3.09 – LA DISCUSSIONE SUL DIGIUNO (Matteo 9.18-22)

3.09 – La discussione sul digiuno (Matteo 9.18-22)

 

14Allora gli si avvicinarono i discepoli di Giovanni e gli dissero: «Perché noi e i farisei digiuniamo molte volte, mentre i tuoi discepoli non digiunano?». 15E Gesù disse loro: «Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro? Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno. 16Nessuno mette un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio, perché il rattoppo porta via qualcosa dal vestito e lo strappo diventa peggiore. 17Né si versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si spaccano gli otri e il vino si spande e gli otri vanno perduti. Ma si versa vino nuovo in otri nuovi, e così l’uno e gli altri si conservano»”.

 

Questo episodio viene integrato da Marco con una precisazione importante vista nella frase di apertura “I discepoli di Giovanni e i farisei stavano facendo un digiuno” (2.18), mentre Matteo (che era presente) e Luca lo collocano subito dopo le parole di Gesù ai farisei e ai loro discepoli che abbiamo esaminato la volta scorsa. Qui c’è però un cambio di interlocutori perché i farisei erano stati ridotti al silenzio. Non sapevano più cosa rispondere anche perché, citando Osea, Nostro Signore era risalito ai tempi in cui la tradizione rabbinica ancora non esisteva e, con le Sue parole, si era collegato alla sintesi degli antichi profeti che avevano mirato molto più alla formazione spirituale che alle formalità rituali, cosa che aveva fatto anche Giovanni Battista, l’ultimo profeta dell’Antico Patto.

È a questo punto che intervengono i discepoli di Giovanni, che con il loro rimanere ancorati al loro maestro dimostravano di non aver capito nulla né delle sue parole, né di che cosa aveva significato il suo battesimo, anzi, con la frase “Perché noi e i farisei digiuniamo molte volte, mentre i tuoi discepoli non digiunano?” (v.14) si associano a loro. È come se volessero dire “Noi e i farisei abbiamo questa tradizione che ha radici nella Legge, perché tu non dici ai tuoi discepoli di fare altrettanto?”. È triste considerare quanto, nella pratica, quelli che seguivano il Battista fossero distanti dal loro maestro che, nella sua predicazione, si era sempre distinto da Gesù per ruolo e funzione: aveva detto di non essere il Cristo, che dopo di lui sarebbe venuto uno cui non era degno di sciogliere neppure il laccio dei sandali, lo aveva indicato come “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo” e aveva spiegato ai suoi discepoli che chi doveva “crescere” non era l’amico dello sposo, ma lo sposo stesso: meglio di così, non poteva parlare per spiegare ai suoi che il suo compito volgeva ormai al termine.

Il voler rimanere fedeli a Giovanni da parte dei suoi discepoli denotava allora che non solo non avevano capito la differenza tra i due inviati di Dio, ma che rimanevano ancorati a vecchi preconcetti: non avevano realizzato il fatto che Giovanni era e sarebbe stato l’ultimo dei profeti secondo le parole “La Legge durò fino a Giovanni”, ponte tra le due dispensazioni della Legge e della Grazia. Ora che Gesù aveva iniziato a predicare dimostrando di essere Colui che avrebbe rivelato il Padre, erano le Sue parole che gli uomini avrebbero dovuto conoscere, ascoltare e mettere in pratica, era Lui che avrebbero dovuto seguire. Invece tutti avevano una grande confusione in merito, compreso più avanti lo stesso Battista che, come abbiamo già ricordato, gli mandò a chiedere se era lui quello che avrebbe dovuto arrivare oppure avrebbero dovuto aspettarne un altro. Queste parole dimostrano che Giovanni, pur avendolo riconosciuto nelle modalità che abbiamo visto a suo tempo, era ancora ancorato all’idea secondo la quale il Messia avrebbe agito con potenza sui suoi nemici e quindi lo avrebbe liberato dalla prigione del Macheronte in cui certamente soffriva.

I discepoli del Battista, quindi, a vedere quell’abbondante convito, si scandalizzarono, ritenendo il digiuno meritevole davanti a Dio e l’agire dei discepoli di Gesù in contrasto con la loro posizione. Il digiuno: non lo troviamo comandato in modo chiaro e assoluto nella Legge, ma lo vediamo la prima volta come forma esteriore di penitenza nel caso di Mosè, che a fronte dei peccati del popolo stette senza mangiare né bere per un certo periodo (Deuteronomio 9.17-19). È probabile che il digiuno sia citato con l’espressione “affliggerete le vostre persone”, tradotto anche con “vi umilierete” in Levitico 16.28-34: in questo caso il digiuno è comandato una volta all’anno nel gran giorno dell’espiazione nel quale si compendiavano tutte le cerimonie espiatorie. Dice il testo “29Questa sarà per voi una legge perenne: nel settimo mese, nel decimo giorno del mese, affliggerete le vostre persone, vi asterrete da qualsiasi lavoro, sia colui che è nativo del paese sia il forestiero che soggiorna in mezzo a voi, 30poiché in quel giorno si compirà il rito espiatorio per voi, al fine di purificarvi da tutti i vostri peccati. Sarete purificati davanti al Signore. 31Sarà per voi un sabato di riposo assoluto e voi vi umilierete; è una legge perenne. 32Compirà il rito espiatorio il sacerdote che ha ricevuto l’unzione e l’investitura per succedere nel sacerdozio al posto di suo padre; si vestirà delle vesti di lino, delle vesti sacre. 33Purificherà la parte più santa del santuario, purificherà la tenda del convegno e l’altare; farà l’espiazione per i sacerdoti e per tutto il popolo della comunità. 34Questa sarà per voi una legge perenne: una volta all’anno si compirà il rito espiatorio in favore degli Israeliti, per tutti i loro peccati».

Fu nel corso del tempo che il digiuno assunse valore come pratica di penitenza e soprattutto con l’intento di mortificare gli appetiti della carne concentrandosi sullo spirito in grado di dominarla. Sappiamo che Gesù digiunava spesso e che non lo proibì, ma nel nostro episodio siamo di fronte a una realtà diversa: Marco ci spiega l’origine di quella contesa con le parole “I discepoli di Giovanni e i farisei stavano facendo un digiuno” (v.18); si trattava quindi di un’astinenza tradizionale, quella di cui, per lo meno i farisei, abusavano spacciandola come mezzo per essere giustificati davanti a Dio, ma facendo in modo di farlo notare agli altri. Gesù commentò così questo atteggiamento: “E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipocriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano. In verità vi dico che hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu digiuni, profumati la testa e làvati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto. E il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” (Matteo 6.16-18).

Anche prendendo il digiuno a prescindere da quanto abbiamo letto, a questo punto Gesù usa un termine che i discepoli di Giovanni dovevano conoscere molto bene perché lo avevano già sentito dal loro maestro, quello dello sposo: “Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro?”. E, parlando della Sua morte imminente, aggiunge “Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno”. Giovanni non era lo sposo, ma il suo amico, che si “rallegra grandemente alla sua voce”. Il digiuno quindi, emblema del cordoglio, era lì fuori luogo.

Gesù si definisce quindi come “lo sposo” e i presenti al banchetto come “gli invitati alle nozze”, o meglio “gli amici della camera nuziale”, in questo caso quei pubblicani e i peccatori ai quali aveva o avrebbe predicato invitandoli a condividere, credendo in lui, la partecipazione alle nozze future, quelle che si sarebbero celebrate quando la Chiesa, sposa di Cristo, avrebbe potuto essere presentata a lui completa, con tutti i suoi membri.

Già negli scritti dell’Antico Patto i profeti avevano parlato dello sposo, fra i molti Isaia che scrive “…poiché il tuo sposo è il tuo creatore, Signore degli eserciti – angelici – è il suo nome; tuo redentore è il santo di Israele, è chiamato Dio di tutta la terra” (Isaia 54.5), parole che Paolo accosta alla Gerusalemme che deve venire in cui dimoreranno tutti i credenti: “La Gerusalemme attuale è di fatto schiava assieme ai suoi figli. Invece la Gerusalemme di lassù è libera ed è la madre di tutti noi” (Galati 4.25,26).

Lo sposo però, tornando al presente cui Gesù fa riferimento, “sarà tolto”, termine che esprime violenza e sta ad indicare il dolore e la paura che si impossesserà dei discepoli dal Suo alla resurrezione.

A questo punto Gesù pone i suoi uditori innanzi a due paragoni, quello del panno e degli otri: c’è un vestito, termine che nella Scrittura si riferisce sempre a una condizione (giustizia, perdono, purezza, vendetta, gioia e lode) e c’è un rattoppo, cioè una parte nuova, ma grezza, non gestibile perché il rammendo provocherebbe al primo lavaggio il restringersi dal tessuto vecchio lacerandolo e ottenendo un effetto ancora peggiore. Ci sono poi gli otri vecchi che, già indeboliti e irrigiditi dalla fermentazione del vino precedente, scoppierebbero di fronte alla forza del nuovo: Gesù allora non parla di uomini, ma di sistemi e, come scrive Robert Stewart, “Nel vino nuovo è simboleggiato il Vangelo con la sua energia viva e spirituale, negli otri vecchi la dispensazione cerimoniale giudaica”. L’insegnamento di Gesù in questo caso è che l’energia, la potenza del Vangelo, non può essere limitata dall’osservanza della lettera, ma deve svilupparsi con lo Spirito perché è scritto che la prima uccide, mentre lo spirito vivifica. Mescolando tra loro le due dispensazioni e i loro contenuti entrambe non potrebbero reggere e verrebbero sfigurate, svuotate, si distruggerebbero per quanto non siano tra loro in antitesi. Un vestito è vecchio, ma c’è un panno nuovo che in comune col primo ha solo la composizione del tessuto. Gli otri sono vecchi, hanno già svolto il loro compito, hanno già dato, non sono in grado di reggere un vino nuovo. Sappiamo che l’apostolo Paolo, nonostante il suo passato di dottore della Legge, scrive in proposito:“8Dio infatti, biasimando il suo popolo, dice: Ecco: vengono giorni, dice il Signore, quando io concluderò un’alleanza nuova con la casa d’Israele e con la casa di Giuda. 9Non sarà come l’alleanza che feci con i loro padri, nel giorno in cui li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto; poiché essi non rimasero fedeli alla mia alleanza, anch’io non ebbi più cura di loro, dice il Signore. 10E questa è l’alleanza che io stipulerò con la casa d’Israele dopo quei giorni, dice il Signore: porrò le mie leggi nella loro mente e le imprimerò nei loro cuori; sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. 11Né alcuno avrà più da istruire il suo concittadino, né alcuno il proprio fratello, dicendo: «Conosci il Signore!». Tutti infatti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande di loro. 12Perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati. 13Dicendo alleanza nuova, Dio ha dichiarato antica la prima: ma, ciò che diventa antico e invecchia, è prossimo a scomparire.” (Ebrei 8.8-13). I versi che Paolo cita, riferiti al capitolo 31 di Geremia, li pone in una prospettiva che deve ancora venire.

Torniamo al nostro episodio e facciamo ora riferimento a Luca, il solo a fare un’aggiunta dopo il paragone dei rattoppo e degli otri: “Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice «Il vecchio è gradevole»” (5.39). Gesù fa qui una considerazione amara su quanti, abituati al sapore del vino vecchio, non gradiscono il nuovo. I farisei e i discepoli di Giovanni erano abituati, affezionati alle loro antiche abitudini, dottrine e tradizioni e in queste si ritenevano al sicuro perché “si è sempre fatto così”, come sentiamo dire da molti. Così avevano ereditato le tradizioni, c’erano rabbini che su di esse costruivano interpretazioni e teoremi, la Legge cerimoniale era una condizione di vita alla quale attingere, ma anche sulla quale sostare in pace con la propria coscienza, convinti di essere nel giusto, che a tutto ci fosse rimedio. Ne erano però prigionieri, nulla vedevano al di là di essa né volevano alcunché di nuovo per cui la dottrina di Cristo era malvista nonostante fosse accompagnata da segni volti a far capire che il Regno di Dio era giunto a loro dopo millenni di deserto, pur con qualche speranza data da profeti troppo spesso rimasti inascoltati. Diversi furono però i samaritani, che dissero “Noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo”. Vino nuovo in otri nuovi.

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