11.35 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 6: IL RAPPORTO FRATERNO I (Matteo 18.15-18)

11.35 – Il discorso ecclesiologico 6, il rapporto fraterno I (Matteo 18. 15-18)

 

15Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; 16se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni.17Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. 18In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.

 

            È la parola del verso 17, qui tradotta con “comunità”, letteralmente “assemblea”e da altri “Chiesa”che troviamo la giustificazione al titolo di queste riflessioni, “il discorso ecclesiologico”, perché qui, per la prima volta nei discorsi di Gesù riservati ai discepoli, si parla di qualcosa che va oltre alla Sinagoga ebraica, che mai avrebbe avuto il potere di“legare e sciogliere”correlato a ciò che è “in cielo”. Ricordiamo anche le due scuole rabbiniche di Hillel e Shammai, la prima più rigida e l’altra più elastica nell’interpretazione della Legge, che però non ebbero alcun potere in tal senso. Sempre per la prima volta, poi, viene descritta la comunità dei credenti come un organismo vivo, chiamato ad agire e operare anche al suo interno e non solo nella predicazione del Vangelo, in quanto composta da esseri umani che, nonostante la chiamata ad essere “santi”, possono sbagliare e non essere effettivamente liberati da quegli elementi tipici del mondo che li hanno caratterizzati prima della loro salvezza. Per molti queste parole possono costituire un controsenso, ma dobbiamo pensare che riguardano l’uomo nel profondo e dimenticano che, se Cristo li ha liberati dal peccato, non significa che di colpo hanno raggiunto la perfezione, ma sono stati posti nella condizione di perseguire un cammino di verità che richiede lo spogliarsi costante dell’ “uomo vecchio”con tutte le sue prepotenti esigenze.

Ricordiamo in proposito alcuni passi importanti, il primo dei quali già citato: “Celebriamo la festa – la Pasqua, quindi il memoriale– non con il lievito vecchio, né con lievito di malizia e di perversità, ma con azzimi di sincerità e di verità”(1 Corinti 5.8), invito rivolto a quei credenti che non si sono ancora liberati del “lievito vecchio”, ma ancor di più Efesi 4.17-32 che descrive in modo perfetto ciò che eravamo e ciò che siamo, o dovremmo essere, condizionale che non ammetterà scusanti quando ci troveremo davanti a Lui nel “rendiconto”: “Vi dico dunque e vi scongiuro nel Signore– notiamo l’appello accorato dell’Apostolo – : non comportatevi più– perché il ricordo di quelle azioni non è scomparso e neppure il loro richiamo – come i pagani con i loro vani pensieri, accecati nella loro mente, estranei alla vita di Dio a causa dell’ignoranza che è in loro e della durezza del loro cuore. Così, diventati insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza e, insaziabili, commettono ogni sorta di impurità. Ma voi– ecco l’identità nuova – non così avete imparato a conoscere il Cristo, se davvero gli avete dato ascolto e se in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare, con la sua condotta di prima, l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità”.

In questa prima parte, allora, Paolo ricorda ciò che gli Efesi erano e ciò che sono, situazione che può dirsi ed essere stabile solo se la condotta dell’uomo vecchio viene abbandonata e si pone in opera il rinnovamento, azione che non finisce mai. Il testo prosegue: “Perciò, bando alla menzogna e dite ciascuno la verità al suo prossimo, perché siamo membra gli uni degli altri. Adiratevi, ma non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira, e non date spazio al diavolo. Chi rubava non rubi più, anzi lavori operando il bene con le proprie mani, per poter condividere con chi si trova nel bisogno. Nessuna parola cattiva esca dalla vostra bocca, ma piuttosto parole buone che possano servire per un’opportuna edificazione, giovando a quelli che ascoltano. E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste segnati per il giorno della redenzione. Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato voi in Cristo”.

Ecco, quanto letto possiamo definirlo un appello,  un richiamo accorato a riconoscere i difetti ancora presenti in noi per operare alla loro eradicazione esattamente come quando, poco prima nel suo discorso, Nostro signore aveva parlato della necessità di amputare la mano, il piede e/o l’occhio a seconda della “concupiscenza”che attrae ciascun membro della Chiesa. E ricordiamo ancora Colossesi 3.10,11 che ricorda quanto avvenuto in noi un giorno: “Vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova– azione quindi che si sviluppa nel tempo e non subito – per una piena conoscenza, ad immagine di Colui che lo ha creato. Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Sciita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti. Scelti da Dio, santi e amati, rivestitevi dunque di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri, se qualcuno avesse di che lamentarsi nei confronti di un altro. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Ma sopra tutte queste cose, rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto”.

Appare ora evidente che, nei passi dell’Apostolo citati, la divisione netta fra chi appartiene a Dio e chi no, quindi tra “uomo vecchio”e “uomo nuovo”, diventa tale solo nel momento in cui chi ha creduto sceglie di aderire al progetto di Dio in prima persona, cioè operando in sé affinché il Signore sia posto nella condizione di agire attraverso il suo Santo Spirito; viceversa, quanto viene letto e la partecipazione alle riunioni dell’Assemblea resteranno solo atti compiuti senza altro scopo che quello dell’apparenza e della soddisfazione della carne, di quella sua parte erroneamente definita “spirituale”.

 

Fatta questa importante premessa, possiamo affrontare quanto detto da Gesù ai discepoli che, in questo intervento, forse allude a quella discussione animata avvenuta poco prima, quando vi era stata la discussione tra chi di loro fosse “il maggiore”, cioè il più importante, il più atto a comandare sugli altri, o il preferito dal Maestro. Ancora, ricordiamo quando si erano rivolti accuse reciproche perché si erano ritrovati con un solo pane sulla barca, insufficiente a sfamarli. Possiamo dire che sicuramente quanto avvenuto nei due episodi era qualcosa di tipicamente, tristemente umano e altrettanto la è l’ipotesi formulata al verso 13, “Se un tuo fratello commetterà una colpa contro di te”, dove la “colpa”, originale dal greco “peccare contro, ingiuriare”, si riferisce a torti o a litigi di natura privata. Superficialmente c’è chi è convinto che certe cose, fra veri cristiani, sia impossibile che succedano, ma qui – e non solo – emerge l’esatto contrario, anzi, vi è un richiamo a Levitico 19.17-19 “Non coverai nel tuo cuore odio contro il tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore. Osserverete le mie leggi”. Ed è bello considerare che, se in questo passo abbiamo delle proibizioni ferme, nelle parole che troviamo negli scritti del Nuovo Patto il motore che muove i componenti della Chiesa è l’amore che portano in e per Cristo a spingerli, che non consente l’odio covato nel cuore. L’amore per il “prossimo”viene poi purtroppo generalizzata ed estesa a chiunque, mentre in realtà è riferita a chi è “vicino”, quindi al confratello, o consorella e non può essere applicata alle persone con le quali abbiamo a che fare quotidianamente, che non fanno parte della famiglia di Dio. Non si tratta di comportarsi come dei settari, ma di dare priorità e chi la deve avere tenendo sempre presente che coloro che non conoscono l’amore di Dio possono comunque diventare suoi figli in futuro, a meno che non abbiano uno spirito di opposizione.

Possiamo dire che l’offesa e il contrasto portato da chi appartiene al mondo è naturale e inevitabile ma quella portata da un fratello, per le dinamiche che si sono instaurate, è innaturale ma possibile, e allora occorre agire affinché si pervenga ad una soluzione proprio perché quello stato di inimicizia conseguente alla “colpa”contro la persona venga a cessare: esattamente come per le amputazioni di cui Gesù ha parlato poco prima di questi versi, tese ad impedire lo sviluppo di situazioni moralmente e spiritualmente incresciose, con il “va’, e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolta, avrai guadagnato il tuo fratello”, abbiamo la cura contro il rancore, “il rancido del cuore” come qualcuno lo ha definito, che sfocerebbe inevitabilmente in astio aperto facilmente riconoscibile dagli altri componenti della Chiesa che, ignorandone le cause, potrebbero venire scandalizzati ed interrogarsi in merito senza possibilità di comprendere.

“Avrai guadagnato il tuo fratello”è il risultato del “se ti ascolta”, cioè ammette il proprio torto e qui viene chiamata in causa l’intelligenza spirituale tanto dell’una quanto dell’altra parte, poiché l’eventuale offeso deve porre amorevolmente l’offensore nelle condizioni di ammettere il proprio errore; in altri termini non basta dire “tu mi hai fatto questo”, perché altrimenti la questione verrebbe posta nello stesso ambito in cui l’offesa è stata generata e la contesa si riproporrebbe identica. Piuttosto, qui vengono chiamate in causa la verità e la carità assieme affinché il fratello sia guadagnato, cioè che la contesa cessi a vantaggio dell’amore possibile solo nel momento in cui la parte colpevole comprenda – più che ammetta, perché quello viene da sé – il proprio errore. Anche qui possiamo citare ad esempio il profeta Natan che, quando dovette far riconoscere a Davide il peccato commesso con la moglie di Uria, non andò da lui accusandolo, ma gli narrò una parabola ponendolo nella condizione di autoaccusarsi, rivelandogli successivamente che era lui ad avere sbagliato e non il personaggio ipotetico presentato (2 Samuele 12.1-12): Vi erano due uomini nella stessa città, uno ricco e l’altro povero. Il ricco aveva bestiame minuto e grosso in gran numero; ma il povero non aveva nulla, se non una sola pecorella piccina che egli aveva comprata e allevata; essa gli era cresciuta in casa insieme con i figli, mangiando il pane di lui, bevendo alla sua coppa e dormendo sul suo seno; era per lui come una figlia. Un ospite di passaggio arrivò dall’uomo ricco e questi, risparmiando di prendere dal suo bestiame minuto e grosso, per preparare una vivanda al viaggiatore che era capitato da lui portò via la pecora di quell’uomo povero e ne preparò una vivanda per l’ospite venuto da lui». Allora l’ira di Davide si scatenò contro quell’uomo e disse a Natan: «Per la vita del Signore, chi ha fatto questo merita la morte. Pagherà quattro volte il valore della pecora, per aver fatto una tal cosa e non aver avuto pietà». Allora Natan disse a Davide: «Tu sei quell’uomo»”.

Ecco allora che, porgendo ai suoi discepoli questo insegnamento, Gesù non intende esporre soltanto una formale, corretta procedura, ma sottolinea l’obiettivo primario, il “guadagnare il tuo fratello”che, “se ti ascolta”, si troverà ad essere un debitore spirituale perché, grazie a quell’intervento, sarà stato posto nelle condizioni di crescere spiritualmente avendo rimosso un’importante pietra d’inciampo nel proprio cammino. Inoltre, chiamando in causa l’intelligenza dell’offeso, avrà posto quest’ultimo nelle condizioni di utilizzare una strategia tesa non al redimere ciò che di umano si era venuto a creare, ma al ristabilimento di un equilibrio tanto necessario quanto inevitabile per entrambi perché, nel culto, la presenza dell’inimicizia e della non comunione piena non sono ammessi. L’obiettivo finale è infatti posto in risalto da Giacomo, “fratello del Signore”: “…se uno di voi si allontana dalla verità e un altro ve lo riconduce, costui sappia che chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore lo salverà dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati”(5.19,20). Perché siamo esenti dall’errore fino a prova contraria. Amen.

* * * * *

 

 

11.34 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 5: LA PECORA SMARRITA (Matteo 18.24-27)

11.34 – Il discorso ecclesiologico 5: la pecora smarrita (Matteo 18. 24-27)

 

12Che cosa vi pare? Se un uomo ha cento pecore e una di loro si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti e andrà a cercare quella che si è smarrita? 13In verità io vi dico: se riesce a trovarla, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. 14Così è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda.

 

            Chi legge questa parabola prova, tecnicamente, un sottile senso di smarrimento perché è indubbio che sia connessa a quella, dal racconto più esteso, inserita in un gruppo di tre che trattano il recupero della persona (Luca 15.4-7), che svilupperemo più avanti quanto a testo: “Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non ascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: «rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta». Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione”. Si tratta indubbiamente di un’esposizione più ricca di dettagli, dedicata a chi si era radunato per ascoltarlo, “i pubblicani e i peccatori”, oltre che “i farisei e gli scribi”che “mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. Nel nostro testo, più stringato, Gesù parla ai suoi. In entrambi i racconti abbiamo però gli stessi numeri, il cento e il novantanove, che vanno esaminati per capire meglio ciò che Nostro Signore volle annunciare in entrambe le circostanze.

 

Il numero cento: già il fatto che sia il risultato della moltiplicazione di 10×10 ci dà l’idea che troviamo la figura di quanto basta agli occhi di Dio non dal punto di vista della sufficienza, ma del raggiungimento delle Sue aspettative, non di più né di meno, e quindi ci parla di ciò che Lo soddisfa. Il 100 è al tempo stesso rappresentazione di una cifra precisa, mi viene da raccordarla con “il giorno e l’ora” conosciuti solo dal Padre, vista nel massimo che l’uomo può dare, come leggiamo nel risultato della germinazione dei terreni: “Un’altra parte cadde nel terreno buono e diede il frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno”(Matteo 13.8), là dove la il “terreno buono”è identificato in “colui che ascolta la parola e la comprende”(v.23). Ascolto e comprensione formano quindi un tutt’uno e siamo responsabili dell’una e dell’altra azione perché altrimenti saremmo come colui che si guarda allo specchio in Giacomo 1.23,24: “Se uno ascolta la Parola e non la mette in pratica, costui somiglia a un uomo che guarda il proprio volto allo specchio; appena si è guardato, se ne va, e subito dimentica com’era”, descrizione che purtroppo si adatta a molti.

Ricordiamo poi, tornando al tema numerico, i cento denari di debito al “servo spietato”, indice questa volta di proporzione, cioè relativi alla fattibilità del rifonderlo, i gruppi “di cento e di cinquanta”visti nel miracolo della “moltiplicazione dei pani e dei pesci”. Possiamo anche definire questo numero come quello in cui Dio e l’uomo si incontrano, perché Gesù disse “Non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la ita eterna nel tempo che verrà”(Marco 10.30). Abbiamo poi gli anni di Abrahamo quando diventò padre di Isacco, appunto cento (Genesi 21.5), contrapposti agli 86 di quando ebbe Ismaele (16.16) e ai novantanove di quando gli fu promesso un figlio da Sara.

Stante ciò che il cento rappresenta va da sé che il novantanove sia un chiaro indice non tanto di inferiorità, ma di mancanza, incompletezza di fronte alla quale si rende necessario un diretto intervento di Dio perché questa venga a cessare: qui viene raccontato di un pastore che, dopo uno dei tanti conteggi di controllo durante la giornata, si accorge che una pecora manca. Rileviamo che qui Nostro Signore parla di “pecore”, cioè di un animale ben preciso affrontato già diverse volte, ma qui direi che è necessario sottolineare che la pecora in questione è già sua, quindi il riferimento è all’uomo chi gli appartiene tanto prima che dopo avere fatto la Sua conoscenza. E sono convinto che qui, a parte le riflessioni che faremo più avanti quando esamineremo la parabola nella sua forma “completa” in Luca 15, stia la totalità del principio: Gesù disse ai Giudei “voi non credete, perché non siete delle mie pecore”(Giovanni 10.26), cioè non lo erano né lo sarebbero mai stati perché il loro “padre”era un altro (8.44). Ora il discorso si fa più sottile, perché se il cristiano salvato appartiene a Dio ed è quindi una “pecora”, in un certo senso lo era anche prima pur non essendo ancora stato chiamato e salvato: se infatti i nomi scritti nel libro della vita lo sono “prima della fondazione del mondo”, va da sé che già mentre eravamo peccatori, senza rendercene conto, avevamo degli elementi in noi che sarebbero germogliati un giorno. Per non creare fraintendimento con queste mie frasi, era come se fossimo attesi ed ecco perché il nostro nome era già scritto, conosciuto.

Qui dobbiamo prestare attenzione perché ciò non ha nulla a che vedere con la predestinazione in quanto l’uomo è sempre libero di scegliere, si trova perennemente di fronte a un bivio anche solo ogni qualvolta pensa. La decisione sulla strada da percorrere viene fatta volontariamente dalla persona e senza nessuna influenza nonostante pesino le scelte fatte anzitempo dalla propria famiglia, che di lui porta tanto la responsabilità quanto gli trasmette elementi di cui farà tesoro in seguito, nel bene e nel male. La possibilità di mutare l’indirizzo della propria vita però c’è sempre, la chiamata di Dio è per ogni uomo e soprattutto è personale, per cui personalmente si accetta o personalmente si rifiuta. Poi, a rendere pratico il verso che abbiamo visto tempo fa, “Nessuno viene a me se il Padre non lo attira”, è la somma di un’infinità di elementi, tutti volontari e valutati da Colui che è.

Il pastore “lascia le novantanove sui monti”, dove non possono smarrirsi, in un recinto o sorvegliate dai cani, e va “a cercare quella che si (è) smarrita”: deve fare fatica, tornare indietro, chiedersi la direzione che un animale come la pecora, priva di orientamento, può avere preso. Deve controllare eventuali tracce sul terreno, guardare negli anfratti, fra i cespugli, tendere l’orecchio per sentire un eventuale belato. Notiamo anche come sia esclusa la possibilità che la pecora in questione sia stata rubata, ma l’esempio vale per quella che si è persa e anche qui intravediamo la verità in base al quale “nessuno può strapparle dalla mia mano”perché la pecora può perdersi, ma non morire.

Mi sono chiesto a questo punto il perché e come un uomo possa smarrirsi e qui possiamo aprire due discorsi, il primo riguarda la vita condotta prima dell’incontro col Signore Gesù: come la pecora, vagavamo cercando di nutrirci con quel poco che riuscivamo a trovare. E c’era un senso di incompletezza, più o meno dominante. Aspirazioni che si inseguivano, ideali di vita che a volte sembravano vicini, altre si allontanavano, ma la consapevolezza di essere persi non c’era e ci si limitava a rincorrere un vuoto lontanamente consapevole. E quando siamo stati trovati, tutto è cambiato, siamo stati portati in una dimensione prima sconosciuta.

L’essere credenti, però, non ci garantisce l’ingresso in una sorta di paradiso terrestre in cui “tutto è bellissimo” e si vive perennemente con “la pace nel cuore”, ma siamo sempre in un mondo che richiede adesione, che tenta, propone modelli di vita e ideali di fronte ai quali esiste sempre il rischio di soccombere, soprattutto se non si hanno conosciuto quegli spazi e sistemi che fanno maturare. E allora anche in questo caso è facile perdersi, come la pecora della parabola che, probabilmente, è rimasta indietro nel percorso del gregge. E qui si parla comunque di un animale preciso, quindi, in base a questa seconda classificazione, di un appartenente della Chiesa, di un salvato il cui nome è scritto nel libro della vita, perché altrimenti la classificazione sarebbe diversa (ricordiamo le parole su quelli che “se sono caduti, è impossibile rinnovarli una seconda volta portandoli alla conversione”in Ebrei 6.6). Ebbene, anche qui l’opera del pastore è la stessa, si mette a cercare.

Notiamo che al verso 11 Gesù non dà per scontato il fatto che la sua ricerca abbia un esito felice: “Se riesce a trovarla”perché trovare una pecora implica tanto la messa in atto degli accorgimenti citati poco prima, quanto il chiamarla e soprattutto che lei risponda, come in effetti avviene ancora oggi, fatto di cui troviamo traccia anche nelle parole che descrivono il rapporto del Pastore: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”(Giovanni 10.27). Nel nostro caso, allora, quel “Se riesce a trovarla”implica il fatto che la pecora risponda, si metta a belare per farsi sentire e sappiamo che in quel caso il ritrovamento è inevitabile.

La parabola qui esposta credo abbia un significato diverso da quella che ritroveremo in Luca, poiché, ricordando le parole citate all’inizio, leggiamo che il pastore “va in cerca di quella perduta, finché non la trova. Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici, e dice loro «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta»”(15.5,6).

In questa di Matteo leggiamo “…si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite”, e qui abbiamo qualcosa per noi umanamente poco comprensibile: novantanove pecore sono un bel numero e una in meno, dal punto di vista del profitto, è poca cosa soprattutto secondo la mentalità dell’allevamento moderno, ma il discorso di Gesù è distante anni luce da questo ragionamento perché qui la pecora è vista come valore per la vita che porta e per il fatto che è stata affidata a quel Pastore che considera le novantanove che ha già come un dato di fatto. Quella che si è persa, però, rappresenta una sconfitta nei confronti della totalità del gregge. E infatti non a caso il testo conclude con “Così è la volontà del Padre vostro, che nessuno di questi piccoli si perda”.

Dalle parole di Gesù, come in effetti è, sembra che la perduta ritrovata abbia un valore maggiore rispetto alle altre rimaste e così è perché la considerazione che fa il Pastore di quell’animale è simbolicamente la stessa che troviamo sul figlio prodigo tornato alla casa paterna: “…questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”(Luca 15.24). Lo stesso non poteva dirsi delle altre pecore che non si erano smarrite ed ecco perché è scritto che “vi sarà più gioia nel cielo per un peccatore che si converte, più che per novantanove giusti che non han bisogno di conversione”(Luca 15.7). È proprio per questa “gioia nel cielo”avvenuta nel momento in cui ci siamo arresi all’amore di Dio che abbiamo il dovere di perseverare nel cammino che ci è destinato. E siamo responsabili anche di quella gioia. Amen.

* * * * *

 

11.33 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 4: LA MONETA D’ARGENTO (Matteo 17.24-27)

11.33 – Il Discorso Eccleiologico 4: La moneta d’argento (Matteo 17. 24-27)

 

24Quando furono giunti a Cafàrnao, quelli che riscuotevano la tassa per il tempio si avvicinarono a Pietro e gli dissero: «Il vostro maestro non paga la tassa?». 25Rispose: «Sì». Mentre entrava in casa, Gesù lo prevenne dicendo: «Che cosa ti pare, Simone? I re della terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli o dagli estranei?». 26Rispose: «Dagli estranei». E Gesù replicò: «Quindi i figli sono liberi. 27Ma, per evitare di scandalizzarli, va’ al mare, getta l’amo e prendi il primo pesce che viene su, aprigli la bocca e vi troverai una moneta d’argento. Prendila e consegnala loro per me e per te».

 

            Può sembrare strano che venga inserito, in mezzo al discorso ecclesiologico, un episodio che, in realtà avvenne poco prima. Credo che però, considerata la frase del verso 27, “per evitare di scandalizzarli”, sia giusto inserirlo dopo l’insegnamento sullo skàndalon, per poter fare alcune precisazioni-estensioni, nonostante quanto letto preceda la trattazione di Nostro Signore in merito.

I soggetti del racconto sono tre: “quelli che riscuotevano la tassa per il tempio”, Pietro che risponde prima a loro e poi a Gesù, ed infine Lui, che gli ordina di pescare un pesce per prendere la moneta d’argento, nel testo originale “statére” e consegnarla “a loro per te e per me”. La nostra versione interpreta correttamente il testo originale che scrive “quelli che raccoglievano le due dramme”, o “didramme” per distinguerli dai pubblicani che si occupavano di riscuotere la “moneta del censo”, cioè “un denaro”, tributo imposto dal governo romano menzionato in 22.17 e seguenti: quando i discepoli dei farisei chiesero a Gesù se era o meno lecito pagare il tributo a Cesare, la Sua risposta fu “«Perché mi tentate, ipocriti? Mostratemi la moneta del tributo». Quelli gli presentarono un denaro. E disse loro «Di chi è questa immagine e l’iscrizione?». Gli dissero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Date dunque a Cesare le cose di Cesare e a Dio le cose di Dio»”.

Le due dramme, o mezzo siclo, circa sette grammi d’argento, erano la somma che doveva essere pagata da ogni maschio dai trent’anni in su per il mantenimento e il servizio nel Tempio. L’istituzione di tale offerta, che era obbligatoria ma in realtà tutti davano volontariamente, trae la sua origine in Esodo 30.12-14: “Quando per il censimento conterai uno per uno gli Israeliti, all’atto del censimento ciascuno di essi pagherà al Signore il riscatto della sua vita, perché non li colpisca un flagello in occasione del loro censimento. Chiunque verrà sottoposto al censimento, pagherà un mezzo siclo, conforme al siclo del santuario, il siclo di venti ghera – tradotto anche “il siclo contiene venti oboli” –. Questo mezzo siclo sarà un’offerta prelevata in onore del Signore. Ogni persona sottoposta al censimento, dai venti anni in su, corrisponderà l’offerta prelevata per il Signore. Il ricco non darà di più e il povero non darà di meno di mezzo siclo, per soddisfare all’offerta prelevata per il Signore, a riscatto delle vostre vite. Prenderai il denaro espiatorio ricevuto dagli Israeliti e lo impiegherai per il servizio della tenda del convegno – il Tempio non c’era ancora –. Esso sarà per gli Israeliti come un memoriale davanti al Signore, per il riscatto delle vostre vite”. Abbiamo letto che il testo parla di “censimento”, ma dopo il ritorno dalla deportazione a Babilonia sotto Nabucodonosor  tra il VII e il VI secolo a.C., diventò un tributo da pagare annualmente.

Ecco allora che gli ignoti riscossori delle due dramme, una volta presentatisi, furono molto meravigliati del fatto che, alla loro vista, Pietro e il suo Maestro non avessero messo le mani alla cassa per dare il tributo, che non veniva mai chiesto, ma dato spontaneamente stante il forte senso religioso allora presente. Il testo originale non recita “Il vostro maestro non paga la tassa”, ma “le didramme”, a sottolineare la sorpresa di quelli e non una frase pronunciata, come avvenuto per i farisei e gli scribi, per tentare Gesù. Questa disposizione d’animo è molto importante per le applicazioni che faremo.

Alla domanda Pietro risponde “Sì” dando per scontato che, appartenendo allo stesso popolo e conscio che il servizio al Tempio era comunque svolto per onorare il Padre, e rientra in casa per raccogliere le due dramme che ciascuno avrebbe dovuto dare agli incaricati. Viene però prevenuto dalla domanda del Maestro: “Che cosa ti pare, Simone? I re della terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli, o dagli estranei?”.

Qui Nostro Signore, con le sue parole “i figli sono liberi”, fa un parallelismo fra i re della terra ed il Re assoluto cui le due dramme andavano date, e il senso di ciò che spiega a Pietro è chiaro: se i figli dei sovrani del mondo non pagavano certo il tributo che davano le persone comuni, Lui, quale Figlio di Dio, era esente dal dare l’offerta, tanto più che avrebbe dato se stesso. Vediamo però che, a differenza di tutte le volte in cui si trovò a difendere un principio dottrinale senza mai cedere, diremmo con un’espressione popolare “di un millimetro”, qui si comporta diversamente, cioè: le persone che avevano chiesto a Pietro se Gesù non pagasse le due dramme lo avevano fatto esprimendo la loro meraviglia, anticipando il loro turbamento qualora ciò non fosse avvenuto e per questo, per non porre a loro un motivo di inciampo, acconsente a pagare anche se in un modo particolare.

Abbiamo allora da questo episodio un insegnamento preciso, parente stretto di quanto già osservato nel citare l’insegnamento di Paolo da Tarso a proposito dello scandalizzare i deboli su cose di poco conto: certo Gesù avrebbe potuto mettersi a spiegare a quegli esattori il motivo per cui non era tenuto a pagare il tributo, ma non avrebbero capito e sarebbero rimasti turbati e interdetti sul fatto che, proprio Lui che predicava ed era indubbiamente un profeta, non avesse dato quanto chiesto. Per questo motivo abbiamo qui un miracolo in un certo senso anomalo, che non viene mai in mente a nessuno quando si tratta di elencare quanto di soprannaturale fatto da Gesù in terra. Eppure è Lui il “figlio dell’uomo” di cui parla Davide in Salmo 8.6-10: “Davvero lo hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato. Gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi: tutte le greggi e gli armenti e anche le bestie della campagna, gli uccelli del cielo e i pesci del mare, ogni essere che percorre le vie dei mari”.

Ecco perché Gesù sapeva quanto sarebbe successo: “Va’ al mare, getta l’amo e prendi il primo pesce che viene su, aprigli la bocca e troverai una moneta d’argento – il testo originale ha “statére” –. Prendila e consegnala loro per te e per me”. Va ricordato che lo statére era una moneta attica che valeva l’esatto quadruplo di una dramma, cioè di un siclo ebraico, quindi Pietro estrasse dal pesce due didramme.

Possiamo aprire anche una parentesi a proposito del pesce, che fu sicuramente il cosiddetto Chronis Simonis, dal ciclo vitale molto particolare: la femmina depone le uova tra la vegetazione sott’acqua e il maschio le raccoglie in bocca conservandole fino a quando i piccoli raggiungono la lunghezza di circa dieci millimetri. Per espellerli, il maschio incubatore introduce nella sua bocca un sassolino o un oggetto che provoca l’uscita dei piccoli, ma rimane nella sua bocca per qualche tempo. Nel nostro caso, quel pesce trovò uno statére che fece la stessa funzione del sasso, o del ciottolo.

“Prendile e consegnala a loro per te e per me”. E gli altri? Essendo una “tassa” riservata solo agli israeliti e tali essendo i discepoli, l’unica spiegazione possibile è che, stante il poco valore delle due dramme, undici di loro ne fossero in possesso, tranne Pietro. Potremmo anche supporre che gli altri undici non fossero ancora in casa, stante il fatto che gli evangelisti si preoccupano sempre del senso degli episodi e spesso non sono così minuziosi nel descrivere il contesto. Abbiamo letto infatti “Quando furono giunti a Capernaum”, ma non che tutti entrarono nella casa in cui Gesù abitava.

Tornando all’episodio, Nostro Signore, quand’anche avesse avuto le due dramme, non era tenuto a pagarle per cui nello statére raccolto dalla bocca del pesce vediamo Gesù come Figlio di Dio che, pur non dovendo dare nulla, pagò comunque ma solo da un punto di vista tecnico. Allo stesso modo Pietro qui è visto come figura della Chiesa nel senso che, come tutti gli altri e noi, sarebbe diventato un figlio di Dio assumendo in quanto tale l’identità del suo Maestro: “a quanti lo hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio”. Il cristiano infatti rientra nel Suo progetto, “Poiché quelli che ha sempre conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito di molti fratelli; quelli poi che ha predestinato li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati” (Romani 8.29,30).

È allora chiaro che Gesù non era tenuto a dare nulla in quanto Figlio del Padre cui era dedicato il Tempio con le sue funzioni, ma se gli altri discepoli, rappresentati qui da Pietro, avessero dovuto osservare strettamente quella prescrizione dando anch’essi le due dramme, certamente in quel pesce si sarebbe trovato mezzo siclo e non uno intero. Nostro Signore non fa presente a Pietro che avrebbe dovuto restituirgli la parte eccedente, ma gli dice “consegnala loro per te e per me”, a conferma del fatto che considerava quell’apostolo come simbolo di tutti coloro che avrebbero creduto in Lui un giorno. E qui si potrebbe aprire un capitolo a parte sull’identità che hanno i credenti col Padre e il Figlio, ma credo non ve ne sia bisogno perché tutto il Vangelo è improntato su questa verità predicata, che emergerà in tutta la sua forza e potenza dopo la resurrezione e la discesa dello Spirito Santo.

Possiamo concludere anche evidenziando ciò che Gesù avrebbe potuto fare e non fece, a parte lo spiegare agli “esattori” il motivo per cui non pagava: non disse “voi non sapete chi sono io”. Non li cacciò, con le buone o le cattive non importa. Non disse “Guarisco muti, sordi, lebbrosi e paralitici e questo vi deve bastare”. Non si sottrasse al pagamento, dimostrando ai discepoli col miracolo del pesce che comunque era esente da quel tributo, come in effetti lo rimase, non mettendolo “di tasca propria”.

Invece, pensò a non turbare gli esattori, in buona fede, che si aspettavano di ricevere le due dramme da lui: ricevendole, avrebbero potuto testimoniare che Gesù, come tutti gli altri, aveva dato il proprio contributo al mantenimento del Tempio, quello stesso edificio che verrà distrutto nel 70 mettendo la parola “fine” ad un culto che non avrebbe avuto più ragione di essere stante l’apertura della nuova dispensazione voluta proprio da Dio Padre.

* * * * *

 

11.32 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 3: NOTE SU MATTEO 18.9-11 (Prima parte)

11.32 – Il discorso ecclesiologico 3: note su Matteo 18. 9-11 (Prima parte)

 

9(…). È meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna del fuoco.10Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli. [ 11] Poiché il figlio dell’uomo è venuto a salvare ciò che era perduto.

 

            Quando si esamina un testo fondamentale del Vangelo, è naturale seguire e cercare di approfondire gli insegnamenti più immediati, ma così facendo vi sono dei particolari che sfuggono; ecco allora che è necessario esaminare gli ultimi tre versi, ma anche aprire un collegamento ancora sugli scandali, alla luce di un episodio avvenuto prima del discorso ecclesiologico cui abbiamo dedicato, per ora, due capitoli. La postilla è un’annotazione fatta a mano su un testo e così, figurativamente, voglio intendere questo intervento e il successivo.

Prima nota va apposta alla seconda parte del verso nono: si tratta di una considerazione importante per chi rimane perplesso a fronte della necessità, per quanto figurata, di amputare la mano o il piede o cavare l’occhio, nel senso che “entrare nella vita con un occhio solo”, vale più che “con due occhi essere gettato nella Geènna del fuoco”;l’attaccamento a ciò che siamo, quindi che ci caratterizza e ci fa muovere nella vita decidendo cosa e come fare ed agire, qui si ferma, chiede una spiegazione. Preso con le faccende dell’esistenza, alcune obbligatorie ed altre per il suo esclusivo piacere o benessere, l’uomo dà molte cose per scontate: pensa che il domani gli appartenga e prende appuntamenti e impegni, sceglie e programma magari dove trascorrere l’estate o le feste, è intento a soddisfarsi o cercare di farlo e per questo cerca di mantenersi in salute, ma il verso in esame, parente di quello che invita a considerare l’utilità di guadagnare il mondo a fronte della perdita dell’anima, avverte che due mani, due piedi e due occhi non servono se poi si viene “gettati nella Geènna del fuoco”, espressione forte che conosciamo perché la Geènna era la valle di Ennon fuori da Gerusalemme dove ardevano perennemente dei fuochi che bruciavano i rifiuti. Mi sento di sottolineare quel “gettato”, che conferma il fatto che coloro i quali subiranno tale sorte avranno perso quell’autonomia a lungo cercata: nonostante la loro opposizione, verranno “gettati nella Geènna”perché considerati, appunto, rifiuti. E il rifiuto è un materiale di scarto o avanzo che non può essere utilizzato in alcun modo, per cui viene distrutto, eliminato.

Pensiamo: da individuo che voleva essere al centro di tutto, convinto di valere, chi si perderà finirà per non contare più nulla, sarà così stimato da Colui che avrà l’ultima parola, Gesù Cristo. Si tratta di una descrizione che, pur non con le stesse parole, troviamo in molte parabole, parte delle quali sono state esaminate.

Arriviamo così al verso 10, in cui Gesù torna al bambino che aveva chiamato e posto in mezzo a loro. Nostro Signore parla di “piccoli”, ma in modo diverso perché il riferimento non è più a chi è innocente o senza diritti, ma a chi deve crescere, pervenire allo stato adulto, di persona responsabile. Il bambino, qui, è allora colui che ha ancora tutto un cammino da percorrere sul quale non bisogna interferire scandalizzandolo e il verso prosegue in modo impegnativo per il lettore: “io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli”. Sono quindi angeli presenti alla Corte Celeste e questo verso potrebbe lasciar supporre, a livello immediato, che i “piccoli”godano di una protezione tutta particolare vista nell’opera dell’ “angelo custode”, ma questa idea andrebbe a scontrarsi con gli innocenti periti per la strage voluta da Erode il Grande e tutti quei bambini che da sempre muoiono nelle guerre, carestie o, purtroppo, per mano dei loro stessi genitori.

“I loro angeli”, invece, appare più un’espressione riferita a quegli esseri che Paolo, probabile autore della lettera agli Ebrei, definisce “spiriti amministratori mandati a servire coloro che lo temono”(Ebrei 1.14), diretti operatori attivi a seguito della venuta di Gesù profetizzata anche in Salmo 33.7 “Calerà l’Angelo del Signore attorno a coloro che lo temono, e li libererà”. Quella descritta in Ebrei 1.14 è una realtà difficile da enucleare, che va oltre l’assistenza ufficiale che troviamo negli annunci a Zaccaria, Elisabetta, Maria o Giuseppe, con gli inviati a sostenere Gesù dopo il digiuno nel deserto o, uscendo dal contesto dei Vangeli, con l’episodio in cui Pietro fu liberato quando era in carcere (Atti 12.6-12). Credo che il ruolo dell’angelo, tenendo presente comunque questi episodi, sia da connettere a quello descritto in Esodo 23.20-24 quando il popolo di Dio, Israele, era destinato ad entrare nella terra promessa, quella di Canaan, come oggi la Chiesa attende i “nuovi cieli e nuova terra”e i suoi componenti di incontrare il Dio Vivente e Vero dopo la morte del corpo.

Prima di leggere il passo di Esodo, teniamo presente che il popolo di Dio è sempre esistito ed è uno, Israele prima della venuta del Figlio, e la Chiesa da allora in poi che li comprende entrambi, pagani ed ebrei, perché sono stati “riconciliati tutti e due con Dio in un corpo unico mediante la sua croce, sulla quale fece morire la loro inimicizia”(Efesi 2.16) in quanto, per la carne, lontani. Vediamo allora quanto ci è stato tramandato, inframmezzandolo con un breve commento: “Ecco, io mando un angelo davanti a te per custodirti nel cammino e per farti entrare nel luogo che io ti ho preparato– notiamo il verbo “preparare” usato anche da Gesù quando disse ai suoi “vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto tornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io”(Giovanni 14.1-3) –. Abbi rispetto della sua presenza, dà ascolto alla sua voce e non ribellarti a lui”. Anche oggi quell’ “angelo”parla a noi attraverso la Scrittura e lo Spirito Santo, il Consolatore. Attenzione ora a come prosegue il testo: “Egli infatti non perdonerebbe la vostra trasgressione, perché il mio nome è in lui”: anche qui viene spontaneo, riguardo alle parole “perché il mio nome è in lui”, il collegamento con quanto detto da Gesù dopo la Sua risurrezione, “Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra”(Matteo 28.18) e altri, come il fatto che Lui e il Padre siano una cosa sola (Giovanni 10.30). Nel termine “Gli angeli loro”, quindi, si riassume tutto questo: promessa di assistenza e guida, presenze reali che spesso sottovalutiamo quali “spiriti amministratori”. Lo stesso velo, che le sorelle dovrebbero indossare nelle Assemblee cristiane, costituisce un segno distintivo da indossare per loro (1 Corinti 11.10 “Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli”).

Torniamo al testo: “Se tu dai ascolto alla sua voce e fai quello che io ti dirò, io sarò il nemico dei tuoi nemici e l’avversario dei tuoi avversari”. È quindi il comportamento dell’uomo, in positivo o in negativo, che determina il comportamento dell’ “angelo”, “Se fai quello che io ti dirò”. Abbiamo allora questo essere da una parte e l’uomo dall’altra che non può più agire, per l’elezione e le promesse ricevute, come se fosse indipendente, dando retta solo a se stesso e ai suoi progetti perché intimamente, indissolubilmente legato a Dio. E il “non separi l’uomo ciò che Dio ha unito”non vale solo per il matrimonio, ma per quel legame che il Signore stesso ha voluto, scegliendo la persona per farla sua. Nel nostro testo di Esodo 23, infatti, il credente è chiamato ad assumere una posizione netta, senza restare un punto di domanda di fronte agli altri: “Quando il tuo angelo camminerà alla tua testa e ti farà entrare presso l’Amorreo, l’Evveo, il Gebuseo e io– non tu – li distruggerò, tu non ti prostrerai davanti ai loro dèi e non li servirai; tu non ti comporterai secondo le loro opere, ma dovrai demolire e frantumare le loro stele”.

Ora questi versi, scritti riguardo a popoli che vivevano un’altra dispensazione così come un modo di vivere diverso, parlano anche a noi per il comportamento che dobbiamo adottare nei confronti di chi ha dèi estranei, allora come oggi, visti in uno stile di vita, modo di ragionare, agire, pensare al di fuori di quel Dio di cui magari hanno sentito parlare, ma che non vogliono conoscere per dar luogo all’amore della verità per essere salvati. A volte tendiamo a sottovalutare il fatto che “tu non ti comporterai secondo le loro opere”non si riferisce soltanto a rimanere influenzati da un modo di ragionare e fare, ma sia un errore anche solo il salutare una persona e quindi parlare con essa ponendola sul nostro stesso piano. Così infatti scrive l’apostolo Giovanni: “chi va oltre e non rimane nella dottrina del Cristo, non possiede Dio. Chi invece rimane nella dottrina, possiede il Padre e il Figlio. Se qualcuno viene a voi e non porta questo insegnamento, non ricevetelo in casa e non salutatelo, perché chi lo saluta partecipa alle sue opere malvagie”(2 Giovanni 1. 8-11).

Ricevere una persona in casa equivale a renderla partecipe del nostro mondo, condividere con lei pensieri e dati facendolo un nostro pari. Giovanni qui non parla di una separazione di tipo farisaico, cioè porsi su un piano di superiorità arrogante, ma del fatto che si è diversi perché tra luce e tenebre non esiste cosa in comune e chi appartiene a Dio sarà sempre oggetto di attenzione distruttiva da parte di chi non è come lui, esattamente come fu per Abele con Caino.

Il nostro verso 10, allora, ha riferimento agli angeli come testimoni dello sviluppo del “bambino”o del “piccolo”, identificato in chi ha creduto, più che a un’attività di custodia e protezione perché altrimenti, nel caso citato di Caino e Abele, questi avrebbero clamorosamente fallito mentre spettava a Caino, primogenito, la responsabilità di essere tanto d’esempio, quando di rispettare e in un certo qual modo proteggere il fratello. E infatti il giudizio su di lui non fu da poco e, per coloro che scandalizzeranno i “piccoli”, vale l’esempio della macina da mulino.

“Disprezzare uno solo di questi piccoli”significa sminuire la loro testimonianza e la loro fede, certo quando è portata con parole e comportamento appropriato perché“chi accoglie voi, accoglie me”.

Altra postilla riguarda il verso undicesimo, non citato nella nostra versione ma presente in altre, che è un parallelo di Luca 19.10: “È venuto infatti il figlio dell’uomo a salvare ciò che era perito”, utilizzato come ponte tra l’insegnamento sui piccoli e la parabola della pecora perduta che esamineremo a breve.

Per riallineare poi il racconto cronologico ed estendere un poco quanto già scritto a proposito dello scandalo, resta da considerare un episodio avvenuto prima dell’inizio del discorso ecclesiologico, che sempre Matteo riporta in 17.24-27: di questo ci occuperemo nel prossimo capitolo.

* * * * *

 

11.31 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 2: MANO – PIEDE – OCCHIO (Matteo 18.8-11)

11.31 – Il discorso Ecclesiologico 2: mano – piede- occhio (Matteo 18. 8-11)

 

8Se la tua mano o il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo e gettalo via da te. È meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, anziché con due mani o due piedi essere gettato nel fuoco eterno. 9E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te. È meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna del fuoco.10Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli. [ 11]

 

            Prima di iniziare a lavorare su questi versi, vale la pena ricordare la sintesi espressa da Gesù ai discepoli che verrà espressa da lì a poco: “In verità io vi dico, chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso”(Marco 10.15). È una frase che sconfessa la teoria universalista, che purtroppo ha trovato adesioni in diverse Chiese, che sostiene che Dio sia troppo buono per non accogliere tutti nel suo regno perché il vero inferno è qui, su questa terra.

L’accoglienza del regno di Dio, fatta con la semplicità e l’innocenza di un bambino perché tali si diventa nel momento in cui lo si accetta assieme a Gesù Cristo, è però correlata a versi che già conosciamo sono parole che abbiamo cercato di affrontare quando abbiamo visto il sermone sul monte e che pongono il bambino da una parte e l’uomo maturo dall’altra perché, spiritualmente parlando, non ci può essere l’uno senza l’altro.

Gesù, trattando il tema dello scandalo, prima ha parlato di quello provocato da terze persone ed ora qui passa ad esaminare ciò che può sempre sorgere all’interno di noi stessi riguardo la mano, il piede e l’occhio, organi che ci parlano delle scelte che la nostra persona compie quotidianamente. Per evitare di lasciare nei discepoli l’idea che la colpa possa sempre venire da altri, ecco che subito il tema si sposta sull’individuo, sul singolo che molto spesso è il vero nemico di se stesso, principio confermato dal possessivo “tua”e “tuo”. Esaminiamo allora le tre parti anatomiche citate da Nostro Signore.

 

LA MANO

Ha connessione con la volontà immediata, indica lo strumento con il quale concretiamo i nostri progetti, idee, intenzioni dirette. Compare per la prima volta in Genesi 3.22 con le parole “Poi il Signore disse: «Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi quanto alla conoscenza del bene e del male– senza però essere in grado di portarla –. Che ora egli non stenda la mano e non prenda anche dell’albero della vita– diventato per lui incompatibile –, ne mangi e viva per sempre!»”. Ricordiamo poi Caino, che “alzò la mano contro il fratello Abele e l’uccise”(4.8), quella di Noè che, quando la colomba tornò all’arca, “stese la mano, la prese e la fece rientrare presso di sé”.

Si prende per mano in segno di protezione (21.18, “Àlzati, prendi il fanciullo per mano, perché io ne farò una grande nazione”) e la si può tendere per lo stesso motivo, ma qui deve essere la persona ad accettarla. La mano è quella che constata gli effetti dell’assistenza-esistenza di Dio e qui gli esempi sono innumerevoli, da Mosè con bastone tramutato in serpente e viceversa, per non parlare della lebbra (Esodo 4: “Il Signore gli disse ancora – a Mosè –: «Introduci la mano nel seno!». Egli si mise in seno la mano e poi la ritirò; ecco, la sua mano era diventata lebbrosa, bianca come la neve. Egli disse: «Rimetti la mano nel seno!». Rimise in seno la mano e la tirò fuori: ecco, era tornata come il resto della sua carne”) fino a Tommaso, che voleva metterla nel fianco di Gesù (Giovanni 20.25).

Arto delicato per l’ambivalenza che può assumere, veniva protetto per legge da cattive intenzioni: “Questi precetti che oggi ti do(…) te li legherai alla mano come un segno”(Deuteronomio 6.8). La mano rappresenta anche tutto ciò che potrebbe essere dato ad altri e invece viene tenuto per sé, quindi l’altruismo o l’egoismo: “Non chiuderai la mano al tuo fratello bisognoso, ma gli aprirai la mano e gli presterai quanto occorre alla necessità in cui si trova.(…) Dagli generosamente e, mentre gli doni, il tuo cuore non si rattristi. Proprio per questo, infatti, il Signore tuo Dio ti benedirà in ogni lavoro e in ogni cosa a cui avrai messo mano”(Deuteronomio 15.8-10).

In 1 Timoteo 2.8 l’apostolo Paolo scrive “Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo mani pure, senza collera e senza polemiche”dove abbiamo un importante insegnamento perché pregare con le “mani pure”implica un esame di coscienza preventivo, a ricordare che la preghiera viene elevata senza che vi siano peccati non confessati, a Dio o a un fratello o sorella, che la renderebbero vana. È scritto infatti che “Mosè stese le mani verso il Signore: i tuoni e la grandine cessarono e la pioggia non si rovesciò più sulla terra”(Esodo 9.33), cosa impossibile se non si fosse trovato in condizioni di purezza, nonostante la sua condizione di uomo. Ma era uno strumento di Dio e tale doveva rimanere.

La letteratura sapienziale, poi, collega quest’arto all’operosità o alla negligenza: ricordiamo Proverbi 21.25 (“Il desiderio del pigro lo porta alla morte, perché le sue mani rifiutano di lavorare”), Qoelet 10.18 (“Per negligenza il soffitto crolla e per l’inerzia delle mani piove in casa”, Siracide 2.12 (“Guai ai cuori pavidi e alle mani indolenti e al peccatore che cammina su due strade”).

 

 

IL PIEDE

Se la mano agisce nell’ambito del perimetro raggiungibile dalla persona ferma, il piede è quello che consente al corpo di spostarsi e quindi, all’occorrenza, amplia enormemente le possibilità della mano. Si tratta però di un’applicazione secondaria perché il piede è visto più come arto deputato alla stabilità, oltre che mobilità. La parola “piede” compare per la prima volta in Genesi 8.9 quando “la colomba, non trovando dove posare la pianta del piede, tornò a lui nell’arca, perché c’era ancora l’acqua su tutta la terra”. Al plurale, invece, abbiamo Genesi 18.2 quando alle querce di Mamre si presentarono ad Abrahamo “tre uomini che stavano in piedi presso di lui”. Prima che allo spostarsi, allora, il primo riferimento è all’equilibrio, che può essere stabile o precario. Anche questo è importante a tal punto da venire citato, assieme agli altri due oggetto di riflessione, nel famoso verso della Legge “Occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede”in Esodo 21.24.

La sua stabilità o meno è correlata all’ubbidienza a Dio: “Non permetterò più che il piede degli Israeliti erri lontano dal suolo che io ho dato ai loro padri, purché si impegnino ad osservare tutto quello che ho comandato loto, secondo tutta la legge che ha prescritto loro il mio servo Mosè”(2 Re 21.8); ricordiamo Salmo 26.12 “Il mio piede sta su terra piana; nelle assemblee benedirò il Signore”. Certo il piede è indispensabile per spostarsi, ma ha sempre riferimento al cammino spirituale, in bene o in male: “Poiché egli conosce la mia condotta; se mi mette alla prova, come oro puro io ne esco. Alle sue orme si è attaccato il mio piede, al suo cammino mi sono attenuto e non ho deviato”(Giobbe 23. 10,11).

Eloquente in proposito il libro dei Proverbi, “Allora camminerai sicuro per la tua strada e il tuo piede non inciamperà,(…) perché il Signore sarà la tua sicurezza e preserverà il tuo piede dal laccio.(…) Bada alla strada dove metti il piede e tutte le tue vie saranno sicure,(…) non deviare né a destra né a sinistra, tieni lontano dal male il tuo piede.(…) Quale dente cariato e quale piede slogato, tale è l’appoggio del perfido nel giorno della sventura”(3.23; 4.26; 25.19).

Da citare il calcagno, l’osso più voluminoso del tarso, che costituisce il tallone: conosciamo l’espressione “alzare il calcagno” contro qualcuno, che allude al ferire con frode, ma anche tendere delle trappole per neutralizzare. Il verso più noto in proposito è quello relativo al giudizio sul serpente, “Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua stirpe e la sua stirpe – quindi figli di Dio e figli dell’Avversario –: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”(Genesi 3.15): effettivamente Gesù fu dato in mano agli uomini che fecero di lui non quello che vollero, ma ciò che fu loro concesso. Lui stesso, parlando di Giuda ai Suoi, disse “…deve compiersi la Scrittura: Colui che mangia il mio pane ha alzato contro di me il suo calcagno”(Giovanni 13.18).

 

 

L’OCCHIO

Organo della vista, ne abbiamo parlato affrontando il sermone sul monte. Se mano e piede necessitano di comandi per lo più coscienti da parte del cervello, l’occhio spesso agisce autonomamente in base alla personalità, all’indole dell’individuo e va qui affrontato non sotto l’aspetto neurologico, ma psicologico perché la funzione visiva in un soggetto sano è costituita non solo dalle sue caratteristiche anatomo-funzionali, ma comprende anche processi percettivi, cognitivi ed emozionali. L’occhio allora è uno strumento di analisi, ma agisce anche in autonomia, istintivamente ed è su questa caratteristica che Gesù intende spostare l’attenzione dei suoi uditori, essendo nota la massima secondo la quale “l’occhio non si stanca mai di guardare né l’orecchio di udire”; può allora far cadere la persona in peccato non tanto senza che questa se ne accorga, ma innescando dei processi giustificativi dell’azione facendo che la mente, che dovrebbe controllarlo e dominarlo, venga messa in subordine.

Ricordiamo le parole che descrivono il primo peccato: “Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per avere saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch’egli ne mangiò”(Genesi 3.6). L’occhio fu responsabile di tutta una catena di processi che portarono al diluvio, quando leggiamo nella sua premessa “Quando gli uomini cominciarono a moltiplicarsi sulla terra e nacquero loro delle figlie, i figli di Dio videro che le figlie degli uomini erano belle e ne presero per mogli a loro scelta”(Genesi 6. 1,2); questo verso non pone l’accento sul fatto che costituisca un peccato sposare una bella donna, ma il sistema che si era venuto a costituire visto nel degrado dell’umanità. Rileggiamolo: “I figli di Dio– cioè quelli che avrebbero dovuto metterLo al centro della loro vita – videro– l’occhio – che le figlie degli uomini– cioè di persone che non avevano la loro stessa elezione – erano belle– cioè potevano costituire un’alternativa molto più immediata alla loro realizzazione, per quanto carnale – e se ne presero per mogli a loro scelta– cioè più di una, secondo il loro capriccio –“. “Figli di Dio” e “figlie degli uomini” sono termini che alludono alla mescolanza di due stirpi diverse. E dopo un certo tempo, che possiamo calcolare ma che non viene specificato, leggiamo che “Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni intimo intento del loro cuore non era altro che male, sempre”(v.5).

L’occhio, allora, aveva preso il sopravvento sulla ragione quasi senza che quelle persone se ne rendessero conto e la concupiscenza non solo verso il corpo femminile, ma tutto ciò che poteva costituire attrattiva per essere posseduta, era diventato dominante, unica ragione di vita. Come oggi. L’occhio fu anche causa della rovina di Acan, personaggio davvero emblematico che non ho mai dimenticato dalla prima volta in cui ho letto di lui, e della sconfitta degli Israeliti nella battaglia contro “quelli di Ai”: dalla lettura dei capitoli 6 e 7 del libro di Giosuè apprendiamo che, contrariamente alla legge dello sterminio che proibiva a chiunque di impadronirsi degli averi del nemico, Acan non fu in grado di distogliere il suo occhio da un mantello, duecento sicli d’argento e un lingotto d’oro che prese per sé durante la presa di Gerico. Ricordiamo infine un altro episodio già citato, quello di Davide che vide nuda alla finestra la moglie di Uria e questo fatto, di per sé banale, non controllato, portò a un adulterio, a un omicidio e alla morte del bimbo da lei partorito.

 

Ho citato tre casi, quelli per me più degni di nota, che ci parlano del fatto che l’occhio può portare molta rovina se non viene gestito a monte dallo Spirito ed è proprio a questa realtà cui fa riferimento Gesù quando parla di tagliare, cavare e gettare via: sono azioni che alludono ad una procedura particolare vista nella costante vigilanza sulla carne riguardo ai tre organi citati, la cui cattiva gestione può portare a conseguenze imprevedibili anche perché, come esseri umani, saremo sempre pronti a giustificare ogni nostro comportamento negativo, a distrarci sottovalutando la rovina cui possono portare. Ecco la necessità di pregare il Solo che può preservarci, mantenerci vigili, aiutarci a combattere senza pietà – uso un’espressione forte – noi stessi, il nostro “uomo vecchio”.

* * * * *