11.10 – IL CIECO DI BETSÀIDA (MARCO 8.22-28)

11.10 – Il cieco di Betsàida (Marco 8.22-28)

 

22Giunsero a Betsàida, e gli condussero un cieco, pregandolo di toccarlo. 23Allora prese il cieco per mano, lo condusse fuori dal villaggio e, dopo avergli messo della saliva sugli occhi, gli impose le mani e gli chiese: «Vedi qualcosa?». 24Quello, alzando gli occhi, diceva: «Vedo la gente, perché vedo come degli alberi che camminano». 25Allora gli impose di nuovo le mani sugli occhi ed egli ci vide chiaramente, fu guarito e da lontano vedeva distintamente ogni cosa. 26E lo rimandò a casa sua dicendo: «Non entrare nemmeno nel villaggio».

 

 

Narrato solo da Marco, si tratta di un miracolo che ha numerose analogie con quello già esaminato del sordomuto della Decapoli, gli unici due in cui Gesù ricorre alla saliva per guarire. È interessante l’introduzione, “Giunsero – e non “approdarono” – a Betsaida”, che ci lascia supporre il fatto che, coi suoi discepoli, Nostro Signore fosse sbarcato in qualche punto disabitato della sponda orientale del lago, dove i dodici si accorsero di non avere che “un solo pane” e vi fu l’insegnamento sui tre lieviti, dei farisei, dei sadducei e di Erode. Evidentemente c’era l’intenzione che il loro ingresso in Betsaida fosse in un certo qual modo più “riservato” rispetto a quello di un eventuale approdo, che avrebbe suscitato la curiosità degli abitanti del luogo che si sarebbero subito radunati sulla spiaggia. Gesù, quindi, arrivò nel paese di origine di Pietro, Andrea e Filippo, in cui aveva già operato molti miracoli come da 1.32-34: “Venuta la sera, gli portarono molti malati e indemoniati, (…) Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni, ma non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano”. Per lo stile e gli scopi che Marco si prefigge, cioè narrare gli episodi salienti e ricchi di riferimenti spirituali, va precisato non abbiamo elementi sufficienti per stabilire con piena certezza se quanto appena letto avvenne in Capernaum, oppure nella Betsaida da lei poco distante, o ancora in un punto equidistante da esse.

In ogni caso, in quel villaggio Gesù era ben conosciuto e infatti “gli condussero un cieco, pregandolo di toccarlo”, legati come molti al fatto che doveva esserci un contatto fisico con Lui perché una persona potesse guarire. Nel caso del sordomuto abbiamo letto che “lo pregarono di imporgli la mano”, dando così prova di riconoscerLo come profeta. Se però per quel miracolo è scritto che Gesù “lo prese in disparte”, qui lo prende per mano e lo porta fuori dal villaggio, senza che il cieco opponesse resistenza: ci fu un dialogo tra i due? Gesù gli disse “Guarda, ti porto fuori dal villaggio”, oppure quella mano gli diede sicurezza e speranza senza che vi fosse bisogno di chiedere qualcosa? Certo quelli che lo avevano portato a Lui gli avranno detto che avrebbe incontrato Uno che avrebbe potuto guarirlo ma, non vedendo, quell’uomo non poteva sapere chi fosse, riconoscerlo, guardarlo, pur avendone sentito parlare. L’udito fu allora il primo senso a venire coinvolto.

Ci fu allora, quando i due s’incontrarono, un primo intervento rappresentato dal contatto attraverso la mano, gesto più intimo rispetto a quello del portare una persona prendendola per un braccio (o sotto) ad evitare eventuali cadute o inciampi, come fanno ad esempio i soccorritori di oggi, ma non sarebbe stata la stessa cosa.

La mano. Può essere alzata per colpire, come fece Caino col fratello (Genesi 4.8) e molti altri esempi, per giurare (14.22; 24.2); può ricevere qualcosa, ma anche venire condotta come in questo caso e, andando indietro nel tempo, per confermare l’assistenza di Dio come avvenne con Lot in Sodoma: “Quando apparve l’alba, gli angeli fecero premura a Lot, dicendo: «Su, prendi tua moglie e le tue due figlie che hai qui, per non essere travolto nel castigo della città». Lot indugiava, ma quegli uomini presero per mano lui, sua moglie e le sue due figlie, per un grande atto di misericordia del Signore verso di lui; lo fecero uscire e lo condussero fuori della città.” (Genesi 19.15,16). La mano è quindi figura di un intervento di Dio, come leggiamo in molti episodi del libro dell’Esodo, si cui troviamo anticipazione in 3.19: “Io so che il re d’Egitto non vi permetterà di partire, se non con l’intervento di una mano forte”.

Il cieco allora sentì la mano di Gesù, certamente non fredda, ma quel contatto non lo guarì a differenza di quanto era già avvenuto con chi toccava anche solo le frange del mantello: l’esperienza di quel cieco doveva essere diversa e la guarigione doveva avvenire poco per volta. Se fosse bastato un semplice contatto fisico, allora Nostro Signore sarebbe sottostato ai voleri degli accompagnatori di quell’uomo, che gli chiedevano appunto di toccarlo. Vi fu allora un tempo in cui il cieco stette a stretto contatto con Lui, con quella mano così diversa che sapeva condurlo meglio di chiunque altro nonostante l’insicurezza dei suoi passi. Chi non vede, se vuole affrontare un cammino sconosciuto, deve necessariamente fidarsi del proprio accompagnatore, altrimenti rimane fermo e disorientato, non sa cosa fare e l’unica cosa che può impossessarsi di lui è il timore, cosa che chiaramente non avvenne.  La mano di Gesù allora fu l’unico riferimento per quell’uomo che, privo della vista, aveva sviluppato in modo particolare l’udito e il tatto per cui chissà quali sensazioni avrà provato.

Ora, come avvenuto con sordomuto, Nostro Signore sostituisce il linguaggio verbale con quello dei gesti: nel primo caso usa le dita e la saliva, qui gli umetta gli occhi con essa e gli parla, perché in grado di udire. Il testo riporta una sola domanda. “Vedi qualcosa?”, lasciando all’uomo la risposta esattamente come al paralitico a Betesda, “Vuoi guarire?”. Marco ci descrive la reazione del cieco, che non guarda davanti a sé cercando di vedere, ma scrive “quello, alzando gli occhi”: li teneva bassi, o cercava l’azzurro di cui gli avevano parlato?

La risposta “Vedo la gente – altri traduce “gli uomini” –, perché vedo come degli alberi che camminano”, ha un significato molto più profondo di quello che potrebbe apparire, perché non sappiamo se fosse cieco dalla nascita oppure lo sia diventato. Nel primo caso, non aveva la possibilità di sapere cosa fossero gli alberi, ma conosceva che la tradizione ebraica, oltre che la Scrittura stessa, paragona gli uomini a loro. Gesù stesso disse in Matteo 3.10 “Già la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco”. Come alternativa, riferita alla seconda ipotesi anche se più dubbia, comunicava a Gesù di vedere in modo confuso in base alla sua conoscenza pregressa.

In realtà ciò che importa è che da quelle parole traspare la richiesta di un aiuto ulteriore, perché la vista cominciava a dare qualche debole segnale, ma non abbastanza per raggiungere quell’autonomia tanto sperata. “Allora gli pose di nuovo le mani sugli occhi ed egli ci vide chiaramente, fu guarito e da lontano vedeva distintamente ogni cosa”: non fu un miracolo imperfetto nel suo evolversi, ma un avvenimento che Marco, una volta disceso lo Spirito Santo, lasciò a testimonianza dell’efficacia della Parola di Dio sull’uomo, cieco prima di conoscerla ed accoglierla, che dopo l’intervento teso a salvarlo ha tutt’altro che raggiunto la possibilità di vedere tutto nei dettagli ed essere autonomo, ma ha bisogno di un percorso per distinguere ciò che lo circonda da vicino e da lontano “distintamente”, parola che sottintende la possibilità di scegliere ciò che è utile da ciò che non lo è e comportarsi di conseguenza. Il vedere “da lontano distintamente ogni cosa”, ci parla poi della capacità di discernere gli effetti delle nostre azioni, di chi fidarci oppure no delle persone con cui abbiamo a che fare per lo spirito che le anima.

Se quel cieco si fosse accontentato di vedere gli uomini come alberi, sarebbe certo inciampato e non sarebbe stato in grado di orientarsi una volta allontanatosi stentatamente da Gesù: quando una persona si converte non conosce tutto il progetto salvifico di Dio nei suoi confronti, ma solo il Suo amore rivelato attraverso la persona ed opera del Figlio; spesso basta un verso per essere presi per mano ed essere portati “in disparte”: “Iddio ha tanto amato il mondo, da dare il suo Unigenito Figlio perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna”.

Ci sono allora dei miracoli immediati, volti a fare ammettere a chi legge che, senza un intervento diretto del Padre che lo attira al Figlio e si rivela tramite lo Spirito Santo, si è e si rimane ciechi, sordi, muti, zoppi o malati (o tutte queste cose assieme); poi però è necessario un cammino, una rivelazione successiva e – aggiungo – continua: fu così col paralitico di Betesda, che non sapeva chi fosse Colui che lo aveva guarito e solo successivamente ne ebbe contezza, col sordomuto che provò su di sé le attenzioni di Gesù avvertendole in quel corpo chiuso alla ricezione e alla trasmissione, così impossibilitato a comunicare. Troviamo tracce dell’insegnamento di Dio con Mosè che, attratto dalla visione del cespuglio che bruciava senza consumarsi, non sapeva di trovarsi di fronte alla Sua presenza. Un fratello ha scritto “Quello del cespuglio ardente è un racconto che fa riflettere circa il nostro passato umano, condizione che non ci permette di stare vicini a Dio così come siamo perché non si può non considerare la santità del suo Nome e la separazione storica tra Lui e l’uomo a causa del peccato introdotto nel mondo da Adamo ed Eva”.

Infatti, se una persona non viene convinta di peccato, giustizia e giudizio per mezzo dello Spirito Santo, non arriverà mai a Lui. Allora, ecco che inizia a vedere “gli uomini che sembrano alberi”, ma quando comprende, paragona la santità di Dio alla condizione in cui vive e medita su di essa, ecco che inizia a prendere atto progressivamente di ciò che lo circonda fino a distinguere le cose anche da lontano.

L’episodio si conclude con una proibizione: rimandandolo a casa sua gli disse “Non entrare nemmeno nel villaggio” perché quanto avvenuto era il frutto di un’esperienza unica, diretta, personale, che solo una volta elaborata e meditata andando oltre la guarigione in sé poteva essere comunicata e rappresentata agli altri con modi e termini appropriati. In pratica, Gesù vuole porre quell’uomo in una condizione diversa, oltre la teatralità dell’esultanza facendosi vedere dai suoi simili gridando la sua guarigione perché avrebbe fatto, di quel miracolo così personale, un pubblico spettacolo.

Abbiamo allora, raccordando tra loro il miracolo del paralitico di Betesda e questo in esame, due domande: prima Gesù chiede all’uomo, infermo sempre e comunque, se vuole guarire e, pensando alle persone che conosciamo, la risposta non è così scontata. Per beneficiare dell’intervento di Nostro Signore, però, è necessario essere presi in disparte, lontano dalla folla indipendentemente dal fatto che questa sia costituita da amici, parenti o semplici persone conosciute superficialmente, poiché il dialogo con lui avviene, appunto, lontano da interferenze.

Poi c’è una domanda fondamentale, “Vedi qualcosa?”, la cui risposta determina davvero la qualità della visione: se uno si autoconvince di vedere, s’incammina verso una vita di presunzione, ma se ammette, confessa di percepire le cose in modo imperfetto, ottiene la vera guarigione come testimoniò anche Pietro nella sua seconda lettera: “Per questo mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l’amor fraterno, all’amor fraterno la carità. Se queste cose si trovano in abbondanza in voi,  non vi lasceranno né oziosi, né senza frutto per la conoscenza del Nostro Signore Geù Cristo. Chi invece non ha queste cose è cieco e miope, dimenticando di essere stato purificato dai suoi antichi peccati” (1.8.9). Amen.

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