11.41 – MÓSTRATI AL MONDO (Giovanni 7.2-10)

11.41 – Móstrati al mondo (Giovanni 7.2-10)

 

            2Si avvicinava intanto la festa dei Giudei, quella delle Capanne. 3I suoi fratelli gli dissero: «Parti di qui e va’ nella Giudea, perché anche i tuoi discepoli vedano le opere che tu compi. 4Nessuno infatti, se vuole essere riconosciuto pubblicamente, agisce di nascosto. Se fai queste cose, manifesta te stesso al mondo!». 5Neppure i suoi fratelli infatti credevano in lui. 6Gesù allora disse loro: «Il mio tempo non è ancora venuto; il vostro tempo invece è sempre pronto. 7Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di esso io attesto che le sue opere sono cattive. 8Salite voi alla festa; io non salgo a questa festa, perché il mio tempo non è ancora compiuto». 9Dopo aver detto queste cose, restò nella Galilea. 10Ma quando i suoi fratelli salirono per la festa, vi salì anche lui: non apertamente, ma quasi di nascosto.

 

Dopo il discorso ecclesiologico, la lettura cronologica dei sinottici presenta non pochi problemi: Matteo scrive che “Terminati questi discorsi, Gesù lasciò la Galilea e andò nella regione della Giudea, al di là del Giordano. Molta gente lo seguì, ed egli li guarì” (19.1); Marco concorda con lui (10.1) e Luca, che esamineremo prossimamente, “Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé” (9.51), riportando una lunghissima serie di episodi che, se fossero tutti accaduti in quel viaggio, lascerebbero pensare che fosse durato molto. È Giovanni, coi versi oggetto di meditazione, che ci consente di ricostruire come si svolsero i fatti che portarono al salire di Gesù a Gerusalemme non per l’ultima volta, ma ad abbandonare la Galilea.

Viene qui menzionata “la festa dei Giudei, quella della Capanne”, detta anche “dei tabernacoli”, ultima delle tre grandi feste istituite nei libri di Mosè dopo la Pasqua, o “dei pani azzimi”, e quella “delle settimane” o “Pentecoste”. La festa delle Capanne viene ordinata in Levitico 23.33-36: “Il giorno quindici di questo settimo mese sarà la festa delle Capanne per sette giorni in onore del Signore. Il primo giorno vi sarà una riunione sacra; non farete alcun lavoro servile. Per sette giorni offrirete vittime consumate dal fuoco in onore del Signore. L’ottavo giorno terrete la riunione sacra e offrirete al Signore sacrifici consumati col fuoco. È giorno di riunione, non farete alcun lavoro servile”. Più dettagliata, giorno per giorno, è la versione reperibile in Numeri 29.12-30. Deuteronomio 16.13-15 dà la caratteristica dell’universalità, del “non riguardo per la qualità delle persone”, di questa festa: “Gioirai in questa tua festa, tu, tuo figlio e tua figlia, il tuo schiavo e la tua schiava e il levita, il forestiero, l’orfano e la vedova ce abiteranno le tue città. Celebrerai la festa per sette giorni per il Signore, tuo Dio, nel luogo che avrà scelto il Signore, perché il Signore, tuo Dio, ti benedirà in tutto il tuo raccolto e in tutto il lavoro delle tue mani, e tu sarai pienamente felice”.

La festa della Capanne era stata istituita per una duplice commemorazione, cioè quella della bontà di Dio verso Israele nel deserto, e quella della Sua misericordia per averlo arricchito durante l’anno corrente coi frutti della terra; per sette giorni i Giudei vivevano in capanne fatte con rami d’alberi costruite nei cortili, sui tetti delle case, nel recinto del Tempio e in tutte le strade più larghe di Gerusalemme. Infatti “Dimorerete in capanne per sette giorni; tutti i cittadini d’Israele dimoreranno in capanne, perché i vostri discendenti sappiano che io ho fatto dimorare in capanne gli Israeliti, quando li ho condotti fuori dal paese d’Egitto” (Levitico 23.42,43).

È importante sottolineare che questa era definita “la grande festa” perché celebrata dopo il raccolto del grano, dell’uva e dell’olio, i lavori più pesanti dell’anno si erano conclusi e forse per questo motivo i fratelli di Gesù, parlando con Lui, abbiamo letto che gli dissero “Parti di qua e va’ nella Giudea, perché i tuoi discepoli vedano le opere che tu compi. Nessuno infatti, se vuole essere riconosciuto pubblicamente, agisce di nascosto. Se fai queste cose, manifesta te stesso al mondo!” (vv.3,4).

Riflettendo su quanto detto a Gesù, commentato da Giovanni con le parole “Neppure i suoi fratelli credevano in lui”, va fatta rilevare la loro assoluta inopportunità perché si trattò di una frase pronunciata per dileggio nei confronti di una persona da loro ritenuta “fuori di sé” ( Marco 3.21) e della quale non avevano alcuna idea quanto a dignità e ruolo. I fratelli di Gesù, cioè “Giacomo, Ioses, Giuda e Simone” (6.3), lo sfidano ad andare a Gerusalemme perché così avrebbe potuto mostrarsi “al mondo” e perché i Suoi discepoli potessero “vedere le opere che tu compi” disprezzando completamente tutto quello che aveva fatto fino ad allora, incuranti dei miracoli e del contenuto della Sua predicazione incessante e delle Sue fatiche che proseguivano da circa due anni. Quelli che gli parlano sono gli stessi che, nel verso di Marco 3.21, “Sentito questo – la folla che si era radunata – uscirono per andare a prenderlo”: volevano rinchiuderlo da qualche parte pur di avere tranquillità?

Nelle loro parole, poi, c’è anche una non velata accusa di codardia, perché quel “nessuno, se vuole essere riconosciuto pubblicamente, agisce di nascosto” (v.4) vuole rimarcare il fatto che il loro fratello se ne stava in Galilea “perché i Giudei cercavano di ucciderlo” (v.1) e quindi, se era davvero chi diceva di essere, non poteva avere alcun timore. Abbiamo nelle loro parole anche la pretesa di dare un consiglio, perché la regione in cui aveva fino ad allora agito, dimenticando che a Gerusalemme Gesù aveva già operato, era di minore importanza rispetto alla Giudea, dove esistevano le scuole rabbiniche più importanti e là confluiva molta più gente: in pratica, Lo esortano a puntare sui numeri, a far proseliti, ad avere successo, a diventare quel Messia umano che tutti attendevano per conseguire il pieno riscatto sull’invasore romano.

Il modo di ragionare dei fratelli di Gesù non è nuovo, ma esiste da sempre ed accomuna tutti coloro che per il mondo sono e al mondo appartengono, certo fino a prova contraria: non capendo nulla degli àmbiti spirituali, pretendono di interpretarli e reagiscono con ragionamenti più o meno inconsistenti, ma che molto hanno di umanamente logico perché è la cecità vera a spingerli, come rivela la risposta che ebbero, “Il mio tempo non è ancora venuto; il vostro tempo invece è sempre pronto”, con cui Gesù istituisce una divisione netta fra il mondo cui apparteneva e quello dei suoi fratelli.

Una risposta simile Gesù la diede a Sua madre alle nozze di Cana quando volle ricordarle che non stava a lei interferire perché “la mia ora non è ancora giunta” (2.4) dove “la mia ora” e “il mio tempo” non si riferiscono alla Sua morte, ma a quello di qualunque Suo intervento che non poteva essere disgiunto da quanto concordato col Padre. Con le Sue parole, Nostro Signore dichiara: primo, che se gli altri uomini potevano fare ciò che volevano e seguire quanto la loro mente suggeriva loro, Lui veniva come inviato con un compito preciso in cui nulla poteva essere lasciato al caso e, secondo, prendendo “il mio tempo” in contrapposizione a “il vostro tempo”, Lui avrebbe potuto operare e morire (temporaneamente) nel corpo solo quando sarebbe stato concesso agli uomini di ucciderlo mentre i suoi fratelli, che nulla conoscevano del loro destino, avrebbero potuto concludere la loro esistenza in qualunque momento, cosa alla quale non pensavano neppure lontanamente come avviene anche oggi: l’uomo naturale rifugge l’idea della morte; sa che prima o poi verrà il momento in cui la vita finirà, ma nel momento in cui, quando non giunge all’improvviso e si annuncia con segnali inequivocabili, vorrebbe rimandarla. E cito una frase che Alessandro Meluzzi disse un giorno a un convegno sull’eutanasia: “Non ho mai conosciuto un solo morente che non pensasse di avere ancora un giorno da vivere. Non ho conosciuto un solo morente, neanche negli attimi estremi dell’agonia, che non pensasse di avere ancora un’ora da vivere”.

Ecco allora il senso delle parole di Gesù: sapeva che “il mio tempo non è ancora giunto” perché era l’unico a sapere quando e come il Suo corpo avrebbe ceduto, mentre gli increduli fratelli, così intenti a guardare il presente, no. Né si preoccupavano irresponsabilmente di questo. Ma poi va oltre: “Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di esso io attesto che le sue opere sono cattive” (v.7). Il mondo è un sistema di vita, ragionamento, aspirazioni, metri di misura che non può che produrre “opere cattive” indipendentemente dalla valutazione e se tutti possono concordare nella valutazione negativa di un omicidio, non si pensa che – per dirne una – anche quelle strutture per dare rifugio e solidarietà alle persone, pur non facendo chiaramente del male, a nulla portano se non fatte “nel Nome” di Cristo: senza appartenergli tutte le opere umane, buone o cattive, si identificano in quella “torre” che gli uomini eressero in Babilonia allo scopo di acquistarsi fama, perché quell’edificio doveva giungere “fino al cielo” di cui vedevano l’azzurro, ma non ciò che questo rappresentava. Il mondo “odia me” come da Genesi 3.15 “Io porrò inimicizia tra te – Avversario – e la donna – qui Eva è vista come colei dalla quale nasceranno uomini di Dio, che troverà in Gesù il suo massimo rappresentante – fra la sua stirpe e la tua stirpe”. Il “mondo”, come sappiamo, non odiò solo il Figlio, ma anche tutti coloro che in lui hanno creduto. E ancora prima, combatté Abele e tutti i profeti, da quelli nominati a quelli no.

Tornando alla nostra traduzione, ancora una volta ne va sottolineata l’inadeguatezza perché Nostro Signore non dice “Non salgo a questa festa”, ma “Non salgo ancora a questa festa”, precisazione importante perché altrimenti, per come si svolsero poi i fatti, si potrebbe pensare ad un Suo ripensamento in proposito, quando rimandò la partenza per non salire coi fratelli e con tutta quella gente che avrebbe composto la carovana diretta a Gerusalemme, cioè la stessa, per struttura e composizione, che lo aveva visto dodicenne andare nella città santa con i suoi genitori.

L’ultimo verso di Giovanni rivela che “Quando i suoi fratelli salirono per la festa – quindi in carovana -, vi salì anche lui. Non apertamente, ma quasi di nascosto”: salì cioè privatamente, accompagnato dai discepoli a sottolineare l’estraneità dagli usi comuni e non perché non voleva essere riconosciuto perché, se così fosse stato, non lo troveremmo nel Tempio ad insegnare né leggeremo che, uscito dal territorio samaritano, “la folla accorse di nuovo a lui e di nuovo egli insegnava loro, come solito fare” (Marco 10.1). E possiamo dire che partì quando il Suo tempo iniziava a compiersi, termine col quale non viene indicata la morte, ma l’ultimo periodo della Sua vita terrena. La Sua partenza dalla Galilea si concluderà con due eventi, l’invio dei settantadue discepoli che lo avrebbero preceduto lungo la via, e le parole molto amare su Betsaida, Corazin e Capernaum.

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