha e di ciò che viene tolto, della menomazione. La pecora che si perde, una, è un simbolo, cifra che allude al singolo come ce ne sono tanti, ad esempio come l’autore del Salmo 119 che nell’ultimo verso scrive “Mi sono perso come pecora smarrita; cerca il tuo servo: non ho dimenticato i tuoi comandi”, dal quale rileviamo che l’uomo, quando e se si perde, da solo non ha alcuna speranza di ritornare alla via che ha lasciato; ogni suo sforzo in proposito è inutile e solo con l’esaudimento della preghiera, “cerca il tuo servo”, l’ovile può essere ritrovato. “Non ho dimenticato i tuoi comandi”, poi, ha connessione con lo stato di appartenenza a Dio che non può mai essere tolto. Il salmista confessa di essersi “perso come pecora smarrita” per cui ammette tutta la propria fragilità, uno sbaglio di cui non si è forse neppure reso conto, una distrazione che lo ha condotto lontano e per questo comprende tutta la necessità del belare forte per poter essere ritrovato.

Poi, possiamo ricordare Isaia 53 che descrive perché Gesù sia il Pastore per eccellenza: “Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti”: qui le pecore, certamente più di una, ma comunque “una” perché il gregge è composto da individui ciascuno diverso dall’altro, non sono state in grado di seguire il pastore. La Legge, i suoi maestri, le guide del popolo, avevano fallito e la conseguenza era stata la dispersione degli animali. Era un gregge potenziale, ma ciascun elemento vagava seguendo il proprio istinto che certo non contemplava le capacità di orientamento. La frase “ognuno di noi seguiva la sua strada” allude proprio alla pluralità degli interessi, delle idee, degli intendimenti di ciascuno che, senza la fedeltà alla Parola di Dio, portano alla progressiva lontananza da Lui.

E infatti nel nostro testo quando abbiamo letto “non va in cerca di quella perduta, finché non la trova” altro non abbiamo che la descrizione del ruolo di Gesù che disse in Luca 19.10 “il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e salvare ciò che era perduto”. Facciamo caso a come di definisce, “Figlio dell’uomo”, cioè non dice “Io sono venuto (etc.)”, ma Gli preme presentarsi come uno di noi, per quanto diverso perché altrimenti avrebbe potuto magari trovare, ma non certo salvare. E questi due verbi sono fondamentali, totali, mostrano la Sua potenza perché, se in Matteo abbiamo letto che “è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda”, sappiamo che, una volta trovati, è impossibile che possiamo cadere vittime di chiunque e quindi morire: “Le mie pecore ascoltano la mia voce; io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirla dalla mano del Padre mio. Io e il Padre siamo una cosa sola” (Giovanni 10.27-30).

Ricordiamo anche le parole della preghiera di Gesù al Padre in Giovanni 17 a proposito dei discepoli, “Io ho curato coloro che tu mi hai dato e nessuno di loro è perito, se non il figlio della perdizione” (v.12), cioè Giuda Iscariotha.

Tornando al testo, abbiamo “va in cerca di quella perduta, finché non la trova”, cioè si ferma solo una volta raggiunto l’obiettivo e poi la gioia del ritrovamento non gli fa sentire la fatica. E trovare la pecora perduta è figura della sua salvezza perché “Quando però si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per la sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, effusa da lui su di ni abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza della vita eterna” (Tito 3. 4-7).

Il ritorno all’ovile del pastore è descritto con le parole “pieno di gioia”, dalle quali traspaiono l’amore per quella creatura perduta che, una volta tornata all’ovile, avrebbe ripristinato il numero 100, la pienezza. E qui viene anticipato il tema della “gioia nel cielo” comunque già rivelato in Ezechiele 18.21-23: “Ma se il malvagio si ritrae da tutti i peccati che ha commesso e osserva tutti i miei decreti e agisce con giustizia e rettitudine, egli vivrà, non morirà. Nessuna delle colpe commesse sarà ricordata, ma vivrà per la giustizia che ha praticata. Forse che io ho piacere della morte del malvagio – dice il Signore Dio – o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva?”.

Iddio, tramite Ezechiele, chiama al ravvedimento lasciando all’uomo l’intera responsabilità di questa operazione, certo difficile, quasi spropositata in quanto alle forze che richiede una simile condotta; nel Nuovo Patto, però, se tutto ciò avviene comunque con sforzo, è lo Spirito a guidare nel cammino ed è il Figlio di Dio che si carica la pecora sulle spalle e la riporta all’ovile nel senso che la libera dalla morte certa nel deserto, ma dovrà comunque continuare la propria vita nel gregge, protetta dalle attenzioni del Pastore che ha dato se stesso per lei.

Ancora, nel caricare la pecora sulle spalle vediamo il prendere su di sé il peccatore con tutta la sua storia e non solo: nella Scrittura avere qualcosa sulle spalle è sinonimo di responsabilità (Isaia 9.5, “Sulle sue spalle è il potere”), e questo ci porta a 53.4-6, “Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti”. Da notare in questo ultimo verso “Noi tutti”  e “ognuno” che pongono l’accento sul fatto che il gregge è una collettività di individui: è importante tanto l’insieme quanto il singolo.

Dettaglio assente in Matteo è il fatto che il pastore “va a casa, chiama i vicini” e li invita a rallegrarsi con lui “perché ho trovato la mia pecora, che era perduta”: il pastore si rallegra assieme ai suoi simili e questo ci spiega la “gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte”. Alla gioia partecipano tutti gli esseri spirituali perché il “regno dei cieli” è l’insieme di tutte quelle entità che hanno partecipato e gioito non alla creazione, ma a tutte le fasi successive che hanno caratterizzato le dispensazioni. E penso agli Angeli, ai Cherubini, ai Serafini, alle schiere celesti e a tutte le anime dei salvati che troviamo descritte nel libro dell’Apocalisse. Infatti al verso 10 di questo stesso capitolo leggiamo “Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte”. Quindi anche noi, quando ci siamo convertiti, abbiamo provocato gioia in cielo. E il perché di questa gioia è descritta non solo nella pecora, ma anche nella moneta perduta e nella figura detta del “figlio prodigo”. Quindi anche noi, proprio per la gioia portata, abbiamo la responsabilità di mantenerla tale con una condotta pura per quanto soggetti a cadere.

Va bene, ma i “novantanove giusti” chi sono? Per rispondere occorre chiedersi chi può essere definito come tale. Si potrebbe ipotizzare che i “giusti” siano tutti coloro che sono stati salvati, perché “giustificati per fede” secondo Romani 5.1 e questo non sarebbe sbagliato anche se resta comunque aperto il problema dei peccati che commettiamo ogni giorno. In realtà, i novantanove in questo caso sono i farisei non nel senso che siano giusti, ma che tali si ritenessero e per questo erano convinti di essere per il loro Dio motivo di compiacimento e gioia. Ricordiamo qual era l’atteggiamento farisaico nella loro preghiera in Luca 18.11,12: “Il fariseo, stando in piedi, pregava così fra sé: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.

Quindi, con questa frase che conclude la parabola, Gesù pone scribi e farisei in secondo piano e pone l’accento sui peccatori che, ascoltandolo, avevano molte più probabilità di loro di risolvere una volta per tutte il problema della loro destinazione finale spirituale. “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati” fu un’altra frase rivolta a loro proprio al convito di Levi Matteo (9.9-13): attenzione a considerarsi dei giusti sempre e comunque, perché così non può essere; tutt’al più, può essere al massimo un’illusione perché “chi crede di stare in piedi, badi di non cadere” (1 Corinti 10.12).

Concludendo, abbiamo cercato di sviluppare la prima parabola. Pecora, moneta (o Dramma) e il figlio prodigo sono tutte figure di chi si è perduto: la pecora dall’ovile, la moneta da un contenitore, il figlio dalla casa del Padre, tre elementi diversi tra loro, ma tutti oggetto di attenzione da parte di Dio. E sulle cure che ha delle pecore, possiamo leggere Ezechiele 34.16: “Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e le farò riposare. Oracolo del Signore. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile la smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia”. Amen.

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