05.39 – PADRE NOSTRO IX/IX (Matteo 6.13)

05.39 – Padre nostro IX (Matteo 6.13)

 

“…13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male. Perché tuo è il regno, la potenza e la gloria nei secoli. Amen.”

La volta scorsa abbiamo cercato di dare uno sguardo sui Cherubini in quanto esseri spirituali la cui presenza e ruolo è connessa al regnare di Dio, alla Sua realtà che l’uomo naturale, come scrive l’apostolo Paolo, “non conosce e non può comprendere” al contrario di tutto ciò che riguarda la terra nella sua realtà e manifestazioni: capire i suoi fenomeni è questione di tempo, di spazio, conoscenza e studio, ma con così per le cose spirituali, impenetrabili salvo una rilevazione dello Spirito Santo.

Il Regno, però, è una condizione, un’appartenenza, richiede un possesso diottrico di cui siamo stati privati e che solo lo Spirito può metterci in condizione di percepire. È scritto che “…noi conosciamo in parte e in parte profetizziamo; ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è è imperfetto scomparirà.(…)Adesso vediamo in modo confuso, come in uno specchio, ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come io sono conosciuto” (1 Corinti 13.9-12). Abbiamo qui la descrizione della limitazione del vivere nella carne rapportata alla conoscenza che verrà data una volta liberi da essa, avuta pienamente la cittadinanza del Regno che, pur avendola già, non abbiamo ancora acquisito in modo ufficiale; il credente di oggi infatti ha il passaporto per entrarvi, ma è in viaggio verso la meta.

Tornando ed espandendo un poco l’argomento affrontato nelle riflessioni precedenti, il Cherubino è connesso alla presenza di Dio ed è per questo che lo troviamo in quattro luoghi: abbiamo visto che in Eden prima del peccato ne è citato uno, Lucifero, il più importante di loro, coperto di pietre preziose e avente una funzione protettiva. Da cosa? Mi sono chiesto se le attenzioni di questo essere non fossero rivolte all’anello più debole della catena, l’uomo, che, creato libero, avrebbe potuto cibarsi del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, cosa che forse avvenne proprio quando, per il piano scellerato di volersi fare uguale a Dio, cessò di assisterlo per farsi strumento della sua seduzione. Certo i nostri progenitori peccarono per scelta, dimostrando di non fidarsi di quanto aveva detto loro il Creatore, ma in loro fu instillata subdolamente l’intenzione di diventare come Lui, che fossero stati ingannati, cosa possibile solo se coincidente col piano distruttivo del tentatore creato, come Cherubino, prima di loro.

Il secondo luogo in cui troviamo questi esseri è fuori del giardino, posti a protezione della via per l’albero della vita, “A oriente del giardino di Eden” (Genesi 3.23), cioè là dove il sole sorge, posizione che ci parla di salvaguardia dalla “luce” della conoscenza umana che a tutto vorrebbe pervenire e tutto vorrebbe investigare.

Abbiamo poi trovato i Cherubini scolpiti sul coperchio dell’arca in un posizione che denota protezione e al tempo stesso contemplazione di un mistero perché le creature del regno spirituale, se hanno una visione perfetta del loro ruolo e dimensione, trovano difficile comprendere i meccanismi dei rapporti di Dio con l’uomo e i suoi interventi per la sua salvezza.

La totalità del rapporto fra YHWH e i Cherubini la troviamo poi nel Luogo Santissimo, altrimenti detto “Santo dei Santi” all’interno del quale nessun uomo poteva entrare salvo il Sommo Sacerdote una volta all’anno. Leggiamo in 2 Cronache 3.7-14 che Salomone “Rivestì d’oro la navata, cioè le travi, le soglie, le pareti e le porte; sulle pareti scolpì cherubini. Costruì la cella del Santo dei santi, lunga, nel senso della larghezza della navata, venti cubiti e larga venti cubiti. La rivestì di oro fino, impiegandone seicento talenti. Il peso dei chiodi era di cinquanta sicli d’oro; anche i piani di sopra rivestì d’oro. Nella cella del Santo dei santi eresse due cherubini, lavoro di scultura e li rivestì d’oro. Le ali dei cherubini erano lunghe venti cubiti. Un’ala del primo cherubino, lunga cinque cubiti, toccava la parete della cella; l’altra, lunga cinque cubiti, toccava l’ala del secondo cherubino. Un’ala del secondo cherubino, di cinque cubiti, toccava la parete della cella; l’altra, di cinque cubiti, toccava l’ala del primo cherubino. Queste ali dei cherubini, spiegate, misuravano venti cubiti; essi stavano in piedi, voltati verso l’interno. Salomone fece la cortina di stoffa di violetto, di porpora, di cremisi e di bisso; sopra vi fece ricamare cherubini”. La loro presenza era quindi ovunque e, dalle misure che troviamo nel testo, occupavano tutta l’area della stanza. Le loro ali andavano a toccare le quattro le pareti. I Cherubini, allora, erano assolutamente connessi alla presenza di Dio che figurativamente dimorava in quel luogo a prescindere dalla presenza umana. Eppure, nonostante la loro potenza e funzione, è scritto che il signore “siede” su di loro (Salmo 80.1 – 99.1).

Quarto luogo in cui i Cherubini agiscono è la mobilità – immobilità della Corte Celeste nell’attesa che tutto si compia. Ezechiele, che li vide, li descrisse come riuscì, raffigurandoli simbolicamente: “Muovendosi, potevano andare nelle quattro direzioni senza voltarsi, perché si muovevano verso il lato dove era rivolta la testa, senza voltarsi durante il movimento. Tutto il loro corpo, il dorso, le mani, le ali e le ruote erano pieni di occhi tutt’intorno; ognuno dei quattro aveva la propria ruota. Io sentii che le ruote venivano chiamate «Turbine». Ogni cherubino aveva quattro facce: la prima quella di uomo, la seconda quella di bue, la terza quella di leone e la quarta quella di aquila. (…). Quando i cherubini si muovevano, anche le ruote avanzavano al loro fianco: quando i cherubini spiegavano le ali per sollevarsi da terra, le ruote non si allontanavano dal loro fianco; quando si fermavano, anche le ruote si fermavano; quando si alzavano, anche le ruote si alzavano con loro perché lo spirito di quegli esseri era in loro. La gloria del Signore uscì dalla soglia del tempio e si fermò sui cherubini. I cherubini spiegarono le ali e si sollevarono da terra sotto i miei occhi; anche le ruote si alzarono con loro e si fermarono all’ingresso della porta orientale del tempio, mentre la gloria del Dio d’Israele era in alto su di loro” (Ezechiele 10.11-19).

Guardando brevemente il testo, il Cherubino ha occhi ovunque a denotare la sua visione perfetta del micro e del macro. Ha poi quattro facce, circa le quali possiamo fare questi collegamenti: l’uomo è l’unica tra le creature a possedere intelligenza, il bue tra gli animali addomesticati è il più instancabile, il leone tra le fiere è il più regale e potente mentre l’aquila, fra gli uccelli, è quella che ha il volo più perfetto e la vista migliore. I maestri ebrei aggiungono “tutti questi hanno ricevuto il dominio e grandezza gli è stata data, eppure sono fermi al di sotto del carro dell’Iddio Santo”. Questi, grazie alle loro facce, non perdono tempo a voltarsi, ma si spostano usando le ruote o le ali a sottolineare il fatto che sono in grado di agire sulla terra e in cielo, nelle due regioni, o nei due regni distinti, che si sono venuti a creare dopo il peccato dei nostri progenitori. Ricordiamo sempre la loro funzione racchiusa nella radice stessa del termine kavar che implica una rete e quindi una protezione. Diversi sono i Serafini, descritti nei capitoli 4 e 5 dell’Apocalisse che diversi commentatori, anche antichi, hanno voluto identificare i quattro Vangeli.

Sappiamo che i regni sono quindi due, quello sulla terra, retto dal “Principe di questo mondo”, cioè dall’Avversario, e quello che è già preparato, ma non si è ancora manifestato nella sua potenza e gloria, quella della Gerusalemme nuova che scende dal cielo “come una sposa adorna per il suo sposo” (Apocalisse 21.2). Lì è scritto che “Non vi sarà più maledizione. Nella città vi sarà il trono di Dio e dell’Agnello: i suoi servi lo adoreranno; vedranno il suo volto e porteranno il suo nome sulla fronte. Non vi sarà più notte e non avranno più bisogno di luce di lampada né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà. E regneranno nei secoli dei secoli” (33.3-5).

Il regno della terra realizzato dall’Avversario ebbe come motore l’orgoglio, l’invidia e la volontà di distruggere (le stesse ragioni che portarono Caino ad uccidere il fratello), quello di Dio Padre ebbe all’inizio un ordine, “Sia la luce”, che solo Lui poteva dare. Credo ci sia differenza. “Tuo è il Regno” è un riconoscimento che contiene la certezza che sia l’unico che possa vincere quello fondato sul non senso, sull’apparenza e l’illusione, sul contrario del bene. Tutto cominciò da lì: ascoltando l’Avversario, l’uomo scoprì l’inganno quando era troppo tardi esattamente come accade oggi, quando le basi sulle cui ha costruito la sua vita, senza Cristo, crollano.

A volte ci si dimentica che il Regno implicherà il cambiamento della nostra fisionomia e corpo che avverrà con quel “batter d’occhio” quando “tutti saremo trasformati” (1 Corinti 15.51,52): “È infatti necessario– per entrare nel Regno – che questo corpo corruttibile si vesta d’incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta d’immortalità. Si compirà la parola della Scrittura: «La morte è stata inghiottita nella vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?»” (54,55). È l’anticipazione del cambiamento che ci attende perché, come disse Gesù, rispondendo ai Sadducei, “Quando risusciteranno dai morti non prenderanno né moglie né marito, ma saranno come angeli nei cieli”(Marco 12.25), vale a dire non procreeranno, non sarà necessario perché si sarà completato il numero degli eletti “prima della fondazione del mondo” (Efesi 1.4)

“Potenza”e “Gloria”sono altri attributi che vengono dati al Padre, complementari al Regno che non sarà mai distrutto: stanno a ricordare ancora una volta la differenza che intercorre tra quella umana e quella divina, la prima illusoria e la seconda reale che mai come in questo caso sembrano essere un controsenso. Siamo abituati a stupirci di fronte alle grandi opere che i nostri simili fanno e quando si parla di “potenza” è facile associarla a quella militare che garantisce la supremazia di un popolo su un altro, ma ci si dimentica che sarà solo alla fine dei tempi le due glorie e le due potenze verranno messe a confronto. La storia ci insegna che l’uomo si è sempre illuso e si è posto in contrasto con Dio: lo ha fatto individualmente (Caino) e collettivamente (la torre di Babele) volendo fare affidamento sulle sue sole forze e sull’ingegno che gli è stato dato, ma ha sempre perso. Nonostante questo, sviluppa scelleratamente il progetto e la realizzazione di quella “Babilonia la grande”, anch’essa destinata a cadere come descritto in Apocalisse ai capitoli 17 e 18. Eppure, nonostante l’adorazione che le avranno dato i popoli, “…quanto ha speso per la sua gloria e il suo lusso, tanto restituitele in tormento e afflizione. Perché diceva in cuor suo «Seggo come regina, vedova non sono e lutto non vedrò». Per questo, in un solo giorno, verranno i suoi flagelli: morte, lutto e fame. Sarà bruciata dal fuoco, perché potente Signore è Dio che l’ha condannata” (18.7,8).

E il “Padre nostro” si conclude con l’Amen, derivato da un verbo ebraico che significa “essere fermo, sicuro, fedele”, che costituisce un’attestazione di verità spirituale e non viene mai pronunciata alla leggera. E così facciamo, nell’attesa che il Regno, la potenza e la gloria di Dio si manifestino. Amen.

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05.38 – PADRE NOSTRO VIII (Matteo 6.13)

05.38 – Padre nostro VIII (Matteo 6.13)

 

“…13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male. Perché tuo è il regno, la potenza e la gloria nei secoli. Amen.”

Come già preannunciato in un altro incontro, la parte finale del verso 13 non compare in tutte le traduzioni ed è ritenuta da molti un inserto, per così dire, rituale o “liturgico”. Credo però che così facendo si snaturi in parte il senso di questa preghiera perché qui si dichiara la ragione, il perché le richieste precedenti vengano rivolte al Padre: a Lui e a nessun altro appartengono i tre elementi, il regno, la potenzae la gloria nei secolicitati da Gesù. La prima parola da considerare è infatti il “perché”, traducibile con “poiché”, “siccome”, “in quanto”, concetto che ci richiama all’unicità del Padre che ascolta e provvede al quale vanno indirizzate le nostre preghiere. La conclusione del “Padre nostro” è allora una dossologia importante perché costituisce una confessione di appartenenza, è la parte finale di un Credo che trova nell’ “Amen” finale, suo quarto elemento, la nostra firma.

Abbiamo cercato di esaminare il concetto di “Regno” quando abbiamo affrontato le parole “Venga il tuo Regno”, ma il questo concetto è immenso per significati e applicazioni: come parlare del regno di Dio, come presentarlo, definirlo? Qualunque sua esposizione risulterebbe limitata perché noi siamo tali e Lui no. È il Suo progetto di comunione e condivisione con l’uomo e, per quanto argomento su cui torneremo molte altre volte, non potremo far altro che affrontarlo in modo riduttivo proprio perché il Regno non è qualcosa che è stato o che sarà, ma una realtà che esiste ed è legata indissolubilmente allo suo essere di Dio. Il Regno è Lui stesso, come noi siamo Lui in una trasformazione costante in vista di quella piena che avremo. È un progetto destinato a realizzarsi, che si può intravedere leggendo il Pentateuco e i libri storici, ma che fu visto come reale ed esistente dai profeti e fu descritto dall’apostolo Giovanni nell’Apocalisse in momenti di attesa e di compimento, per non parlare delle notizie che Gesù diede ai suoi che tuttavia non recepirono perché allora non ne erano in grado. Dobbiamo sempre tenere presente che gli argomenti della Scrittura possono essere visti e spiegati solo in parte e non può esservi nessuno che può avere la pretesa di esaurirne un solo argomento, altrimenti non sarebbe Parola divina e sappiamo che, quando alcuni uomini di Dio si trovarono di fronte alla Sua vastità, non poterono fare altro che soccombere di fronte ad essa e spesso non riuscirono a parlarne in termini umani. Alcuni di loro, come Paolo di Tarso, definirono impronunciabili le parole che ascoltarono e altri, non riuscendo ad esporre le loro visioni, ricorsero a una simbologia tutta particolare confidando che questa fosse recepita dai loro lettori e interpreti.

Sono assolutamente convinto del fatto che, quando riconosciamo a Dio Padre la legittima detenzione del Regno, non possiamo che rifarci, anche e non solo, a quel progetto che iniziò, alla presenza e con la partecipazione del Verbo, con le parole “Sia la luce”. Tutte le sei ere che caratterizzarono la creazione, infatti, non ebbero lo scopo di manifestare la “bravura” di Dio come costruttore in senso autocelebrativo, ma in vista di quella creatura luminosa, Adamo, che con Eva avrebbe dovuto popolare il territorio santo e circondato dai quattro fiumi che prendeva il nome di Eden, cioè “delizia”. Lì l’uomo, così diverso da noi, creato libero, sceglieva ogni giorno di rapportarsi con YHWH liberamente, discorrendo con lui faccia a faccia senza quella limitazione che si sentì dire un giorno Mosè in Esodo 33.20: “Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo”.

Ho scritto all’inizio che il Regno è un concetto e una realtà: alle origini tutto era in Eden o, meglio, là c’era una sua parte, un aspetto visto in quella comunione che ebbe termine quando, dopo la trasgressione all’unico comandamento, Adamo e sua moglie ne furono estromessi. Se leggiamo l’episodio, però, possiamo notare che quel luogo non fu distrutto, ma che “Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto. Scacciò l’uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini con una spada fiammeggiante, per custodire la via all’albero della vita” (Genesi 3.23,24).

A questo punto individuiamo alcuni elementi: primo, Adamo e sua moglie, che avevano desiderato essere come Dio, si vedono estromessi e avrebbero passato la loro esistenza lavorando la terra dalla quale erano stati tratti. Il loro sguardo, cioè, sarebbe stato costantemente rivolto verso il basso, avrebbero compreso il significato della parola “morte” (“Nel giorno in cui ne mangerai, per certo morirai”) e sarebbero tornati polvere, tutto questo portando in loro il ricordo di ciò che erano. Secondo, la via all’albero della vita non viene preclusa, ma protetta, custodita affinché né Adamo, né Eva, né i loro discendenti a prescindere dalle epoche, l’avessero potuta trovare un giorno e diventare immortali. Terzo e ultimo, quello su cui desidero soffermarmi oggi, abbiamo nominati per la prima volta i Cherubini, creature molto particolari che esistono nel Regno spirituale, quello che non vediamo, ma che per noi ebbero il privilegio di vedere e descrivere i profeti e l’apostolo Giovanni.

Il Cherubino è comunemente ritenuto un angelo, ma più che portare messaggi agli uomini pare avere una funzione di esecutore, di guardiano, di protettore, con un’incessante opera di salvaguardia e adorazione davanti al trono di Dio. L’Avversario, Satana, così potente, era uno di loro e, se non il primo, uno dei più importanti. Leggiamo in Ezechiele al capitolo 28.12-15 “Tu eri al sommo, pieno di sapienza e perfetto in bellezza. Tu eri in Eden, giardino di Dio; tu eri coperto di pietre preziose, di diamanti, di grisoliti, di pietre d’onice, diaspri, zaffiri, smeraldi e carbonchi e di oro; l’arte dei tuoi tamburi e dei tuoi flauti era presso di te, quella fu ordinata nel giorno in cui fosti creato. Tu eri un cherubino unto, protettore e io ti avevo stabilito, tu eri nel monte santo di Dio, tu camminavi in mezzo alle pietre di fuoco. Tu sei stato compiuto nelle tue faccende, dal giorno che tu fosti creato, finché si è trovava iniquità in te”.

Questa era la funzione che aveva quando si chiamava Lucifero, cioè “Portatore di luce”. Di lui è detto in Isaia 14.12-15 “Come mai sei caduto dal cielo, Lucifero, figlio dell’aurora? Come mai sei stato steso a terra, signore dei popoli? Eppure tu pensavi «Salirò al cielo, sulle stelle di Dio innalzerò il trono, dimorerò sul monte dell’assemblea, nelle parti più remote del settentrione. Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all’altissimo». E invece sei stato precipitato negli inferi, nelle profondità dell’abisso!”.

Raccordando tra loro i due versi, rileviamo il nome che aveva l’Avversario nel Regno spirituale di Dio, la sua presenza del Giardino, il grado di eccellenza che possedeva testimoniato dalle pietre preziose che lo ricoprivano, la sua funzione unica di “Unto” e “Protettore” e la perfezione vista nel suo camminare in mezzo alle pietre infuocate essendo il fuoco riferimento al vaglio e al giudizio cui era immune stante la sua condotta. Ma ci è dato di comprendere come, a un certo punto, fu trovata iniquità in lui e questa si manifestò in un progetto che aveva come risultato finale il “farsi uguale all’altissimo”. Sono le stesse parole che, preso possesso del serpente, disse ad Eva: “Dio sa che il giorno in cui ne mangereste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male” (Genesi 3.5). Nella sua improponibile volontà distruttiva, cercava un alleato. Il figlio dell’aurora sapeva benissimo che non avrebbe potuto farsi uguale a Dio essendo stato creato da lui, ma diventare un dio in un mondo corrotto dal peccato certamente sì. E così fu.

Se allora prima di questi eventi ciò che era in cielo e sulla terra – o meglio in Eden – formavano un tutt’uno, nel terribile dopo possiamo affermare che si crearono due regni, due territori differenti, uno santo e un altro impuro; il primo abitato da Dio e dagli esseri spirituali che di Lui sono l’emanazione, il secondo popolato da uomini incompatibili con lui parte dei quali però cercavano la Sua comunione, benevolenza, aiuto: erano quelli che, informati da Adamo e sua moglie delle modalità della caduta e ancor più del vestito che il Creatore aveva loro confezionato, lo pregavano di aver pietà e soccorso in quella vita così ostile che si trovavano ad affrontare loro malgrado. Ogni giorno constatavano delle avversità che non avrebbero dovuto conoscere. Seppero così i nostri progenitori dell’esistenza di due regni, uno terreno e l’altro spirituale. “Venga il tuo Regno”, allora, perché il Tuo è l’unico a durare per sempre.

Il Cherubino ritorna poi nella Legge. Non è un personaggio che compie azioni particolari come gli angeli che distrussero Sodoma e Gomorra o parlarono a molti, ma è ordinato che venga rappresentato sul coperchio dell’arca. Non è una figura minacciosa, non ha una spada, ma: “Farai due cherubini d’oro: li farai lavorati a martello sulle due estremità del coperchio. Fa’ un cherubino ad una estremità e un cherubino all’altra estremità. Farete i cherubini tutti di un pezzo con il coperchio alle sue due estremità. I cherubini avranno le due ali stese di sopra, proteggendo con le ali il coperchio; saranno rivolti l’uno verso l’altro e le facce dei cherubini saranno rivolte verso il coperchio. Porrai il coperchio sulla parte superiore dell’arca e collocherai nell’arca la Testimonianza che io ti darò. Io ti darò convegno appunto in quel luogo: parlerò con te da sopra il propiziatorio, in mezzo ai due cherubini che saranno sull’arca della Testimonianza, ti darò i miei ordini riguardo agli Israeliti” (Esodo 25.18-22).

Per quanto il Cherubino comparisse anche raffigurato sui teli che costituivano il velo della dimora a conferma del fatto che è un essere a diretto contatto con la Santità di Dio e con lui compatibile, è la sua presenza sul coperchio dell’arca a rivelarci elementi che ci consentono delle connessioni molto importanti; i cherubini non erano due belle statuine saldate sul coperchio, ma costituivano un tutt’uno con lui, erano un pezzo solo, d’oro puro – il solo metallo che è riferito costantemente a Dio – posti uno di fronte all’altro. Due e non quattro perché non era un riferimento ai punti cardinali, ma alle dimensioni semplici intese come destra e sinistra, uomo e donna, bene e male, di qua o di là. Le loro ali proteggevano il coperchio: sono estremità che consentono uno spostamento diverso dal nostro, che avviene solo sulla terra, ma che adombrano e proteggono, difendono. In più, i cherubini sono posizionati sì frontalmente, ma il loro sguardo è rivolto verso il coperchio, guardando idealmente all’interno dell’arca che conteneva un vaso d’oro con la manna raccolta nel deserto, il bastone d’Aaronne che era fiorito e le tavole della Legge, quelle che Mosè tagliò e sulle quali Iddio scrisse il decalogo, da destra a sinistra, cinque per ogni tavola secondo il Talmud di Gerusalemme. Anche qui, è interessante il rapporto tra le due tavole e i due Cherubini.

Nel meditare però il passo di Esodo 25 mi sono chiesto perché queste due creature, a parte le ali spiegate, avessero lo sguardo verso il basso, metaforicamente a guardare all’interno dell’Arca quasi a contemplarne il contenuto, cioè la manna per la provvidenza di Dio, il bastone a ricordare il serpente che si mangiò tutti quelli creati dai maghi del Faraone e quindi la supremazia di YHWH e le tavole rappresentanti l’osservanza che il Signore si aspetta dall’uomo, oggi per noi misura di ciò che è bene e ciò che è male.

Non credo sia possibile avere una risposta diversa dall’indizio che ci offre l’apostolo Pietro nella sua prima lettera quando, parlando degli avvenimenti con cui Dio si caratterizzò nei tempi antichi a testimonianza del Regno, scrive: “…perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la meta della vostra fede: la salvezza delle anime. Su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti, che preannunciavano la grazia a voi destinata; essi cercavano di sapere quale momento o quali circostanze indicasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che l’avrebbero seguite. A loro fu rivelato che non per se stessi, ma per voi erano servitori di quelle cose che ora vi sono annunciate mediante lo Spirito Santo, mandato dal cielo: cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo” (1.8-12). Ed è interessante sottolineare che alcune traduzioni riportano “guardare dentro”.

Il contenuto dell’Arca testimoniava l’amore di Dio e le Sue esigenze, i profeti scrissero e parlarono di un tempo allora imminente, di un regno che sarebbe dovuto venire a suo tempo ma che esisteva già, pronto e preordinato a tal punto che la sua realizzazione piena, così importante per tutte le negatività che verranno annullate e che ogni salvato attende, può sembrare un dettaglio. Perché la cittadinanza eterna già la possediamo ed è quello che ci spinge a vivere. Amen.

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