01.20 – GESÙ A DODICI ANNI (Luca 2.41.52)

01.20 – Gesù a dodici anni (Luca 2.41-52)

 

41I suoi genitori si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. 42Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. 43Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. 44Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; 45non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. 46Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. 47E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. 48Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». 49Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». 50Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro. 51Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. 52E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.”.

 

Torniamo da Luca, che omette gli episodi visti in precedenza, riassume il periodo di silenzio dei Vangeli sull’infanzia di Gesù con il verso 40: “Intanto il bambino cresceva e si fortificava nello Spirito, essendo ripieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui”. Il silenzio su ciò che fece Nostro Signore dal ritorno dall’Egitto a quando iniziò il Suo Ministero pubblico è interrotto solo da questo evangelista.

Cerchiamo ora di collocare l’episodio dal punto di vista delle usanze del popolo di Israele: la Pasqua che troviamo citata al verso 41 era la prima delle cosiddette “feste del pellegrinaggio”, cui seguivano quella della Pentecoste e dei Tabernacoli. Erano chiamate “del pellegrinaggio” perché, in occasione di quelle, ogni maschio era obbligato a recarsi al Gerusalemme al Tempio. In occasione della Pasqua l’affluenza era tale che, per evitare un ammasso incontrollato di persone in quel luogo, si stabilivano tre turni a partire dalle ore 14 e, tra l’uno e l’altro, si chiudevano le porte.

Arrivare alla Città Santa per la Pasqua, per chi veniva da lontano come Giuseppe, Maria e Gesù (120 km circa partendo da Nazareth), significava aggregarsi a una carovana che non aveva una disciplina rigida nel senso che poteva benissimo essere composta da numerosi gruppi indipendenti l’uno dall’altro che si ritrovavano poi assieme la sera per il pernottamento. L’età di Gesù è poi importante perché raggiunti i 12 anni era considerato maggiorenne: i bambini maschi iniziavano ad essere istruiti nella Legge dall’età di cinque, a 10 studiavano la Mishnà (ripetizione, insegnamento), la Torah orale e, una volta raggiunti i 12, si raggiungeva l’età in base alla quale dopo un altro anno il ragazzo veniva dichiarato “Bar Atorah”, cioè “Figlio della Legge”, o “Bar Mitzwah”, “Figlio del comandamento”. Si trattava di una cerimonia in cui il padre del giovane dichiarava pubblicamente che suo figlio aveva piena conoscenza della Legge e quindi, da quel momento, sarebbe divenuto responsabile dei suoi peccati. Da quel momento, inoltre, il giovane avrebbe iniziato ad apprendere un mestiere, solitamente quello del padre. I dodici anni, allora, sono da intendersi come il compimento, la presenza di basi solide su cui costruire la persona dell’israelita che avrebbe conosciuto al compimento del tredicesimo anno la sua piena personalità di essere responsabile davanti a Dio e agli uomini.

Gesù quindi, tornando a quanto scritto sulla carovana, al pari di un adulto poteva aggregarsi all’uno o all’altro gruppo senza problemi. Ecco perché i suoi genitori non si preoccuparono subito del fatto che non fosse con loro.

Era anche consuetudine che ragazzi della sua età fossero guardati con attenzione dai dottori della Legge, dai rabbini e in qualche caso dai sommi sacerdoti che conversavano con loro per valutarli; dove esistevano le scuole, erano proprio i Maestri a scegliere i bambini che avrebbero studiato con loro dall’età di sei anni. La scuola antica, così diversa dalle nostre, prevedeva discussioni e insegnamenti col metodo maieutico oltre che approfondimenti sui testi delle Scritture (la Legge e i Profeti). Gesù stava là, in mezzo a loro, e siccome la dinamica della scuola si manifestava non attraverso banali interrogazioni, ma piuttosto sull’esposizione di pensieri e domande che maestri e discepoli si ponevano vicendevolmente, ecco emergere la conoscenza di Nostro Signore che parlava, discuteva in modo tale da meravigliare coloro che lo ascoltavano: quelli che Gesù stupiva “per la sua intelligenza e le sue risposte” non erano persone ordinarie, ma dottori della Legge che sedevano su sgabelli mentre i discepoli sedevano a terra (ecco perché l’espressione “seduto ai piedi di” per indicare l’appartenenza a una determinata scuola).

I verbi usati dalla traduzione italiana del verso 46, “ascoltare” e “interrogare”, sottintendono un chiedere rispettosamente e seriamente spiegazioni, cosa che esclude la docenza: in pratica Gesù, per il quale non era ancora giunto il momento in cui avrebbe dovuto manifestarsi al mondo, si distingueva dagli altri ragazzi della sua età confermando le parole che già abbiamo letto nel Vangelo di Luca quando descrive i Suoi anni giovanili: “si fortificava in Spirito, essendo ripieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui”. Sicuramente questa era la Sua priorità espressa con la replica al rimprovero di sua madre: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”.

Ecco, Luca ci riporta questa frase che, stante il suo metodo di ricerca, fu Maria stessa a riferirgli, che sottintende il verso di Davide in Salmo 40.8,9 “Dio mio, io prendo piacere nel fare la tua volontà, e la tua legge è dentro il mio cuore – quindi non una formalità da adempiere per essere in pace con la propria coscienza –. Ho proclamato la tua giustizia nella grande assemblea: ecco, io non tengo chiuse le mie labbra. O Eterno, tu lo sai”.

Gesù dodicenne disse “devo occuparmi delle cose del Padre mio”, parole che tradotte letteralmente suonano “essere nelle cose di mio Padre”, quindi uniscono in una cosa sola la Sua vita terrena e tutto il Suo esistere, la Sua missione. Mentre Giovanni Battista cresceva e si fortificava, preparandosi ad affrontare il deserto per poter ascoltare un’unica voce, Gesù cresceva in mezzo agli uomini rimanendo nelle cose di Suo Padre, cioè senza distaccarsene mai. Un esempio per noi, per i cristiani tenuti non tanto ad “occuparsi” del Vangelo, ma di “essere”, di “vivere” in Lui.

Al verso 49 troviamo due domande: la prima (“Perché mi cercate?”) esprime solo apparentemente stupore. In realtà Gesù vuol far riflettere sua madre sul fatto che, se avesse davvero assimilato le parole dell’Angelo sulla Sua missione, non avrebbe dovuto preoccuparsi di lui trattandolo come un figlio qualunque. Come scrive Robert Stewart, “Se si fosse rammentata delle parole di Gabriele, di Simeone e di Anna, Maria avrebbe subito capito che il Tempio era il luogo che maggiormente si addiceva a lui”. Al rimprovero “Tuo padre ed io ti cercavamo”, Gesù fa notare alla madre che il Suo vero Padre era un altro e che il fatto che vivesse ancora con loro non poteva intralciare l’opera che avrebbe dovuto compiere un giorno e che lì si poteva intravedere per la prima volta, per lo meno per quanto Luca ci racconta.

Le Sue sono parole importanti, dividono il ragionare umano da quello spirituale e vengono pronunciate in un momento rappresentativo della Sua vita: se possiamo ragionevolmente supporre che Gesù per la Pasqua fosse andato al Tempio anche l’anno prima e il successivo, quei suoi dodici anni erano importanti quale spartiacque tra l’età dell’innocenza e quella responsabile senza contare che solo a Gerusalemme il dodicenne ebreo si sarebbe potuto confrontare coi dottori della Legge, le maggiori autorità religiose del tempo. Lì c’era il centro della scienza religiosa, le scuole migliori, i Rabbi più conosciuti.

Il rimanere là nel Tempio ad ascoltare e porre domande non fu quindi una “disubbidienza” di Gesù ai suoi genitori e il fatto che troviamo scritto che tornato a Nazareth, “stava loro sottomesso” non va inteso come una sorta di pentimento di fronte ad uno sbaglio e di un modo per farsi perdonare, ma ha attinenza con lo scopo della sua venuta in quanto fu con noi non per abolire, ma per adempiere. Gesù si identificò sempre con l’uomo, mai con il peccato. La Sua doveva essere una vita che trascorresse in perfetta santità e l’unico modo che aveva per essere veramente “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”, come lo presentò Giovanni Battista, era venire sacrificato innocente al momento stabilito. Un’innocenza che non ebbe mai bisogno di rinnovarsi con pentimentoe/o la confessione perché altrimenti non avrebbe potuto essere quel “Cristo nostra Pasqua che è stato immolato” (1 Corinti 5.7).

Il comportamento di Gesù che “stava loro sottomesso” è poi l’antitesi di Deuteronomio 21.18-21: “Se uno avrà un figlio testardo e ribelle che non obbedisce alla voce né di suo padre, né di sua madre, e benché l’abbiano castigato non darà loro retta, suo padre e sua madre lo prenderanno e lo condurranno dagli anziani della città, alla porta del luogo dove abita e diranno agli anziani della città «Questo nostro figlio è testardo e ribelle, non vuole ubbidire alla nostra voce, è uno sfrenato e un bevitore». Allora tutti gli uomini della sua città lo lapideranno ed egli morirà, così estirperai da te il male e tutto Israele lo saprà e avrà timore”.

La Pasqua in Gerusalemme, tornando all’episodio, era terminata da pochissimo. Penso alla quantità enorme di agnelli offerti in occasione di quella festa il cui numero, nell’anno 65 stando a un calcolo fatto per Nerone, furono 255.600, come scrive Giuseppe Flavio. La vita di Gesù, che come sappiamo ebbe una durata di circa 33 anni, fu una testimonianza continua fatta di scelte sempre e solo indirizzate al compiacere il Padre, cosa che nessun uomo era mai riuscito a fare: “Non sapete voi che devo essere nelle cose del Padre mio?”.

Essere, risiedere, crescere nella grazia, conoscenza e autorità: se non fosse stato perché occorreva salvare l’uomo, certo non ne aveva alcun bisogno, Lui presente alla creazione, Lui che era là, che come “Parola” diede il primo ordine, “Sia la luce”, perché la creazione avesse inizio: “Prima che Abramo fosse, io sono” (Giovanni 8.58).

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01.19 – LA FUGA IN EGITTO (Matteo 2.13-15)

01.19 – La fuga in Egitto (Matteo 2.13-15)

 

13Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo».14Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, 15dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Dall’Egitto ho chiamato mio figlio. 16Quando Erode si accorse che i Magi si erano presi gioco di lui, si infuriò e mandò a uccidere tutti i bambini che stavano a Betlemme e in tutto il suo territorio e che avevano da due anni in giù, secondo il tempo che aveva appreso con esattezza dai Magi. 17Allora si compì ciò che era stato detto per mezzo del profeta Geremia: 18Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande: Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più.”.

 

I Magi, dopo la loro adorazione e aver lasciato i doni che consentiranno a Gesù e alla sua famiglia una vita dignitosa oltre al loro sostentamento nel periodo in Egitto, non verranno più nominati. Con la loro venuta e partenza da Betlehem si apre e si chiude una finestra su quella moltitudine di popoli che sarebbero stati chiamati e salvati in seguito. L’omaggio dei Magi, di cui non ci viene detto il nome né quanti fossero, è quello delle anime che aspettano l’adempimento del regno di Dio, di chi è conscio di un mistero che verrà rivelato un giorno. I Magi si basavano su pochi elementi, ma li seppero conservare con certezza aspettando quella stella ogni notte, in un buio solo apparente, amico. Metto sempre a confronto il mettersi in viaggio di quelle persone, che si fidarono solo della loro tradizione e fede, e il comportamento dei sapienti interpellati da Erode che, per nulla interessati dal racconto di quegli stranieri, risposero freddamente che il Messia sarebbe nato a Betlehem per poi tornarsene alle loro occupazioni, ai loro riti, alla gestione della propria ignoranza interiore, all’incapacità di distinguere, in quei testi davvero sacri orgogliosamente studiati, che era giunto il tempo in cui il regno di Dio sarebbe giunto a loro.

Il sogno dei Magi fu una rivelazione che dovette confortarli molto: tutti loro ricevettero lo stesso messaggio, ebbero la medesima visione, cosa umanamente impossibile; così, all’aver trovato la stella, al Re dei Giudei individuato e omaggiato, si aggiunse un ordine di Dio in sogno che osservarono. Considerata la continuità del triplice messaggio ricevuto – stella, Re e sogno -, alla parola data ad un re umano preferirono rispettare quella che il Re divino aveva rivolto a loro.

Subito dopo la partenza dei Magi abbiamo la quinta rivelazione dell’angelo, termine che non si riferisce ad un essere con ali e aureola, ma a un personaggio identificabile come un “messaggero”. Nessun profeta, tranne che nelle sue visioni riguardanti realtà soprannaturali che si svolgono in ambienti non umanamente raggiungibili, ha mai dato sugli angeli in terra descrizioni diverse da quelle di “uomini” talché l’autore della lettera agli Ebrei in 13.2 scrive “Non dimenticate l’ospitalità: alcuni, praticandola, hanno ospitato senza saperlo degli angeli”.

Rivelazioni angeliche precedenti al sogno di Giuseppe furono l’annunzio a Zaccaria, quello a Maria, a Giuseppe invitato a non lasciare la sua promessa sposa, quello ai pastori, e infine questo, che costituisce anche il secondo sogno di Giuseppe, che ebbe rivelata la volontà di Dio sempre in questo modo.

Va rilevato che la traduzione “sta cercando il bambino per ucciderlo” non è corretta ed è preferibile quella che recita “si accinge a cercare il bambino per eliminarlo” o, come traduce Diodati, “cercherà il bambino per farlo morire”. Anche Ricciotti scrive “sta per cercare il bambino”. La versione che ho scelto per il suo italiano più scorrevole, fa istintivamente pensare che Erode decise la “strage degli innocenti” a seguito di un attacco d’ira perché gabbato dai Magi. Dio invece, perfetto conoscitore degli eventi anche futuri, preavvisa il “padre” di Gesù quando ancora Erode progettava di eliminare il bambino e aspettava il rientro a palazzo della delegazione dei Magi.

La reazione di Giuseppe, uomo d’azione, è un esempio di fedeltà: destatosi, comprende la vitale importanza del sogno, sveglia la moglie, entrambi prendono le loro cose e partono in breve tempo affrontando una settimana circa di viaggio con un bimbo di pochi mesi raggiungendo a un certo punto l’antica strada carovaniera che costeggiava il Mediterraneo per poi raggiungere la Palestina e finalmente l’Egitto. Un viaggio duro ed estenuante caratterizzato dal caldo del deserto. È utile ricordare che lo stesso percorso, relativamente alla carovaniera, è citato da Plutarco che afferma che i soldati romani di Gabinio, una delle personalità più importanti del periodo che precedette la guerra civile tra Cesare e Pompeo, temevano quella traversata più della guerra che li aspettava in Egitto.

Giunti là, penso che la famiglia si sia stabilita vivendo dignitosamente perché aveva con sé l’oro portato in dono dai Magi venuti da oriente. Giuseppe, Maria e Gesù sarebbero rimasti in Egitto fino a quando il messaggero non fosse tornato, vale a dire alla morte di Erode il Grande, avvenuta pare per cancrena di Fournier. Scrive Giuseppe Flavio (Guerre Giudaiche 1,656) “…tutto il suo corpo fu preda della malattia, diviso tra varie forme di mali; aveva una febbre non violenta, un prurito insopportabile su tutta la pelle e continui dolori intestinali, gonfiori ai piedi come per idropisia, infiammazione all’addome e cancrena dei genitali con formazione di vermi, e inoltre difficoltà a respirare se non in posizione eretta, e spasmi di tutte le membra”.

Torniamo alla cronologia: Maria e Giuseppe erano partiti come i Magi prima di loro ed Erode attendeva, sempre più spazientito, fino a quando non comprese, di suo o perché informato dai suoi agenti sparsi ovunque – tra i quali c’erano anche persone “normali” che gli riferivano fatti e comportamenti dietro compenso – di essere stato ignorato. Credo che nulla possa fare infuriare di più un despota del non essere preso in considerazione. Credo che nulla possa preoccupare di più un simile personaggio del sapere della nascita di un rivale, a parte le considerazioni che abbiamo fatto nel precedente studio: la domanda che gli fu rivolta, “Dov’è il re dei giudei che è nato”, era un presagio nefasto che lo preoccupava e che vedeva abbattersi non solo su di sé, ma anche sulla sua discendenza, su tutto ciò che aveva fatto e costruito.

Erode, che allora non era ancora malato, è scritto che si infuriò e prese l’unica decisione per lui possibile, cioè uccidere tutti i bambini di Bethlehem dai due anni in giù e, non volendo sbagliare, abbondò nei calcoli possibili basandosi sui dati che i Magi gli avevano fornito sulla durata del loro viaggio e da quando avevano visto la stella. Ebbe così luogo quella conosciuta come “strage degli innocenti”, che è stato calcolato, in base agli abitanti di Bethlehem (un migliaio) e ai bambini maschi che potevano esservi, potesse avere fatto una ventina di vittime. Fu episodio che, per la scarsa rilevanza per la mentalità di allora e per le altre nefandezze di Erode, non fu riportato da nessuno storico, neppure da Giuseppe Flavio, nonostante gli fosse ostile.

Sicuramente possiamo dire che questa strage può costituire un primo segno di contraddizione, il primo “sasso su cui inciampare” di cui parlò Simeone: ci si può chiedere perché, se

Dio è tanto misericordioso, abbia permesso la morte di bambini innocenti trucidati, presumiamo, con la spada, causando tanto dolore in chi restava, le madri per prime. La domanda è simile a quella che molti si pongono ogni qualvolta avvengono fatti di cronaca che turbano la sensibilità e l’opinione pubblica, come i terremoti, le inondazioni, gli attentati in cui “pagano” persone innocenti. Ci si dimentica che il mondo, la vita che viviamo, da quando i nostri progenitori furono esclusi da Eden, non offre alcuna garanzia di sopravvivenza e che siamo soggetti a termine. Non abbiamo firmato, né noi, né chi per noi, un contratto che ci dice che la nostra vita sarà longeva e avrà una scadenza lontana nel tempo, che si concluderà quando saremo soddisfatti perché vedremo ogni nostro progetto realizzato, che ce ne andremo come Abrahamo, che morì “in felice canizie, vecchio e sazio di giorni” (Genesi 25.8). Al contrario, scrive Paolo ai romani, “Noi sappiamo che fino ad ora tutto il mondo creato geme insieme ed è in travaglio” (8.24). La vita che ogni essere umano vive non è esente da nessuna sofferenza: malattie più o meno gravi, progetti e intenti che naufragano, attitudini che raramente riescono ad esprimersi come vorremmo. La morte dell’innocente, che una volta ho sentito definire come “un mistero”, rientra purtroppo nei casi dell’esistenza di cui l’agente che la causa porterà la responsabilità, come in questo caso. Rientra nelle conseguenze del peccato, in quelle “spine e triboli” che avrebbe prodotto la terra ad Adamo, là dove per “terra” non si deve intendere solo il suolo, ma la vita sul pianeta in quanto tale che, dal momento in cui inizia, non può che finire. Solo in Eden, territorio che ricordiamo fu posto da Dio sulla terra e da lui stesso circondato con quattro fiumi, non vi era sofferenza né morte, così come non vi sarà nel Regno di Dio, nei “Nuovi cieli e nuova terra ove dimora stabile la giustizia”.

Quando leggo questo episodio mi viene solo in mente la speranza che chi abbia ucciso quei bambini sapesse come e dove colpire, anche se le guerre combattute da sempre conoscono orrori anche maggiori e penso che il peccato non può che produrre la morte. La morte, che non è detto sia rapida, può arrivare in qualunque momento e ad ogni età; è un aspetto di quel “giorno del Signore che arriva come un ladro di notte”: coglie di sorpresa. Così sarà il suo ritorno, così accade sempre per la sua chiamata attraverso il decesso: pochissimi sono quelli che si trovano preparati a riceverlo. Per noi quanto avvenuto in Betlehem è un fatto orribile, ma non per gli storici antichi i quali, rispetto alle nefandezze di cui si macchiò Erode, non lo riportarono neppure. C’è chi sostiene che l’episodio non sia avvenuto e che Matteo abbia voluto colorire il suo Vangelo con un racconto teso a dimostrare due profezie adducendo il pretesto che il re non avrebbe potuto emettere una condanna a morte senza l’approvazione del Sinedrio: di fatto, Giuseppe Flavio riferisce che, pochi istanti prima di morire, Erode fece uccidere molti insigni giudei nell’ippodromo di Gerico perché ci fosse chi piangesse nell’occasione della sua dipartita. E non chiese il permesso a nessuno.

La strage degli innocenti, a conferma della prudenza che il re ebbe nell’ordinarla, non avvenne solo a Betlemme, ma nel territorio circostante e Rama era nei pressi. Ecco perché il pianto di Rachele, moglie di Giacobbe e madre di Giuseppe e Beniamino che morì di parto e venne sepolta là, “sulla via di Efrata, cioè di Betlemme” (Genesi 35.19) è accomunato a quello delle madri degli innocenti; Rachele non era una donna comune, soffrì perché era sterile e non riusciva a dare una discendenza al marito, al contrario dell’altra di lui moglie Lea.

La permanenza in Egitto durò circa due anni, ed ecco il terzo sogno di Giuseppe col messaggero: aspettava l’angelo che gli aveva detto di restare in Egitto, dove c’erano comunque ebrei e sinagoghe, e che lo avrebbe avvertito di tornare. Ciò avvenne alla morte di Erode il Grande, avvenimento che adempie quel proverbio di Salomone che recita “L’empio è travolto dalla sua stessa malvagità, ma il giusto ha speranza nella sua stessa morte” (Prov. 14.32).

Ho chiamato mio figlio fuori dall’Egitto” è la profezia che Matteo ci ricorda e la troviamo in Osea 11.1, “Quando Israele era fanciullo, io l’amai e dall’Egitto chiamai mio figlio”: è un aggiornamento storico che ci offre il passaggio da quando il popolo si mosse da quel Paese avendo Mosè come conduttore, a quello attuale, il Cristo. Ricordiamo che Mosé si troverà a parlare con Gesù ed con Elia alla trasfigurazione (Matteo 17.1-13).

A questo punto leggiamo che Giuseppe, di cui non abbiamo tramandato nessuna parola, esecutore obbediente alle istruzioni ricevute da Dio, fu preso da timore quando seppe che, morto Erode, gli era succeduto Archelao, crudele come suo padre. Il regno di Erode, in forza del suo testamento poi ratificato e modificato da Augusto che non voleva che il titolo di re competesse ad alcuno dei suoi figli, fu diviso tra loro: ad Archelao toccarono Giudea, Idumea e Samaria; Antipa ebbe la quarta parte del regno con la Galilea e la Perea e a Filippo toccò la Batanea con l’Auranitide, la Traconide e una parte dell’Iturea. Un altro figlio di Erode, Filippo omonimo del precedente, non ebbe alcun governo ma visse a Roma da privato cittadino. Mentre Antipa e Filippo governarono il loro territorio per tutto il tempo della vita di Gesù ed oltre, Archelao fu accusato di tirannia presso Augusto che lo destituì esiliandolo a Vienna nelle Gallie.

Ecco, qui abbiamo il raccordo con Luca, che inserisce un versetto che fa da ponte tra le benedizioni di Simeone ed Anna e l’episodio che lo vede dodicenne tra i dottori della Legge: “Ora quando ebbero compiuto tutto quello che riguardava l’osservanza della legge del Signore, ritornarono in Galilea, nella loro città di Nazareth” (2.39). Interessante l’aggiunta che fa al verso successivo: “intanto il bambino cresceva e si fortificava nello spirito, essendo ripieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui”.

Ecco, Matteo spiega come mai Maria e Giuseppe tornarono a Nazareth, un perché spirituale e non solo: Gesù sarebbe stato chiamato “Nazareno” sia perché proveniente da quel paese, sia perché la parola ebraica da cui deriva il nome, “netzer” (“germoglio, ramo”) ricorda Isaia 11.1 “Poi un ramoscello uscirà dal tronco d’Isai – padre di Davide – e un germoglio spunterà dalle sue radici. Lo Spirito dell’Eterno riposerà su di lui: spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di potenza, spirito di conoscenza e di timor dell’Eterno”. Tutto iniziò da Nazareth, che ricordiamo come prima località visitata dall’angelo Gabriele quando annunciò a Maria che avrebbe avuto un figlio.

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01.18 – DINAMICHE (Matteo 2-7-12)

01.18 – Dinamiche (Matteo 2.7-12)

 

7Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella 8e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo».
9Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. 10Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. 11Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. 12Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.
”.

 

Satana, il calcolatore, il tecnico, lo psicologo per eccellenza che si prefigge come unico scopo quello di agire contro i progetti di Dio nei riguardi dell’uomo al fine di perderlo, doveva fare tutto ciò che era in suo potere pur di avere ragione su Colui che lo avrebbe sconfitto. Perché là dove c’è un piano di salvezza, ce n’è anche uno di perdizione ordito dal “principe di questo mondo”. Lo fa da sempre. Questo piano iniziò una volta constatata la libertà, gratuità e ricchezza di relazione che l’uomo aveva in Eden e proseguì di pari passo con le varie epoche: pensiamo alla dispensazione della coscienza quando suscitò il pensiero omicida in Caino, al rifiuto all’obbedienza in quella della Legge, a Erode quando nacque Gesù e poi via, attraverso tutti i persecutori della vera Chiesa; solo il giudizio definitivo su di lui e relativi angeli potrà fermarlo una volta per sempre.

Ora, a proposito di Erode, riflettiamo un attimo su quanto sappiamo sulla biografia di re, imperatori o dittatori piccoli e grandi indipendentemente dall’epoca in cui sono vissuti: tutti loro hanno sempre teso ad esaltare la loro immagine perché dotati di un ego smisurato, adoratori in primis di loro stessi e disposti a tutto pur di garantirsi la sopravvivenza, oltre che propria, di quanto hanno costruito. Nella lettura dei testi storici abbiamo incontrati tanti, eroi negativi tanto nella Bibbia quanto al di fuori. La tecnica di questo piccolo despota è stata la seguente: trovandosi di fronte una delegazione di persone autorevoli che non lo avevano cercato dando molta più importanza a quel re che sarebbe stato davvero vittorioso e liberatore, Erode ritenne di non allarmarli facendoli scortare dai suoi uomini fino a Betlehem, e li chiamo “segretamente” – il fare di nascosto le cose è già indice di cospirazione contro qualcuno – informandosi nei dettagli sul motivo della loro visita, su come avevano fatto a sapere di quella nascita, sul loro viaggio e soprattutto da quanto tempo era apparsa la stella. Erode aveva quindi un piano di riserva, come dimostrò successivamente, per uccidere il bambino. Il re voleva usare i magi come informatori inconsapevoli, ma soprattutto il reale disegno (satanico) prevedeva che il bambino Gesù fosse ucciso dagli uomini di Erode proprio grazie ai dati forniti da chi che era venuto da lontano a rendergli omaggio. Era questa una beffa che, per l’Avversario, avrebbe rappresentato una grande sottolineatura alla sua eventuale vittoria contro progetto di Dio.

Il verso della stella che “giunse e si fermò sul luogo dove si trovava il bambino” si potrebbe raccordare a quanto è riportato in Giosuè 10.12-15 che narra l’episodio in cui Israele sconfisse gli Amorrei che, come è noto, fu interpretato letteralmente dalla Chiesa del 1600 quando, tramite il Sant’Uffizio, condannò Galileo per eresia: “«Fermati, sole, su Gabaon, luna, sulla valle di Aialon». Si fermò il sole e la luna rimase immobile finché il popolo non si vendicò dei nemici. Non è forse scritto nel libro del Giusto? Stette fermo il sole nel mezzo del cielo, non corse al tramonto un giorno intero. Né prima, né poi vi fu un giorno come quello, in cui il Signore ascoltò la voce di un uomo, perché il Signore combatteva per Israele” (12-15). Se quindi in via teorica il Creatore non avrebbe avuto difficoltà a “fermare una stella”, in realtà non fece nulla del genere, ma semplicemente raccordò la dinamica del viaggio dei magi e del luogo in cui suo Figlio si trovava a quella della congiunzione dei pianeti, vista la volta scorsa, in cui termina il moto diretto “da – a” per iniziare quello retrogrado: in quel momento sembra, a chi lo osserva, che “la stella” si fermi. Sono perfettamente consapevole di usare termini primitivi, rudimentali; tuttavia chi volesse approfondire in merito esistono studi molto interessanti, reperibili in Rete, editi dall’Osservatorio Astronomico di Genova a cura di Giuseppe Veneziano e Marco Codebò sia riguardo alla “stella dei Magi”, ma ancor di più sull’astronomia nei testi biblici.

Giunti a quel punto e constatato il fenomeno, i Magi capirono di essere arrivati a destinazione: per loro era il coronamento non solo di un lungo viaggio (800 km), ma di attese secolari che si erano tramandati da generazioni e l’idea che avessero di un salvatore dell’umanità che sarebbe nato ci conferma quanto fosse andato in profondità nel cuore e nella mente di queste persone l’insegnamento di Daniele, tramandato nei secoli e che si raccordava ai profeti venuti prima di lui.

Non sappiamo dove “la stella si fermò”: c’è chi traduce con “casa”, chi con “luogo”, ma è evidente che i Magi arrivarono quando Maria non era più impura secondo la Legge e che quindi avesse potuto trovare ospitalità presso dei parenti, probabilmente gli stessi che non avevano potuto accoglierla quando stava per partorire. Giuseppe non era presente e i Magi si prostrarono – come davanti al re che attendevano – e lo adorarono – lui, non sua madre – vale adire esternarono tutto il loro sentimento reverenziale, riconoscendo in lui chi avrebbe esteso il suo dominio spirituale su tutti i popoli. La loro conoscenza era quella che si tramandavano da generazioni basata su forse poche, ma per loro certe profezie e sono certo che vadano riconosciuti anche nel Salmo 72.9-12 di Salomone: “A lui si pieghino le tribù del deserto, mordano la polvere i suoi nemici. I re di Tarsis e delle isole portino tributi, i re di Saba e di Seba portino doni. Tutti i re si prostrino a lui, lo servano tutte le genti, perché egli libererà il misero che lo invoca e il povero che non trova aiuto”. Adorare presuppone il fatto che si riconosca a chi riceve quel gesto una dignità e un potere unico, riconoscendo l’inferiorità assoluta di chi la porge. Al prostrarsi dei magi si accompagnava un profondo sentimento interiore e non escludo che, per le modalità con cui si manifestò loro “la stella”, riconoscessero in Lui anche il re del creato.

Mi sorge spontaneo paragonare i due sentimenti descritti al verso 3 (“All’udire questo Erode fu turbato e con lui tutta Gerusalemme”) e il 10 (“Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima”), due opposti. Citando le parole di un fratello, “Il turbamento cui il testo si riferisce non caratterizzò solo Erode, ma soprattutto le autorità religiose del popolo d’Israele che dimostrarono, con il loro stile di vita, di non aspettare affatto il promesso Messia e di avere una profonda ignoranza delle scritture profetiche malgrado la lettura continua nel Tempio e nelle Sinagoghe. Ancora oggi molti celebrano il Natale di Cristo, ma non fanno mai proprio il Suo Vangelo e la dottrina degli Apostoli. Natale dunque non è espressamente la giornata nella quale dimostrare di essere necessariamente buoni, dove le strette di mano accompagnate da frasi di circostanza trovano fondamento solo in tradizioni pagane: quelle stesse mani che si stringono diventano poi da calde a tiepide e quindi fredde, dure, violente”. I Magi furono annunciatori della nascita di Gesù a un popolo che a parole attendeva un Messia che avrebbe dovuto portarlo a una vittoria materiale, non certo spirituale.

Dopo l’adorazione, ecco i doni che non ebbero un significato umano, ma profetico, premesso che secondo l’uso del tempo i re non ricevevano delegazioni che non portassero con sé degli omaggi.

 

  1. 1. ORO

era probabilmente quello di Ofir, estratto nella regione di Avila, che aveva 24 carati. Il suo significato, come per gli altri doni, è fondamentale: l’Avila era bagnata dal fiume Pison, primo dei quattro che prendevano origine dall’unico fiume che usciva dal giardino di Eden e che significa “Primogenito”; il Pison anticipa e presenta la persona e la nascita di Cristo, definito anche “Il primogenito di ogni creatura”. L’oro poi aveva connessione “pratica” con lo stato regale del bambino che gli attribuivano i Magi riconoscendo in Lui la Sua presenza nel tempo: re era e sarebbe stato sempre e per sempre, come del resto l’oro, che è inattaccabile dagli agenti chimici. L’oro, nella Scrittura, ha sempre connessione con l’essere di Dio, mentre l’argento con quella dell’uomo.

 

  1. 2. INCENSO

il riferimento è alla divinità di Cristo e al tempo stesso è figura della preghiera che sale verso l’alto. Ricordiamo che Gesù, nella Sua vita terrena, rimase sempre in contatto col Padre anche per mezzo di lei. Non sappiamo la composizione dell’incenso che gli portarono i magi, ma quella che i sacerdoti bruciavano sull’altare a lui dedicato, quello detto anche dei profumi, era costituito da quattro componenti in parti uguali, che si bruciavano al mattino e alla sera. “Sarà da voi ritenuta cosa santissima, Non farete per vostro uso alcun profumo di composizione simile a quello che devi fare: lo riterrai una cosa santa in onore del Signore. Chi ne farà di simile, per sentirne il profumo, sia eliminato dal suo popolo. (Esodo 30.34). Non è azzardato, per estensione, paragonare ai componenti dell’incenso ai quattro Vangeli che solo amalgamati, connessi e armonizzati tra loro possono dare un quadro esaustivo del messaggio di Dio per l’uomo. È in questo incenso che risiede la verità come in Cristo ne abita tutta la pienezza. Essendo l’incenso un profumo, viene spontaneo paragonarlo al Suo sacrificio.

 

  1. 3. MIRRA

proveniente da Avila come i primi due doni, ha un significato diverso, ci parla di morte e di sofferenza. La mirra è una resina che esce dalla pianta spontaneamente o per incisione praticata sulla corteccia, per poi raccoglierla una volta essicata. Gli egiziani la usavano nella mummificazione, era uno dei componenti dell’olio per l’unzione sacra non solo dei componenti per il culto ebraico, (candelabro, tenda del convegno ed altri), ma anche dei sacerdoti. La mirra, oltre che profumo, è un disinfettante e un analgesico (vedi il vino mescolato alla mirra che i soldati romani offrirono a Gesù sulla croce); inoltre, sarà portata da Nicodemo per seppellire Gesù: “Vi andò anche Nicodèmo, quello che in precedenza era andato da lui di notte, e portò una mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre. Essi presero allora il corpo di Gesù, e lo avvolsero in bende insieme con oli aromatici, com’è usanza seppellire per i Giudei.” (Giovanni 19: 39-40). Con quei doni, quindi, i magi resero al bambino anche un onore profetico.

 

Fu un sogno ad avvertire i magi di non passare da Erode, avvenimento che ci parla dell’universalità del messaggio che, da lì a trent’anni circa, sarebbe stato dato all’umanità: quei sapienti, che per manifestare i loro sentimenti di adorazione avevano percorso su carovana migliaia di chilometri, scelsero una strada diversa per tornarsene al loro paese, probabilmente costeggiando il Mar Morto.

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01.15 – ANNA (Luca 2.36-38)

01.15 – Anna (Luca 2.36-38)

 

36C’era anche una profetessa, Anna, figliola di Fanuele, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto col marito sette anni dal tempo in cui era ragazza, 37era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal Tempio, servendo dio notte e giorno con digiuni e preghiere. 38Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme”.

 

Se Simeone si distaccava profondamente dagli altri uomini suoi contemporanei, Anna è il suo corrispettivo femminile, è fondamentalmente una persona che ha fatto una scelta, un personaggio i cui dati biografici sono più dettagliati dei suoi discorsi perché è importante accreditarla di fronte ai lettori del Vangelo e al tempo stessa dare un peso rilevante al significato delle sue parole ai suoi contemporanei. Cosa disse Simeone? Benedì Maria e Giuseppe, fece una profezia su cosa avrebbe rappresentato il loro figlio, ma fu comunque un avvenimento privato, mentre questa profetessa, conosciuta a Gerusalemme, che stava stabilmente nel tempio negli spazi che poteva occupare come donna, il cortile dei gentili e quello riservato alle donne, parlò di Gesù pubblicamente “a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme”.

L’importanza di Anna, il cui nome significa “colei che beneficia della grazia di Dio”, è data anche dal fatto che è si colloca all’ottavo posto con nome proprio dopo le sette che contano i rabbini nell’Antico Patto. Di lei conosciamo il nome di suo padre, Fanuele (“volto di Dio”) e che apparteneva alla tribù di Aser, figlio di Giacobbe avuto da Zilpa schiava di Lea, che prima aveva partorito Gad. Ottavo figlio di Giacobbe, ricevette da lui una benedizione particolare: “Da Aser verrà il pane saporito, egli fornirà delizie da re” (Genesi 49.20). Entrato in Egitto assieme ai suoi fratelli grazie a Giuseppe, fu il capostipite della tribù omonima e Mosè lo benedisse con queste parole “Benedetto tra i figli è Aser, sia favorito tra i suoi fratelli e intinga il suo piede nell’olio. Di ferro e di rame siano i tuoi catenacci e quanto i tuoi giorni duri il tuo vigore” (Deuteronomio 33.24,25).

La tribù di Aser occupò una regione molto fertile dal Mediterraneo alle falde del Libano e si stabilì in mezzo ai cananei senza combatterli come avevano fatto altre tribù, quindi non respinse le tradizioni e i costumi delle popolazioni pagane, né partecipò a guerre anche se rispose all’appello di Gedeone contro i madianiti che avevano corrotto i costumi del popolo di Israele. Quando però si trattò di andare a Gerusalemme per celebrare la Pasqua secondo l’editto di Ezechia è detto che “Solo alcuni di Aser, Manasse e Zabulon si umiliarono e vennero in Gerusalemme” (v. 11).

Aser quindi sta a indicare un comportamento privo di una linea particolarmente coerente, che a volte fa compromessi con un mondo estraneo ai princìpi di Dio indebolendosi, che a volte ritorna per poi ancora spegnersi. Però, come sappiamo, gli “alcuni”, i “superstiti”, i pochi “giusti”, ci sono sempre e sono di benedizione per gli altri. Probabilmente è proprio per questo che Luca specifica a quale tribù appartenesse Anna, a ricordare che Dio aveva stabilito un patto anche con Aser e i suoi discendenti e che avrebbe conservato un rimanente fedele, come ha fatto a partire da Enos di cui in Genesi 4.26 è detto “E a Set – figlio di Adamo in sostituzione di Abele – ancora nacque un figlio ed egli gli pose il nome di Enos. Allora si cominciò a nominare una parte degli uomini nel Nome del Signore”. Da allora in poi il “rimanente fedele” non è mai venuto meno e così sarà fino ai tempi futuri descritti in Apocalisse 12.17 in cui si parla del drago, Satana, che se ne va a “far guerra contro il resto della sua discendenza – della donna –, contro quelli che custodiscono i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù”.

Anna ha una storia tutta particolare: si era sposata, come tutte le donne di allora ad un’età che poteva essere compresa tra i 13 e i 15 anni, ma era rimasta vedova dopo sette, quindi si era trovata sola tra i 20 e i 22, in giovane età, in una condizione che potremmo definire umanamente molto triste perché si era trovata priva del sostegno necessario proveniente dal marito. E qui abbiamo la prima scelta di questa donna: avrebbe potuto sposarsi nuovamente, liberandosi per lo meno dalle preoccupazioni economiche, ma non lo fece, preferendo fondare la sua esistenza sulle promesse che Dio aveva riservato alle donne nelle sue condizioni. Umanamente, razionalmente parlando, si trattava di lasciare una prospettiva di sicurezza che un secondo matrimonio poteva dare, per l’incerto. “Circoncidete dunque il vostro cuore ostinato – cosa ben più difficile della circoncisione ordinaria – e non indurite più la vostra cervice; perché il signore, vostro Dio, è il Dio degli dèi, il Signore dei signori, il Dio grande, forte e terribile, che non usa parzialità e non accetta i regali, rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito” (Deuteronomio 10.16-18). Salmo 146.9,10 recita “il Signore ridona la vista ai ciechi, il Signore rialza chi è caduto, il Signore ama i giusti, il Signore protegge i forestieri, egli sostiene l’orfano e la vedova, ma sconvolge le vie dei malvagi”, senza contare la condanna per coloro che opprimevano questa categoria di persone.

Anna fece di più che affidarsi a una promessa di Dio, ma pose in atto, con fede inconcepibile per la mentalità per lo meno del mondo in cui viviamo oggi, un metodo di vita in cui perseverava da 84 anni, quindi ne aveva più di cento: stava là, nel tempio, senza lasciarlo mai, profondamente conscia del fatto che era lì, o meglio nel luogo santissimo, che Dio aveva la sua dimora per gli uomini. E lei era un essere umano. Dio abitava lì, era lì per lei.

Il Tempio aveva un spazio per i gentili, cioè i pagani, figura della loro futura ammissione al popolo di Dio, poi uno spazio per le donne, quindi per gli uomini, poi per i Sacerdoti, e infine per Lui stesso, in un perimetro in cui nessuno poteva entrare salvo il Sommo Sacerdote una volta all’anno.

Lei, definita “molto attempata” perché aveva superato i 100 anni, era praticamente risiedente

nello spazio dedicato alle donne e sicuramente col tempo si era guadagnata la stima e l’ammirazione di quanti lo frequentavano: da lì abbiamo letto che non si allontanava mai, avverbio che ci parla di una continuità assoluta, di pensieri ininterrotti e a lei, e a quelle come lei, pensava l’apostolo Paolo che, rivolto al suo discepolo Timoteo nella sua prima lettera, gli scrive “Colei che è veramente vedova ed è rimasta sola, ha messo la speranza in Dio e si consacra all’orazione e alla preghiera giorno e notte; al contrario, quella che si abbandona ai piaceri, anche se vive, è già morta. Raccomanda queste cose, perché siano irreprensibili. Se poi qualcuno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto di quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele. Una vedova sia iscritta nel catalogo delle vedove quando abbia non meno di sessant’anni, sia moglie di un solo uomo, 1sia conosciuta per le sue opere buone: abbia cioè allevato figli, praticato l’ospitalità, lavato i piedi ai santi, sia venuta in soccorso agli afflitti, abbia esercitato ogni opera di bene. Le vedove più giovani non accettarle, perché, quando vogliono sposarsi di nuovo, abbandonano Cristo e si attirano così un giudizio di condanna, perché infedeli al loro primo impegno. Inoltre, non avendo nulla da fare, si abituano a girare qua e là per le case e sono non soltanto oziose, ma pettegole e curiose, parlando di ciò che non conviene. Desidero quindi che le più giovani si risposino, abbiano figli, governino la loro casa, per non dare ai vostri avversari alcun motivo di biasimo. Alcune infatti si sono già perse dietro a Satana. Se qualche donna credente ha con sé delle vedove, provveda lei a loro, e il peso non ricada sulla Chiesa, perché questa possa venire incontro a quelle che sono veramente vedove” (5.5-16).

Anna aveva scelto un compito difficile: “servire Dio notte e giorno in digiuno e preghiere”, identificandosi in quelli che stavano “nella casa del Signore durante la notte” (Salmo 134.1) pregando e digiunando, termine che indica una profonda rinuncia poiché è esteso non solo al cibo, ma da quanto può distrarre l’essere umano dal suo rapporto con Dio. Si può praticare il digiuno in senso stretto rinunciando all’alimentazione, ma a nulla serve se non è preceduto dalla rinuncia, dall’astensione progressiva di quanto impedisce una comunione con Dio. Si può dire che ogni volta che scegliamo di dedicare del tempo a Dio per la nostra crescita spirituale, digiuniamo. Infatti c’è una via dei giusti e una via dei peccatori, una via di Dio perfetta che Davide chiedeva di conoscere (“Mostrami Signore la tua via, guidami sul retto cammino”, Salmo 27.11) e che Gesù esortò a percorrere quanti lo ascoltavano con un invito preciso: “Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa è la via che conduce alla perdizione, e molti sono coloro che vi entrano” (Matteo 7.11).

Tornando al testo, Anna arrivò probabilmente mentre Simeone parlava a Maria e Giuseppe: il verbo usato, epistràsa cioè “stando vicina”, “avvicinandosi” è indice quasi di contemporaneità, iniziò a lodare Dio parlando di quel bambino non a chiunque, ma a quel rimanente di Gerusalemme

che, animati dagli stessi intenti suoi e di Simeone, aspettavano la redenzione. Questi due personaggi non erano quindi soli, ma piuttosto erano i rappresentanti, coloro che meglio di altri attendevano e si dedicavano alla preghiera e alla pratica di vita scritturale. L’importanza di questo principio risiede qui: Dio tramite Anna non rivolse il Suo annuncio a delle persone – se può passare il termine – “perfette” come lei o Simeone, ma a uomini e donne di fede, che avevano fatto proprie le profezie dell’Antico Testamento, che sapevano e aspettavano. Uomini e donne che sapevano, non speravano soltanto. E alcuni hanno interpretato il verso conclusivo, “parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di – o più propriamente “in” – Gerusalemme” come un andarli a cercare nelle loro case. Di certo Anna era in relazione con loro, così come ancora oggi capita che i credenti si riconoscano l’un l’altro senza essersi mai visti. Possiamo ricordare le parole di Malachia 3.16-18: “Allora parlarono tra loro i timorati di Dio. Il Signore porse l’orecchio e li ascoltò: un libro di memorie fu scritto davanti a lui per coloro che lo temono e che onorano il suo nome. Essi diverranno – dice il Signore degli eserciti –un tesoro riposto nel giorno che io preparo. Avrò cura di loro come il padre ha cura del figlio che lo serve. Voi allora di nuovo vedrete la differenza fra il giusto e il malvagio, fra chi serve Dio e chi non lo serve”.

            Dopo questo suo parlare, Anna non è più nominata, come Simeone. Entrambi, come altri personaggi, sono un ponte tra l’Antico che stava per concludersi e il Nuovo che stava per arrivare. E resto sempre affascinato quando l’orologio di Dio, così incommensurabilmente distante, si china per scandire all’unisono con quello degli uomini, sue creature che ha voluto salvare, risparmiare dal loro altrimenti inevitabile destino di morte.

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01.14 – SIMEONE (Luca 2.25-35)

01.14 – Simeone (Luca 2.25-35)

 

25Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. 26Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. 27Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, 28anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:29«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, 30perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, 31preparata da te davanti a tutti i popoli: 32luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele». 33Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. 34Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione 35– e anche a te una spada trafiggerà l’anima -, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori»”.

 

Luca ci presenta qui un personaggio singolare nel vero senso del termine: a Gerusalemme, città che all’epoca si calcola avesse circa 100mila abitanti, viveva “un uomo” la cui posizione ha suscitato in me diversi interrogativi, primo dei quali se Luca, scrivendo appunto “un uomo” intendesse dare un riferimento numerico nel senso che il rapporto uomo giusto – abitanti di Gerusalemme fosse di 1:100.000 oppure no. Per rispondere occorre tener presente diversi aspetti che caratterizzano il personaggio. L’unicità di Simeone, il cui nome significa “Dio ha ascoltato”, è data da tre caratteristiche, tutte in stretta relazione tra loro: era “giusto”, aggettivo già utilizzato finora da Luca per indicare Zaccaria, Elisabetta e Giuseppe. La loro “giustizia” è da intendersi come caratteristica interiore, quella che viene dalla fede che governa tutto l’agire dell’essere umano che, nel loro caso visto il tempo in cui vivevano, si manifestava attraverso l’attenzione alla legge morale originata dal timor di Dio. Sbaglieremmo se volessimo vedere in questi personaggi delle “brave persone” che credevano nelle promesse ricevute tramite la Legge e i Profeti e cercavano di osservare i comandamenti: la loro era una disposizione di cuore, un attaccamento, l’aver realizzato che in nessun altro potevano trovare la loro consolazione spirituale, la loro dignità di esseri umani. Questo atteggiamento era il risultato di una lunga assimilazione, di una pratica che aveva finito per permeare tutta la loto vita, quella che fa dire al salmista “Cerca la gioia nel Signore – l’unico che può dare quella stabile –: esaudirà i desideri del tuo cuore. Affida al Signore la tua via, confida in lui ed Egli agirà: farà brillare come luce la tua giustizia, il tuo diritto come il mezzogiorno. Sta’ in silenzio davanti al Signore – perché è lui e non tu che deve parlare – e spera in lui; non irritarti per l’uomo che ha successo, per l’uomo che trama insidie. Desisti dall’ira e deponi lo sdegno, non irritarti, non ne verrebbe che male. Perché i malvagi saranno eliminati, ma chi spera nel Signore avrà in eredità la terra”.

La giustizia di Simeone, pari a quella di Abramo perché poggiata sulla fede, si basava sulla certezza dell’ereditare la terra, quella nuova che sarà creata in sostituzione dell’attuale corrotta, che sarà popolata dai giusti, cioè da coloro che Lo cercarono, trovandolo. Simeone era un uomo paziente e soprattutto attento ai segni del suo tempo a tal punto che lo Spirito Santo gli aveva rivelato che non sarebbe morto senza aver visto il Cristo. Fu un premio analogo a quello che fu concesso ad Abrahamo, citato da Gesù con queste parole: “Abrahamo, vostro Padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia” (Giovanni 8.56).

La seconda caratteristica di Simeone è “timorato di Dio”, termine che non ha a che fare con la paura, ma piuttosto con il rispetto e il sapere che ogni azione contraria alle Sue aspettative produce una conseguenza. L’assenza del timore di Dio rende l’uomo presuntuosamente autonomo e tutto ciò porta con sé, come sappiamo dalla disubbidienza di Adamo e sua moglie, conseguenze terribili viste nella morte con tutte le sue applicazioni. Al contrario l’esperienza degli uomini “giusti” che ci hanno preceduto li ha spinti a lasciare parole importanti per il nostro orientamento: “Principio della sapienza è il timore del Signore e conoscere il Santo è intelligenza. Per mezzo mio – è la sapienza che parla – si moltiplicheranno i tuoi giorni, ti saranno aumentati gli anni di vita. Se sei sapiente, lo sei a tuo vantaggio; se sei spavaldo, tu solo ne porterai la pena” (Proverbi 9.10-12). Ancora: “Nel timore del Signore sta la fiducia del forte; anche per i suoi figli egli sarà un rifugio. Il timore del Signore è fonte di vita per sfuggire ai lacci della morte” (Ibid. 14.26-27).

Questi versi, appartenenti all’Antico Patto ma validi ancora oggi fatte le dovute estensioni dateci dalla Grazia, credo che illustrino molto bene l’atteggiamento e la ricerca di Simeone: la sua condotta si basava su una profonda acquisizione del suo essere in rapporto con quel Dio che aveva promesso “la consolazione di Israele”, uno degli attributi coi quali veniva indicato il Messia e che i rabbini sostengono sia stato l’argomento di cui parlarono Elia ed Eliseo poco prima che il profeta venisse rapito: in 2 Re 2.11 leggiamo “Mentre continuavano a camminare conversando, ecco un carro di fuoco e cavalli di fuoco si interposero fra loro due. Elia salì nel turbine verso il cielo”.

La “consolazione di Israele” la possiamo vedere in diversi passi della Scrittura, ad esempio Isaia: “Giubilate, o cieli, rallegrati, o terra, gridate di gioia, o monti, perché il Signore consola il suo popolo e ha misericordia dei suoi poveri. Sion ha detto «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato»: si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?” (Isaia 49.13-15). Ancora, “Come una madre consola il figlio, così io vi consolerò. A Gerusalemme sarete consolati” (66.13).

Simeone, a differenza di molti, non aspettava un liberatore terreno e temporale dal dominio di Roma pagana, ma “la consolazione di Israele”, temine unico, preciso, riferito non a un uomo buono e compassionevole, ma a quell’unica persona deputata da Dio ad essere l’Emanuele, il liberatore dal peccato. Al Re potente e glorioso che il popolo attendeva, Simeone preferiva quello di un consolatore individuale e collettivo al tempo stesso.

Leggiamo una quarta caratteristica di quest’uomo, conseguente alle altre: “Lo Spirito Santo era sopra di lui”. Non era cosa da poco, considerati i tempi di allora in cui regnava una notevole confusione religiosa, con l’esercizio dell’apparenza a scapito di quello della pietà, come troviamo riferito nella cosiddetta parabola del buon samaritano (Luca 10.25-37) e in quella del Fariseo e del pubblicano (Luca 18.9-14). Conseguenza dell’allontanamento del popolo dalla giustizia e dal timor di Dio era la presenza, oltre che dei romani dominatori, di molte malattie e indemoniati che verranno guariti da Nostro Signore.

Ebbene quello Spirito di Dio aveva rivelato a Simeone – non è detto in che modo – che non sarebbe morto senza aver visto il Cristo, l’Unto del Signore: si trattò di un premio di fronte alla sua costanza fatta di riflessioni, preghiere ed opere. E probabilmente quest’uomo era un Rabbi. Uno su centomila aspettava in modo corretto, non religioso, ma vivo, spontaneo. A uno su centomila fu rivelato qualcosa di assolutamente particolare, come se fosse un profeta muto perché gli eventi avrebbero parlato per lui. Simeone faceva parte di quei superstiti di cui parla Isaia nel suo capitolo primo descrivendo (anche) la posizione spirituale dell’Israele del tempo: “«Ho allevato e fatto crescere figli, ma essi si sono ribellati contro di me. Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende». Guai, gente peccatrice, popolo carico d’iniquità! Razza di scellerati – vedi Giovanni battista, che disse “razza di vipere” –, figli corrotti! Hanno abbandonato il Signore, hanno disprezzato il Santo d’Israele, si sono voltati indietro. Perché volete ancora essere colpiti, accumulando ribellioni? Tutta la testa è malata, tutto il cuore langue. Dalla pianta dei piedi alla testa non c’è nulla di sano, ma ferite e lividure e piaghe aperte, che non sono state ripulite né fasciate né curate con olio. La vostra terra è un deserto, le vostre città arse dal fuoco. La vostra campagna, sotto i vostri occhi, la divorano gli stranieri; è un deserto come la devastazione di Sòdoma. È rimasta sola la figlia di Sion, come una capanna in una vigna, come una tenda in un campo di cetrioli, come una città assediata. Se il Signore degli eserciti non ci avesse lasciato qualche superstite, già saremmo come Sòdoma, assomiglieremmo a Gomorra”.(Isaia 1. 3-9)

Il “superstite”, oltre alla citazione di Sodoma, ci ricorda Abramo quando, parlando con Dio, fece intercessione per i giusti che eventualmente la abitavano, perché non perissero nella sua distruzione (Genesi 18) e che si riassume con la frase “Davvero tu sterminerai il giusto con l’empio?”. A Sodoma come sappiamo abitava Lot che, come scrive Pietro nella sua prima lettera, era “angustiato dal comportamento immorale di quegli scellerati. Quel giusto infatti, per quello che vedeva e udiva mentre abitava in mezzo a loro, si tormentava ogni giorno nella sua anima giusta per tali ignominie”

(1 Pietro 2.8,9).

Ci sono però altre considerazioni. Quando un essere umano si annulla e si fa docile, pronto a ricevere continuamente l’amore di Dio che ricambia, gli consente di agire e diventa un tutt’uno con lui, fatti salvi i confini penalizzanti del corpo e le sue limitazioni: mosso dallo Spirito, Simeone va al Tempio proprio quando Maria e Giuseppe stavano portandovi il bambino. Simeone non va là per fare un giro o senza sapere perché, ma “mosso dallo Spirito” proprio quando Maria e Giuseppe portavano il loro primogenito al Tempio per la sua consacrazione. Si adempì così la profezia di Malachia 3.1 “L’angelo del patto, che voi desiderate, verrà nel suo tempio”. A uno su centomila fu rivelato questo.

Simeone riconobbe il bambino, non sappiamo fra quanti, leggiamo che lo accolse tra le braccia – i rabbini prendevano in braccio i bambini per benedirli – e fece una solenne dichiarazione perché si trovò di fronte il compimento della rivelazione fattagli dallo Spirito Santo: quell’ “ora lascia che il tuo servo vada in pace” non lascia alcun dubbio sul fatto che non desiderasse altro dalla vita terrena che riteneva conclusa nel modo migliore.

È importante il termine greco usato per indicare “Signore”, piuttosto raro nel Nuovo Testamento, che allude a un padrone assoluto, proprietario delle persone o delle cose; lo troviamo in

Atti 4.24 (“Signore, tu che hai creato il cielo, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi”) e in 2 Timoteo 2.21

(“Chi si manterrà puro astenendosi da tali cose, sarà un vaso nobile, santificato, utile al padrone, pronto per ogni opera buona”). Simeone allora qui si fa esempio. Per lui il “Signore” non è un essere superiore da chiamare con un titolo onorifico, ma Colui che con la sua autorità e santità dispone di tutto ed è il padrone di ogni cosa, quindi anche della vita dell’uomo. Oggi come ieri sono purtroppo in tanti a qualificare Dio come “Signore”, ma poi dimostrano coi loro atti che in realtà Lui è qualcosa di estraneo per loro, buono tutt’al più per preghiere che non portano a nessun esaudimento.

C’è poi un particolare, una precisazione molto interessante nelle parole di quest’uomo, cioè che la salvezza non sarebbe stata monopolio di un solo popolo, ma sarebbe diventata patrimonio di tutti, anche dei pagani, degli stranieri che avrebbero creduto in Lui. Se quindi Zaccaria aveva pronunciato il suo cantico da sacerdote che pensava alla promessa specifica del Messia e sapeva il ruolo che avrebbe avuto il figlio Giovanni, Simeone va oltre, allarga la prospettiva riferendosi, con il termine “Luce per illuminare le genti” a Isaia 42.6,7: “«Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e ti ho stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre. Io sono il Signore: questo è il mio nome; non cederò la mia gloria ad altri, né il mio onore agli idoli. I primi fatti, ecco, sono avvenuti e i nuovi io preannuncio; prima che spuntino, ve li faccio sentire»”.

Guardando agli avvenimenti passati e futuri in relazione alle parole di Simeone e ad Isaia 60.3 che scrive “Cammineranno le genti alla tua luce”, sono certamente da leggere le parole dell’apostolo Paolo nella Sinagoga di Antiochia: “«Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani. 47Così infatti ci ha ordinato il Signore: Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra». 48Nell’udire ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero. 49La parola del Signore si diffondeva per tutta la regione”. (Atti 13.46,49).

Leggiamo poi che Giuseppe e Maria si meravigliarono di quelle parole: non era un sentimento di scetticismo o di incomprensione, ma piuttosto di meraviglia raccordando tutti gli avvenimenti di cui erano stati testimoni. Maria aveva avuto l’annuncio dell’angelo, Giuseppe aveva ricevuto l’invito a non abbandonarla in sogno, poi avevano avuto la visita dei pastori: raccordando tutte queste cose, lo stupore di fronte alla perfetta coincidenza tra l’esperienza spirituale avuta e ciò che sperimentavano “toccando con mano”, è pienamente comprensibile. Ma Simeone ebbe anche delle parole per loro: “li benedisse e parlò a Maria, sua madre: «Egli è qui per la rovina e il sollevamento di molti in Israele, segno di contraddizione, perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l’anima”.

Rovina” e “sollevamento di molti”: due destini contrari. Qui c’è una conferma personale e diretta di Isaia 8.14,15: “Egli sarà insidia e pietra di ostacolo e scoglio d’inciampo per le due case di Israele – tutti gli ebrei –, laccio e trabocchetto per gli abitanti di Gerusalemme. Tra di loro molti inciamperanno, cadranno e si sfracelleranno, saranno presi e catturati”.

“Rovina” e “sollevamento” intesa in senso spirituale che sarà la divisione tra quanti crederanno in Lui oppure Lo rifiuteranno. Infatti Gesù disse: “Se non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero alcun peccato, ma ora non hanno scusa per il loro peccato. Chi odia me, odia il Padre mio. Se non avessi fatto in mezzo a loro opere che nessuno ha mai fatto, non avrebbero alcun peccato; ora invece hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio, questo perché si adempisse la parola scritta nella loro legge «Mi hanno odiato senza ragione»” (Giovanni 15.22-25). Il “sollevamento”, poi, è usato da Luca in altri passi per indicare la resurrezione.

Gesù sarà un segno di contraddizione sotto questo aspetto, perché siano svelati i pensieri di molti cuori: la lettura dei Vangeli dimostra questa profezia con le reazioni di tutti coloro che ebbero a che fare con lui in giudizio – e penso all’entusiasmo del giovane ricco, convinto di essere un buon osservante, ma che si allontanò contristato quando gli fu chiesto di abbandonare tutto e di unirsi ai discepoli – o in salvezza. È la reazione all’annuncio o alla proposta della Parola che rivela i pensieri dei cuori, cioè ciò che abita realmente la persona. Qui si aprirebbe un capitolo sterminato.

L’ultima frase, è per Maria. La presenza della spada qui denota dolore e angoscia, l’anima come riferimento a tutto l’essere della persona e credo abbia connessione col dolore che proverà questa donna da lì a 33 anni ai piedi della croce quale punto culminante dopo tutte le sofferenze che infliggeranno i romani, dietro istigazione degli abitanti di Gerusalemme, al figlio. La strada della salvezza è lastricata di dolore, speranza, resistenza, certezza, dell’essere e farsi strumento nelle mani di Dio. Amen.

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01.13 – CIRCONCISIONE E PRESENTAZIONE (Luca 2.21-24)

01.13 – Circoncisione e presentazione (Luca 2.21-24)

 

21Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo. 22Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – 23come è scritto nella legge del Signore: Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore – 24e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore”.

 

Il giorno della circoncisione, occasione di festa per gli ebrei perché da quel momento in poi il bambino avrebbe portato nel proprio corpo il segno dell’appartenenza al popolo di Israele, non è descritto da Luca come quello di Giovanni Battista, cioè accompagnato dalle congratulazioni di parenti ed amici ai genitori. Forse a Betlemme Giuseppe e Maria non avevano più famigliari oppure, cosa più probabile, a Luca preme porre l’accento su quell’intervento prescritto già dai tempi di Abramo anche se la Legge non era stata ancora rivelata pienamente come a Mosè. Ricordiamo il patto di Dio: “Quindi ti farò divenire nazioni e da te usciranno dei re. E stabilirò il mio patto fra me e te, e i tuoi discendenti dopo di te, di generazione in generazione sarà un patto eterno, impegnandomi ad essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te” (Genesi 17.7). Si può dire che questa rivelazione, questa nuova iniziativa, questo patto, richiedeva una firma, un benestare da parte dell’uomo che riconosceva nella circoncisione il segno esteriore dell’appartenenza al popolo eletto: “Questo è il patto che voi osserverete, tra me e voi e la tua discendenza dopo di te: ogni maschio fra voi sarà circonciso. E sarete circoncisi nella carne del vostro prepuzio, e questo sarà un segno del mio patto fra me e voi. All’età di otto giorni, ogni maschio tra voi sarà circonciso. Di generazione in generazione, tanto quello nato in casa, come quello comprato con denaro da qualunque straniero che non sia della tua discendenza. Sì, tanto chi è nato in casa tua come chi è comprato con denaro dovrà essere circonciso; e il mio patto nella vostra carne sarà un patto eterno. E il maschio incirconciso, che non è stato circonciso nella carne del suo prepuzio, sarà tagliato fuori dal suo popolo, perché ha violato il mio patto” (Genesi 17.10-14).

Per quanto praticata anche da altri popoli, la circoncisione non aveva lo stesso significato per Israele in cui si aveva un segno indelebile, esteriore, nella carne che ricordava non solo l’appartenenza al popolo eletto, ma soprattutto l’immedesimazione nelle promesse ricevute, il volerne far parte, l’essere un tutt’uno con esse. C’era, nelle parole che abbiamo letto, una profezia di riscatto: era vista nell’espressione “da te usciranno dei re” che racchiudeva tutto un lungo panorama storico che avrebbe avuto la suo punto culminante con la venuta del Re per eccellenza, quel Messia il cui ruolo e funzione si sarebbe sempre più delineato nel corso dei secoli fino alla Sua venuta.

C’è anche un raccordo possibile tra il tempo in cui l’adempimento delle promesse era ancora lontano e il nostro: doveva essere circonciso non solo il “nato in casa tua”, quindi l’israelita, ma anche ogni maschio che per qualsiasi ragione fosse inserito nella società ebraica, quindi lo straniero che rinunciava alle sue credenze per aderire al popolo di Dio: questa è una figura, un’anticipazione del fatto che l’appartenere al popolo santo non sarebbe stata un giorno prerogativa degli ebrei. Il fatto che potesse venire inserito nel suo àmbito anche lo straniero, poi, ci testimonia di come ci fosse un piano futuro anche per gli altri popoli.

Molte volte avremo a sottolineare che la Legge è, come dice la Scrittura, “ombra dei futuri beni”: guardando il verso che conclude il patto della circoncisione, vediamo che se il rifiuto di far circoncidere il proprio figlio, all’età di otto giorni perché lì il sangue possiede il suo maggiore potere coagulante, equivaleva a rifiutare il patto stipulato da Dio con Abramo. Come doveva essere “reciso dal popolo” chi rifiutava la circoncisione, così saranno tagliati fuori dal nuovo popolo di Dio coloro che non avranno creduto, condividendo quel “pianto e stridore di denti” e lo stagno ardente di fuoco e zolfo dove verranno gettati Satana e i suoi angeli.

Se possiamo avere le idee chiare sul significato della circoncisione è grazie all’opera dell’apostolo Paolo, in cui tratta l’argomento. Dando qualche accenno, al capitolo quarto della lettera ai Romani, si parla della giustificazione per fede di Abramo; dopo avere chiarito che fu considerato giusto per fede e non per opere, Paolo scrive: “Davide stesso proclama la beatitudine dell’uomo a cui Dio imputa la giustizia senza opere dicendo «Beati coloro le cui iniquità sono perdonate e i peccati coperti. Beato l’uomo a cui il Signore non imputa il peccato». Ora dunque questa beatitudine vale solo per i circoncisi, o anche per coloro che non sono circoncisi? Perché noi diciamo che la fede fu imputata ad Abramo come giustizia. In che modo dunque gli fu imputata, mentre era circonciso, o quando non lo era? Quando non lo era. Poi ricevette il segno della circoncisione come sigillo della giustizia della fede che aveva avuto mentre non era ancora circonciso, affinché fosse il padre di tutti quelli che credono, anche se non circoncisi, affinché anche a loro la giustizia sia imputata” (Romani 4.6-12). Più avanti scriverà “Come sta scritto, «Io ti costituirò padre di molte nazioni», è padre di tutti noi davanti a Dio a cui egli credette” (v. 17).

La Chiesa di Roma ha voluto collegare la circoncisione dell’Antico Patto al battesimo dei bambini, ma in questo modo ne ha stravolto il significato perché il battesimo, a differenza della circoncisione che veniva imposta, è evidentemente un atto che va adempiuto da chi è capace di intendere e di volere. Pietro dice nella sua prima lettera che il battesimo, praticato per immersione in acqua, non è “la rimozione della sporcizia della carne – quindi un bagno – ma la richiesta di una buona coscienza presso Dio” (3.21). Si tratta della richiesta che una persona che si scopre salvata, redenta dal sangue di Cristo, chiede a Dio di essere sua, di appartenergli ottemperando al Suo comandamento.

La circoncisione di Gesù è un fatto molto importante perché, per quanto non dipendente da lui, fu il suo primo atto di sottomissione a quella Legge che era venuto “Non per abolire, ma per adempiere” per, come spiegherà più avanti Paolo ai Galati, “…riscattare coloro che erano sotto la Legge” (4.4-5). Possiamo definire la dispensazione che ci ha preceduti, quella della Legge, come un periodo dato all’uomo per prendere conoscenza del peccato e delle esigenze di Dio, ma “se fosse stata data una legge capace di dare la vita, allora veramente la giustizia sarebbe venuta dalla legge. Ma la Scrittura ha rinchiuso ogni cosa sotto il peccato, affinché fosse data ai credenti la promessa mediante la fede in Gesù Cristo. Ora, prima che venisse la fede, noi eravamo custoditi sotto la legge, come rinchiusi, in attesa della fede che doveva essere rivelata. Così le legge è stata nostro precettore per portarci a Cristo, affinché fossimo giustificati per mezzo della fede. Ma, venuta la fede, non siamo più sotto un precettore, perché voi tutti siete figli di Dio per mezzo della fede in Cristo Gesù” (Galati 3.21-26). Qui Paolo spiega la rivoluzione degli ultimi tempi che viviamo: la Legge non dava la vita, non era in grado perché si rapportava all’uomo per condannarlo e umiliarlo. Tutto il “peccato” di cui viene data conoscenza, non esiste più per il cristiano veramente rinnovato nella propria mente e nel proprio spirito perché non è più creatura, ma figlio, o figlia. Certo che la Legge rimane come misura del bene e del male come ad esempio nel Decalogo cui è nostra responsabilità attenerci.

La circoncisione di Gesù fu quindi il primo passo che fece da uomo inserito nel popolo di Israele, lui che di subire quell’intervento non ne aveva alcun bisogno: era la Parola per mezzo della quale tutto era stato creato. Gli fu posto il nome Gesù in ubbidienza all’ordine dell’angelo e Gesù è la sesta persona in tutta la Scrittura, antica e nuova, che viene chiamata con un nome a seguito di un ordine superiore: abbiamo infatti Isacco, Ismaele, Giosia, Ciro, Giovanni (Battista) e infine Lui, per non parlare di quelli che verranno dopo e tutte quelle persone che ebbero il loro nome modificato, ad esempio Abramo (padre grande) in Abrahamo (padre di una moltitudine).

Venendo alla purificazione di Maria, dopo il parto la donna era considerata impura e stava separata dalla congregazione di Israele per un periodo di 40 giorni se aveva partorito un maschio, 80 una femmina dopo di che, per essere riammessa, doveva presentarsi al sacerdote portando, come abbiamo letto, quattro animali da sacrificare. Apriamo una parentesi per leggere il testo della Legge in Levitico 12.6-8 relativo a questo caso: “Quando i giorni della sua purificazione sono compiuti, sia che si tratti di un figlio o di una figlia, porterà al sacerdote (…) un agnello di un anno come olocausto e un giovane piccione o una tortora, come sacrificio per il peccato – per la sua condizione, non perché avere il figlio costituisse una colpa-; poi il sacerdote li offrirà davanti all’Eterno e farà l’espiazione per lei, ed ella sarà purificata dal flusso del suo sangue. Questa è la legge relativa alla donna che partorisce un maschio o una femmina. E se non ha mezzi per offrire un agnello, prenderà due tortore o due giovani piccioni, uno come olocausto e l’altro come sacrificio per il peccato. Il sacerdote farà l’espiazione per lei ed ella sarà pura”. Questo significa che Giuseppe e Maria, a quel tempo, erano poveri, non avendo mezzi per offrire un agnello.

Altro punto adempiuto dopo la circoncisione e il sacrificio che abbiamo letto è la presentazione: Iddio esigeva nella Legge che ogni primogenito, di uomini o di animali, gli fosse consacrato in tutto il Paese di Israele. Questo era per commemorare l’episodio in cui i primogeniti degli ebrei furono risparmiati, al tempo della piaga sui primogeniti in Egitto, dall’angelo così come narrato nel capitolo 12 del libro dell’Esodo.

Possiamo fare però anche una riflessione: Gesù sarebbe stato il primogenito di Maria, era l’unigenito Figlio di Dio, ma sarebbe diventato anche, in virtù del Suo sacrificio e resurrezione, il “Primogenito fra molti fratelli”, definizione che troviamo nella lettera ai Romani in 8.29 e che allude alla dimensione spirituale nuova e stabile in cui dimorano tutti coloro che hanno creduto. Infatti: “Non sapete voi che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non v’ingannate: né i fornicatori, né gli idolatri, né gli adulteri, né gli effeminati, né gli omosessuali, né i ladri, né gli avari, né gli ubriaconi, né gli oltraggiatori, né i rapinatori erediteranno il regno di Dio. Or tali eravate già alcuni di voi; ma siete stati lavati, ma siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù e mediante lo Spirito di Dio” (1 Corinti 6.9-11).

Questo è l’esaudimento della preghiera che lui stesso rivolgerà al Padre: “Io voglio che dove sono io siano con me anche coloro che tu mi hai dato, affinché vedano la mia gloria che tu mi hai dato, perché tu mi hai amato prima della fondazione del mondo” (Giovanni 17.24).

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01.12 – L’ANNUNCIO AI PASTORI (Luca 2.8-20)

01.12 – L’annuncio ai pastori (Luca 2.1-7)

 

8C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. 9Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, 10ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: 11oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. 12Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia». 13E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: 14«Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama». 15Appena gli angeli si furono allontanati da loro, verso il cielo, i pastori dicevano l’un l’altro: «Andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere». 16Andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. 17E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. 18Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. 19Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore. 20I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro”.

 

Abbiamo qui il quarto annuncio angelico del Nuovo testamento. Il primo fu dato a Zaccaria, il secondo a Maria e il terzo a Giuseppe quando aveva in animo di ripudiarla. Il quarto annuncio non anticipa la nascita di Gesù, ma la rende pubblica a dei pastori che “vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge” segno che Nostro Signore nacque in un mese non freddo, che da calcoli fatti da alcuni pare sia stato settembre. Il Salvatore era nato, ma la notizia non viene data a degli studiosi, a dei tecnici eruditi come ve ne erano molti in Israele, ma a gente posta a un livello sociale molto basso, a persone umili e malviste dalla maggioranza: le greggi creavano problemi agli agricoltori brucando ovunque, i pastori non avevano fissa dimora per diversi mesi all’anno, non praticavano la religione e avevano ben poca conoscenza della Legge o dei Profeti e, nei racconti rabbinici, venivano messi sullo stesso piano dei briganti e dei malfattori. Non solo, ma nei tribunali il Talmud afferma che la loro testimonianza non era accettata, al pari dei ladri e deli estorsori.

Ecco allora che Dio Padre manda un Suo angelo ad annunciare la nascita del figlio a degli ultimi del tutto estranei a qualsiasi forma di religiosità, che certo non si aspettavano una manifestazione divina né tantomeno di venire coinvolti in un piano di salvezza. Erano lì, a fare il loro lavoro in una delle tante notti alle quali erano abituati chissà da quanto tempo.

Eppure, all’improvviso, qualcosa fa prepotentemente irruzione nelle loro vite: si presenta un angelo e contemporaneamente ad esso una traduzione dice “La gloria del Signore risplendé d’intorno a loro ed essi temettero di gran timore”. “La gloria del Signore”, termine col quale viene indicato uno degli aspetti della presenza di Dio che troviamo in altri passi della Scrittura.

Ricordiamo, nel Nuovo Testamento, l’episodio in cui Saulo da Tarso, accanito persecutore degli ebrei che si convertivano al cristianesimo, raccontando di sé al re Aggrippa, disse “…vidi sulla strada, o re, una luce dal cielo più splendente del sole, che avvolse me e i miei compagni di viaggio” (Atti 26.13): non è quindi la luce naturale che denota la presenza di Dio – al limite essa è una Sua opera –, ma quella che si manifesta come chiaramente riconducibile a Lui. Paolo abbiamo letto che la definisce “più splendente del sole” – e infatti ebbe gli occhi lesionati – e Luca, che non la descrive come lui, dice che i pastori sentendosene avvolti, ebbero molta paura, emozione irrazionale dominata dall’istinto che ha come obiettivo la sopravvivenza del soggetto che ne viene colto.

Quei pastori temettero per la loro vita. Un’altra traduzione parla di “spavento”, termine che si riferisce a un turbamento psichico forte e improvviso che si verifica nel momento in cui si avverte un pericolo, una minaccia o un danno incombente che può provocare reazioni incontrollate.

L’espressione usata dall’angelo, “Non temete” in tutta la Bibbia si trova per 365 volte, tante quanti sono i giorni dell’anno, indirizzata ad ogni credente. È qui, come altrove, un “Non temere” autorevole, pronunciata da un essere che potremmo definire “soprannaturale”, un “non temere” che interviene puntualmente ogni giorno che, come sappiamo, porta sempre una pena diversa, per quanto di peso differente. Un “non temere” che segna lo spartiacque tra ciò che controlliamo e ciò che invece non possiamo prevedere né è in nostro potere cambiare. L’annuncio dell’angelo era di “una grande gioia che sarà di tutto il popolo” e quel “vi è nato” rivelava tutta l’universalità di quella nascita: Gesù era nato per loro e per tutti gli altri che avrebbero creduto. L’angelo propone loro questo messaggio e possiamo affermare che, se si fosse rivolto a persone importanti, queste avrebbero potuto credere ad un’esclusiva; partendo dallo strato più basso della società, però, allora sì che quella nascita avrebbe veramente coinvolto tutti, nessuno escluso.

La definizione “città di Davide” era molto specifica e tendeva a far emergere quei ricordi che, forse, i pastori potevano avere di quel Re che sarebbe nato secondo le antiche profezie che magari avevano ascoltato, anche solo distrattamente. Eppure questi, una volta trovato quanto l’angelo aveva detto loro, è scritto al verso 30 che glorificarono e lodarono Dio, come Maria raccontò a Luca.

Abbiamo letto nei versi da 12 a 14 Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia. E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva “Gloria a Dio nel più alto dei cieli, e pace in terra a tutti gli uomini che Egli ama”: l’angelo non fa un annuncio generico, ma dà ai pastori un elemento concreto, un “segno”, che per il linguaggio tanto dell’Antico che del Nuovo Testamento equivaleva a una sorta di firma; pensiamo solo all’arcobaleno, al sangue sulla porta delle case che avrebbe risparmiato i primogeniti degli israeliti nella decima piaga d’Egitto, al sabato o alla circoncisione, solo per citarne alcuni.

Il segno qualificava il mittente del messaggio ed attestava un fatto: quei pastori avrebbero trovato un bambino – il Salvatore che “oggi” era nato per loro – avvolto in fasce, che giaceva in una mangiatoia. Lo stesso “Re dei Giudei che è nato” che avrebbero trovato tempo dopo i Magi, non più in un luogo precario come avrebbe potuto essere un portico o una delle grotte nei dintorni di Beltlehem che fungevano da ricovero per animali o viaggiatori, ma in una casa.

Il verso 12 contiene un dettaglio che molto spesso una lettura veloce tende a trascurare: i pastori avrebbero trovato non “il”, come alcuni traducono, ma “un” bambino, cioè un individuo comune a tanti che si sarebbe rivelato al suo popolo, e poi al mondo, a tempo debito. L’indeterminativo “un”, inoltre, racchiude gli intenti del Figlio di Dio che, come scrive l’apostolo Paolo in Filippesi 2.6-11 “…pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso assumendo la forma di servo e divenendo simile agli uomini. Apparso in forma umana, umiliò se stesso, facendosi ubbidiente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù si pieghi ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre”.

In realtà, come leggiamo al verso 13, ci fu un secondo segno, che non generò più timore nei pastori, ma piuttosto contemplazione, quello della “moltitudine dell’esercito celeste”, di questi esseri che, da una dimensione differente che comunque uomini e profeti dell’Antico e del Nuovo Testamento videro (pensiamo a Stefano primo martire, Paolo e Giovanni), entrano in quella terrena

pronunciando una dossologia che separa l’ambito di Dio, cui compete e spetta la “gloria”, da quello umano – attenzione – specifico: la “pace in terra a tutti gli uomini che Egli ama”, non a tutte le creature indistintamente. E qui entriamo nel progetto che Dio ha per ogni uomo che ama e che, fino a quando non ha un incontro con lui, non sa di esserlo, intento e preso com’è nelle sue attività quotidiane, preoccupazioni, doveri da svolgere e interessi personali. La loro notte di veglia non aveva nulla di diverso dalle altre fino a quando l’angelo non furono avvolti di luce.

Nel più alto dei cieli” e “in terra” sono due luoghi la cui distanza è, per ora, immensa. Sappiamo però il destino che accomuna tutti quelli che hanno creduto: “…perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria. E così saremo per sempre col Signore” (1 Tessalonicesi 4.15-17). Questo è quello che ci attende. Se tra i due luoghi, “nel più alto dei cieli” e “in terra” esiste una distanza enorme, la proclamazione della “pace in terra agli uomini che Egli ama” la accorcia: infatti “Giustificati dunque per fede, abbiamo pace presso Dio per Cristo, Nostro Signore” (Romani 5.1). La distanza incolmabile fra il peccatore e la santità di Dio si annulla con la “pace” e con essa diventeremo parte integrante con Lui. I pastori non videro una luce più o meno distante che li abbagliò, ma ne furono avvolti a conferma del fatto che Dio non è lontano, ma coinvolge e rende l’uomo parte di sé.

Gli angeli, dopo la lode, si allontanano. Questa presenza, secondo segno di quella notte in cui comparve l’angelo dell’annuncio, gli altri e quindi il bambino nella mangiatoia, per un lettore che proviene dall’Antico Testamento è molto importante perché dispone di riferimenti per poterla comprendere: gli angeli erano presenti alla creazione. Ricordiamo ad esempio Giobbe 38.4-7: “Dov’eri tu quando io gettavo le fondamenta della terra? Dillo, se hai tanta intelligenza. Chi ha stabilito le sue dimensioni, se lo sai, o chi tracciò su di essa la corda per misurarla? Dove sono fissate le sue fondamenta, o chi pose la sua pietra angolare, quando le stelle del mattino cantavano tutte insieme e tutti i figli di Dio mandavano grida di gioia?”, Atti 7.53 che fa riferimento alla promulgazione della legge sul Sinai. “Voi avete ricevuto la legge per mano degli angeli e non l’avete osservata” e il giudizio finale in cui, in Matteo 13.53, è scritto “Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti”.

La presenza corale angelica, quindi, sottolinea la solennità unica di quel momento, certamente non inferiore ai precedenti: la creazione fu l’inizio della storia in cui iniziò ad esistere il tempo, staccandosi dall’eternità, la legge fu il patto precedente a quello della grazia. Ciò che i pastori avevano visto e udito non poteva non generare una reazione che non a caso fu immediata: è scritto che andarono a Betlemme “senza indugio”, cioè non pensarono al loro bestiame che, di colpo, aveva perso il suo valore. Era l’unica cosa che possedevano. “Vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere”, parole che denotano quanto siano inutili e dannosi i preconcetti umani, quella suddivisione in categorie che fa il mondo, che tende a ossequiare e riverire gli appartenenti alle classi sociali elevate e a rifiutare e disprezzare quelle meno abbienti, dimenticandosi che ciò che conta è la disposizione del cuore, l’anima e lo spirito della persona.

I versi da 17 a 19 ci danno un quadro particolare: i pastori parlano dopo avere constatato la presenza del “segno” di cui l’angelo aveva loro parlato. Si diventa sempre credenti perché si è constatato; io non credo in un’entità superiore perché questo dà un senso alla mia vita e la mia psiche è gratificata con pratiche religiose e mi sento “buono”, ma credo in quel Dio che mi ha amato per primo, in Gesù Cristo che, come dice l’apostolo Paolo, “mi ha amato e ha dato sé stesso per me” (Galati 2.20). Dio, lo abbiamo appena scritto, ama per primo, prende l’iniziativa nonostante noi siamo distanti, come i pastori intenti nelle loro occupazioni senza pensare che ci fosse in atto un piano per loro.

I pastori furono i primi testimoni al di fuori della ristretta cerchia composta da Zaccaria – Elisabetta e Giuseppe – Maria: loro soli videro l’angelo e la moltitudine e furono consci dell’unicità della rivelazione a loro fatta. Anche qui, per il loro glorificare e benedire Dio c’è una ragione, non certo dettata da un misticismo immaginario: lo fecero per tutto quello che avevano udito e visto (udito e vista, due sensi importanti nella vita di ogni creatura superiore), com’era stato detto loro.

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01.11 – LA NASCITA DI GESÙ (Luca 2.1-7)

01.11 – La nascita di Gesù (Luca 2.1-7)

 

1In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. 2Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. 3Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. 4Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. 5Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. 6Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. 7Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio”.

 

Solo Matteo e Luca parlano della nascita di Gesù, per quanto mettendo l’accento su avvenimenti diversi, ed alcuni commentatori sostengono che i due racconti siano stati scritti anche per confutare l’eresia dei doceti che sostenevano l’umanità di Cristo essere solo una parvenza (dal verbo greco dokéo “sembrare, apparire”), negando così la Sua natura umana e quindi le sofferenze che ebbe nel corpo.

Matteo e Luca ci parlano quindi del “Natale”, argomento indispensabile per conoscere le origini di Nostro Signore, omettendo volutamente la sua data di nascita nonostante fosse da loro conosciuta perché per gli ebrei, e così dovrebbe essere per coloro che aderiscono o hanno aderito al cristianesimo, festeggiare il compleanno era ritenuta cosa da evitare, essendo i pagani a celebrarla. Leggiamo che in Genesi 40.20 che “…il terzo giorno, il giorno del compleanno del faraone, avvenne che egli fece un banchetto per tutti i suoi servi”. In Marco 6.21, poi, “Erode per il suo compleanno offrì un banchetto ai suoi grandi, ai comandanti e ai notabili della Galilea”. Entrambi erano pagani, uno egiziano e l’altro idumeo.

Nel quarto secolo d.C., però, la Chiesa di Roma istituì, per ragioni politiche e con l’intento di cristianizzare a lunga scadenza le popolazioni pagane, il 25 dicembre per festeggiare la nascita di Gesù, inserendola nel suo calendario liturgico. Tale data corrispondeva alla festa in onore del dio Sole e, per giustificare il raccordo a tale ricorrenza, furono utilizzati i versi in cui Gesù, nelle profezie che conosciamo, è definito “Sole di Giustizia” e “Luce da illuminare le genti”.

Luca è il solo a parlare delle circostanze che si verificarono prima e subito dopo il parto collocandolo sotto l’impero di Caio Ottaviano, pronipote di Giulio Cesare, primo dei cinque imperatori di Roma cui seguiranno Tiberio, Caligola, Claudio e Nerone, sotto cui si svolgeranno gli avvenimenti riportati dal Nuovo Testamento, Atti ed epistole comprese. L’opera di Dio con la nascita di Gesù fa quindi il suo ingresso ancora una volta nella storia umana, dopo le Sue promesse e gli innumerevoli interventi per il Suo popolo, ma con significati completamente diversi che sono sintetizzati dall’apostolo Paolo con l’espressione “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo figlio nato di donna” (4.4). La “pienezza del tempo” si riferisce sì ad un momento storico preciso in cui la situazione politica poteva essere favorevole alla diffusione del messaggio cristiano (pensiamo solo ai trasporti, all’impero romano e alle vie di comunicazione) e in cui in tutto il mondo orientale si attendeva l’arrivo di un salvatore. Soprattutto ci sarebbe stato un momento ben definito in cui si sarebbe aperta la parentesi della dispensazione della grazia: questo sarebbe avvenuto tra la 69ma e la 70ma settimana profetizzata da Daniele (9.20-27) che, in modo criptico per molti, prevede un tempo per la sopportazione del peccato da parte di Dio prima che venga il suo giudizio definitivo su quella parte di umanità che non avrà voluto accogliere il suo messaggio.

La “pienezza del tempo” è una definizione che si collega strettamente a tutti quei casi in cui gli uomini vengono esortati al ravvedimento perché “il regno di Dio è vicino” o addirittura “è giunto fino a voi”, avvenimenti scritti nella grande agenda di Dio; così l’era della grazia in cui viviamo ha una scadenza che sfocia nella 70ma settimana, l’ultima, che sarà divisa in due periodi di tre anni e mezzo ciascuno, il primo caratterizzato da una falsa pace mondiale proclamata dal “Figlio della perdizione” e il secondo contrassegnato dai grandi giudizi che Dio manifesterà su tutta la terra e che sono descritti nei capitoli da 6 a 18 del libro dell’Apocalisse.

Abbiamo letto di un censimento: questo era teso a registrare non solo le persone, ma anche i nuclei famigliari con relativa composizione e i loro averi in vista di una tassazione, terzo significato del verbo greco apograféo che veniva impiegato per indicare il fare una copia, il registrare uomini e cose, oppure fare un inventario per fissare un’imposta. Questo censimento doveva essere fatto per tutto l’impero e quindi anche la Giudea, che era una provincia imperiale. La citazione di Quirinio è importante per collocare con più precisione il periodo perché fu governatore per due volte: una prima dal 4 all’1 a.C. e una seconda dal 6 all’11 d.C. e la riscossione delle imposte pare avvenne in questo secondo periodo. Il censimento ebbe le procedure secondo l’uso ebraico che registrava persone e cose nella loro città di nascita a differenza di quello romano che lo faceva nel luogo ufficiale di residenza: stando così le cose, Giuseppe e Maria dovettero recarsi al loro paese di origine, lasciando Nazareth affrontando un viaggio di diversi giorni; se i due paesi distavano fra loro tre giorni di percorso a cavallo, con Maria prossima al parto è molto probabile che ce ne volessero almeno il doppio.

Maria e il marito arrivano così a Betlemme, che significa “casa del pane”, l’antica Efrata (è chiamata anche “Bethlehem di Efrata”) dove Giacobbe aveva sepolto Rachele (Genesi 35.19) e lì arrivò il momento del parto, delicato non solo come avvenimento per ogni donna, ma anche per noi che ci troviamo a dover risolvere un problema importante visto nella pericope “lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo” (v.7).

Immaginiamoci la situazione nei giorni poco prima dell’evento: Giuseppe e Maria, giunti a Betlemme, villaggio di non molte case, la trovarono ovviamente piena di persone giunte là, come loro, per ottemperare agli obblighi imposti dall’editto: il problema del dove alloggiare non era di poco conto sia perché Betlemme era piccola, sia perché la moltitudine di gente giunta prima di loro si era accaparrata i posti migliori disponibili. In realtà però, leggendo bene il testo, Luca non ci dice che Giuseppe e Maria non riuscirono a trovare un posto perché Betlehem era piena di gente, ma che “non c’era posto per loro” perché Maria, prossima a partorire, avrebbe secondo la Legge contaminato il luogo dove avrebbe partorito così come le persone. Non avrebbero quindi potuto alloggiare presso le abitazioni come ospiti, ma poteva essere disponibile la stalla dove i viaggiatori ricoveravano i propri animali accanto magari a quelli dei proprietari.

Allora Giuseppe trovò un riparo per Maria cercando sicuramente di sistemarlo e pulendolo come meglio poteva, tenendo lontani gli animali che potevano costituire un pericolo per il bambino. Maria poi è probabile che partorì da sola, senza essere assistita da nessuno perché fu lei stessa ad avvolgere il figlio nelle fasce e a deporlo nella mangiatoia, quindi alzandosi subito dopo averlo partorito. Provvide così a lavarlo, a recidere il cordone ombelicale oltre che sbarazzarsi della placenta e a pulire se stessa. Le fasce furono così il primo vestito che Gesù indossò come essere umano, preludio di quelle altre che Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo utilizzarono per avvolgere il suo corpo con gli aromi alla sepoltura.

C’è poi la mangiatoia, che assieme alle fasce e alla paglia proteggevano il piccolo dal freddo, ma non mi sento di avallare la teoria del presepe che vede un bimbo quasi nudo riscaldato dall’alito di un asino e di un bue che, animali e in quanto tali comunque imprevedibili, saranno stati accuratamente tenuti lontano. Come osservò un fratello, “Sull’iconografia tramandataci da Francesco d’Assisi, giocò fortemente l’emotività e non la realtà dell’avvenimento”.

Ultimo dettaglio, ma certo non trascurabile stante le interpretazioni opposte in merito, lo troviamo nelle parole “diede alla luce il suo figlio primogenito”, sul quale sono corsi letteralmente fiumi di inchiostro. Il termine “primogenito” veniva usato ordinariamente per indicare colui che nasceva per primo indipendentemente dal fatto che restasse o meno figlio unico anche se Matteo 13.55,56 lascia intendere che la famiglia di Maria e Giuseppe fosse numerosa: grazie ai doni ricevuti dai Magi, che arrivarono tempo dopo, i genitori di Gesù erano diventati benestanti e potevano permettersi un decoroso mantenimento di figli. Così si espressero gli abitanti di Nazareth: “Da dove mai viene a costui questa sapienza e questi miracoli? Non è forse egli il figlio del carpentiere? Sua madre non si chiama Maria e i suoi fratelli Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle non sono tutte fra noi? Da dove gli vengono dunque tutte queste cose?”. Si creano delle condizioni di scandalo attorno a questioni trascurabili: Maria era una donna, in quanto tale rimase impura secondo la legge per 40 giorni dopo aver partorito. Vergine all’atto del parto perché suo figlio era stato concepito in modo non umano, fu madre e moglie di Giuseppe vivendo la propria unione esattamente come tutte le altre donne sposate del mondo. Non ho mai capito quale senso potesse avere non solo la sua supposta verginità post parto e il fatto che si sia astenuta dall’avere rapporti col proprio marito anche alla luce del fatto che il matrimonio in Israele aveva nel far figli il suo scopo portante.

Dai versi visti finora, al di là delle considerazioni “tecniche” che abbiamo fatto, se ne possono fare altre, la prima della quale è: Dio governa il mondo e, come in tanti episodi storici dell’Antico Testamento, prepara e organizza i presupposti affinché certi eventi si possano verificare senza che molti li possano capire. Gesù doveva nascere in Betlemme e in nessun’altra città. Il profeta Michea scrisse “E tu, Betlemme di Efrata, così piccola per essere tra i capoluoghi di Giuda, da te mi uscirà colui che dev’essere il dominatore in Israele. Le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti” (Michea 5.1), espressione per indicare l’eternità di cui Gesù stesso farà cenno quando dirà “Prima che il mondo fosse, io sono”.

Caio Ottaviano, alias Cesare Augusto, convinto di essere quasi onnipotente, temuto e riverito dai suoi simili, non pensava certo, ordinando quel censimento, di essere un mero strumento nelle mani di Dio o comunque di contribuire a un Suo progetto; neppure Quirino, sottoposto ad Ottaviano, poteva pensare cosa si celasse dietro quello che per lui era un’operazione che garantiva la riscossione dei tributi e quindi ricchezza (anche) per la sua persona. Negli avvenimenti del mondo estraneo alla Chiesa, ai “chiamati fuori” da un mondo che ha solo disprezzo per la Parola di Dio, esiste quindi un perché, una lettura che come credenti possiamo dare. Dobbiamo sapere che nulla è lasciato al caso, ma ogni cosa scorre secondo i tempi voluti e preparati da chi ha progettato ogni cosa per loro: siamo nati come tutti, ma diversamente dai “tutti” chi è diventato “concittadino dei santi e membro della famiglia di Dio” ha uno scopo e un futuro di eternità preparato per lui, come disse Gesù in Matteo 25.34 “Allora il Re dirà a coloro che saranno alla sua destra, Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno che vi è stato preparato sin dalla fondazione del mondo”.

Possiamo concludere con Genesi 49.10 quando Giacobbe morente, benedicendo i figli, disse di Giuda, che originerà una tribù alla quale apparterrà la casa di Davide, “Lo scettro non sarà rimosso da Giuda, né il bastone del comando tra i suoi piedi, finché venga Colui che darà il riposo, e al quale ubbidiranno i popoli”. Era finalmente nato Colui che gli uomini di Dio aspettavano fin dai tempi antichi, di cui l’angelo Gabriele aveva annunciato, un Re che verrà adorato dai magi venuti da Oriente, dalla Persia, uno che dichiarerà e dimostrerà di essere l’inascoltato Figlio di Dio. Gesù avrebbe potuto nascere nelle migliori corti del tempo e con tutte le comodità umane, ma venne al mondo identificandosi subito con la precarietà della condizione umana mettendo in opposizione fino da allora il ragionare umano e quello di Dio. Allo stesso modo i suoi genitori, lungi dall’essere trattati con riguardo, furono costretti ad un viaggio faticoso, aggravato dalla condizioni di Maria, perché fossero adempiute le profezie sulla nascita del bambino a Betlemme: bastava loro di essere degli strumenti nelle mani di Dio e non pretesero mai nulla in cambio, lontani da quella mentalità distorta di chi pretende che le proprie aspettative coincidano con quelle di Dio, mentalità che molti hanno.

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01.10 – BENEDICTUS II/II (Luca 1.67-80)

01.10 – Benedictus II/II (Luca 1.67-80)

 

67Zaccaria, suo padre, fu colmato di Spirito Santo e profetò dicendo:68«Benedetto il Signore, Dio d’Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo,69e ha suscitato per noi un Salvatore potente
nella casa di Davide, suo servo, 70come aveva detto per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo:
71salvezza dai nostri nemici, e dalle mani di quanti ci odiano. 72Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza, 73del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre, di concederci, 74liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza timore, 75in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni. 76E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, 77per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati. 78Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto, 79per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace». 80Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele”.

Se la prima parte del cantico di Zaccaria è incentrata sulla realizzazione delle promesse di Dio rivolte al popolo tramite i profeti, la seconda si basa interamente sul ruolo di Giovanni Battista, precursore del Messia. Le parole profetiche di Zaccaria esaminate brevemente la volta scorsa avevano riguardato l’inizio del nuovo cammino che il popolo di Dio avrebbe dovuto compiere, ma quelle su Giovanni riguardano l’immediato futuro e il suo ruolo così importante per il popolo di Israele. Il padre usa nei confronti del proprio figlio parole quasi di rispettoso distacco: mancano espressioni del tipo “figlio mio” o quant’altro indichi una rivendicazione di appartenenza, ma semplicemente “o piccolo bambino”, a sottolineare la distanza fra ciò che Giovanni era e ciò che diventerà al di là della relazione filiale, molto meno importante rispetto al ruolo che avrebbe avuto, cioè riprendere il servizio profetico, interrotto da 400 anni, e di preparazione alle vie del Cristo. Non che gli altri profeti non l’avessero fatto, ma la loro opera era tesa sia a testimoniare che l’assistenza di Dio non veniva meno nei secoli, sia a descrivere sempre più nei dettagli ciò che sarebbe avvenuto man mano che il piano di salvezza per l’uomo andava avanti. Giovanni avrebbe preparato le strade davanti al Signore con uno stile di vita particolare tipico del Nazireo e una predicazione che Matteo sintetizza con le parole “Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino” (3.2). Sono le stesse con le quali anche Gesù inizierà a predicare (4.17) con miracoli nelle sinagoghe.

Ravvedetevi”, imperativo greco (metanoèite), che indica un cambiamento di pensiero e di sentimento relativamente al peccato e a un modo di vita non consono agli ideali di Dio. Il ravvedimento porta non solo a deplorarle, ma anche ad abbandonarle interamente perché non ci appartengono più. Giovanni, per “preparare le vie” del Signore, avrebbe svolto un’opera di invito ad una valutazione della propria vita e del proprio modo di pensare visto, per coloro che conoscevano la legge e la scrittura, nella capacità di avvertire i propri errori non come una semplice colpa, un peso che Dio avrebbe potuto perdonare dietro l’osservanza di un cerimoniale, ma come qualcosa di ostacolante la relazione con Lui e che solo Lui avrebbe potuto rimuovere.

La necessità del ravvedimento urgeva in vista del “Regno dei cieli” che era vicino. Non è una frase fatta, ma l’annuncio di qualcosa atteso da tempo da tutte le anime sensibili di allora e di oggi. Se viene detto che quel regno ora è vicino, significa che prima era lontano. “Regno dei cieli” è un’espressione che usa solo Matteo e corrisponde, negli altri Vangeli, al “Regno di Dio” ed entrambe alludono a diverse cose: prima di tutto la nuova era della Grazia che stava per cominciare, ma anche la liberazione del peccato, la santificazione, la vita sotto una nuova prospettiva.

L’ “andrai innanzi” indica il precedere il Cristo non in ordine di importanza, ma come una sorta di araldo che avrebbe informato che stava per arrivare Colui del quale avevano parlato la legge e i profeti. Il “preparargli le strade” è un’espressione che infatti richiama le parole di Isaia, che scrisse nel 750 a.C. : “Una voce grida: Nel deserto preparate la via al Signore, spianate nella steppa la strada per il nostro Dio. Ogni valle sia innalzata. Ogni monte e ogni colle siano abbassati; il terreno accidentato si trasformi in piano e quello scosceso in vallata” (40.3-4); questo testo allude al rientro in patria da Babilonia a Gerusalemme che fecero gli esuli ebrei quando Ciro, re di Persia, nel 538 a.C., li autorizzò a tornare in patria. Guardando così a quella storia per loro non troppo lontana, gli ebrei del tempo di Giovanni avevano bene in mente che nel 586 a.C. Gerusalemme era stata distrutta col suo Tempio, che il popolo fu deportato e poté tornare dopo circa 50anni. Ecco allora che Giovanni Battista sarebbe stato l’ultimo profeta dell’Antico Testamento e avrebbe fatto da ponte tra quello e il Nuovo: le strade di Dio si sarebbero incrociate con quelle degli uomini che, riconosciutele, le avrebbero intraprese.

E lo scopo delle vie di Dio le dichiara lo stesso Zaccaria: “Per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati”. Non è detto che Giovanni sarebbe diventato il precursore di un condottiero potente, ma di uno che avrebbe fatto conoscere “al suo popolo”, Israele nell’immediato, ma poi a tutti gli altri, la “conoscenza della salvezza”: riflettendo sul termine, se nella nostra mentalità “conoscenza” è sinonimo di sapere, ottenere dei dati attraverso uno studio, per gli ebrei era sinonimo di provare qualcosa su di sé, sperimentare, vivere. Ciò equivaleva allora all’invito, alla certezza di trovare un rifugio e un riparo sicuro presso Dio, alla certezza di appartenergli in virtù della “remissione dei peccati”. Ricordiamo le parole di Gesù in Luca 13.34,35 che rivela le intenzioni di Dio contrapposte al rifiuto della maggioranza: “Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi coloro che ti sono mandati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come una gallina la sua covata sotto le ali e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa è lasciata deserta! Vi dico infatti che non mi vedrete più fino al tempo in cui direte «Benedetto colui che viene nel nome del Signore!»”.

Se nel Salmo 32.1 leggiamo “Beato l’uomo a cui è tolta la colpa e coperto il peccato”, in Efesi 1.19 abbiamo la grande apertura che ogni uomo o donna può vivere oggi qualora accetti Gesù come suo personale salvatore, riconoscendosi peccatore e lontano da Dio: “Voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e famigliari di Dio”.

Zaccaria prosegue così: “Grazie alle tenerezza e alla misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto, per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace”: compare in questo cantico il verbo “visitare” per la seconda volta: nel primo caso, che abbiamo cercato di sviluppare nella scorsa riflessione, Dio ha “visitato il suo popolo”, realtà che ci parla di un’azione valutativa sotto la spinta della Sua “tenerezza e misericordia”, ma nel secondo abbiamo la conseguenza di tutto questo, cioè l’arrivo di un “sole che sorge”. Di “Un” e non “del”: un’altra luce, un altro progetto, un altro scopo, un altro genere di illuminazione e riscaldamento. L’apostolo Giovanni scrive “Egli – Giovanni Battista – non era la luce, ma doveva rendere testimonianza della luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo” (1.8-9). Possiamo fare ancora una citazione da Malachia 4.2 “Per voi, che avete timore del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di Giustizia” e da Isaia che dice al popolo “Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce, la gloria del Signore brilla su di te” (60.1).

Simeone, dopo che prese in braccio Gesù quando aveva 8 giorni e fu presentato al tempio come primogenito, disse : “Ora lascia, Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele” (Luca 2.29,32). “Illuminare le genti” nel senso di proiettarle in una vita nuova che si sarebbe svolta non più nelle tenebre. Paolo scrisse ai credenti della Chiesa di Efeso “Ricordatevi che voi in quel tempo – cioè prima di conoscere il piano di Dio ed averlo accolto – eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza di Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo” (2.12). Lo stare “nelle tenebre e nell’ombra della morte” è la condizione di ogni essere umano che vive senza la luce che solo il “Sole di giustizia”, quello che “sorge” può dare: lo stare nelle tenebre implica spiritualmente il non vedere, quindi incapacità di valutare, percepire, dirigersi, orientarsi. La permanenza nell’ombra della morte invece si riferisce non solo alla prospettiva certa che tutti hanno, ma ad uno stato di non illuminazione che trova nella morte l’unica prospettiva possibile. Ora se la morte, per chi vive nelle tenebre, rappresenta la fine di tutto (quindi progetti, desideri, l’essere se stessi con i propri averi), per chi è illuminato dal “Sole di giustizia” non esiste più alcuna ombra di morte, ma il passaggio dalla questa alla vita: “In verità, in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede in colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5.24).

Da notare inoltre che il sole che sorge dall’alto di cui parla Zaccaria è detto che risplende, non si limita a mandare una luce generica, non ci sono nubi a coprirlo. È una luce forte e vivida quella che investe chi ne è illuminato, per cui questi si viene a trovare in una condizione diametralmente opposta alla prima.

Non solo, ma questo sole dirige i passi su una vita particolare, quella della pace. Non c’è altra pace al di fuori di quella che solo Gesù Cristo può dare, che disse “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Io non la do come la dà il mondo” (Giovanni 14.21). La “via della pace” non è quella della tranquillità, di uno stato mentale raggiungibile attraverso una generica meditazione o ad imitazione del Budda, che pure aveva capito molte dinamiche della psicologia umana, non implica un percorso libero né da turbamenti né da errori, ma è quella conseguente alla rappacificazione con Dio, che fa scendere sulla creatura una pace particolare, diversa: il pieno confidare in Lui e la conoscenza, la certezza di essere nelle sue mani.

A questo punto Zaccaria conclude il suo intervento e Luca inserisce questa nota: “Il bambino cresceva a si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele”. C’è qui descritto un periodo di trent’anni circa salvo altri, pochi dettagli sul come si vestiva e come si nutriva. Giovanni non frequentava le scuole rabbiniche del tempo, ma visse i silenzi del deserto e crebbe illuminato dallo Spirito Santo che lo preparò alla predicazione, fortificandosi nello spirito, quindi nella parte più profonda della sua persona, e pare molto improbabile che, come alcuni hanno supposto, fosse stato affidato alla comunità di Qumran.

Nel deserto non esistono rumori al di fuori di quello del vento, se presente. Giovanni visse così “fino al giorno della sua manifestazione a Israele”, quindi attese che Dio stesso gli rivelasse il momento di agire predicando con modalità e parole riferite in parte dai Vangeli, ma che troveremo nei profeti dell’Antico Testamento.

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01.09 – BENEDICTUS I/II (Luca 1.67-80)

01.09 – Benedictus I/II (Luca 1.67-80)

 

67Zaccaria, suo padre, fu colmato di Spirito Santo e profetò dicendo:68«Benedetto il Signore, Dio d’Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo,69e ha suscitato per noi un Salvatore potente
nella casa di Davide, suo servo, 70come aveva detto per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo:
71salvezza dai nostri nemici, e dalle mani di quanti ci odiano. 72Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza, 73del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre, di concederci, 74liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza timore, 75in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni. 76E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, 77per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati. 78Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto, 79per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace». 80Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele”.

Sicuramente colpisce la precisazione di Luca su quest’uomo che, dopo aver ritrovato parola e udito, si espresse solo in termini atti a glorificare Dio: “fu colmato di Spirito Santo e profetizzò”. Zaccaria era un sacerdote, quindi una persona qualificata a quel tempo (anche) come mediatore tra JHWH e l’uomo che commetteva un peccato. Sappiamo che sia lui che sua moglie erano, come detto da Luca, “ambedue giusti davanti a Dio, camminando in tutti i comandamenti e leggi del Signore, senza biasimo”, ma senza l’intervento dello Spirito le sue sarebbero solo rimaste delle parole ammirevoli e sagge, buone tutt’al più come quelle utilizzate dagli “amici” venuti per consolare Giobbe dalle sue disgrazie. Invece la condizione di Zaccaria fu duplice: “ripieno di Spirito Santo” – la condizione – e “profetizzò”, che non significa predire il futuro come molti credono, ma parlare correttamente di Dio sospinti dallo Spirito, il solo che può orientare la persona e farle comprendere le verità e i piani del Signore per sé e per altri.

Per il credente sincero, nonostante gli sbagli che commette nella propria vita per la sua stessa debolezza, lo Spirito Santo è colui che può orientarlo e illuminarlo, come disse Nostro Signore ai suoi discepoli in Giovanni 14.15-17: “Se mi amate, osservate i miei comandamenti. Ed io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore, che rimarrà con voi per sempre, lo Spirito della verità che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce, ma voi lo conoscerete, perché dimora con voi e sarà in voi”.

Il cantico che segue dopo questa brevissima premessa inizia con un’espressione molto antica,

ma tutto il resto delle sue parole sono, per l’epoca e non solo, assolutamente nuove perché capiamo che, di lì a poco, Dio avrebbe adempiuto le promesse fatte agli antichi e di cui avevano parlato i profeti. La critica neotestamentaria ha visto nelle parole di Zaccaria numerosi riferimenti agli scritti dell’Antico Patto e non vede in esse nulla di eccezionale e questo può essere vero se non si considera il tempo in cui queste furono pronunciate. Il padre di Giovanni Battista è conscio che quello e non altri erano i momenti in cui il Dio di Israele stava visitando e compiendo la redenzione del suo popolo, nelle sue parole non c’è nulla pronunciato per una ritualità o convenzione, ma il visitare è per redimere o, meglio ancora secondo un’altra traduzione, “ha visitato e riscattato il suo popolo”. Il “riscattare”, per la legge di Mosè, era un’azione prevista per riavere una cosa altrimenti perduta, ma soprattutto per liberare una persona tenuta in schiavitù; ad esempio in Deuteronomio 7.8 leggiamo “…perché l’Eterno vi ama e ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, l’Eterno vi ha fatto uscire con mano potente e vi ha riscattati dalla casa di schiavitù, dalla mano del Faraone, re d’Egitto”.

Ancora, sempre in proposito, si parla in Deuteronomio 13.5 “…vi ha redenti dalla casa di schiavitù per trascinarvi fuori dalla via nella quale l’Eterno, il tuo Dio, ti ha ordinato di camminare”. Ogni uomo di Dio ha sperimentato un Esodo nella propria vita: dai propri parenti, dal proprio mondo, dalla schiavitù di se stesso. Le azioni storiche che Zaccaria ha ben presente, fatte nella prospettiva del piano di Dio che contemplava la progenie della donna schiacciare il capo al serpente, le vede compiute sotto una prospettiva spirituale nonostante Giovanni fosse nato da otto giorni e Gesù non ancora. Zaccaria, che conosceva la storia del suo popolo, vede il visitare di Dio come un atto di pietà e non di giudizio come, ad esempio, avvenne la prima volta che “scese” per vedere la costruzione della torre in Babele: Egli, che non può mai essere neutrale, è ora venuto per redimere, cioè liberare dal peccato e dalle sue conseguenze che potevano essere constatate, allora come oggi, dalla presenza di malattie, indemoniati, dal giogo di un dominatore straniero che solo apparentemente erano i romani, ma che nella realtà spirituale simboleggiava il peccato che impediva una serena relazione con Dio. Ogni uomo, prima di conoscere Cristo, ha e avrà sempre un suo dominatore straniero, spirituale o fisico che sia.

Proseguendo nel cantico, Zaccaria riconosce che la salvezza proveniva dalla “casa di Davide suo servo, come Egli aveva dichiarato per bocca dei suoi santi profeti fin dai tempi antichi, perché fossimo salvati dai nostri nemici e da tutti coloro che ci odiano”. La traduzione letterale delle prime parole del verso non è di facile comprensione perché dice “destò un corno di salvezza per noi nella casa di Davide suo servo” per cui il suscitare una potente salvezza, per quanto rispondente a verità, oscura leggermente la comprensione di un simbolo che si trova molte volte nell’Antico Testamento, soprattutto nel linguaggio profetico. Il corno, per l’animale che lo possiede, è al tempo stesso arma offensiva e difensiva ed è espressione di potenza (da ricordare per la lettura dell’Apocalisse), per cui: “Dio ha destato – dichiarazione di avvenimento anche se i suoi effetti non si manifesteranno ancora – un corno di salvezza”,- quindi una salvezza potente e soprattutto duratura, stabile: non è un “corno” animale, naturale, ma qualcosa che proviene direttamente da Dio e che nessuno potrà mai sconfiggere.

Tornando quindi alla traduzione più comprensibile: questa salvezza, impossibile a togliersi, viene dalla casa di Davide (Maria e Giuseppe), la sola a poter garantire che quel “germoglio”, quella “progenie della donna” che avrebbe schiacciato il capo al serpente, fosse veramente Gesù Cristo. Non a caso, se la genealogia di Matteo si riferisce a Giuseppe e parte da Abrahamo, quella di Luca, riferita a Maria, risale fino ad Adamo: è il ricordo di quella promessa e del giudizio sull’Avversario. È bello vedere che Dio non si limitò a pronunciare quelle parole una volta, ma le aggiornò nel corso del tempo, ripetendole agli uomini da lui preposti a guidare il popolo con l’autorità del condottiero o del re, o a consolarlo o riprenderlo per bocca dei profeti.

Zaccaria poi considera lo scopo di tutto questo: “perché fossimo salvati dai nostri nemici e da tutti coloro che ci odiano”: qui c’è un riferimento alle promesse dell’Antico Patto che sono contemporaneamente presenti e future a prescindere dal tempo in cui vengono pronunciate. Prendiamo l’ultimo profeta, Malachia, che abbiamo citato spesso a motivo dell’ultima parola con cui si chiude l’Antico Testamento: scrisse “Poiché ecco, il giorno viene, ardente come una fornace, e tutti quelli che operano empiamente saranno come stoppia; il giorno che viene li brucerà in modo da non lasciar loro né radice né ramo. Ma per voi che temete il mio nome – solo per questi, quindi – sorgerà il sole della giustizia con la guarigione nelle sue ali e voi uscirete e salterete come vitelli di stalla. Calpesterete gli empi perché saranno cenere sotto la pianta dei vostri piedi nel giorno che io preparo, dice il Signore degli eserciti” (4.1-3).

Zaccaria, riportando le promesse degli antichi, allude alla liberazione totale dal giogo penalizzante del peccato per tutti gli uomini che l’avrebbero accolta, ma non solo: esprimendo un concetto che esporrà l’apostolo Paolo, sostiene la sconfitta del nemico per eccellenza, Satana, e da qualsiasi altra forza oscura: “Infatti io sono persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né potenze, né cose presenti, né cose future, né altezze, né profondità, né alcun’altra creatura potrà separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Romani 8.38).

Riflettendo sul paragone tra le due frasi possiamo dire che Zaccaria, uomo del suo tempo, proclama giunto il tempo in cui Dio ha provveduto alla “potente salvezza dalla casa di Davide suo servo” mentre il secondo, che proveniva dallo studio della Legge, fariseo zelante e profondo conoscitore della tradizione rabbinica, ci dà un aggiornamento reale e adatto alla nostra realtà di uomini che vivono in un nuovo tempo, quello della Grazia. Non solo: “A me, il minimo di tutti i santi, è stata data questa grazia di annunciare fra i gentili – quindi a noi – le imperscrutabili ricchezze di Cristo e di manifestare a tutti la partecipazione del mistero che dalle età più antiche è stato nascosto in Dio, il quale ha creato tutte le cose per mezzo di Gesù Cristo” (Efesi 3.8-10).

Un’ultima riflessione su cosa abbia voluto dire Zaccaria, che parla a un uditorio di ebrei e fonda le sue parole sulle rivelazioni profetiche giunte fino a lui, è ancora Paolo a fornirla: “Siccome per mezzo di un uomo – Adamo – è venuta la morte, così anche per mezzo di un uomo – Gesù – è venuta la resurrezione dai morti. Perché, come tutti muoiono in Adamo – perché così come concluse la sua vita noi concluderemo la nostra – così tutti saranno vivificati in Cristo. (…). Poi verrà la fine, quando rimetterà il regno nelle mani di Dio Padre, dopo avere annientato ogni dominio, ogni potestà e potenza. Bisogna infatti che egli regni finché non abbia messo tutti i nemici sotto i suoi piedi e l’ultimo nemico che sarà distrutto sarà la morte” (1 Corinti 21.26).

Arriviamo così alle parole che concludono la prima parte del cantico, “Per usare misericordia verso i nostri padri e ricordarsi del suo santo patto, il giuramento fatto ad Abrahamo nostro padre, per concederci che, liberati dalle mani dei nostri nemici, lo potessimo servire senza paura, in santità e giustizia, tutti i giorni della nostra vita”: la liberazione dalle mani dei nemici, come visto poco prima, non può essere intesa come storica poiché le vicende antiche da noi conosciute nella Bibbia, vale a dire quelle che hanno visto il popolo di Dio liberato dalla dominazione straniera, hanno sempre avuto un significato, uno stato, una conseguenza, un effetto spirituale: Israele oppresso in Egitto e liberato da Dio al mar Rosso era ed è figura dell’uomo che vive oggi in una condizione di peccato, incapace di provare sentimenti e comprensioni spirituali nel vero senso del termine. Perché noi sappiamo bene che “L’uomo naturale non riceve le cose dello Spirito di Dio perché sono follia per lui e non le può conoscere, poiché si giudicano spiritualmente” (1 Corinti 2.14). Ecco, chi vive la propria vita di tutti i giorni, perso nei propri interessi, legato al contingente perché ha inserito nel proprio animo dei valori che ritiene prioritari, “non riceve le cose dello Spirito di Dio”; può riceverne altre, tutte quelle che con Lui non hanno nulla a che fare. Non le riceve perché, alla luce dei propri valori e convinzioni scontate ed errate, “sono follia per lui”. La conseguenza è che “non le può conoscere, perché si giudicano spiritualmente”.

Ecco, quando a un uomo, o donna, è stata data l’autorità di diventare figlio di Dio, gli viene conferita un’abilitazione alla possibilità, capacità di rivedere le cose spirituali in base alla grazia che gli viene data. Da lì in poi è chiamato a servire senza paura, in santità e giustizia, tutti i giorni della propria vita oppure, secondo una traduzione dalle versioni più antiche, “tutti i nostri giorni”. Si tratta di un servizio in “santità e giustizia”, non più secondo i desideri dell’uomo vecchio, ma di quello nuovo che vede le cose secondo una prospettiva di realizzazione eterna e non umana.

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01.08 LA NASCITA DI GIOVANNI BATTISTA (Luca 1-57-66)

01.08 – Nascita di Giovanni Battista (Luca 1.57-66)

 

57Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. 58I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia, e si rallegravano con lei.
59Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccaria. 60Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». 61Le dissero: «Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». 62Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. 63Egli chiese una tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. 64All’istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio. 65Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. 66Tutti coloro che le udivano, le custodivano in cuor loro, dicendo: «Che sarà mai questo bambino?». E davvero la mano del Signore era con lui.”.

La nascita di un bambino è un evento naturale, non certo qualcosa di speciale o eccezionale salvo che per i genitori che lo attendono e i loro parenti. L’episodio appena letto riporta però un’altra tappa importante verso quella che possiamo definire una “nuova creazione spirituale” di Dio in cui Lui stesso pose le fondamenta per l’apertura della nuova dispensazione della Grazia. Personalmente, a partire dall’annuncio a Zaccaria, vedo sempre tante tappe, dei passi in avanti verso questa nuova era e mi piace accostare idealmente l’immagine di Dio Padre intento a costruire con cura estrema ogni passaggio del Suo progetto esattamente come quando, creando Adamo, ideò e formò ogni suo organo, ogni osso, muscolo, tendine. Anche per la creazione stessa abbiamo delle immagini poetiche che integrano il racconto della Genesi, dalle quali traspare una cura assoluta per la realizzazione del mondo in cui l’uomo avrebbe dovuto vivere: “Quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov’eri? Dimmelo, se sei tanto intelligente! Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai, o chi ha teso su di essa la corda per misurare? Dove sono fissate le sue basi o chi ha posto la sua pietra angolare, mentre gioivano in coro le stelle del mattino e acclamavano tutti i figli di Dio?” (Giobbe 38.4-7).

Ecco, nel rispetto dei tempi naturali, Elisabetta arriva al nono mese e partorisce il bambino; per la sua nascita non vi furono né segni in cielo o in terra, ma un messaggio chiaro di speranza, dei segni intimi che pochi notarono ma, come abbiamo letto, li conservarono nel cuore. C’è una grandezza tutta particolare nel fatto che “i vicini e i parenti (…) si rallegrarono” con Elisabetta perché da come si svolgeranno i fatti vediamo che, nonostante le manifestazioni di congratulazioni e i modi che quella gente aveva per manifestarle la loro vicinanza, la presenza dei vicini di casa e dei parenti era importante perché avrebbe costituito una testimonianza degli eventi che si sarebbero verificati in quella casa.

Molto spesso nella vita di una persona capita che, per giungere a una convinzione o per avere un’illuminazione, sia necessario mettere insieme e collegare più dati; questo era ciò che il Creatore desiderava avvenisse, perché chi avesse voluto indagare criticamente su Giovanni Battista per avere un quadro chiaro su di lui e su tutti gli altri avvenimenti collegati alla sua persona, avrebbe dovuto considerare la sua storia fin dall’inizio a partire dai molti che avevano assistito, nove mesi prima della sua nascita, all’uscita di suo padre dal luogo santo: a quel tempo “Zaccaria non poteva parlare loro, allora compresero che aveva avuto una visione nel tempio” (Luca 1.22). Teniamo presente che un simile evento è impossibile che non sia stato divulgato per tutta Gerusalemme, stante la sua eccezionalità. Poi abbiamo la stirpe sacerdotale di entrambi, la gravidanza andata a buon fine nonostante la sterilità e l’età avanzata di Elisabetta; tutti eventi che, assieme ad altri che vedremo, porranno le persone in grado di collegarli e riconoscere in Giovanni un profeta diverso dai suoi predecessori non solo per il suo modo di vestire e per le parole di verità che pronunciava, ma per il suo curriculum costituito da tutte queste manifestazioni. Dio non manda mai un profeta senza credenziali.

Usanza dettata dalla tradizione voleva che un bambino venisse chiamato preferibilmente col nome del nonno, o del padre, o comunque di un parente stretto e i “vicini e parenti” che erano andati a trovare Elisabetta dopo il parto, si ripresentarono per la circoncisione del bambino, “segno” esterno dell’appartenenza al popolo eletto di Dio. In Genesi 17.12 leggiamo: “All’età di otto giorni ogni maschio tra voi sarà circonciso, di generazione in generazione tanto quello nato in casa, come quello comprato con denaro da qualunque straniero che non sia della tua discendenza”. La circoncisione quindi era il segno esteriore di appartenenza al popolo ebraico oltre che di igiene, e venne ribadito anche nella dispensazione successiva, quella della Legge: “L’ottavo giorno si circonciderà la carne del prepuzio del bambino” (Levitico 12.3).

Elisabetta però, confermando di aver compreso il piano di Dio per suo figlio e di averlo pienamente accettato, prese a dire tra lo stupore dei presenti “No, anzi, sarà chiamato Giovanni”: quando sta per iniziare un periodo nuovo, anche nella banale storia umana, lo vediamo da tanti particolari, anche dai piccoli. E ogni volta che Dio o la Sua volontà fanno irruzione nella vita dei singoli come dei tanti, succedono sempre degli avvenimenti che stravolgono la norma, l’omeostasi, la tradizione, l’abitudine. Fin dall’età di otto giorni, per bocca di sua madre prima e di suo padre poi, l’esistenza di Giovanni irrompe nel ragionare umano e spezza una consuetudine: nonostante la singolarità delle circostanze che avevano caratterizzato quella nascita, per i presenti era inconcepibile che il bambino non avesse il nome del padre o di un congiunto e infatti, convinti che Zaccaria avrebbe dato loro ragione e disprezzando evidentemente sua moglie, “con cenni domandarono al padre come voleva che egli fosse chiamato. E lui, chiesta una tavoletta, scrisse in questa maniera: «il suo nome è Giovanni»”. La “tavoletta” chiesta da Zaccaria era fatta di legno di pino sottile, ma poteva essere anche di piombo, rame o avorio a seconda di chi la usava, sopra il quale era versato uno strato di cera che poi si incideva con uno stilo di ferro.

È quindi possibile affermare che la prima parola scritta del Nuovo Testamento sia stata Giovanni, cioè “Dio è grazia”, o “Dio è benevolenza”, quando l’ultima scritta dell’Antico è “sterminio”, parola con la quale si conclude il libro di Malachia. Anche con quelle parole Zaccaria e sua moglie, come faranno Maria e Giuseppe, apporranno il loro definitivo, ufficiale benestare alla volontà del Signore che li aveva scelti come genitori del precursore di Gesù. Dio si presenta quindi, nel Nuovo Patto, con queste parole. Possiamo anche ricordare quelle con cui inizia il Vangelo di Giovanni, “Nel principio era il verbo”, presenza rilevabile in quel “facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza” (Genesi 1.26) in cui la Parola era destinata a rivelarsi nella dispensazione della grazia.

Nel momento in cui Zaccaria rivelò il nome del figlio, “la sua bocca fu aperta e la sua lingua sciolta”, e usò parole di benedizione nei confronti di Dio, ben sapendo non solo di essere stato perdonato, ma constatando anche la veridicità delle promesse alle quali non aveva creduto. Ritengo che la gioia di Zaccaria sia stata difficilmente contenibile e avrebbe potuto trovare uno sfogo umano e spirituale solo attraverso il cantico che esamineremo nel capitolo successivo. È importante sottolineare che la gioia di Zaccaria si espresse attraverso parole di profonda verità, dettate dallo Spirito Santo che lo aveva illuminato. Quell’uomo, abituato al servizio sacerdotale, a parlare e a gestire la propria vita senza particolari problemi fino al giudizio dell’angelo, era rimasto sordo e muto per circa nove mesi, pensando a quanto gli era stato detto e a chiedersene il significato; aveva senz’altro meditato sia sulla sua incredulità, sia su chi sarebbe diventato un giorno suo figlio. Quello che dirà, sarà il risultato delle sue considerazioni alla luce di quanto Dio gli aveva fatto comprendere.

Riflettendo su quanto accaduto, possiamo concludere che è solo quando un uomo sperimenta su di sé l’amore di Dio che può essere in grado di parlare di Lui, di esserne testimone: Zaccaria, e con lui chiunque ha provato su di sé gli effetti di una grazia procedente dall’Alto, poteva parlare, dire, raccontare.

Luca conclude l’episodio accennando al timore dei vicini una volta che Zaccaria concluderà il cantico; la traduzione letterale di questi due versi è: “E ci fu timore su tutti i loro vicini di casa e in tutta la regione montuosa della Giudea: tutte queste parole erano oggetto di commenti. E tutti coloro che ascoltarono se le posero nei loro cuori dicendo «Che cosa sarà dunque questo bambino?» E infatti la mano del Signore era con lui”. Qui il testo pone deliberatamente l’accento sull’attesa. Mi piace pensare questi uomini e donne che, senza una rivelazione di Dio, non capiscono quello che sta succedendo, ma s’interrogano “ponendosi nel cuore” le parole udite che “furono oggetto di commenti”: ciascuno diceva la sua, ma nessuno riusciva a trovare una spiegazione soddisfacente.

Il cuore era il posto migliore in cui custodire tanto le parole quanto la notizia dell’accaduto: quando si custodisce qualcosa lì, significa che si vuole ricordare, mettere da parte qualcosa temporaneamente in attesa che giunga il momento della rivelazione, l’occasione per capire. E il racconto di ciò che avvenne in casa di Zaccaria ed Elisabetta fu tramandato perché un giorno, se qualcuno avesse voluto indagare su Giovanni Battista, non avrebbe potuto trovare un solo punto che non lo collegasse a una missione divina.

Quel bambino, una volta divenuto adulto, non sarebbe stato un profeta come gli altri, ma colui che avrebbe dovuto indicare in Gesù “L’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”, una definizione che avrebbe avuto bisogno di un personaggio autorevole per essere quanto meno presa in considerazione. Quando un profeta parla, per prima cosa chi lo ascolta si chiede chi sia e da dove venga, e poi con quale autorità si ponga innanzi a lui. Ebbene, di nessun profeta dell’Antico Patto è detto “Venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui” (Giovanni 1.8) e Nostro Signore parlò del Battista definendolo “Più che un profeta” qualificando il suo ruolo con: “Io vi dico in verità che fra i nati di donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni Battista, ma il più piccolo del regno dei cieli è più grande di lui” (Matteo 11.11).

Gesù disse questo per far capire la differenza tra Legge e Grazia in cui chi opera non è più un servo, ma un figlio e alla domanda “Che sarà mai questo bambino?” risponde il profeta Malachia con parole sulle quali torneremo: “Ecco, io mando il mio messaggero a preparare la via davanti a me. E subito il Signore che voi cercate entrerà nel suo tempio. L’angelo del patto in cui prendete piacere, ecco, verrà” (3.1). Ogni cosa sarebbe accaduta nel momento opportuno e, per l’episodio che abbiamo visto brevemente, quel “messaggero” era nato e avrebbe preparato “la via”, cioè preannunciato l’arrivo del Salvatore, allora in gestazione di tre mesi, in Maria.

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01.07 – GIUSEPPE (Matteo 1.18-25)

18Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. 19Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. 20Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; 21ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». 22Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: 23Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi. 24Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa; 25senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù”.

Matteo ci parla di Giuseppe, figura molto particolare dei Vangeli: non parla mai, ma fa tutto quello che gli viene ordinato operando un silenzioso servizio. Quel poco che sappiamo di lui è frutto, quando non chiaramente raccontato, di deduzioni, per quanto fondate. E chi farà da padre putativo a Gesù compare così, all’improvviso, quale promesso sposo di Maria. È importante tenere presente il primo verso di questo Vangelo: “Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo” perché Matteo, nel diciassette versi precedenti, ci ha tracciato una genealogia a partire da Abrahamo che, dopo essere stato vagliato con il sacrificio di Isacco, ricevette la promessa “Tutte le nazioni della terra saranno benedette nella tua discendenza, perché tu hai ubbidito alla mia voce” (Genesi 22.18). Anche a Davide, secondo personaggio menzionato, furono rivolte parole di conferma: “Stabilirò la tua progenie in eterno ed edificherò il tuo trono per ogni età” (Salmo 89.3,4). Così, la casata reale si era ridotta all’umile persona di un falegname.

Giuseppe è anche questo, un protagonista nella storia della salvezza che qui incontriamo per la prima volta, turbato, fortemente contrariato e amareggiato perché Maria gli aveva da poco dichiarato di essere gravida. Abbiamo letto “Prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo”, parole con le quali Matteo riassume ciò che Luca ha esposto nei dettagli e che ci consentono di dare uno sguardo al fidanzamento di allora, una promessa di matrimonio che veniva contratta quasi sempre tra i genitori degli sposi, soprattutto dal padre di lui, quando entrambi i giovani erano in età di circa 18 anni (per l’uomo) e dai 12 e mezzo in avanti per le donne. La durata del fidanzamento era di circa un anno, tempo durante il quale il futuro sposo doveva preparare la casa in cui sarebbero andati ad abitare, ma i fidanzati erano considerati marito e moglie a tutti gli effetti per cui, per interrompere la relazione, era richiesta la stessa procedura per il divorzio, vale a dire la lettera di ripudio e, nel caso il motivo del divorzio fosse stato l’infedeltà, la donna veniva lapidata secondo la legge di Mosè.

La frase “si trovò gravida”, ci lascia intuire una circostanza sicuramente drammatica per Giuseppe che ben difficilmente avrebbe potuto credere a Maria qualora gli avesse parlato dell’annuncio angelico: una gravidanza, da sempre, non poteva essere che la conseguenza di un rapporto carnale, consenziente o meno.

Di Giuseppe, come accennato, i Vangeli parlano poco, anzi, si può dire che il fatto che fosse un “uomo giusto” è l’unico che abbiamo: l’unico dato ufficiale sul suo carattere ce lo dà proprio quell’aggettivo che allude non tanto all’osservanza minuziosa della legge e dei suoi corollari, ma alla pietà che aveva e alla gestione della sua persona in sintonia con la fede che professava. Ricordiamo sempre che Abramo fu considerato “giusto” da Dio per aver creduto in Lui e nella sua promessa.

Giuseppe, come dimostra il comportamento che voleva tenere nei confronti di Maria, era un uomo compassionevole, non orgoglioso né desideroso di rivalersi su di lei con un gratuito spirito di vendetta: leggiamo che “non voleva accusarla pubblicamente”, cioè non voleva si scatenasse quanto previsto dalla Legge al riguardo cioè “Quando una fanciulla vergine è fidanzata e un uomo la trova in città e si corica con lei, li condurrete ambedue alla porta di quella città e li lapiderete con pietre, ed essi moriranno: la fanciulla perché, pur essendo in città, non ha gridato, e l’uomo perché ha disonorato la moglie del suo prossimo. Così estirperai il male di mezzo a te. Ma se l’uomo trova una fanciulla fidanzata in campagna, e le fa violenza e si corica con lei, allora morirà solamente l’uomo che si è coricato con lei; ma non farai niente alla fanciulla, non c’è alcun peccato che merita la morte, perché questo caso è come quando un uomo si leva contro il suo prossimo e l’uccide; egli infatti l’ha trovata in campagna; la fanciulla fidanzata ha gridato, ma non c’era nessuno che la potesse salvare” (Deuteronomio 22.23-27).

Giuseppe aveva quindi, in mancanza dell’uomo ipotetico che si era congiunto con la sua fidanzata, due possibilità per procedere contro Maria: accusarla pubblicamente davanti ai magistrati che l’avrebbero condannata alla lapidazione, oppure regolare la cosa privatamente consegnandole una lettera di divorzio in presenza di due o tre testimoni, lasciando a lei la possibilità di regolarsi come meglio potesse. Infatti: “Quando uno prende una donna e la sposa, se poi avviene che essa non gli è più gradita perché ha trovato per lei qualcosa di vergognoso, scriva per lei una lettera di ripudio, gliela dia in mano e la mandi via da casa sua” (Deuteronomio 24.1).

Abbiamo letto che un angelo del Signore gli apparve in sogno “mentre considerava tutte queste cose”, segno che Giuseppe era una persona che non agiva d’impulso, ma era pacato e riservato: l’amore per Maria implicava il rispetto per la sua persona nonostante il supposto tradimento ed escludeva il sentimento di una rivalsa, per quanto legale.

Abbiamo poi il terzo intervento angelico in cui viene usato un appellativo specifico, “Figlio di Davide”, a ricordare a Giuseppe non solo la sua discendenza, ma soprattutto l’adempimento della promessa secondo la quale il Messia sarebbe arrivato dalla discendenza di quel re e non da altre. Anche qui troviamo un “non temere”, ma diverso dai precedenti incontrati, tesi a rassicurare che la presenza angelica non avrebbe comportato un giudizio sulla persona: dicendo “Non temere di prendere con te Maria tua sposa”, l’angelo dichiarava a Giuseppe che tanto Maria quanto il figlio che aspettava, a prescindere dalle traversie che avrebbero incontrato, sarebbero sempre stati assistiti da Dio. Ciò che era accaduto in Maria era la conseguenza dell’opera Spirito Santo inteso come forza creatrice, cioè lo stesso “Spirito di Dio” che “aleggiava sulle acque” che troviamo in Genesi 1, tradotto anche con “si muoveva” da un verbo riferentesi all’atto del covare degli uccelli.

Ed ella partorirà un figlio e tu gli porrai nome Gesù”, nome che ha lo stesso significato di Giosuè, “Salvatore”, colui che introdusse il popolo nella terra di Canaan, la terra promessa. Il figlio di Maria sarebbe stato chiamato così “Perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati”. Se il nome di un essere umano influenza la sua vita e lo caratterizza, quello del “figlio di Maria e Giuseppe” ha la sua ragione di essere non per la personalità, ma per scopo e ruolo: è lui – e nessun altro – che salverà il suo popolo che, come ci dice Giovanni, poi non lo accolse come avrebbe dovuto; “Egli è venuto in casa sua e i suoi non lo hanno ricevuto, ma a tutti coloro che l’hanno ricevuto ha dato l’autorità di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome” (1.11,12). Come disse Pietro davanti al Sinedrio, l’organo ufficiale per l’emanazione delle leggi e dell’amministrazione della giustizia, “In nessun altro vi è la salvezza, poiché non c’è altro nome sotto il cielo che sia dato agli uomini per essere salvati” (Atti 4.12).

Gesù sarà il solo che, adempiendo interamente la legge, permetterà a tutti gli uomini e donne che avranno creduto in lui di essere idonei a presentarsi senza timore alla presenza di Dio: come già letto in Giovanni, Gesù è Colui che ha dato a tutti coloro che l’hanno accolto “l’autorità – o poteredi diventare figli di Dio”, quindi passare dallo stato di creatura, comune a tutti nel mondo, a quello di figli come scriverà poi l’apostolo Paolo nella sua lettera ai Romani, “Se siamo figli, siamo anche eredi, eredi di Dio e coeredi di Cristo, se pure soffriamo con lui per essere anche con lui glorificati” (8.17).

Il salvare dai peccati significa liberare l’uomo dal giogo della legge, aprire un canale di comunicazione con Dio Padre prima impensabile. È una questione di condizione, di prospettive, di comprensione e possiamo ricordare, a proposito della dispensazione della Legge, l’amara riflessione di Salomone nell’Ecclesiaste: “…tutto ciò che succede ai figli degli uomini succede alle bestie, a entrambi succede la stessa cosa: come muore l’uno, così muore l’altra. Sì, hanno tutti uno stesso soffio e l’uomo non ha alcuna superiorità rispetto alla bestia, perché tutto è vanità. Tutti vanno nello stesso luogo: tutti vengono dalla polvere e tutti ritornano alla polvere” (3.19,20).

È lui che salverà il suo popolo dai loro peccati”: l’apostolo Pietro dirà “Dio lo ha esaltato con la sua destra e lo ha fatto principe e salvatore per dare a Israele ravvedimento e perdono dei peccati” (Atti 5.31), senza considerare il discorso illuminante il di Paolo nella Sinagoga di Antiochia in Atti 14.13-23.

A conclusione del racconto dell’annuncio in sogno a Giuseppe, Matteo come sua consuetudine fa un raccordo con le parole dei profeti dell’Antico Testamento, in questo caso Isaia 7.14 che già allora dava le “istruzioni” per individuare l’Eletto in un bambino partorito da una vergine. Matteo nel suo citare Isaia va direttamente al nocciolo, senza trascrivere le prime parole di del verso che gli ebrei conoscevano molto bene: “Ecco, il Signore vi darà un segno”. Un segno certo inequivocabile vista l’impossibilità che una vergine possa dare alla luce un figlio.

Leggiamo che “Giuseppe, destatosi dal sonno, fece come l’angelo del Signore gli aveva ordinato, e ricevette la sua moglie”. La “giustizia” di Giuseppe si rivela anche in questo atto di obbedienza: sarebbe stato padre di un figlio non suo, ma certo non di un altro uomo.

Ma egli non la conobbe fino a quando ella non ebbe partorito il suo figlio primogenito, al quale pose nome Gesù” è il verso che ha generato più confusione in assoluto, ma solo a quanti hanno voluto sostenere il ruolo di Maria come solo madre e non anche moglie. L’originale greco, come la traduzione latina di San Girolamo, riportano “donec”, cioè “fino a quando”. Controversie ci sono anche sul “primogenito”, che alcuni manoscritti non riportano. Quello che è certo è che Giuseppe si astenne dai rapporti coniugali fino al parto di Maria attendendo i giorni prescritti dalla legge (40 secondo Levitico 12.2-4) prima di avere rapporti carnali con lei.

Ponendo il nome Gesù al bambino, sia lui che Maria accettarono ufficialmente il ruolo cui Dio li aveva destinati. Fu quella la loro “firma” al contratto di ubbidienza alla volontà di JHWH.

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01.06 – MAGNIFICAT (Luca 1.46-56)

01.06 – Magnificat (Luca 1. 46-56)

 

46Allora Maria disse: «L’anima mia magnifica il Signore 47e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, 48perché ha guardato l’umiltà della sua serva. D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. 49Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente e Santo è il suo nome; 50di generazione in generazione la sua misericordia per quelli che lo temono. 51Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; 52ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; 53ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote. 54Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, 55come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre». 56Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.
”.

 

            Gli scritti del Nuovo Patto si aprono con un inno, quello che Giovanni utilizza per l’apertura del suo Vangelo, e con il cantico di una donna, Maria. Si tratta di un avvenimento, più che di rottura con la tradizione, di completamento e di conferma del fatto che uomo e donna hanno pari dignità davanti a Dio pur se con ruoli e responsabilità diverse. Luca, che fece “ricerche accurate su ogni circostanza” (1.3) scrive questi episodi dopo averli appresi direttamente dalla madre di Gesù che, all’epoca in cui avvennero, doveva avere tra i 14 e i 17 anni. Il “Magnificat” è un canto di gioia e liberazione scaturito a seguito delle parole di Elisabetta “…e beata colei che credette che vi sarà compimento per le cose dettele dal Signore” che costituirono anche un rimprovero, neppure tanto velato, al marito che si era comportato diversamente. Per dovere di cronaca va detto che alcuni manoscritti attribuiscono il cantico ad Elisabetta, ma i contenuti veterotestamentari di cui esso è pieno indicano, a mio parere, un sentimento di liberazione e una comprensione degli eventi che poteva avere più Maria che la cugina.

Notiamo al verso 46 che si parla di “anima” che magnifica il Signore e di “spirito” che esulta, andando direttamente alla persona come essenza, al di là del corpo. Anima come ciò che è forza vitale, ma terrena, e spirito come ciò che è superiore, la vera identità dell’essere umano, ciò che va oltre ed è difficilmente comprensibile. L’anima che “magnifica il Signore” (verbo “megalùno”) implica un’idea di rafforzamento in Lui e che pertanto Lo glorifica una volta compresa una parte del mistero della sua elezione; lo spirito poi esulta “in Dio”, letteralmente “a motivo di”, escludendo un sentimento momentaneo di gioia stante la qualifica di “Salvatore” che Gli viene attribuito. Isaia in 12.2 scrive “Ecco, Dio è la mia salvezza, io avrò fiducia e non avrò paura perché l’Eterno, sì, l’Eterno è la mia forza e il mio cantico ed è stato la mia salvezza”: personalmente credo che lì i timori di Maria relativi al suo destino come donna, che abbiamo visto rischiava la lapidazione come adultera nel caso in cui Giuseppe l’avesse denunciata, cessarono. “Salvatore” perché la futura madre di Gesù si sentì, come tutti quelli prima e dopo di lei, posta al riparo, appartata per un progetto di eternità, ma anche salvata dalla condizione di essere umano peccatore: se fosse stata santa di per sé, “concepita senza peccato” come si vuole sostenere o avesse avuto dei meriti particolari salvo l’elezione di Dio, non avrebbe usato quest’espressione e Lo avrebbe qualificato in un altro modo; ricordiamo che mai una creatura spirituale pura (pensiamo agli angeli con le loro gerarchie) si è mai rivolta a YHWH chiamandolo “Salvatore”.

Maria poi si qualifica come essere umano senza far caso alla propria stirpe reale, discendendo anch’essa da Davide: sotto l’aspetto genealogico la sua condizione “umile” non lo era, ma in base alla sua umanità certamente sì. La “umile condizione” era quella in cui versano tutti gli uomini, lontani dalla Grazia e quindi dalla salvezza a meno che Lui stesso non guardi a loro avendone pietà. Altri traducono “ha riguardato alla bassezza della sua serva”, espressione che ricorda l’essenza dell’essere umano, appunto peccatore per natura e per questo incompatibile con Dio che, a Suo giudizio insondabile e insindacabile, guarda alla condizione di ciascuno e a ciascuno si propone per salvarlo.

Ecco, qui bisognerebbe sostare un attimo: la Bibbia è piena di episodi in cui Dio si rivela e spiega il Suo piano per ogni essere umano, sia questo singolo o popolo; lo ha sempre fatto a partire da quando ha creato Adamo. A volte parlò personalmente, in altre mandò degli angeli, dei messaggeri, in altre ancora utilizzò altri uomini, dei profeti. Ebbene la stessa cosa sono profondamente convinto la faccia anche oggi, anche se con modi diversi, perché viene un punto nella vita in cui l’essere si pone delle domande circa la propria origine e fine ed è lì che si pone il bivio, la libera scelta tra l’iniziare un percorso di ricerca spirituale oppure no. L’uomo di oggi non può affidarsi ad apparizioni o a rivelazioni particolari di “entità superiori” perché queste sono escluse come provenienti da Dio, come possiamo capire dalla risposta che diede Abrahamo al ricco che lo pregava di inviare Lazzaro ai suoi fratelli ad ammonirli perché non finissero anch’essi fra i tormenti: “Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro” (Luca 16.29).

Riguardo alla necessità di risolvere la difficile domanda del perché della nostra esistenza e soprattutto dell’oltre la morte ci sono due reazioni possibili: alcuni l’avvertono in modo talmente forte da arrivare a risolverlo, certo non da soli, altri lo soffocano e lo rimandano ancorandosi alle piccole cose che li fanno sentire importanti come il lavoro, i propri interessi, lo studio, un ruolo eventualmente “importante” nella società umana, il denaro che accumulano e che mai utilizzano a favore degli altri. Tuttavia aderire a una religione, per quanto forse appagante, non risolve la loro condizione, ma sapere che Dio può salvare e l’entrare nel Suo progetto, rivelato attraverso i secoli e le dispensazioni, certamente sì. Maria, per esempio, avrebbe potuto rispondere a Gabriele che preferiva continuare la sua vita semplice di sempre seguendo il progetto che certamente come tutti aveva per sé, ma scelse il ruolo di madre (del corpo) di Gesù: amore materno, comune a quello di tante altre donne per il periodo dell’infanzia, riflessione profonda e pressoché continua durante il Suo ministero pubblico, di profonda sofferenza alla croce e infine premio con la vita eterna.

C’è poi la sintesi “Santo è il suo nome e la sua misericordia si estende per generazioni e generazioni per coloro che lo temono”, che parte dall’essenza di Dio (la santità) e circoscrive la Sua misericordia a quanti lo temono, cioè chi ha ben presente l’impegno visto nell’imperativo “Siate santi, perché io sono santo” (Levitico 11.45). Per il cristiano questo significa meditare e mettere in pratica le parole dell’apostolo Pietro: “Come figli ubbidienti, non conformatevi alle concupiscenze del tempo passato, quando eravate nell’ignoranza, ma come colui che vi ha chiamati è santo, voi tutti siate santi in tutta la vostra condotta. Poiché sta scritto «Siate santi, perché io sono santo»” (1 Pietro 1.14-16).

Parlando della misericordia di Dio che “si estende per generazioni e generazioni per coloro che lo temono”, Maria fa riferimento alla protezione e al riguardo che Lui ha avuto nel corso del tempo che ha caratterizzato le 42 generazioni da Abrahamo fino a Cristo (Matteo 1.17).

Egli ha operato potentemente con il suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore, ha rovesciato i potenti dai loro troni ed ha innalzato gli umili. Ha ricolmato di beni gli affamati e ha rimandato i ricchi a mani vuote”: questo è un riconoscimento del lavoro di Dio nella storia da lei conosciuta: la “potenza del braccio” è un termine che si riferisce agli avvenimenti di cui fu testimone Mosè e tutto il popolo di Israele in Egitto, alla distruzione dell’esercito di quel Paese sulle rive del mar Rosso, così come la frase relativa al “rovesciamento dei potenti e all’innalzamento degli umili” può lasciar pensare alle vicende non solo dello stesso Mosè, ma anche degli altri uomini come Davide, Giuseppe figlio di Giacobbe, Daniele e lei stessa.

La dispersione dei superbi “nei pensieri del loro cuore” è interessante sia per il verbo usato che per le estensioni possibili della parola “cuore”. Il verbo greco impiegato per “disperdere” ha riferimento allo sparpagliare il grano come atto di seminare, ma anche al vagliarlo, mentre il cuore non ci parla solo dell’organo considerato la sede dei sentimenti e degli affetti, ma soprattutto di ciò che abbiamo di più caro: “Dove sarà il tuo tesoro, qui sarò anche il tuo cuore” (Matteo 6.21) e “la bocca parla di ciò che sovrabbonda nel cuore” (Luca 6.45). C’è quindi una frantumazione che attende il superbo, cioè colui che è assolutamente convinto della propria superiorità sugli altri che tratta con arroganza e disprezzo. Chi è affetto da questa patologia vede solo se stesso e i suoi interessi, quindi pensa che il mondo e il suo prossimo debbano essere al suo servizio. C’è connessione tra l’essere superbi e l’essere ricchi perché chi è ricco, salvo eccezioni, fa affidamento sulle sue sostanze che usa a proprio piacimento per soddisfarsi e le considera – come effettivamente sono per la nostra società umana – le basi su cui costruire la propria persona: la ricchezza è fondamentalmente un metodo di azioni, di sussistere; senza di essa il ricco non è nulla, tutte le sue aspettative fanno riferimento a lei. In lei e con lei si sente al sicuro e molto difficilmente attribuisce valore ad altro. “Ha rimandato i ricchi a mani vuote” implica la nullità del valore delle loro sostanze sotto la prospettiva dell’eternità: “Guai a voi, ricchi, perché già avete ricevuto la vostra consolazione” (Luca 6.24).

Maria conclude poi il proprio cantico in modo perfetto dichiarando apertamente, sotto la rivelazione dello Spirito Santo, che quello e non altri era il tempo in cui si stava per adempiere la promessa fatta “ad Abrahamo e a tutta la sua progenie per sempre”, ricordandosi delle parole che Gabriele le aveva detto in casa sua: “…e regnerà sulla casa di Giacobbe nei secoli e non ci sarà fine nel suo regno” (v.33).

A questo punto Luca annota “E Maria rimase con Elisabetta circa tre mesi, poi se ne tornò a casa sua”. Ecco, questo particolare è interessante: Maria rimane con Elisabetta, suppongo, fino a poco tempo prima che sua cugina partorisse se non addirittura fino alla nascita di Giovanni Battista (ma Luca non lo dice), cioè fino a quando la gravidanza di Maria, circa al terzo mese, stava per essere fisicamente visibile. Nulla sappiamo su come abbia trascorso questo tempo. Si può supporre che molti siano stati i dialoghi su quanto avvenuto tra lei e la cugina che era andata a trovare proprio per avere delle risposte o conferme, non senza che Zaccaria intervenisse a gesti o scrivendo su una tavoletta. E purtroppo non abbiamo, come per Beethoven, i “Konversationshefte” con gli amici che usava quando era ormai quasi completamente sordo. Mi riesce difficile pensare che la madre di Gesù si sia allontanata proprio pochi giorni prima che la cugina partorisse, senza attendere con lei quell’evento così importante. Lascio la questione aperta; certo è che tornandosene a casa sua a Nazareth Maria sapeva che avrebbe dovuto annunciare la propria gravidanza a Giuseppe, suo futuro marito. Poteva fare questo solo affidandosi alle promesse di Dio: “Non temere”. Non era un’esortazione umana come molti fanno al loro prossimo, solitamente affidandosi genericamente a un futuro che non conosono nella speranza di sollevare un animo turbato o timoroso di qualcosa: nel nostro caso e in tutti gli altri che troviamo nella Bibbia, il “Non temere” – o il “Non temiate” – proviene direttamente da Dio, presente e Signore della vita dell’uomo. Di raccontare quanto avverrà tra Maria e Giuseppe due sarà l’apostolo ed evangelista Matteo.

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01.05 – LA VISITAZIONE (Luca 1-39-45)

01.05 – La visitazione (Luca 1. 39-45)

 

39In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. 40Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. 41Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo 42ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! 43A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? 44Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. 45E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».”.

 

            Luca, medico siriano e unico autore non ebreo degli scritti del Nuovo Patto, ci dà tratti interessanti sul carattere di Maria avvalendosi di piccoli particolari come quelli citati nel verso 39, “in quei giorni” e “in tutta fretta”. Nelle scorse riflessioni abbiamo visto che questa giovane non si spaventò quando vide l’Angelo, ma fu turbata dal suo saluto inusuale “Rallegrati, o favorita dalla grazia, il Signore è con te” (v. 28) “chiedendosi che senso avesse un saluto come questo” (v. 29). Gabriele la lasciò quando lei disse “Ecco la serva del Signore, avvenga per me secondo la tua parola”: non fu una frase da poco, perché Maria sapeva benissimo che, dichiarandosi “serva” del Signore e accettando il ruolo che le era stato proposto, avrebbe potuto morire per lapidazione come adultera qualora Giuseppe suo futuro marito l’avesse denunciata al tribunale rabbinico. Luca non dice che Maria che andò dalla cugina Elisabetta il giorno dopo, ma “in quei giorni”, cioè dopo aver pensato e ripensato a quanto le era stato detto; penso all’accenno a quel “trono di Davide” che sarebbe stato dato al figlio, “santo” e “chiamato Figlio di Dio”. Si trattava di definizioni e posizioni che non riusciva a capire e che la preoccupavano a tal punto che quell’ “andò in fretta”, rivelatore del suo stato d’animo, viene anche tradotto “assai pensierosamente”. Viaggiare da sola era cosa disdicevole per una donna nubile o fidanzata ed è molto probabile che Maria si recò da Elisabetta dietro consenso di Giuseppe al quale non parlò dell’annuncio dell’angelo.

Il viaggio di Maria non fu facile e dovette durare dai tre ai quattro giorni ed è giustificabile, a mio parere, solo con la sua volontà di capire concretamente il messaggio ricevuto ed Elisabetta era l’unico riferimento che aveva avuto da Gabriele. Era una caratteristica della futura madre di Gesù il memorizzare quanto le accadeva o non capiva per poi riesaminarlo una volta avuti più elementi: è un esempio anche per noi. Molte volte troviamo scritto che “Maria custodiva tutte queste cose nel suo cuore” e, recandosi da Elisabetta sua parente, sperava di avere dei ragguagli in più: aveva ricevuto anche lei un annuncio angelico? E se sì, cosa le era stato detto? Chi era la creatura che attendeva? In ogni caso era sua cugina l’unica persona con la quale potersi confrontare: cosa avrebbe potuto dirle, ad esempio, un dottore della Legge o un rabbi, o lo stesso Giuseppe? Il messaggio dell’Angelo era stato rivolto a lei e il suo promesso sposo aveva una parte limitata in quel Piano che le era stato annunciato: avrebbe fatto da padre al figlio che portava senza avere parte alcuna al concepimento. Esiste una profonda differenza tra Zaccaria e Giuseppe perché mentre il primo ebbe per figlio naturale un profeta, il secondo accettò il ruolo più di marito di Maria che di padre. Ricordiamo le parole dell’angelo: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati. (…) Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa; senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù” (Matteo 1. 20-25). Sono versi sui quali torneremo, ma la traduzione corretta dell’ultimo verso è “…e non la conobbe fino a quando partorì un figlio e chiamò il suo nome Gesù” (letterale) ed alcuni manoscritti arrivano a specificare “il suo figlio primogenito”.

Torniamo al nostro episodio: Maria entra in casa di Elisabetta; non esisteva un servizio postale che potesse essere usato per annunciare questa visita. Leggiamo che “appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il fanciullino le sussultò nel grembo”: non si trattava dei tanti movimenti che ogni madre conosce, fatti dal feto nell’utero che vengono descritti con l’espressione “tira i calci”, ma piuttosto di una manifestazione anomala che stupì Elisabetta a un punto tale che, prima ancora di chiedersi cosa stesse avvenendo, “fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce…”.

Pensiamo: stava avvenendo l’incontro tra le due madri dal ruolo più particolare nella storia della salvezza, quella del precursore del Messia e del Messia stesso; il sussulto che ebbe il futuro Giovanni Battista all’udire il saluto di Maria era già di per se stesso un segno. Teniamo presente le parole di Gabriele a Zaccaria, “sarà colmato di Spirito Santo fin dal seno di sua madre” (v.16): ciò non significava che il nascituro avrebbe avuto chissà quali poteri, ma sta ad indicare tutta l’attenzione che Dio avrebbe avuto nel separare ciò che di esclusivamente umano si stava formando da ciò che era invece santo, spirituale, salvifico in vista dell’opera che Giovanni avrebbe dovuto svolgere. È da questo principio che ebbe origine quel “sussulto” che mai prima di allora si era verificato. Certo Zaccaria era muto e sordo, ma questo non gli impediva di comunicare soprattutto a sua moglie che era stata informata, tramite la scrittura su coccio cerato o tavoletta di altro materiale, di tutto quanto riguardava lei e il figlio che portava.

Elisabetta parla con tono inusuale, “a gran voce”, a significare l’entusiasmo e la gioia spirituale che la pervasero e le impedirono di rispondere al saluto di rito “La pace sia con te”. Il parlare “con gran voce” ha connessione con le parole di Salmo 66.1 “Mandate grida di gioia a Dio, voi tutti abitanti della terra” e con Isaia 40.9 “Alza la voce, non temere, di’ alle città di Giuda «Ecco il vostro Dio”. Parlare con una forte intensità è una delle caratteristiche della gioia per cui, al di là dei contenuti espressi, è un particolare che dice molto sullo stato interiore della madre di Giovanni.

Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo” sono parole che nessuna donna avrebbe mai proferito ad un’altra, anche perché lo stato di Maria non poteva essere noto ad alcuno, forse neppure a lei stessa visto l’esiguo tempo trascorso tra l’annuncio angelico e l’inizio del suo viaggio verso Jutta, paese in cui pare abitassero i genitori di Giovanni Battista. Maria sapeva che un giorno si sarebbe ritrovata gravida, ma non quando. La voce greca “eulogheméne” ha un doppio significato, cioè “benedetta dall’alto” e “lodata fra tutte le donne” e inoltre, se facciamo riferimento all’ebraico, è la stessa espressione che troviamo nel cantico di Debora e Barak che recita “Benedetta sia tra le donne Jael, moglie di Heber, il Keneo! Sia benedetta fra le donne che abitano nelle tende” (Giudici 5.24). Ecco, qui abbiamo un riferimento – parlando di Maria – tanto all’elezione di Dio quanto alla risposta che diede al Suo Messaggero: si pose davanti a Lui come sua “serva”.

Istintivamente saremmo tentati di considerare quel “benedetto sia il frutto del tuo ventre” come un augurio, ma sbaglieremmo: piuttosto questa frase allude a una realtà che ricorda le parole di Dio ad Abrahamo dall’angelo dopo la prova del sacrificio di Isacco: “Tutte le nazioni della terra saranno benedette nella tua discendenza, perché hai ubbidito alla mia voce” (Genesi 22.18): Maria era quindi non “uno”, ma “lo” strumento nelle mani di Dio in cui, con le sue poche e semplici forze come altri prima di lei, aveva creduto.

Elisabetta chiede “A cosa devo che la madre del mio Signore venga a me?”: sono parole che per la futura madre di Gesù dovettero avere un significato molto importante perché, dopo di queste, avremo il Magnificat. Elisabetta, tramite lo Spirito Santo, le conferma il ruolo fondamentale che avrebbe avuto, “la madre del mio Signore”, altra espressione che nessuna donna avrebbe mai usato nei confronti del figlio di una sua simile. Si può dire quindi che, con quelle parole, ci fu una profezia di lode per quel “Signore” che già Elisabetta sapeva esistere. Quel “mio signore” è molto indicativo e sta a sottolineare, come in tutti gli altri casi in cui fu usato – mi viene in mente Maria Maddalena e lo stesso Tommaso – un rapporto personale e al tempo stesso collettivo: Gesù è il Signore di ciascuno di noi, “mio” per l’unicità con cui mi parla, e di tutti coloro che hanno creduto, credono e crederanno in Lui. “Mio” e loro perché di certo le Sue parole vengono rivolte a me soltanto, ma a ciascuno secondo la Sua grazia e al modo col quale ciascun cristiano si pone di fronte a Lui. Solo nel momento il Signore è “mio” mi parla, e lo stesso fa con chiunque lo riconosce come tale. Salva e ama ciascuno individualmente.

Segue poi la prima beatitudine espressa nei Vangeli, “Beata è colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto” (v.45), che in un’altra traduzione leggiamo “…perché le cose dettele da parte del Signore avranno compimento”: le promesse di Dio infatti si possono dividere in due blocchi, quelle che necessitano del benestare dell’essere umano al quale vengono rivolte e quelle che si adempiono indipendentemente dalla sua volontà; pensiamo alla salvezza, possibile solo se la persona l’accetta credendo nel Figlio, e alle scadenze viste nel giudizio, nei grandi e terribili eventi che attendono l’umanità nel tempo della fine. Ebbene, Maria aveva creduto nell’annuncio dell’angelo Gabriele nonostante la sua titubanza e i suoi interrogativi sapendo che, come “favorita dalla Grazia”, sarebbe stata anche protetta da essa. Ricordiamo ancora cosa rispose: “Ecco la serva del Signore – giunge addirittura a parlare in terza persona – accada a me secondo la tua parola”. In tal modo Maria riconobbe tanto il messaggero quanto chi l’aveva inviato, la sua fu un’adesione piena e incondizionata e le parole della cugina bastarono a toglierle quel timore umanamente comprensibile che l’aveva spinta a compiere quel viaggio.

Se Elisabetta, spinta dallo Spirito Santo, pronunciò quelle parole, Maria aprì il suo cuore in un cantico conosciuto come il “magnificat” che esamineremo nella prossima riflessione.

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01.04 – L’ANNUNCIAZIONE (Luca 1.26-38)

01.04 – L’annunciazione (Luca 1. 26-38)

 

26Al sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, 27a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. 28Entrando da lei, disse: «Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te». 29A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. 30L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. 31Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. 32Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre 33e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». 34Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». 35Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. 36Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: 37nulla è impossibile a Dio». 38Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei”.

 

            L’episodio dell’annunciazione a Maria avviene quando Elisabetta sua cugina giunge al sesto mese di gravidanza: lo sappiamo sia dal verso 16, che inizia con “al sesto mese”, sia dalle parole dell’Angelo al 36 “(Elisabetta) ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio”. Ecco, si può dire che il sesto mese fosse una specie di garanzia per la futura madre e per coloro che aspettavano la nascita del bambino perché gli aborti erano frequenti soprattutto nei mesi antecedenti. Con l’invio di Gabriele al sesto mese dal concepimento di Giovanni, possiamo dire che l’annuncio rivolto alla Vergine avrebbe potuto avvalersi di una importante sottolineatura.

A questo punto viene spontaneo fare dei collegamenti con il precedente intervento angelico, visto che il Messaggero è lo stesso: apparve a Zaccaria, probabilmente all’improvviso, spaventandolo anche perché un angelo poteva annunciare un giudizio di Dio ed entra in casa di Maria con le medesime sembianze umane che sono raccontate, ad esempio, in Genesi, quando i diretti interessati agli annunci vedono degli uomini, non degli “esseri soprannaturali” con ali e aureola in testa. In Genesi 18.1-4 leggiamo: “Poi il Signore apparve ad Abrahamo alle querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo «Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Andrò a prendere un boccone di pane e ristoratevi; dopo potrete proseguire, perché è ben chiaro questo, che voi siete passati dal vostro servo». Quelli dissero: «Fa’ pure come hai detto»”. Interessante qui è che il Signore si rivela con la figura di “tre uomini”; ricordiamo il riferimento in Ebrei 13.2 “Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli”.

Abbiamo visto che Zaccaria quando vide Gabriele si spaventò ritenendolo subito un essere spirituale dato che altrimenti non avrebbe mai potuto trovarsi nel luogo santo, mentre Maria, “promessa sposa ad un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe”, fu turbata non quando lo vide, ma quando ascoltò il suo saluto, soprattutto per le parole “piena di grazia, il Signore è con te”, inusuali rispetto all’esordio tradizionale in uso a quel tempo, “pace a te” che, tradotto letteralmente più che interpretato, fu “Rallegrati, tu che sei stata fatta oggetto della grazia di Dio, il Signore con te”.

In merito alle apparizioni angeliche in forma umana, ricordiamo quella ad Agar, che sulle prime non capì di avere di fronte un Messaggero: “La trovò l’angelo del Signore presso una sorgente d’acqua nel deserto, la sorgente sulla strada di Sur, e le disse «Agar, schiava di Sarai, da dove vieni e dove vai?». Rispose «Fuggo dalla presenza della mia padrona Sarai»” (Genesi 16. 7,8).

Luca allora qui non parla di una visione, ma della comunicazione di un messaggio a Maria cui alcuni manoscritti minori aggiungono “tu sei benedetta tra le donne”, precisazione tutto sommato inutile dato il ruolo che la promessa sposa di Giuseppe avrebbe avuto. “Favorita dalla grazia” è la traduzione di un aggettivo greco che non si trova negli autori classici e, negli scritti neotestamentari, viene usato solo in Efesi 1.6 in cui leggiamo “…a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato”. Maria, come essere umano e quindi con una genealogia propria (vedi Luca) non poteva essere “piena di grazia”, ma una favorita da essa così come lo furono tutti quegli uomini e quelle donne che ricevettero un compito spirituale importante e unico nella storia della salvezza che troviamo dalla Genesi in poi. È un concetto che viene confermato dallo stesso Gabriele che le disse “Non temere, Maria, poiché tu hai trovato grazia presso Dio” (v.30) là dove il “trovare grazia” implica il perdono, la salvezza, il favore dell’Iddio che salva ed elegge a suo giudizio insindacabile.

Nella grazia c’è sempre un qualcosa che sfugge al beneficiario perché questi sa benissimo che consiste in un favore immeritato. Ed è così da sempre. Maria trovò grazia nel senso che Dio la scelse come madre del corpo del proprio Figlio e l’annuncio non fu rivolto a una donna sterile, ma a una vergine che comprese che il concepimento si sarebbe verificato prima del suo matrimonio con Giuseppe, che, secondo tradizione, avrebbe potuto celebrarsi dopo sei mesi o un anno dall’ufficializzazione del fidanzamento.

Veniamo all’annuncio angelico: Maria avrebbe dato alla luce un figlio e lo avrebbe chiamato Gesù (“YHWH salva”), secondo nome ad essere imposto nei Vangeli dopo quello di Giovanni (“Dio è misericordioso”). Vengono date poi le cinque caratteristiche che avrebbe avuto: “sarà grande (1) e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo (2); il Signore Dio gli darà il trono di Davide (3)suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe (4) e il suo regno non avrà mai fine (5)”.

Soffermandoci sulle ultime tre, possiamo leggere le parole che il Signore disse a Davide in 2 Samuele 7.12-13 “Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu riposerai coi tuoi padri, io innalzerò dopo di te la tua discendenza che uscirà dalle tue viscere e stabilirò il suo regno. Egli edificherà una casa al mio Nome e io renderò stabile per sempre il mio regno”. Ancora in Salmo 89.35-37 “Ho giurato una volta per la mia santità e non mentirò a Davide; la sua progenie durerà in eterno e il suo trono sarà come il sole davanti a me. Sarà stabile per sempre come la luna, e il testimone nel cielo è fedele”.

Il regnare “sulla casa di Giacobbe nei secoli” è riferito alla totalità di Israele visto nelle 12 tribù che lo compongono, corrispondenti appunto agli altrettanti figli di Giacobbe e relativa discendenza. Le parole dell’angelo Gabriele prendono così in considerazione tutta la storia umana a partire dal presente (“Tu hai trovato grazia presso Dio”), anticipato da Isaia 7.14 “Il Signore stesso vi darà un segno: ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio, e gli porrà il nome Emmanuele” che significa “Dio con noi”. È importante sottolineare che questo figlio sarebbe nato da una vergine, fatto certamente impossibile senza un intervento di Dio. Era un piano da Lui preordinato, rivelato ad Isaia che lo trasmise, che trova nell’annuncio a Maria un importante passo avanti nella sua realizzazione finale, quella del regno che non avrà fine e inizierà una volta distrutto l’avversario coi suoi angeli.

Si tratta di un annuncio importante, che nulla ha a che vedere con la Terra e il mondo che conosciamo, destinato a logorarsi “come un vestito” (Isaia 51.6); Isaia, che visse nell’VIII secolo a.C. scrisse “Alzate i vostri occhi e guardate la terra di sotto, poiché i cieli si dissolveranno come fumo e la terra si logorerà come un vestito e i suoi abitanti moriranno come larve”. Pensiamo a quando Gesù disse “Il mio regno non è di questo mondo”, riferendosi al fatto che non solo è transitoria la vita che viviamo, ma la Terra stessa, perché “il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”: ecco perché quel regno sarà stabile per sempre, in “nuovi cieli e nuova Terra”.

La replica di Maria all’angelo denota stupore, non incredulità, perché la Vergine conosceva molto bene la sua condizione di promessa sposa e che il rapporto che la legava a Giuseppe fino ad allora escludeva rapporti carnali: “Come avverrà questo, perché non conosco uomo?”. A questo punto Gabriele le spiega che la nascita di Gesù sarebbe avvenuta senza il naturale concorso umano, ma sarebbe stata il risultato di un’operazione congiunta di due elementi, lo “Spirito Santo” e la “potenza di Dio“ che già furono attive in un tempo a noi sconosciuto quando furono creati il cielo e la terra. Chiaramente lo Spirito Santo è quello “Spirito di Dio che aleggiava sulle acque” dell’eternità nel nulla, di quello spazio informe e vuoto che caratterizzava l’ambiente di allora: quello stesso Spirito sarebbe sceso su Maria occupandosi direttamente, personalmente della formazione del feto e del suo sviluppo mediante la potenza di Dio. Ricordiamo le parole del Salmo 119.73: “Le tue mani mi hanno fatto e formato; dammi intelligenza perché io possa imparare i tuoi comandamenti”. Non credo sia azzardato affermare che lo Spirito Santo si occupò dell’intelligenza del Bambino e la potenza di Dio Padre della costituzione del Suo corpo cellula dopo cellula: “Io ti celebrerò, perché sono stato fatto in modo stupendo. Meravigliose sono le tue opere e l’anima mia lo sa molto bene” (Salmo 139.14), parole che si riferiscono certamente alla biologia naturale, ma che chiamano in causa l’interesse personale di Dio in quell’intervento “stupendo”: una vergine avrebbe concepito e partorito un figlio, quello promesso che, in quanto tale, sarebbe stato chiamato “Figlio di Dio”, che lo avrebbe distinto da Giovanni Battista, anch’esso definito “grande”, ma con l’aggiunta delle parole “davanti a Dio”.

A questo punto leggiamo che Gabriele parla a Maria con termini tesi a rafforzare la sua fede: non sappiamo cosa stesse facendo quella giovane nel momento in cui l’angelo entrò in casa sua. Forse pensava alle sue imminenti nozze, o ordinava la sua dimora, o preparava il pranzo o la cena; di certo non pensava di essere diversa dalle sue coetanee e ignorava il piano di Dio per lei, come tutti gli uomini e donne vissute prima e che avrebbero occupato il mondo nelle generazioni successive.

Certo Maria non udì, nel frangente di questo episodio, parole ordinarie e sicuramente il turbamento seguito alla visione di Gabriele non era svanito: l’Angelo le porta il caso Elisabetta sua parente, incinta al sesto mese nonostante fosse stata “chiamata sterile, perché nulla è impossibile con Dio”. Ciò dovette immediatamente richiamarle alla memoria quanto risposto a Sara, moglie di Abrahamo, che aveva espresso dei dubbi in merito alla sua futura gravidanza definendosi “vecchia” e “avvizzita”: “Perché Sara ha riso dicendo «Potrò davvero partorire, mentre sono vecchia?» C’è forse qualcosa d’impossibile per il Signore?” (Genesi 18.12,13).

Ecco, il riferimento ad Elisabetta era teso a confermare a Maria quanto fossero veritiere le parole di Gabriele. Sappiamo che il carattere della madre (del corpo) di Gesù era prudente e riflessivo e che lei non capì subito, come molti commentatori – cattolici e non – sostengono, la reale portata del messaggio angelico; fatto sta che si rese immediatamente disponibile: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola” (v.38). Maria, quindi, non chiese un segno né altri ragguagli, ma conscia di entrare nel Piano di Colui presso il quale non vi è nulla di impossibile, si pone nella condizione della serva, cioè della persona la cui volontà non conta nulla di fronte a quella del suo Signore.

Maria accettò incondizionatamente il compito che le veniva affidato senza chiedere nulla in cambio.

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01.03 – ZACCARIA (Luca 1. 18-25)

18Zaccaria disse all’angelo: «Come potrò mai conoscere questo? Io sono vecchio e mia moglie è avanti negli anni». 19L’angelo gli rispose: «Io sono Gabriele, che sto dinanzi a Dio e sono stato mandato a parlarti e a portarti questo lieto annuncio. 20Ed ecco, tu sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole, che si compiranno a loro tempo».21Intanto il popolo stava in attesa di Zaccaria e si meravigliava per il suo indugiare nel tempio. 22Quando poi uscì e non poteva parlare loro, capirono che nel tempio aveva avuto una visione. Faceva loro dei cenni e restava muto. 23Compiuti i giorni del suo servizio, tornò a casa. 24Dopo quei giorni Elisabetta, sua moglie, concepì e si tenne nascosta per cinque mesi e diceva: 25«Ecco che cosa ha fatto per me il Signore, nei giorni in cui si è degnato di togliere la mia vergogna fra gli uomini».”.

 

            Con questi versi si conclude l’episodio dell’annuncio angelico a Zaccaria, sacerdote impegnato nell’offerta dell’incenso all’altare del luogo Santo. Dalla lettura del primo verso, il 18, emerge un dato già esposto nello studio precedente, dove abbiamo letto che “Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni”: Zaccaria si definisce “vecchio” e per sua moglie usa la stessa espressione dell’evangelista, “avanti negli anni”. Sappiamo che tutti coloro che prestavano servizio al Tempio dovevano avere un’età compresa fra i “trenta e i cinquant’anni” (Numeri 3) per cui quel sacerdote doveva necessariamente non averli ancora raggiunti. Indicando Elisabetta come persona “avanti negli anni”, poi, usava un’espressione che alludeva all’età fertile della donna che, al suo grado massimo dei 20 – 25 anni decresce fino ad arrivare allo zero attorno ai 44, per quanto oggi questo limite sia stato superato. Essendo Elisabetta sterile, in pratica Zaccaria vedeva una doppia impossibilità in sua moglie a partorire anche tenendo presente gli anni che aveva lui stesso, poiché anche gli uomini, sposandosi giovanissimi secondo la nostra ottica occidentale, avevano figli a un’età compresa tra i 14 e i 16 anni.

Pensando queste cose nell’immediatezza dell’annuncio, Zaccaria chiede all’angelo un segno, perché la traduzione letterale della domanda è “Da che cosa conoscerò questo?”; si tratta di una richiesta apparentemente identica ad altre che troviamo negli scritti dell’Antico Patto fatte in situazioni analoghe: pensiamo ad Abramo che, riferendosi al territorio che Dio gli aveva promesso, chiese “Signore Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?” (Genesi 15.8). Possiamo ricordare anche Gedeone che disse “Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, dammi un segno che proprio tu mi parli” (Giudici 6.17), per non dire di Maria stessa, madre di Gesù che, quando lo stesso angelo Gabriele le annuncerà la nascita di un figlio, chiederà “Come avverrà questo, perché non conosco – nel senso di avere rapporti coniugali – uomo?”.

            Riguardo alle parole di Zaccaria, molti commentatori hanno difficoltà a capire come mai fu punito per avere rivolto a Gabriele una domanda che, in fin dei conti, altri avevano porto senza subire conseguenze. Va detto che in tutti i tre i casi ricordati c’era già stato, a monte, il credere nelle promesse di Dio: Abramo chiese un segno dopo aver creduto alla promessa che avrebbe avuto una discendenza e Gedeone era veramente desideroso di capire perché erano avvenuti determinati avvenimenti negativi al suo popolo: senza preconcetti e riserve chiese all’angelo “Perdona, mio signore: se il Signore è con noi, perché ci è capitato tutto questo?”. Maria, infine, non manifestò dubbi sul fatto che avrebbe dato alla luce il figlio annunciato, ma chiese come sarebbe stato possibile visto che non era ancora sposata e con Giuseppe non aveva avuto rapporti. Tutti questi personaggi, quindi, rivolsero domande legittime, dettate dal voler capire e sapere, ma Zaccaria non volle tener conto di alcuni elementi che gli sarebbero stati sufficienti per accogliere il messaggio rivoltogli.

L’apparizione dell’Angelo accanto all’altare dell’incenso, quindi nel luogo Santo inaccessibile a chiunque pena la morte, era già garanzia di un evento soprannaturale. “La tua preghiera è stata esaudita” era poi un’affermazione che chiaramente si riferiva a qualcosa di molto personale che solo Zaccaria e Iddio potevano conoscere, per cui da quell’annuncio avrebbe potuto avere solo gioia e non dubbio. Ricordiamo che Natanaele riconobbe in Gesù “il Figlio di Dio, il Re d’Israele” solo perché gli disse di averlo visto sotto un albero di fichi. Zaccaria quindi, uomo pio che camminava con Elisabetta “in tutti i comandamenti del Signore, senza biasimo”, in quel caso non credette e perciò fu punito – o meglio ebbe nel mutismo il “segno” chiesto – rimanendo incapace prima di tutto di pronunciare quelle parole di benedizione che il popolo aspettava nel Tempio e poi di comunicare col suo prossimo: “Intanto il popolo stava in attesa di Zaccaria e si meravigliava per il suo indugiare tanto nel tempio” (v.21).

Teniamo presente che Zaccaria non chiese un segno sul fatto che sua moglie avrebbe un giorno partorito, ma pretendeva, dopo tutte le dettagliate descrizioni su cosa suo figlio avrebbe rappresentato e le caratteristiche che avrebbe avuto, un segno che le confermasse.

Con le parole “Io sono Gabriele, che sto davanti a Dio, e sono stato mandato per parlarti e portarti questo lieto annuncio”, l’angelo ricorda la sua dignità e funzione di messaggero potente: prima di lui era apparso soltanto a Daniele rivelandogli la visione dell’ariete e del capro (Daniele 8. 16-26) oltre al mistero delle settanta settimane di anni (9. 21-27). Certo Zaccaria aveva quanto meno sottovalutato la portata dell’annuncio e di colui che gli aveva parlato: “sto davanti a Dio” ci rimanda ad Apocalisse 8.2, all’apertura del settimo sigillo, “Quando l’Agnello aprì il settimo sigillo, si fece silenzio per circa mezz’ora. E vidi i sette angeli che stanno davanti a Dio, e a loro furono date sette trombe”. Gabriele, il cui nome significa “Uomo di Dio”, aveva onorato Zaccaria della sua presenza, senza contare il fatto che lo stesso Iddio l’Iddio di Israele aveva accolto la sua preghiera e della moglie e li aveva designati per essere i genitori del precursore del Suo Amato Figlio. Quell’uomo sarebbe rimasto così muto “fino al giorno in cui queste cose avverranno”, in realtà anche sordo perché leggiamo che, quando i suoi vicini e parenti volevano avere conferma sul nome di suo figlio, “domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse” (Luca 1.62).

Zaccaria, in quel suo isolamento di circa nove mesi, ebbe modo così di riflettere su cosa significasse l’appartenere a quel Dio che un giorno disse a Mosè “Chi ha dato una bocca all’uomo o chi lo rende muto o sordo, veggente o meno?” (Esodo 4.11). Fu così che Zaccaria non si allontanò da Lui ritenendosi offeso o colpito ingiustamente, ma una volta riacquistate le sue normali facoltà esplose in un cantico che, se ne avremo la possibilità, esamineremo.

Zaccaria è per noi l’esempio di un uomo che dà per quello che è, conscio della responsabilità che aveva come sacerdote che per quanto era in suo potere, con un cuore desideroso di rimanere in comunione con Dio nella dispensazione in cui viveva, fece emergere la sua umanità là dove non avrebbe dovuto. Come mi disse un giorno un fratello, “si distrasse”. Zaccaria non ritenne il giudizio dell’angelo su di lui come qualcosa di eccessivo come Caino, che disse “Il mio castigo è troppo grande perché io lo possa sopportare” (Genesi 4.13) e poi si allontanò dalla presenza di YHWH, ma si identificò nelle parole di Proverbi 3.11,12 “Figlio mio, non disprezzare la punizione dell’Eterno e non detestare la sua correzione, perché il Signore corregge colui che gli ama, come un padre il figlio che gradisce”. È questo un verso importante che l’autore della lettera gli Ebrei commenta così: “È per vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non viene corretto dal padre? Se invece non subite correzione, mentre tutti ne hanno avuto la loro parte, siete illegittimi, non figli! Del resto noi abbiamo avuto come educatori i nostri padri terreni e li abbiamo rispettati; non ci sottometteremo perciò molto di più al Padre celeste, per avere la vita? Costoro infatti ci correggevano per pochi giorni, come sembrava loro; Dio invece lo fa per il nostro bene, allo scopo di farci partecipi della sua santità. Certo, sul momento ogni correzione non sembra causa di gioia, ma di tristezza. Dopo, però, arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati” (12. 7-11).

Giunti a questo punto non va trascurato un altro elemento dell’episodio, un protagonista apparentemente passivo che individuo nel popolo presente nei cortili del tempio che aspettava la benedizione che quel sacerdote non poteva pronunciare perché muto. Leggiamo “Capirono che nel tempio aveva avuto una visione. Faceva loro dei cenni, e restava muto” (v. 22). Il popolo fu testimone del primo evento ufficiale della manifestazione di Dio e chi avesse voluto indagare, come fece Luca, sulla persona del Battista, avrebbe potuto avere un primo elemento relativo all’autorità con la quale predicava. Figlio di sacerdoti va bene, ma annunciato con quelle manifestazioni era tutt’altra cosa. La stessa cosa si sarebbe potuta fare sulla persona di quel Gesù che diceva di essere il Cristo: esisteva un piano, una linea di eventi a catena inconfutabili.

Zaccaria rimase a Gerusalemme fino al termine della settimana di servizio che doveva prestare la sua classe e quindi se ne tornò a casa, che pare sia stata a Jutta, a poco più di sei chilometri dalla città. Secondo la promessa, Elisabetta rimase gravida, ma “si tenne nascosta cinque mesi”, cioè aspettando il sesto, quando il feto è già completamente formato, è in grado di sentire i suoni, le voci e si posiziona gradualmente a testa in giù in vista del parto. Mi sono chiesto perché Elisabetta si comportò in questo modo: penso che il suo fu un comportamento dettato dalla prudenza in considerazione della sua età avanzata oppure, dovendo essere Giovanni un nazireo, non voleva contrarre nessuna impurità. Alla moglie di Manoah, citata nella scorsa riflessione, fu detto “Guardati dal bere vino o bevanda inebriante e non mangiare nulla di impuro poiché ecco, tu concepirai e partorirai un figlio sulla cui testa non passerà rasoio, perché il bambino sarà un nazireo di Dio fin dal seno materno” (Giudici 13.4,5). Ancora, uno dei motivi del suo tenersi nascosta, poteva risiedere nel fatto che Elisabetta non desiderasse esporsi alla curiosità dei vicini dando così prova, oltre che di prudenza, di riservatezza, qualità non comuni soprattutto oggi, tanto nella donna che nell’uomo.

01.02- L’ANNUNCIO A ZACCARIA (Luca 1. 7-17)

 

7Essi non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni.
8Avvenne che, mentre Zaccaria svolgeva le sue funzioni sacerdotali davanti al Signore durante il turno della sua classe, 9gli toccò in sorte, secondo l’usanza del servizio sacerdotale, di entrare nel tempio del Signore per fare l’offerta dell’incenso. 10Fuori, tutta l’assemblea del popolo stava pregando nell’ora dell’incenso. 11Apparve a lui un angelo del Signore, ritto alla destra dell’altare dell’incenso. 12Quando lo vide, Zaccaria si turbò e fu preso da timore. 13Ma l’angelo gli disse: «Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, e tu lo chiamerai Giovanni. 14Avrai gioia ed esultanza, e molti si rallegreranno della sua nascita, 15perché egli sarà grande davanti al Signore; non berrà vino né bevande inebrianti, sarà colmato di Spirito Santo fin dal seno di sua madre 16e ricondurrà molti figli d’Israele al Signore loro Dio. 17Egli camminerà innanzi a lui con lo spirito e la potenza di Elia, per ricondurre i cuori dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popolo ben disposto».”.

                Considerando l’annuncio angelico a Zaccaria e la circostanza in cui avvenne, non si può trascurare la sterilità di Elisabetta la cui esperienza, per come si svilupperanno gli eventi, ha connessione con quella di altre donne dei tempi dell’Antico Patto: ricordiamo Sara moglie di Abramo, Rebecca di Isacco, Rachele di Giacobbe, la moglie di Manoah (Giudici 13.2), Anna di  Elkanà (1 Samuele 1.2), tutte costoro cambiarono la loro condizione a seguito di un intervento di Dio. Tra queste donne vi fu chi ricevette la visita di un angelo ad annunciare loro l’imminente nascita di un figlio (Sara e la moglie di Manoah) e chi venne esaudita a seguito di una preghiera loro (Rachele e Anna) o del marito (Rebecca). Questo dato verrà utile quando affronteremo la personalità del sacerdote Zaccaria cui “…toccò in sorte, secondo l’usanza del servizio sacerdotale, di entrare nel tempio del Signore per fare l’offerta dell’incenso” (v.8). A quel tempo infatti si decideva tirando a sorte chi degli 800 sacerdoti della classe di Abia avrebbe avuto il privilegio di offrire ogni giorno l’incenso nel Santo, cioè la prima delle due stanze che costituivano il tabernacolo all’interno del quale vi era l’altare dei profumi. In Esodo 30.7,8 leggiamo: “Aaronne brucerà su di esso l’incenso aromatico: lo brucerà ogni mattina, quando riordinerà le lampade, e lo brucerà anche al tramonto, quando Aaronne riempirà le lampade: incenso perenne davanti al Signore di generazione in generazione”.

Vanno considerate le parole di Dio a Mosè riguardo all’incenso: “Procurati balsami: storace, onice, galbano e incenso puro, il tutto in parti uguali. (…) Non farete per vostro uso alcun profumo di composizione simile a quello che devi fare: lo riterrai una cosa santa in onore del Signore. Chi ne farà di simile per sentirne il profumo sia eliminato dal suo popolo” (Esodo 30. 24-38).

Qui notiamo alcuni particolari: tutte le sostanze che componevano l’incenso sono balsami, cioè atti a lenire sofferenza per arrecare conforto, sollievo, consolazione. Secondo altre traduzioni erano “aromi”, cioè sostanze avente una caratteristica olfattiva propria, che la distingueva dalle altre. Erano tutte resine o comunque estratti mediante sofferenza degli esseri viventi – pensiamo all’onice, tradotto altrove con “conchiglia profumata” – da cui venivano ricavate. L’incenso per quell’uso doveva essere composto da elementi in parti uguali, in perfetto equilibrio tra loro, e doveva essere unico, il solo che sarebbe stato gradito a Dio, “una cosa santa in onore del Signore”: bruciato, sprigionava un profumo che non poteva essere riprodotto per curiosità o usi umani, pena la morte.

L’offerta dell’incenso avveniva su un altare ad esso dedicato e, se accompagnava le offerte sacrificali, questo era escluso da quelli compiuti per i peccati (Levitico 5.11 “Non metterà su di essa né incenso né olio perché è un sacrificio per il peccato” e Numeri 5.15 “Non vi verserà sopra né olio né vi metterà sopra incenso, perché è un’oblazione di cibo per gelosia, un’oblazione commemorativa destinata a ricordare una colpa”). Bruciare quell’incenso, allora, simboleggiava la preghiera di ringraziamento e di adorazione a Dio che non poteva venire inquinata dal peccato, ma aveva riferimento alla purezza di cuore, un’offerta unica riservata al solo Creatore e Signore dell’uomo come leggiamo in Salmo 141.2: “Salga la mia preghiera davanti a te come l’incenso, l’elevazione delle mie mani come il sacrificio della sera”. E nel libro dell’Apocalisse abbiamo dei riferimenti, come in 5.8 in cui si parla di “…profumi, che sono le preghiere dei santi”.

Quell’incenso, per il significato che aveva, non poteva essere prodotto per usi personali perché stava a simboleggiare un atteggiamento, una destinazione che spettava al solo Dio col quale l’uomo non poteva competere e realizzare quella sostanza per scopi diversi dall’adorazione veniva punita con la morte. Per la dispensazione della Legge vigeva il principio “Così toglierai il male di mezzo da te” (Deuteronomio 13.5). L’Oriente aveva profumi e incensi per gli usi più disparati, ma uno solo, quello con la composizione indicata in Esodo, spettava all’Iddio che Israele avrebbe dovuto adorare.

Se l’incenso aveva connessione con la preghiera e l’adorazione, è importante Esodo 30.9 in cui, a proposito dell’altare su cui veniva bruciato, si legge “Non vi verserete sopra incenso illegittimo, né olocausto, né oblazione, né vi verserete libagione”: sono parole che ci aiutano a capire il concetto di preghiera di offerta cristiana oggi, che non può contenere contraddizioni o disarmonie pena suo rifiuto, come ad esempio ricordato nel “Padre Nostro” con le parole “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”, ma anche nella parabola del servo spietato (Matteo 18.21-35) e da altri elementi che Gesù porrà all’attenzione del suo uditorio.

A proposito della preghiera Giacomo, il “fratello del Signore”, scrive “Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per spendere per i vostri piaceri” (4.2,3).

L’offerta di quell’incenso così unico che il sacerdote offriva aveva due scopi: sottolineare e accompagnare la preghiera per l’unico Dio e, simbolicamente, annunciare il sacrificio del Cristo che si sarebbe offerto a Lui: “Cristo ci ha amati e ha dato se stesso per noi, in offerta e sacrificio a Dio come un profumo di odore soave” (Efesi 5.2). E lo scopo del sacrificio di Cristo è stato quello di “Sottrarci dal presente malvagio secolo secondo la volontà di Dio nostro Padre” (Galati 1.4), con particolare riguardo al destino comune di tutti quanti si identificano nel “malvagio secolo” condividendone ideali, prospettive e metodi. “Sottrarre” qui è da intendersi coi suoi sinonimi: salvare, liberare da un pericolo, salvaguardare da un danno.

L’incenso veniva offerto al mattino alle nove e al pomeriggio alle 15, preghiera per il giorno e per la notte, ma anche di attesa messianico: sarebbe venuto un tempo in cui quell’offerta avrebbe perso il suo significato, sostituito da un profumo di ben altra portata, definitivo, “il sacrificio di odor soave” di cui Paolo ha scritto ai credenti della Chiesa di Efeso.

 

Ora l’offerta dell’incenso fu per Zaccaria, che non aveva ancora compiuto 50 anni età in cui sarebbe stato messo a riposo, fu il punto culminante della sua carriera sacerdotale e alcuni hanno supposto che l’apparizione dell’Angelo avvenne nel corso dell’ufficio considerato serale, deducendolo dalla presenza di “tutta l’assemblea del popolo” che pregava.

Ecco, qui appare l’angelo “a destra dell’altare”, riferimento all’autorità e posizione che Gabriele aveva in relazione all’offerta dell’incenso. Si noti che l’altare, che era un parallelepipedo in legno di acacia rivestito d’oro, era il punto dal quale partiva l’offerta: l’altare di legno raffigurava l’uomo, il rivestimento d’oro ciò che allora era irraggiungibile e l’incenso offerto, nella composizione stabilita, era un ulteriore simbolo di perfezione, di preghiera accettata pienamente da Dio. L’angelo Gabriele era a destra di tutto questo. Non poteva esserci posizione più autorevole in testimonianza aggiunta a quanto stava per rivelare.

Zaccaria, alla vista dell’angelo, si spaventò. In tutta la Scrittura c’è sempre questa reazione nel momento in cui l’uomo incontra un essere spirituale e soprattutto santo, ma fu da lui immediatamente rassicurato con quel “Non temere” che compare in tutta la Bibbia per 356 volte, tanti sono i giorni dell’anno. Le prime parole, “Non temere”, furono quindi per lui e subito dopo gli viene detto che la sua preghiera era stata esaudita, in particolare quella di avere un figlio perché gli israeliti temevano che la propria casata potesse estinguersi e, infatti, la sterilità della donna era vista come una maledizione. Poi l’annuncio si sposta su qualcosa di inaspettato, cioè il nome da dare al figlio che avrebbe avuto da Elisabetta: Giovanni, che significa “Dio fa grazia”, oppure secondo altri “Dio ha esaudito”, o “Dio ascolta”, entrambi compresi nel primo. Qui abbiamo un caso particolare perché dare il nome al proprio figlio era un atto che competeva al padre. Giovanni sarebbe stato quindi una persona che avrebbe avuto una funzione precisa a prescindere dalla volontà umana e il suo nome, comandato dall’Alto e non scelto dal padre naturale, è indicativo per designare la sua missione di precursore del Messia continuamente ricordata, anche con riferimenti agli scritti dell’Antico Patto, da Matteo.

Veniamo al contenuto dell’annuncio: Gabriele dà a Zaccaria otto informazioni su Giovanni la prima delle quali è “Molti si rallegreranno della sua nascita”, che allude non tanto alla gioia che porta l’arrivo di un figlio desiderato ai genitori e ai parenti solidali con loro, ma a quella di tutti coloro che in Israele avrebbero creduto all’annuncio dell’imminente arrivo del Messia facendosi battezzare come testimonianza del loro ravvedimento. Sono convinto che, fra questi “molti”, siano inclusi anche tutti quegli esseri spirituali che, presenti nella Corte Celeste, vedevano il piano di Dio avanzare verso la meta perfetta, la costituzione della Gerusalemme celeste che avverrà dopo la definitiva sconfitta dell’Avversario e il Giudizio sull’umanità.

Il secondo dato è “Sarà grande nel cospetto del Signore”, descrizione del carattere, delle fatiche e della relazione di Giovanni con il Messia, per non parlare del fatto che sarebbe stato formato dallo Spirito Santo nella sua vita preparatoria nel deserto: “Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito, e rimase nei deserti fino al giorno in cui doveva manifestarsi ad Israele” (Luca 1.80). La “grandezza” di cui parla l’angelo si sarebbe rivelata anche esteriormente col non bere “nè vino, né cervogia”, tradotto anche con “bevanda inebriante”, che poteva essere o l’antenata della birra, ottenuta dalla fermentazione di orzo e avena definita dai romani “barbaro vino d’orzo”, oppure un liquido ottenuto da fichi e datteri fermentati. Con queste parole Gabriele comunica a Zaccaria che suo figlio sarebbe stato un nazireo, cioè un consacrato, simbolo vivente della santità che trovava al suo opposto il lebbroso, considerato il simbolo vivente del peccato. Riflettendo sul nazireato in generale, bisogna sottolineare che se il separarsi dagli altri era volontario e temporaneo, per Giovanni sarebbe stata una condizione costante della sua vita, “fin dal ventre di sua madre” come lo furono Sansone e Samuele. Il Battista quindi sarebbe stato il terzo nazireo nella storia di Israele.

La quarta caratteristica sarebbe stata “ripieno dello Spirito Santo fin dal ventre di sua madre” cioè: in opposizione al vino e a ciò che inibisce le facoltà mentali, abbiamo tutta l’assistenza e l’amore di cui Giovanni avrebbe beneficiato in vista del compito che lo avrebbe atteso. Segue poi il risultato delle sue fatiche, quinto dato, viste nel convertire “molti dei figli di Israele all’Iddio loro”. Il messaggio del precursore sarà incentrato sul ravvedimento, sul cambiare il modo di pensare in vista dell’arrivo di Gesù: “Giovanni comparve nel deserto, battezzando e predicando un battesimo di ravvedimento per il perdono dei peccati. E tutto il paese della Giudea e quelli di Gerusalemme andavano a lui ed erano tutti battezzati da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati” (Marco 1.4,5).

Andrà innanzi a lui nello spirito e virtù di Elia”, sesto dato, denota la volontà e il desiderio unito alla forza e all’azione che aveva avuto Elia, suscitato come profeta e riformatore religioso in Israele nei giorni forse più oscuri della sua storia, quando Achab e sua moglie Jezebel avevano sostituito il culto di Baal al posto di quello per YHWH cercando di sterminare tutti i Suoi profeti. A questo punto non si può omettere la citazione di Malachia 4.5 “Ecco, io vi manderò Elia il profeta, prima che venga il giorno grande e spaventevole dell’Eterno”, parole che vennero spiegate da Gesù con “Tutta la Legge e i profeti hanno profetizzato fino a Giovanni. E se lo volete accettare, lui è l’Elia che doveva venire” (Matteo 11. 13,14).

Se poi confrontiamo le parole successive, “per ricondurre il cuore dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti” con quelle di Malachia 4.6 “Fara ritornare il cuore dei padri ai figli e il cuore dei figli ai padri”, abbiamo l’espressione del concetto secondo cui appropriarsi del messaggio di Giovanni avrebbe implicato ammettere di non avere altre alternative all’infuori del ravvedimento, del cambiare modo di pensare ed agire indipendentemente dal fatto di essere padri o figli: “Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Matteo 3.2) è un messaggio che riguardava la totalità del popolo.

Abbiamo infine lo scopo finale, l’ottavo e ultimo: “Preparare al Signore un popolo ben disposto”: con la sua predicazione, con il battesimo del ravvedimento, Giovanni avrebbe preparato il popolo a riconoscere il Cristo di Dio e lo indicò personalmente dicendo “Ecco l’Agnello di Dio che toglie il peccato del – non “dal” – mondo” facendo così emergere il fatto che c’era un popolo teorico, quello di Israele, e un popolo vero costituito da tutti coloro che, appartenendo a lui, avrebbero accettato la predicazione di quell’Agnello.

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01.01- ERODE, ZACCARIA, ELISABETTA (Luca 1.5-6)

01.01- Erode, Zaccaria, Elisabetta (Luca 1.5-6)

5Al tempo di Erode, re della Giudea, vi era un sacerdote di nome Zaccaria, della classe di Abia, che aveva in moglie una discendente di Aronne, di nome Elisabetta”. 6Ambedue erano giusti davanti a Dio e osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore”.

                 Nella riflessione precedente abbiamo accennato a come, per iniziare la lettura dei Vangeli, siano possibili delle alternative al prologo di Giovanni citando Matteo e Luca: il primo inizia dalla dignità regale di Gesù con una genealogia che parte da Abramo e il secondo, dopo la dedica a Teofilo – Sommo Sacerdote in Gerusalemme dal 37 al 41 – e una breve introduzione in cui illustra i metodi di indagine che caratterizzeranno la sua opera, colloca storicamente il suo primo episodio, l’annuncio dell’angelo Gabriele a Zaccaria.

Con le parole “Al tempo di Erode, re della Giudea” Luca ci pone negli anni tra il 40 a.C. e il 4 d.C. ma dobbiamo tener presente che, quando si parla di date, queste non possono essere prese con assoluta certezza stante l’errore di calcolo che commise Dionigi il Piccolo nel 525 d.C.: monaco sciita in Roma, Dionigi venne incaricato da Papa Giovanni I di stabilire una data per la Pasqua che, fin dal III secolo, veniva ricordata in tempi differenti dalla Chiesa d’Oriente e da quella d’Occidente. Per questo calcolo, molto complesso in cui non entro nei dettagli, Dionigi il Piccolo non volle contare gli anni, come in uso a quel tempo, a partire dal giorno in cui Diocleziano salì al trono e lasciò scritto così: “Non vogliamo che nei nostri calcoli c’entri in alcun modo la persona di un persecutore, ma piuttosto che occorra prendere in considerazione la nascita di Nostro Signore Gesù Cristo”. Dionigi stabilì così che il Salvatore fosse nato nell’anno 1 facendolo coincidere col 753 dalla fondazione di Roma, ma sbagliò di almeno quattro anni. Tenere presente questo errore è importante perché, consultando dei testi storici, ci potrebbero essere delle discrepanze che potrebbero disorientare.

Altra considerazione su “Al tempo di Erode” va fatta sul personaggio che, coi suoi eredi, domina la scena evangelica in una sorta di “dietro le quinte”, emergendo a volte in tutta la sua brutalità. Non è un personaggio che possiamo ignorare perché è il primo a venire citato storicamente dopo Teofilo, se iniziamo il nostro viaggio a partire da Luca.

Al tempo di Erode” è allora la scena di apertura che allude ad un’epoca molto triste per gli ebrei: Israele si trovava sotto il dominio straniero ed era senza profeti da circa 430 anni, tanti sono quelli che separano Malachia, ultimo dell’Antico Patto che conclude il suo scritto con la parola “sterminio”, da Giovanni Battista, che funge da spartiacque tra Antico e Nuovo.

Capire Erode, che non fu migliore o peggiore rispetto ai tanti re, imperatori o “guide” che hanno governato regioni più o meno estese del pianeta in ogni tempo, è necessario anche se si tratta di una figura non certo edificante. Quasi tutte le notizie che abbiamo su di lui ci provengono da Giuseppe Flavio, storico nato nel 37 a.C. a Gerusalemme, autore delle “Guerre Giudaiche” e delle “Antichità Giudaiche”.

 

Il padre di Erode, Antipatro, era ministro di Ircano II re di Giudea membro della dinastia degli Asmonei e, col favore di Giulio Cesare, riuscì ad usurpare l’autorità del suo principe ed essere nominato amministratore della regione. Quando Antipatro fu assassinato nel 43 (o nel 44) a.C., gli successero i figli Fasaele, descritto come nobile e coraggioso che divenne governatore della Galilea fino al 40 a.C., ed Erode, cui fu data la Giudea con Gerusalemme. Erode, detto il Grande, fu un politico astuto che favorì prima Marco Antonio e poi, dopo la di lui sconfitta ad Anzio nel 31, fece subito visita al suo rivale Ottaviano a Rodi togliendosi la corona in sua presenza e giustificandosi dell’appoggio dato ad Antonio, ma gli venne restituita e, con decreto, gli fu riconfermato il potere con godimento di autonomia interna e di libertà dai tributi a Roma, restando a lei soggetto nelle questioni di guerra e di politica estera. A Roma salì così sul Campidoglio per offrire sacrifici di ringraziamento a Giove Capitolino.

Gli anni dal 37 al 25 furono utili ad Erode soprattutto per consolidare il suo potere e furono caratterizzati dalla fredda, sistematica eliminazione di chiunque avrebbe potuto contestare o contrastare la sua autorità; ricordiamo fra i tanti il sedicenne Aristobulo III che in precedenza aveva nominato sommo sacerdote, fatto affogare in una piscina; ricordiamo come sue vittime anche Giuseppe, marito di sua sorella Salome, Ircano II, la moglie Mariamme e la suocera Alessandra. La sua crudeltà, fondata su un’ambizione insaziabile, era notoria ed era circondato da intrighi e cospirazioni che lo fecero combattere per la sua stessa sopravvivenza.

Gli anni dal 25 al 13 furono dedicati alla promozione culturale del suo regno, finanziata soprattutto con le tasse: favorì il culto dell’imperatore e, per rendere grandiosa la celebrazione quadriennale che si faceva, provvide alla costruzione di templi in suo onore, teatri, ippodromi, palestre, bagni e nuove città. A Gerusalemme edificò un teatro, un anfiteatro, parchi, giardini, fontane, un palazzo reale e la fortezza Antonia per poi procedere, nel tentativo di ingraziarsi il favore del popolo, alla magnifica costruzione di quel Tempio che, quanto ai cortili, fu completato verso il 63 d.C., otto anni prima che le truppe romane lo distruggessero nel 70. Fuori da Gerusalemme costruì Sebaste in onore di Augusto, con un tempio a lui dedicato, Cesarea Marittima col porto; edificò fortezze tra le quali quella di Macheronte, in cui sarà imprigionato Giovanni Battista, e Masada. Nonostante fosse re dei Giudei – ricordiamo le parole dei Magi “Dov’è il re dei Giudei che è nato?” che lo sconvolsero – non riuscì mai a guadagnarsi il loro appoggio in quanto, essendo idumeo, era disprezzato salvo che dagli “Erodiani”, corrente politica citata da Matteo e Marco.

Abbiamo infine il periodo dagli anni dal 13 a.C. al 4 d.C. che furono caratterizzati da conflitti famigliari interni: aveva sposato dieci mogli e col tempo ne aveva ripudiate alcune assieme ai loro figli. Una reale preoccupazione gli venne dai due nati da Mariamme, Alessandro e Aristobulo, che uccise nell’anno 7 a.C. assieme a 300 ufficiali accusati di parteggiare per loro. La sua ultima malattia fu terribile: Flavio Giuseppe scrive “Tutto il suo corpo fu preda della malattia, diviso tra varie forme di mali; aveva una febbre non violenta, un prurito insopportabile su tutta la pelle e continui dolori intestinali, gonfiori ai piedi come per idropisia, infiammazione all’addome e cancrena dei genitali con formazione di vermi, e inoltre difficoltà a respirare se non in posizione eretta, e spasmi di tutte le membra” (Guerre Giudaiche 1, 656). Cinque giorni prima di morire fece uccidere il primogenito Antipatro, da lui già designato erede al trono. Mentre era malato si sparse la voce che fosse morto e immediatamente due legali giudei colsero l’occasione per incitare il popolo ad abbattere l’aquila d’oro che stava sul Tempio di Gerusalemme: Erode lo seppe e si vendicò ordinando che fossero bruciati vivi.

Si potrebbe osservare, dopo questo elenco di nefandezze, che quanto scritto mal si adatti ad una “lectio” che, per gli scopi che si prefigge, dovrebbe avere solo temi edificanti; credo però che anche i dati negativi siano utili per capire alcune circostanze anche perché, se così non fosse, i libri storici della Bibbia si limiterebbero a non illustrare le azioni dei personaggi di cui è detto “Fece ciò che è male agli occhi del Signore”. Erode, morto nell’anno 4, non può essere solo un nome legato alla strage degli innocenti, fatto di cui il solo Matteo parla probabilmente perché, a fronte dei crimini commessi e di cui ho riportato una parte, appare un episodio paradossalmente trascurabile: erano figli del popolo, di persone umili, “poca cosa” rispetto alla gente “importante” che fece uccidere.

 

Al nome di Erode, che significa “discendente da eroi”, si contrappone quello di Zaccaria, “Dio si ricorda” o “si è ricordato”, sacerdote “della classe di Abia”. Anche qui è importante sviluppare il personaggio, cosa che faremo nel prossimo studio, per ora limitandoci agli stretti dati che ci fornire Luca nei versi oggetto di riflessione.

Zaccaria apparteneva all’ottava classe sacerdotale discendente da Abia, uno dei 24 nipoti del primo sommo sacerdote di Israele, Aaronne, fratello di Mosè. L’istituzione delle classi sacerdotali risaliva ai tempi di Davide quando, dovendo organizzarle, “…assieme con Sadoc dei figli di Eleazaro e con Achimelec dei figli di Itamar, li divise in classi secondo il loro servizio. (…) La prima sorte toccò a Ioiarib, la seconda a Iedaia, la terza a Carim, la quarta a Seorim, la quinta a Malchia, la sesta a Miamin, la settima ad Akkos, l’ottava ad Abia… (…). Queste furono le classi secondo il loro servizio, per entrare nel Tempio del Signore secondo la regola stabilita dal loro antenato Aaronne, come gli aveva ordinato il Signore, Dio di Israele” (1 Cronache 24.3-19).

Zaccaria, come è scritto, “aveva in moglie una discendente di Aaronne, di nome Elisabetta”, cioè “Dio ha giurato”, oppure secondo altri “Dio è perfetto”: il figlio che sarebbe nato da loro non solo avrebbe avuto una discendenza autorevole tanto da parte di padre che di madre, ma sarebbe stato il risultato di un’unione che avrebbe implicato ricordo e giuramento, o ricordo e perfezione. Poiché i nomi sono indice di “predisposizione a”, ma non sempre garantiscono un reale compiersi del loro significato, ecco che Luca specifica l’atteggiamento interiore di entrambi i genitori, “giusti davanti a Dio, camminando in tutti i comandamenti e leggi del signore senza biasimo”: “biasimo” di chi? Così erano reputati dai loro simili, ma soprattutto “senza biasimo” erano considerati da quel Dio che servivano ciascuno secondo le proprie possibilità.

Diversamente dai farisei che incontreremo, che si ritenevano giusti ma Luca in 16.15 definisce “attaccati al denaro”, i due coniugi erano fiduciosi in Dio per il compimento delle Sue promesse ed erano sempre disposti ad essere guidati dalla Sua volontà. Il loro cioè non era un atteggiamento formale, ma simile a quello di Abrahamo, che “…credette a Dio e ciò gli fu messo in conto di giustizia”. Zaccaria ed Elisabetta quindi si distinguevano dagli altri loro contemporanei per una vita condotta in modo consono all’attesa del Messia promesso ad Israele, aspettavano e amavano la Fonte dalla quale sarebbe giunto un giorno.

Sono due gli atteggiamenti che una persona può assumere davanti a Dio, quando non lo rifiuta a priori: uno è formale e un altro profondamente interiore, come dimostrato nella parabola del giovane ricco, convinto di essere un “giusto” perché osservava i comandamenti fin dalla sua giovinezza, che però si ritrasse da Gesù nel momento in cui fu invitato ad abbandonare le sue sostanze per darle ai poveri e seguirlo (Marco 10.17-30). La Legge andava osservata, ma a nulla sarebbe servito senza l’amore per il Signore “con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”.

Concludendo, Luca ci presenta tre personaggi: Erode, il “discendente da eroi”, uomo potente, gestore per il tempo concessogli di molte vite altrui, che scelse di servire se stesso finendo tra gli spasmi di una malattia implacabile, figura della “morte seconda”, quella vera, che avrebbe sperimentato. Qui viene in mente la frase che molti conoscono, ma su cui sorvolano: “Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?” (Luca 9.25). È il “se stesso”, tradotto anche con “la sua anima” che sopravvive alla morte che non è la fine di tutto, ma un passaggio che trova nell’oltre la retribuzione di ciò che avremo fatto in vita, in bene o in male. Chiediamoci quanti Erode esistano oggi, che vivono nel rancore, nel sospetto, nella dissolutezza e, pur non facendo uccidere gli avversari, li condannano alla morte civile. Erodi moderni, senza neppure le manie di grandezza suggerite della mitologia greca, che stringono e sciolgono alleanze per ingrandirsi ad ogni livello: politico, industriale, economico, criminale, poteri spesso intrecciati tra loro, ma che inevitabilmente dovranno constatare la propria rovina nel momento in cui scopriranno di avere sbagliato meta, prospettiva, finalità. L’amore per noi stessi non ci porterà mai da nessuna parte, saremo sempre e soltanto soli, magari senza rendercene conto.

Opposte al “discendente da eroi” abbiamo due persone che, al di là degli aspetti che vedremo, testimoniano che nessuna delle promesse di Dio mancherà di avere un compimento: “Dio si ricorda” e “Dio ha giurato”. Perché “Tutte le le promesse di Dio sono in lui – Gesù Cristo – sì ed Amen alla gloria di Dio, per noi” (1 Corinti 1.20).