16.46 – IL GIUDIZIO FINALE III: LE PAROLE ALLE PECORE (Matteo 25.34-40)

16.46 – Il giudizio finale III: le parole alle pecore I (Matteo 25,34-40)

 

34Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, 35perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, 36nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi». 37Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? 38Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? 39Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?». 40E il re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me».

 

Ci sono due parole cui non si presta molta attenzione, perché le si danno per scontate, nel verso 34: “Allora” e “re”. La prima significa “in quel momento, a quel tempo” e descrive un radicale cambio di una situazione. Abbiamo così descritto il terzo (se si considera il Nuovo Testamento) stato del Figlio di Dio, che dall’eternità della Sua dimora si fece uomo “prendendo forma di servo”, diede sé stesso in sacrificio per molti e risorse, guidò la sua Chiesa come un pastore e quindi si manifesterà come Re.

Il sostantivo “Re”, poi, qui è fondamentale perché, a parte la parabola delle nozze in cui il riferimento è velato, Gesù si attribuisce questo titolo da solo. Come “Re dei Giudei”  fu cercato dai Magi (Matteo 2.2) e fu inconsciamente (ma profeticamente) indicato da Pilato quando fece fare l’iscrizione sulla croce (Matteo 27.37; Marco 15.26; Luca 23.38; Giovanni 19.19) che i capi religiosi del popolo contestarono: “Non scrivere «Il re dei Giudei», ma «Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei». Rispose Pilato: «Quel che ho scritto, ho scritto»”.

“Il Re” del nostro verso, allora, ci parla da un lato di un dato di fatto, assoluto, e dall’altra che ci sarà chi lo riconoscerà come tale e chi no, ma ciò non toglie che lo sia veramente e che le parole “Venite, benedetti dal Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per vi fin dalla creazione del mondo” non potranno incontrare alcuna opposizione. La parola di un sovrano è legge e, quando pronunciata pubblicamente, non può essere ritirata, abrogata, annullata, come avvenne quando Erode Antipa fece quella promessa atroce alla figlia di Erodiade di cui si pentì, ma che non poteva in alcun modo annullare. Il “Re” del verso 34 è poi un re che giudica, ordina che i Suoi siano non accolti nel proprio regno, ma che lo ricevano “in eredità”, quindi abbiamo il compimento di molti passi che per secoli hanno costituito la speranza e la base della vita dei veri cristiani; ricordiamo fra i tanti Romani 8.17, “Se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria”, Galati 3.29, “Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa”, Tito 3.7, “…affinché, giustificati per la sua grazia, diventassimo, nella speranza, eredi della vita eterna” e infine Efesi 2.19: “Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio”.

L’eredità non è un miraggio, ma una realtà che diventerà concreta in un preciso momento ed è una delle basi su cui si fonda la Chiesa perché Gesù disse “Non temere, piccolo gregge – in contrapposizione a quelle grande dell’Avversario –, perché al Padre vostro è piaciuto dare a voi il regno” (Luca 13.32).

“Il Re dirà” cioè la Parola parlerà in un momento assolutamente solenne perché rappresenterà la fine di un’attesa che dura da sempre: Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che nella sua grande misericordia ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi, che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, in vista della salvezza che sta per essere rivelata nell’ultimo tempo.” (1 Pietro 1.3-5) senza dimenticare Apocalisse 21.6,7 che descrive il momento dell’apertura dell’eternità ai credenti: “Io sono l’Alfa e l’Omega, il Principio e la fine. A colui che ha sete io darò gratuitamente da bere alla fonte dell’acqua della vita. Chi sarà vincitore erediterà questi beni; io sarò il suo Dio ed egli sarà mio figlio”.

 

Veniamo ora al regno “preparato per voi dalla creazione – altri preferiscono “fondazione”del mondo”: già ho osservato che il processo della creazione non fu più complesso, certo da un punto di vista umano, della costruzione del piano e delle modalità per la nostra salvezza, ma è bello per me pensare che la venuta di Gesù sulla terra è stata illuminante non solo per la possibilità che è stata data alla creatura di conoscerlo, ma per la rivelazione di elementi che altrimenti sarebbero rimasti occulti: “Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo” (Matteo 13.35). E questa preparazione non solo ha contemplato la venuta del Figlio, il Suo Ministero, Morte e Resurrezione, ma l’assegnazione di un posto preciso nel Regno, che troverà nel momento descritto da Gesù nei passi in esame la sua apertura; ricordiamo la risposta che ottennero Giacomo, Giovanni e la loro madre alla richiesta in Matteo 20, “Sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo, ma è per coloro ai quali è stato preparato” (v.23, ma anche Marco 10.40).

Gesù è Colui che “fu predestinato già prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi” (1 Pietro 1.20), garanzia per i credenti di non cadere nella rete dell’Avversario come gli altri uomini per essere suoi perché, se possiamo sempre peccare, cadere e venire penalizzati, siamo comunque nell’impossibilità di essere strappati dalla Sua mano: saranno coloro che non gli apparterranno a cadere nel più grande inganno della storia, quello della Bestia e del Falso Profeta, quando “La adoreranno tutti gli abitanti della terra, il cui nome non è scritto nel libro della vita dell’Agnello, immolato fin dalla fondazione del mondo” (Apocalisse 3.18) o 17.8 “…e gli abitanti della terra, il cui nome non è scritto nel libro della vita fino dalla fondazione del mondo, stupiranno al vedere che la bestia era, e non è più, ma riapparirà” (cioè l’impero).

 

Il verso 35 contiene la motivazione dell’ingresso nel Regno, “perché”, ma vediamo che manca quella che dovrebbe essere la più ovvia, cioè “avete creduto in me”. Sappiamo che il semplice credere non risolve nulla, ma è qualcosa che va dimostrato attivamente. Non posso dire di amare una persona se non faccio nulla per lei e ricordiamo che “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo figlio unigenito affinché chiunque creda in lui non vada perduto, ma abbia vita eterna” (Giovanni 3.16). Non troviamo scritto “Perché avete creduto in me” perché la separazione fra pecore e capri è già avvenuta e con questa Gesù avrà già operato quella divisione fra credenti falsi e veri. Chi verrà posto alla Sua destra, quindi, saranno coloro che avranno messo in pratica il Vangelo nei confronti dei propri simili visti nelle sei condizioni elencate, cioè verso chi avrà avuto fame, sete, sarà stato straniero, nudo, malato e in carcere, sei condizioni perché questo è il numero dell’imperfezione e che quindi contiene la totalità di essa che può essere vista in una condizione di difficoltà. È su queste che è necessario soffermarsi perché, per il tempo in cui viviamo, anche i cristiani possono essere soggetti a fraintenderle.

Uno degli errori che possiamo commettere leggendo la Scrittura è quello di pensare che quanto troviamo debba essere sempre e comunque interpretato come assoluto e immutabile, ma così facendo è facile cadere nell’approssimazione, nell’aggiungere e togliere o nel costruirsi false aspettative. Se ho il mal di denti, pregando, l’eventuale carie da sola non si rimuove. Se il cuore non funziona a dovere, devo andare dal cardiologo. Se sono in depressione o soffro di attacchi di panico, mi serve un terapeuta e non posso pretendere, pregando, di guarire degli ammalati come gli apostoli quando furono inviati in missione da Gesù; se mai, posso cercare di fare un inventario di ciò che mi ha portato in quella situazione. La Scrittura contiene passi che sono validi in ogni tempo, altri che per essere compresi richiedono una buona conoscenza della storia, altri che comportano un serio collegamento alla realtà dell’epoca cui si riferiscono.

Se i 120 di Gerusalemme parlarono lingue che non conoscevano, oggi le devo studiare ed ecco perché Gesù disse che sarebbero stati beati coloro che avrebbero creduto senza vedere. Non abbiamo più guarigioni miracolose (che possono comunque sempre accadere), ma fratelli e sorelle infermi che con la loro vita testimoniano la loro fede indipendentemente dalle condizioni in cui si trovano. E, tornando alle sei categorie, a parte l’affamato, l’assetato e il malato, oggi sono diverse da quelle di allora.

 

Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere

Chi si trova in queste condizioni non ha la possibilità di soddisfare un bisogno primario per la sua sopravvivenza e credo siano comprese, in questa pericope, anche la fame e la sete spirituale. L’affamato e l’assetato sono situazioni chiare, non occorre essere degli empatici o grandi conoscitori della psiche umana per individuarli, ma sono sotto gli occhi di chiunque; vi è chi, per ragioni dovute a una profonda dignità, le nasconde e chi chiede apertamente, ma in ogni caso non possono lasciare indifferenti anche se, come insegna la parabola del buon samaritano, vi è chi si ritiene a posto con la propria coscienza, chi ritiene di avere “già dato”, e per questo passa oltre.

Aiuta la comprensione di questo passo, già di per sé chiaro, l’esempio di Giobbe, “il più grande fra tutti i figli d’oriente” che in 29.12,13 afferma “…soccorrevo il povero che chiedeva aiuto e l’orfano che ne era privo. La benedizione del disperato scendeva su di me e al cuore della vedova infondevo la gioia”. Giobbe, uomo dalle enormi ricchezze, non teneva per sé ed esercitava la pietà conscio del fatto che quanto aveva non era una sua esclusiva, ma frutto della benedizione di Dio e per questo la amministrava in quel modo. Non si trattava di dare il superfluo, ma di immedesimarsi nelle condizioni di coloro di cui sapeva, o vedeva personalmente. Giobbe non sperperava né si privava del suo, ma rifiutava il concetto che invece fece proprio il ricco stolto della nota parabola.

Isaia 58.7 è un passo che già conosciamo e parla di un tema già affrontato (per quanto a grandi linee), quello del digiuno che veniva esercitato come atto formale, religioso, avulso da una vita praticata caritatevolmente: “Non consiste forse – il digiuno che Dio approva – nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti?”. Si noti l’ultima parte, che esclude quel cieco entusiasmo che alcuni hanno ancora oggi, dove si impegnano strenuamente all’aiuto degli altri trascurando però i propri familiari ed è per questo che l’apostolo Paolo fu costretto a scrivere che “Se poi qualcuno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto di quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggio di un infedele” (1 Timoteo 5.8). Nel provvedere al prossimo, quindi, c’è una scala di priorità.

La carità, che non consiste nel dare del denaro come oggi comunemente inteso, è immedesimazione, appropriazione del caso di un altro, correttezza, cooperazione per il bene comune talché Ezechiele scriverà “…se non opprime alcuno, restituisce il pegno al debitore, non commette rapina, divide il pane con l’affamato e copre di vesti chi è nudo (…) se segue le mie leggi e osserva le mie norme agendo con fedeltà, egli è giusto ed egli vivrà, oracolo del Signore Dio.” (18.7). Giacomo poi, nella sua lettera in cui spiega i due fondamenti di Legge e Grazia, afferma “Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo”: non c’è l’una senza l’altro perché uno può vivere ritirandosi dai propri simili rinchiudendosi in un beato isolamento, evidentemente compatibile col proprio carattere, trascurando però l’elementarità della condivisione e dell’aiuto.

Illuminante poi è quanto leggiamo in Atti 2.44,45, “Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno comune”: quello che Luca descrive non è un modo di stare insieme in cui i fratelli più abbienti si privavano delle loro proprietà per darle ai poveri, ma un’operazione di aiuto e soccorso per rimediare a quanto avveniva: siccome “un gran numero di sacerdoti aderiva alla fede” (6.7) e la Chiesa cresceva in modo esponenziale, andavano aiutate tutte quelle persone che, divenendo cristiane, perdevano automaticamente ogni diritto nella società israelitica di allora. I sacerdoti, poi, rimanevano davvero privi di quel sostentamento che era affidato alle offerte del popolo e a una parte della carne degli animali che sacrificavano.

Credo di aver fornito diversi spunti per ulteriori riflessioni e ampliamenti personali, per cui mi fermo, lasciando ad un prossimo capitolo l’esame degli elementi restanti.

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