11.32 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 3: NOTE SU MATTEO 18.9-11 (Prima parte)

11.32 – Il discorso ecclesiologico 3: note su Matteo 18. 9-11 (Prima parte)

 

9(…). È meglio per te entrare nella vita con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna del fuoco.10Guardate di non disprezzare uno solo di questi piccoli, perché io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli. [ 11] Poiché il figlio dell’uomo è venuto a salvare ciò che era perduto.

 

            Quando si esamina un testo fondamentale del Vangelo, è naturale seguire e cercare di approfondire gli insegnamenti più immediati, ma così facendo vi sono dei particolari che sfuggono; ecco allora che è necessario esaminare gli ultimi tre versi, ma anche aprire un collegamento ancora sugli scandali, alla luce di un episodio avvenuto prima del discorso ecclesiologico cui abbiamo dedicato, per ora, due capitoli. La postilla è un’annotazione fatta a mano su un testo e così, figurativamente, voglio intendere questo intervento e il successivo.

Prima nota va apposta alla seconda parte del verso nono: si tratta di una considerazione importante per chi rimane perplesso a fronte della necessità, per quanto figurata, di amputare la mano o il piede o cavare l’occhio, nel senso che “entrare nella vita con un occhio solo”, vale più che “con due occhi essere gettato nella Geènna del fuoco”;l’attaccamento a ciò che siamo, quindi che ci caratterizza e ci fa muovere nella vita decidendo cosa e come fare ed agire, qui si ferma, chiede una spiegazione. Preso con le faccende dell’esistenza, alcune obbligatorie ed altre per il suo esclusivo piacere o benessere, l’uomo dà molte cose per scontate: pensa che il domani gli appartenga e prende appuntamenti e impegni, sceglie e programma magari dove trascorrere l’estate o le feste, è intento a soddisfarsi o cercare di farlo e per questo cerca di mantenersi in salute, ma il verso in esame, parente di quello che invita a considerare l’utilità di guadagnare il mondo a fronte della perdita dell’anima, avverte che due mani, due piedi e due occhi non servono se poi si viene “gettati nella Geènna del fuoco”, espressione forte che conosciamo perché la Geènna era la valle di Ennon fuori da Gerusalemme dove ardevano perennemente dei fuochi che bruciavano i rifiuti. Mi sento di sottolineare quel “gettato”, che conferma il fatto che coloro i quali subiranno tale sorte avranno perso quell’autonomia a lungo cercata: nonostante la loro opposizione, verranno “gettati nella Geènna”perché considerati, appunto, rifiuti. E il rifiuto è un materiale di scarto o avanzo che non può essere utilizzato in alcun modo, per cui viene distrutto, eliminato.

Pensiamo: da individuo che voleva essere al centro di tutto, convinto di valere, chi si perderà finirà per non contare più nulla, sarà così stimato da Colui che avrà l’ultima parola, Gesù Cristo. Si tratta di una descrizione che, pur non con le stesse parole, troviamo in molte parabole, parte delle quali sono state esaminate.

Arriviamo così al verso 10, in cui Gesù torna al bambino che aveva chiamato e posto in mezzo a loro. Nostro Signore parla di “piccoli”, ma in modo diverso perché il riferimento non è più a chi è innocente o senza diritti, ma a chi deve crescere, pervenire allo stato adulto, di persona responsabile. Il bambino, qui, è allora colui che ha ancora tutto un cammino da percorrere sul quale non bisogna interferire scandalizzandolo e il verso prosegue in modo impegnativo per il lettore: “io vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli”. Sono quindi angeli presenti alla Corte Celeste e questo verso potrebbe lasciar supporre, a livello immediato, che i “piccoli”godano di una protezione tutta particolare vista nell’opera dell’ “angelo custode”, ma questa idea andrebbe a scontrarsi con gli innocenti periti per la strage voluta da Erode il Grande e tutti quei bambini che da sempre muoiono nelle guerre, carestie o, purtroppo, per mano dei loro stessi genitori.

“I loro angeli”, invece, appare più un’espressione riferita a quegli esseri che Paolo, probabile autore della lettera agli Ebrei, definisce “spiriti amministratori mandati a servire coloro che lo temono”(Ebrei 1.14), diretti operatori attivi a seguito della venuta di Gesù profetizzata anche in Salmo 33.7 “Calerà l’Angelo del Signore attorno a coloro che lo temono, e li libererà”. Quella descritta in Ebrei 1.14 è una realtà difficile da enucleare, che va oltre l’assistenza ufficiale che troviamo negli annunci a Zaccaria, Elisabetta, Maria o Giuseppe, con gli inviati a sostenere Gesù dopo il digiuno nel deserto o, uscendo dal contesto dei Vangeli, con l’episodio in cui Pietro fu liberato quando era in carcere (Atti 12.6-12). Credo che il ruolo dell’angelo, tenendo presente comunque questi episodi, sia da connettere a quello descritto in Esodo 23.20-24 quando il popolo di Dio, Israele, era destinato ad entrare nella terra promessa, quella di Canaan, come oggi la Chiesa attende i “nuovi cieli e nuova terra”e i suoi componenti di incontrare il Dio Vivente e Vero dopo la morte del corpo.

Prima di leggere il passo di Esodo, teniamo presente che il popolo di Dio è sempre esistito ed è uno, Israele prima della venuta del Figlio, e la Chiesa da allora in poi che li comprende entrambi, pagani ed ebrei, perché sono stati “riconciliati tutti e due con Dio in un corpo unico mediante la sua croce, sulla quale fece morire la loro inimicizia”(Efesi 2.16) in quanto, per la carne, lontani. Vediamo allora quanto ci è stato tramandato, inframmezzandolo con un breve commento: “Ecco, io mando un angelo davanti a te per custodirti nel cammino e per farti entrare nel luogo che io ti ho preparato– notiamo il verbo “preparare” usato anche da Gesù quando disse ai suoi “vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto tornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io”(Giovanni 14.1-3) –. Abbi rispetto della sua presenza, dà ascolto alla sua voce e non ribellarti a lui”. Anche oggi quell’ “angelo”parla a noi attraverso la Scrittura e lo Spirito Santo, il Consolatore. Attenzione ora a come prosegue il testo: “Egli infatti non perdonerebbe la vostra trasgressione, perché il mio nome è in lui”: anche qui viene spontaneo, riguardo alle parole “perché il mio nome è in lui”, il collegamento con quanto detto da Gesù dopo la Sua risurrezione, “Ogni potere mi è stato dato in cielo e sulla terra”(Matteo 28.18) e altri, come il fatto che Lui e il Padre siano una cosa sola (Giovanni 10.30). Nel termine “Gli angeli loro”, quindi, si riassume tutto questo: promessa di assistenza e guida, presenze reali che spesso sottovalutiamo quali “spiriti amministratori”. Lo stesso velo, che le sorelle dovrebbero indossare nelle Assemblee cristiane, costituisce un segno distintivo da indossare per loro (1 Corinti 11.10 “Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli”).

Torniamo al testo: “Se tu dai ascolto alla sua voce e fai quello che io ti dirò, io sarò il nemico dei tuoi nemici e l’avversario dei tuoi avversari”. È quindi il comportamento dell’uomo, in positivo o in negativo, che determina il comportamento dell’ “angelo”, “Se fai quello che io ti dirò”. Abbiamo allora questo essere da una parte e l’uomo dall’altra che non può più agire, per l’elezione e le promesse ricevute, come se fosse indipendente, dando retta solo a se stesso e ai suoi progetti perché intimamente, indissolubilmente legato a Dio. E il “non separi l’uomo ciò che Dio ha unito”non vale solo per il matrimonio, ma per quel legame che il Signore stesso ha voluto, scegliendo la persona per farla sua. Nel nostro testo di Esodo 23, infatti, il credente è chiamato ad assumere una posizione netta, senza restare un punto di domanda di fronte agli altri: “Quando il tuo angelo camminerà alla tua testa e ti farà entrare presso l’Amorreo, l’Evveo, il Gebuseo e io– non tu – li distruggerò, tu non ti prostrerai davanti ai loro dèi e non li servirai; tu non ti comporterai secondo le loro opere, ma dovrai demolire e frantumare le loro stele”.

Ora questi versi, scritti riguardo a popoli che vivevano un’altra dispensazione così come un modo di vivere diverso, parlano anche a noi per il comportamento che dobbiamo adottare nei confronti di chi ha dèi estranei, allora come oggi, visti in uno stile di vita, modo di ragionare, agire, pensare al di fuori di quel Dio di cui magari hanno sentito parlare, ma che non vogliono conoscere per dar luogo all’amore della verità per essere salvati. A volte tendiamo a sottovalutare il fatto che “tu non ti comporterai secondo le loro opere”non si riferisce soltanto a rimanere influenzati da un modo di ragionare e fare, ma sia un errore anche solo il salutare una persona e quindi parlare con essa ponendola sul nostro stesso piano. Così infatti scrive l’apostolo Giovanni: “chi va oltre e non rimane nella dottrina del Cristo, non possiede Dio. Chi invece rimane nella dottrina, possiede il Padre e il Figlio. Se qualcuno viene a voi e non porta questo insegnamento, non ricevetelo in casa e non salutatelo, perché chi lo saluta partecipa alle sue opere malvagie”(2 Giovanni 1. 8-11).

Ricevere una persona in casa equivale a renderla partecipe del nostro mondo, condividere con lei pensieri e dati facendolo un nostro pari. Giovanni qui non parla di una separazione di tipo farisaico, cioè porsi su un piano di superiorità arrogante, ma del fatto che si è diversi perché tra luce e tenebre non esiste cosa in comune e chi appartiene a Dio sarà sempre oggetto di attenzione distruttiva da parte di chi non è come lui, esattamente come fu per Abele con Caino.

Il nostro verso 10, allora, ha riferimento agli angeli come testimoni dello sviluppo del “bambino”o del “piccolo”, identificato in chi ha creduto, più che a un’attività di custodia e protezione perché altrimenti, nel caso citato di Caino e Abele, questi avrebbero clamorosamente fallito mentre spettava a Caino, primogenito, la responsabilità di essere tanto d’esempio, quando di rispettare e in un certo qual modo proteggere il fratello. E infatti il giudizio su di lui non fu da poco e, per coloro che scandalizzeranno i “piccoli”, vale l’esempio della macina da mulino.

“Disprezzare uno solo di questi piccoli”significa sminuire la loro testimonianza e la loro fede, certo quando è portata con parole e comportamento appropriato perché“chi accoglie voi, accoglie me”.

Altra postilla riguarda il verso undicesimo, non citato nella nostra versione ma presente in altre, che è un parallelo di Luca 19.10: “È venuto infatti il figlio dell’uomo a salvare ciò che era perito”, utilizzato come ponte tra l’insegnamento sui piccoli e la parabola della pecora perduta che esamineremo a breve.

Per riallineare poi il racconto cronologico ed estendere un poco quanto già scritto a proposito dello scandalo, resta da considerare un episodio avvenuto prima dell’inizio del discorso ecclesiologico, che sempre Matteo riporta in 17.24-27: di questo ci occuperemo nel prossimo capitolo.

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