11.34 – IL DISCORSO ECCLESIOLOGICO 5: LA PECORA SMARRITA (Matteo 18.24-27)

11.34 – Il discorso ecclesiologico 5: la pecora smarrita (Matteo 18. 24-27)

 

12Che cosa vi pare? Se un uomo ha cento pecore e una di loro si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti e andrà a cercare quella che si è smarrita? 13In verità io vi dico: se riesce a trovarla, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. 14Così è volontà del Padre vostro che è nei cieli, che neanche uno di questi piccoli si perda.

 

            Chi legge questa parabola prova, tecnicamente, un sottile senso di smarrimento perché è indubbio che sia connessa a quella, dal racconto più esteso, inserita in un gruppo di tre che trattano il recupero della persona (Luca 15.4-7), che svilupperemo più avanti quanto a testo: “Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non ascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: «rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta». Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione”. Si tratta indubbiamente di un’esposizione più ricca di dettagli, dedicata a chi si era radunato per ascoltarlo, “i pubblicani e i peccatori”, oltre che “i farisei e gli scribi”che “mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. Nel nostro testo, più stringato, Gesù parla ai suoi. In entrambi i racconti abbiamo però gli stessi numeri, il cento e il novantanove, che vanno esaminati per capire meglio ciò che Nostro Signore volle annunciare in entrambe le circostanze.

 

Il numero cento: già il fatto che sia il risultato della moltiplicazione di 10×10 ci dà l’idea che troviamo la figura di quanto basta agli occhi di Dio non dal punto di vista della sufficienza, ma del raggiungimento delle Sue aspettative, non di più né di meno, e quindi ci parla di ciò che Lo soddisfa. Il 100 è al tempo stesso rappresentazione di una cifra precisa, mi viene da raccordarla con “il giorno e l’ora” conosciuti solo dal Padre, vista nel massimo che l’uomo può dare, come leggiamo nel risultato della germinazione dei terreni: “Un’altra parte cadde nel terreno buono e diede il frutto: il cento, il sessanta, il trenta per uno”(Matteo 13.8), là dove la il “terreno buono”è identificato in “colui che ascolta la parola e la comprende”(v.23). Ascolto e comprensione formano quindi un tutt’uno e siamo responsabili dell’una e dell’altra azione perché altrimenti saremmo come colui che si guarda allo specchio in Giacomo 1.23,24: “Se uno ascolta la Parola e non la mette in pratica, costui somiglia a un uomo che guarda il proprio volto allo specchio; appena si è guardato, se ne va, e subito dimentica com’era”, descrizione che purtroppo si adatta a molti.

Ricordiamo poi, tornando al tema numerico, i cento denari di debito al “servo spietato”, indice questa volta di proporzione, cioè relativi alla fattibilità del rifonderlo, i gruppi “di cento e di cinquanta”visti nel miracolo della “moltiplicazione dei pani e dei pesci”. Possiamo anche definire questo numero come quello in cui Dio e l’uomo si incontrano, perché Gesù disse “Non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la ita eterna nel tempo che verrà”(Marco 10.30). Abbiamo poi gli anni di Abrahamo quando diventò padre di Isacco, appunto cento (Genesi 21.5), contrapposti agli 86 di quando ebbe Ismaele (16.16) e ai novantanove di quando gli fu promesso un figlio da Sara.

Stante ciò che il cento rappresenta va da sé che il novantanove sia un chiaro indice non tanto di inferiorità, ma di mancanza, incompletezza di fronte alla quale si rende necessario un diretto intervento di Dio perché questa venga a cessare: qui viene raccontato di un pastore che, dopo uno dei tanti conteggi di controllo durante la giornata, si accorge che una pecora manca. Rileviamo che qui Nostro Signore parla di “pecore”, cioè di un animale ben preciso affrontato già diverse volte, ma qui direi che è necessario sottolineare che la pecora in questione è già sua, quindi il riferimento è all’uomo chi gli appartiene tanto prima che dopo avere fatto la Sua conoscenza. E sono convinto che qui, a parte le riflessioni che faremo più avanti quando esamineremo la parabola nella sua forma “completa” in Luca 15, stia la totalità del principio: Gesù disse ai Giudei “voi non credete, perché non siete delle mie pecore”(Giovanni 10.26), cioè non lo erano né lo sarebbero mai stati perché il loro “padre”era un altro (8.44). Ora il discorso si fa più sottile, perché se il cristiano salvato appartiene a Dio ed è quindi una “pecora”, in un certo senso lo era anche prima pur non essendo ancora stato chiamato e salvato: se infatti i nomi scritti nel libro della vita lo sono “prima della fondazione del mondo”, va da sé che già mentre eravamo peccatori, senza rendercene conto, avevamo degli elementi in noi che sarebbero germogliati un giorno. Per non creare fraintendimento con queste mie frasi, era come se fossimo attesi ed ecco perché il nostro nome era già scritto, conosciuto.

Qui dobbiamo prestare attenzione perché ciò non ha nulla a che vedere con la predestinazione in quanto l’uomo è sempre libero di scegliere, si trova perennemente di fronte a un bivio anche solo ogni qualvolta pensa. La decisione sulla strada da percorrere viene fatta volontariamente dalla persona e senza nessuna influenza nonostante pesino le scelte fatte anzitempo dalla propria famiglia, che di lui porta tanto la responsabilità quanto gli trasmette elementi di cui farà tesoro in seguito, nel bene e nel male. La possibilità di mutare l’indirizzo della propria vita però c’è sempre, la chiamata di Dio è per ogni uomo e soprattutto è personale, per cui personalmente si accetta o personalmente si rifiuta. Poi, a rendere pratico il verso che abbiamo visto tempo fa, “Nessuno viene a me se il Padre non lo attira”, è la somma di un’infinità di elementi, tutti volontari e valutati da Colui che è.

Il pastore “lascia le novantanove sui monti”, dove non possono smarrirsi, in un recinto o sorvegliate dai cani, e va “a cercare quella che si (è) smarrita”: deve fare fatica, tornare indietro, chiedersi la direzione che un animale come la pecora, priva di orientamento, può avere preso. Deve controllare eventuali tracce sul terreno, guardare negli anfratti, fra i cespugli, tendere l’orecchio per sentire un eventuale belato. Notiamo anche come sia esclusa la possibilità che la pecora in questione sia stata rubata, ma l’esempio vale per quella che si è persa e anche qui intravediamo la verità in base al quale “nessuno può strapparle dalla mia mano”perché la pecora può perdersi, ma non morire.

Mi sono chiesto a questo punto il perché e come un uomo possa smarrirsi e qui possiamo aprire due discorsi, il primo riguarda la vita condotta prima dell’incontro col Signore Gesù: come la pecora, vagavamo cercando di nutrirci con quel poco che riuscivamo a trovare. E c’era un senso di incompletezza, più o meno dominante. Aspirazioni che si inseguivano, ideali di vita che a volte sembravano vicini, altre si allontanavano, ma la consapevolezza di essere persi non c’era e ci si limitava a rincorrere un vuoto lontanamente consapevole. E quando siamo stati trovati, tutto è cambiato, siamo stati portati in una dimensione prima sconosciuta.

L’essere credenti, però, non ci garantisce l’ingresso in una sorta di paradiso terrestre in cui “tutto è bellissimo” e si vive perennemente con “la pace nel cuore”, ma siamo sempre in un mondo che richiede adesione, che tenta, propone modelli di vita e ideali di fronte ai quali esiste sempre il rischio di soccombere, soprattutto se non si hanno conosciuto quegli spazi e sistemi che fanno maturare. E allora anche in questo caso è facile perdersi, come la pecora della parabola che, probabilmente, è rimasta indietro nel percorso del gregge. E qui si parla comunque di un animale preciso, quindi, in base a questa seconda classificazione, di un appartenente della Chiesa, di un salvato il cui nome è scritto nel libro della vita, perché altrimenti la classificazione sarebbe diversa (ricordiamo le parole su quelli che “se sono caduti, è impossibile rinnovarli una seconda volta portandoli alla conversione”in Ebrei 6.6). Ebbene, anche qui l’opera del pastore è la stessa, si mette a cercare.

Notiamo che al verso 11 Gesù non dà per scontato il fatto che la sua ricerca abbia un esito felice: “Se riesce a trovarla”perché trovare una pecora implica tanto la messa in atto degli accorgimenti citati poco prima, quanto il chiamarla e soprattutto che lei risponda, come in effetti avviene ancora oggi, fatto di cui troviamo traccia anche nelle parole che descrivono il rapporto del Pastore: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono”(Giovanni 10.27). Nel nostro caso, allora, quel “Se riesce a trovarla”implica il fatto che la pecora risponda, si metta a belare per farsi sentire e sappiamo che in quel caso il ritrovamento è inevitabile.

La parabola qui esposta credo abbia un significato diverso da quella che ritroveremo in Luca, poiché, ricordando le parole citate all’inizio, leggiamo che il pastore “va in cerca di quella perduta, finché non la trova. Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, va a casa, chiama gli amici, e dice loro «Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta»”(15.5,6).

In questa di Matteo leggiamo “…si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite”, e qui abbiamo qualcosa per noi umanamente poco comprensibile: novantanove pecore sono un bel numero e una in meno, dal punto di vista del profitto, è poca cosa soprattutto secondo la mentalità dell’allevamento moderno, ma il discorso di Gesù è distante anni luce da questo ragionamento perché qui la pecora è vista come valore per la vita che porta e per il fatto che è stata affidata a quel Pastore che considera le novantanove che ha già come un dato di fatto. Quella che si è persa, però, rappresenta una sconfitta nei confronti della totalità del gregge. E infatti non a caso il testo conclude con “Così è la volontà del Padre vostro, che nessuno di questi piccoli si perda”.

Dalle parole di Gesù, come in effetti è, sembra che la perduta ritrovata abbia un valore maggiore rispetto alle altre rimaste e così è perché la considerazione che fa il Pastore di quell’animale è simbolicamente la stessa che troviamo sul figlio prodigo tornato alla casa paterna: “…questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”(Luca 15.24). Lo stesso non poteva dirsi delle altre pecore che non si erano smarrite ed ecco perché è scritto che “vi sarà più gioia nel cielo per un peccatore che si converte, più che per novantanove giusti che non han bisogno di conversione”(Luca 15.7). È proprio per questa “gioia nel cielo”avvenuta nel momento in cui ci siamo arresi all’amore di Dio che abbiamo il dovere di perseverare nel cammino che ci è destinato. E siamo responsabili anche di quella gioia. Amen.

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