12.29 – IL CIECO NATO II/VI (Giovanni 9.4-7)

12.29– Il cieco nato II (Giovanni 9.4-7)      

 

4Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. 5Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo». 6Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco 7e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe» che significa Inviato. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.

 

Per motivi di esposizione ho spezzato in due la frase detta da Gesù ai discepoli per cui è giusto ricordare che, prima del verso 4, disse “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Sorge comunque un problema sul “noi”, che viene tradotto da manoscritti che così scrivono, ma altri hanno “io compia” che pare più corretta. Se così non fosse, i discepoli avrebbero avuto parte attiva nel miracolo e soprattutto, al posto di “finchè io sono nel mondo, sono la luce del mondo”, dovremmo avere “siamo”, cosa ovviamente non sostenibile. Ricordiamo infatti che aveva detto “Voi siete la luce del mondo”, ma in prospettiva, per quello che sarebbero diventati una volta nata la Chiesa. Il verso va quindi letto “Bisogna che io compia le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno” anche perché i discepoli, in un certo senso, riflettevano la luce del loro Maestro come Lui, nella Sua umanità, quella del Padre, anche se in modo perfetto, per quello che gli uomini avrebbero potuto constatare nella loro limitatezza. Le “opere di colui che mi ha mandato”, poi, non erano certo limitate ai miracoli, ma soprattutto all’insegnamento e a tutte le opere di misericordia del Suo ministero, cosa che i discepoli non potevano fare.

Le parole che suscitano la nostra attenzione sono indubbiamente il “giorno”, sinonimo di operosità (“L’uomo esce alla sua opera e al suo lavoro fino alla sera”, Salmo 104.23), e la “notte”, che ha riferimento con ciò che ostacola, come lo stesso Gesù disse con le parole “Il giorno non ha forse dodici ore? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma, se cammina di notte, inciampa, perché non ha luce” (Giovanni 11.9).

Allora, “finché è giorno” è riferito alla Sua presenza di persona fisica sulla terra e “la notte” la abbiamo dal momento dell’arresto fino ai tre giorni in cui il Suo corpo rimase nel sepolcro in cui davvero “nessuno può – poté – agire”. Fu un tempo in cui i discepoli furono soli e poterono misurarsi – senza ancora lo Spirito Santo – con la pochezza della loro fede. La “notte” allora, sotto questo aspetto, vide il tradimento di Pietro, l’incredulità di Tommaso, dei due discepoli sulla via di Emmaus che dissero a Gesù, da loro non riconosciuto, “Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti: recatesi al mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto” (Luca 24.22-24).

Anche qui abbiamo un esempio di cecità spirituale che va individuata in quel “ma lui non l’hanno visto” in cui dimostrano non solo di non credere alla testimonianza delle donne, ma anche di non considerare che veramente Gesù potesse adempiere alle promesse sulla Sua resurrezione. Trovarono il sepolcro vuoto, ma Lui non c’era: che cosa poteva essere accaduto, se non quanto preannunciato quando era con loro?  Ricordiamo Matteo 17.22: “Mentre si trovavano insieme in galilea, Gesù disse loro: «Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno, ma il terzo giorno risorgerà». Ed essi furono molto rattristati”. Ancora in 20.17-19: “Mentre saliva a Gerusalemme, Gesù prese in disparte i dodici discepoli e lungo il cammino disse loro: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani perché venga deriso e flagellato e crocifisso, e il terzo giorno risorgerà”; impossibile che quelle parole fossero state dimenticate, per cui l’incredulità dei discepoli altro non era che un effetto del loro essere uomini nella carne ancora non trasformati dallo Spirito Santo.

Tornando ora agli effetti del “giorno” e della “notte”, il primo, grazie alla presenza di Gesù, comportava l’evaporarsi di ogni dubbio, la gioia del servizio vista nella missione dei settantadue (e prima in quella dei dodici), il poter rivolgere al Maestro ogni domanda e avere ogni chiarimento, ma la “notte”, senza di lui, aveva portato unicamente solitudine e disorientamento. Mi chiedo ipoteticamente, se i giorni nel sepolcro fossero stati di più, in che condizioni avrebbe trovato i discepoli, non essendo sceso il Consolatore che avrebbe rammentato loro tutto ciò gli aveva detto. Una volta risorto, però, abbiamo il mandato universale: “A me – e a nessun altro – è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli in tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Matteo 28.18-20).

Con noi non “ogni tanto”. Non solo quando Lo invochiamo, ma secondo la “legge della continuità” che già aveva capito Davide nel suo Salmo 139.1-5: “Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu conosci quando mi siedo e quando mi alzo, intendi da lontano – cioè prima che nascano in me – i miei pensieri, osservi il mio cammino e il mio riposo, ti sono note tutte le mie vie. La mia parola non è ancora sulla lingua ed ecco, Signore, già la conosci tutta. Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano”. Gesù, il risorto, Colui che ha vinto la morte, la “Parola fatta carne” è con noi tutti i giorni “fino alla fine del mondo”, tradotto anche “fino alla fine dell’età presente” cioè quando avrà termine quel periodo in cui il tempo continuerà ad essere misurato.

“Finché io sono nel mondo, io sono la luce del mondo” è una frase che ha proprio riferimento all’imminente arrivo della “notte” che Gesù sapeva essere prossima, ma anche alla guarigione del cieco nato esattamente come quando, prima di far risorgere Lazzaro, disse “Io sono la risurrezione e la vita”, entrambe qualifiche dimostrate con due miracoli “impossibili”, ricordando le parole “Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla” (vv.32,33).

La “luce del mondo”, Gesù, non era quindi un sole alternativo che illuminava la terra e le dava vita, ma una luce molto più attiva e potente, in grado di dare a una persona non vedente dalla nascita la totale e piena guarigione. Possiamo immaginarci la meraviglia di quell’uomo una volta tornato a vedere: ogni cosa per lui era nuova, tutto ciò che fino a poco prima aveva solo avvertito con gli altri sensi, veniva posto nella sua reale proporzione. Se ci pensiamo, non è cosa poi tanto diversa da quanto avviene in chi crede: “Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così. Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie son passate; ecco, ne sono nate di nuove” (2 Corinti 5.16,17). Ciechi anche noi dalla nascita, ora guariti, per quanto occorrerebbe sviluppare molto il concetto del cammino cristiano e del mantenere l’occhio spirituale sano perché, se non curiamo il nostro essere interno, possiamo soffrire delle stesse patologie dell’occhio naturale con relativi problemi di orientamento e valutazione. Un fratello definiva l’occhio “un organo direzionale della vita dell’uomo”: se malato, tutto il corpo ne risente.

Stupisce in questo episodio che Luca non riferisca alcun dialogo tra il cieco e Gesù, ma solo dei gesti visti nel fare un impasto di fango con la saliva e applicarglielo sugli occhi usando quindi un linguaggio non verbale mettendo nelle condizioni quell’uomo, che senz’altro aveva affinato con gli anni il proprio udito e il tatto, di comprendere quando stava accadendo, come già fatto in poche, altre occasioni. Il cieco nato allora sentì Gesù che gli si avvicinava, i rumori e la Sua voce così diversa dalle altre che aveva udito, presumo per tranquillizzarlo visto che si sarà sicuramente allarmato nel momento in cui sentì le Sue mani e il fango sugli occhi, senza sapere che in quel momento si stava formando un uomo nuovo che sarebbe da lì a poco stato in grado di vedere. In questo dialogo, come vedremo, Nostro Signore gli disse di chiamarsi Gesù.

Sono convinto che nella Sua voce quella persona abbia avvertito qualcosa di diverso sia perché lo lasciò fare (se si fosse sentito minacciato avrebbe certamente chiesto aiuto) e ancor più perché quanto a lui chiesto, cioè di andarsi a lavare nella piscina di Siloe, rappresentava un problema, per quanto non superabile: non possiamo sapere con certezza dove i due si incontrarono, ma nel caso in cui ciò si fosse verificato nei pressi del Tempio, la distanza fra la piscina e lo stesso era di circa 500 metri in linea d’aria che chiaramente aumentavano percorrendo la strada per arrivarvi. Resta il fatto che fu detto al cieco che, per guarire, non bastava l’intervento di Gesù che ancora non conosceva, ma doveva andarsi a lavare là. In altri termini, per guarire avrebbe dovuto fare un cammino, faticare, gli veniva chiesto di usare la volontà, di collaborare.

Anche oggi Gesù guarisce dalla cecità che ci portiamo dietro dalla nascita e possiamo paragonare il Suo sacrificio all’impasto di fango applicato sugli occhi del cieco che non porterebbe alcuna utilità all’uomo se non si recasse alla piscina a lavarsi, prima camminando fino a là e poi detergendosi gli occhi perché così gli è stato detto. Ecco perché la Croce è salvezza, ma anche giudizio: se aderire ad essa è adeguarsi alla perfezione, va da sé che rifiutarla significa permanere in uno stato di totale estraneità, identificarsi nell’imperfetto assoluto e quindi nell’immondo.

A sua volta il percorso del cieco rappresenta il pensiero, il ragionare sul da farsi una volta ascoltato il messaggio del Vangelo e il lavacro la rinuncia ad appartenere al mondo per fidarsi del Cristo. Obiettivamente, lavarsi da quel fango per guarire era qualcosa di umanamente assurdo, eppure il risultato sarà una condizione nuova, l’acquisizione della vista che mancava.

Possiamo immaginare cosa abbia provato quel cieco una volta toltosi il fango con quell’acqua: le strade che aveva percorso, i muri delle case che aveva toccato, le voci delle persone ora gli apparivano nella loro realtà e non grazie a una ricostruzione mentale imperfetta attraverso il tatto e l’udito Per la prima volta quell’uomo assaporava la spazialità, la tridimensionalità, la visione. E, come dalle ultime parole del nostro passo, “tornò che ci vedeva”. Abbiamo un altro ritorno, collegandoci a quanto detto su quello dei settantadue discepoli, certamente quello della riconoscenza perché il cieco voleva conoscere Colui che lo aveva guarito e certo il suo fu un percorso molto più agevole di quello dell’andata solamente che, una volta raggiunto il posto ove era solito mendicare, non Lo trovò.

Quell’uomo avrebbe potuto benissimo andare a casa sua guarito, ma desiderava manifestare la sua riconoscenza a chi lo aveva liberato dalla condizione umiliante in cui versava, ma di Lui conosceva solo il nome: come vedremo, infatti, a quanti lo interrogheranno dirà “L’uomo che si chiama Gesù – ecco quindi che tra i due vi fu un dialogo che Luca non ha riportato – ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: «Va’ a Siloe e lavati!». Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista»” (v.11).

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12.28 IL CIECO NATO I/VI (Giovanni 9.1-3)

12.28– Il cieco nato I (Giovanni 9.1-3)       

 

1 Passando, vide un uomo cieco dalla nascita 2e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». 3Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio». 

 

Ci troviamo di fronte ad un episodio particolare della vita di Gesù e delle Sue guarigioni nei confronti dei ciechi, complessivamente sei, perché a differenza delle altre opera su un uomo che era così dalla nascita. Fu un avvenimento che destò una reazione ancor più ferma nei testimoni all’avvenimento che dissero (v.32) “Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a uno cieco dalla nascita”. La cecità, in Israele e non solo, era dovuta principalmente alla cataratta e al glaucoma, quindi agli effetti dell’esposizione prolungata ai riflessi del raggi solari e alla polvere. Il fatto che quest’uomo fosse così “dalla nascita” potrebbe far pensare a una malattia genetica, come l’amaurosi congenita di Leber che colpisce la rétina dall’infanzia, oppure a un incidente durante il parto; fatto sta che il cieco in questione era conosciuto in città e, come molti altri infermi, non aveva alternativa per il proprio sostentamento se non quella di chiedere l’elemosina nei pressi del Tempio.

“Passando” e “vide” sono i verbi che Giovanni usa per descrivere le azioni di Gesù; il primo potrebbe lasciarci supporre che l’episodio avvenne poco dopo essere uscito dal Tempio dopo che “si nascose” alla vista di quanti lo volevano lapidare per bestemmia ed ecco la ragione dei dubbi espressi a proposito del collocare il ritorno dei settantadue in questo contesto. D’altro canto però abbiamo la presenza dei discepoli, citati qui e non prima. Il secondo verbo è più interessante perché quel “vide” sottintende un Suo sguardo prolungato che fu notato dai discepoli provocando una domanda che trovava la sua ragione nella credenza profondamente radicata negli ebrei in base alla quale tutte le sofferenze fisiche erano la conseguenza diretta di un peccato. Dal tono della domanda del verso 2 è chiaro che i discepoli erano fermamente convinti che quell’uomo patisse o per peccati commessi anteriormente alla nascita, o per altri da parte dei suoi genitori prima che venisse al mondo.

Certo questa credenza non era sorta da sé né aveva radici superstiziose, ma trovava la sua base in alcuni passi proprio dei libri della Legge di Mosè: ad esempio l’infrazione al secondo comandamento relativa agli idoli aveva come spiegazione “Perché io, il Signore tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padre nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti” Esodo 20.5,6; 34.7). Anche Geremia 32.18, “Tu usi bontà con mille generazioni e fai scontare l’iniquità dei padri in seno ai figli dopo di loro” conferma le parole della Legge, che comunque sono riferite a un comportamento impenitente e ad un’ostinata volontà di rimanere in un peccato. Ricordiamo anche l’affermazione davvero suicida del popolo a Pilato “Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli”.

Riguardo però al concetto comune sulla malattia e le sofferenze come causa di un peccato anteriore, Gesù interverrà più avanti in Luca 13 quando, commentando il fatto dei Galilei uccisi da Erode nel Tempio (il cui sangue fu mescolato a quello dei sacrifici) e degli uomini sui quali era caduta la torre di Siloe, dirà “Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone sulle quali crollò la torre di Siloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo” (vv.2-5). Alla supposizione di un peccato altrui, Gesù oppone la certezza del “perire” salvo intervenga una conversione, vale a dire un ribaltamento del proprio operare e ragionare umano.

Tornando ora al secondo verbo, il “vide” di Gesù, ha il sapore di un’osservazione prolungata, della lettura di tutta la storia di quel cieco, entrato come tutti nella vita naturale senza volerlo e costretto a sopravvivere senza possibilità di realizzarsi umanamente, riconoscendo le persone dalla voce e non dai volti, dalle possibilità di spostamento molto limitate, salvo che qualcuno lo accompagnasse, in un costante buio comunque. Sulla sua reale situazione dà però ai discepoli una rivelazione opposta: “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Questo non vuol dire che la ragione della cecità di quell’uomo fosse quella di fare da cavia ad un esperimento, ma ha connessione col piano di Dio nei confronti dell’uomo e al significato della sofferenza. Inoltre, ci parla del fatto che il Signore, per quelli che sono suoi, ha dato un appuntamento per incontrarlo in salvezza. Nostro Signore, guardando quel cieco, era come se lo riconoscesse perché era lui e solo lui che doveva essere guarito per diventare un Suo strumento di testimonianza, come infatti poi avverrà.

Giovanni non ci dice l’età di quell’uomo, ma a prescindere i giorni passavano tutti uguali, senza alcuna possibilità di migliorare il proprio stato e qualunque evento avrebbe comportato il dipendere da altri, bene o male intenzionati nei suoi confronti. Ora  il “perché siano manifestate in lui le opere di Dio” ci parla del fatto che esiste una terza possibilità sul fatto che quell’uomo fosse così: non perché lui avesse peccato – come avrebbe potuto, prima di nascere e avere passato ‘età dell’innocenza? – né suo padre né sua madre, ma perché Dio potesse manifestarsi in lui. E questo ci parla dell’ignoranza dell’essere umano o per lo meno delle sue scarse capacità di comprensione. Ricordiamo che, quando Marta e Maria mandarono a dire a Gesù che Lazzaro era malato, rispose loro “Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio, affinché per mezzo di essa il Figlio di Dio venga glorificato“ (Luca 11.4). Sappiamo molto bene che Lazzaro morì, ma fu risuscitato.

Ecco allora che la terza possibilità, quella del “siano manifestate in lui le opere di Dio”, è quella finale, definitiva: Gesù guarisce o, per noi oggi, dà la forza per sopportare malattie o condizioni di tensione anche molto forti per poi liberare chi ne è afflitto. E posso testimoniare di avere sperimentato questo Suo intervento nei miei confronti e come me molti altri credenti che hanno portato e portano pesi anche maggiori, trasformando in testimonianza la reazione al dolore in qualunque forma si presenti. L’unica risposta al perché della sofferenza è nel peccato dei nostri progenitori e l’unica reazione ad essa non può che risiedere nell’abbandonarsi al Cristo vivente. Allora, e solo allora, potrà esservi una guarigione e che si tratti di una soluzione radicale a un problema spirituale è evidente: quell’uomo “cieco dalla nascita” ci accomuna spiritualmente tutti perché tutti, prima di incontrare Gesù nella nostra vita, tali eravamo. Ma, soprattutto, come lui vivevamo di espedienti: per sconfiggere la noia, l’ansia, il voler condurre una vita “dignitosa” – ma cosa significhi “dignitosa” è sempre stato per me un mistero –, non soffrire. E viviamo in una società che vorrebbe tanto abolire la sofferenza, ma più la rifugge più cade in essa e si allontana da Dio.”.

La ricerca ossessiva dell’autonomia e della liberazione dal dolore è visibile dal cosiddetto “credo delle sostanze”: basta passare qualche ora davanti alla televisione per accorgerci che l’esistenza umana ha bisogno di soluzioni che si riducono a una pillola per dormire, per non provare acidità di stomaco, reflusso gastrico, contro il mal di testa, i dolori mestruali prima, durante e dopo, per la stitichezza, gambe gonfie, dolori articolari e osteoarticolari di ogni tipo: tutto è pronto, lì per eliminare il sintomo ma non il problema e nessuno si sogna di suggerire alle persone di andare al perché, indagare le cause, nemmeno i cosiddetti Ministeri della Sanità o l’OMS. Altro problema enorme della nostra società è costituito dagli psicofarmaci, dal blando tranquillante a sostanze molto più serie, che molti prendono non perché malati, ma perché incapaci di affrontare determinate situazioni.

È la costante fuga dal dolore e dal disagio che caratterizza il nostro consorzio umano ma, per quanto spiacevoli, sono le uniche a poter formare l’individuo e sono fortemente convinto che il dolore non vada tanto evitato, quanto custodito quale unico strumento di crescita, altrimenti Gesù avrebbe potuto perdonare tutti senza scendere sulla terra e patire la nostra esistenza fino alla morte.

La società di oggi, se grazie alla Medicina può alleviare le sofferenze di chi è gravemente malato, subisce operazioni chirurgiche severe ed accompagnarlo alla morte senza farlo soffrire, non è più in grado di tollerare neppure un semplice fastidio e possiamo dire che fino a quando il dolore, di un’esistenza o localizzato nel corpo, andrà visto solo come qualcosa da eliminare per “vivere bene”, l’uomo sarà ovunque tranne che nei piani di Dio. Perché la sofferenza è necessaria affinché “sino manifestate in lui – noi – le opere di Dio”.

Cosa accomuna quel cieco nato all’uomo di oggi? Il fatto che la vista era assente dalla nascita: per lui si trattava di non vedere cose, animali e persone, per noi di essere limitati alla ricezione delle frequenze di ciò che obiettivamente è, ma vi è altro che non riusciamo a vedere. Se la vista è un senso fondamentale perché grazie ad essa ci muoviamo e decidiamo dove andare e come muoverci, se manca quella spirituale non potremo compiere altro se non scelte nocive per noi, per lo sviluppo del nostro essere spirituale che solo se guarito da Cristo potrà avere un domani. Gesù ha visto noi così come quell’ignoto che mendicava in qualche strada che portava al Tempio.

Le “opere di Dio” si manifestano proprio quando e là dove nessun intervento umano può risolvere e non necessariamente possono rivelarsi conformi alla nostra speranza o volontà, come sappiamo imparò l’apostolo Paolo che, pregando perché potesse guarire da “una spina nella carne” – un’invalidità che si portava dietro a seguito di percosse ricevute – si sentì rispondere “la mia grazia ti basta; la mia forza infatti si manifesta pienamente nella tua debolezza” (2 Corinti 12.9).

La presenza di quel cieco nelle vicinanze del Tempio era perché “in lui siano manifestate le opere di Dio”, ma quali? Certo la Sua potenza che portò alla guarigione, ma anche e soprattutto ciò che avvenne in conseguenza di essa, perché sarà un miracolo che farà scalpore, incontestabile, di fronte al quale i presenti reagiranno positivamente o (molto) negativamente, qualificandosi come futuri figli di Dio o reali figli dell’Avversario. Addirittura, considerando la frase di Gesù al verso 39 di questo capitolo, abbiamo una piena ed esaustiva descrizione della vera cecità: “È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi”. Ecco il significato della guarigione di quest’uomo: da cieco divenne prima vedente – ma solo osservando le istruzioni che Gesù gli darà – e poi passerà dalla Sua parte, adorandolo.

Ci chiediamo comunque chi, tra il nato cieco e i Giudei, fosse più nelle condizioni di non vedere: si appelleranno al fatto che il miracolo era avvenuto di sabato, che era per loro impossibile che un cieco dalla nascita potesse ora vedere e apriranno un’inchiesta di fronte al risultato della quale non credettero comunque. Indicativa poi la conclusione dell’episodio da parte dei Giudei alla logica elementare prodotta  dal cieco: “«Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori” (vv.33 e 34).

Siamo allora alla fine delle riflessioni sui primi tre versi dell’episodio: se “le opere di Dio” saranno “manifeste in lui”, altrettanto quelle dei servi dell’Avversario che ne ostacoleranno in ogni modo l’accoglimento. Luce e tenebre contrapposte, dunque, e sappiamo che “Dio è luce e non vi sono in lui tenebre alcune”. Amen.

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12.27 – L’INNO DI LODE (Luca 10.21-23)

12.27– L’inno di lode (Luca 10.21-23)        

 

21In quella stessa ora Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. 22Tutto è stato dato a me dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo».23E, rivolto ai discepoli, in disparte, disse: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. 24Io vi dico che molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono».

 

Forse fu proprio la frase “Rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli” a far vedere a Gesù il popolo nuovo che sarebbe sorto dopo il Suo sacrificio e relativa sconfitta della morte. Per riportare una traduzione più corretta, “esultò di gioia nello spirito” nel senso che Luca, tramite i testimoni presenti all’evento, volle mettere il risalto la profondità della partecipazione nella gioia di Gesù uomo, un trasporto che Lo coinvolse nel profondo, riportando le stesse parole di un analogo inno in Matteo 11.25-27 preceduto dalle parole “In quel tempo Gesù disse”, cioè senza collegarle ad un episodio preciso che ora sappiamo quale fosse.

La gioia profonda di Gesù, credo, è quella di un uomo diverso dagli altri che, ancora in un corpo di carne come il nostro, non può far altro che elevare al Padre una preghiera di ringraziamento, o meglio un inno che ha nelle prime parole “ti rendo lode”: l’uomo Gesù è conscio di chi è come funzione, ruolo, ma anche di essere umano per cui con questa lode stabilisce il contatto col Padre sapendo di essere ascoltato più di chiunque altro. Alcune versioni originali non meno degne di attenzione di questa hanno “onore e lode”, elementi che costituiscono un tutt’uno e sono al tempo stesso distinti.

L’ “onore” di cui parla Nostro Signore è per Lui molto impegnativo perché scaturisce dalla Sua Testimonianza concretata attraverso la santità della Sua intera vita e di essere “il servo che io sostengo”. Dio Padre infatti non avrebbe mai potuto accettare questo “onore”, e conseguentemente la “lode”, se non fosse proceduta da questa perfezione di servizio: chi rivolgeva al Padre questo inno non era un “brav’uomo”, un “giusto” considerato tale per la sua fede e le opere che da essa scaturivano, ma il Servo perfetto che avrebbe adempiuto la Sua volontà per la salvezza di chi si fosse aggrappato a Lui e alle Sue perfezioni. L’ “onore” è quindi qualcosa di estremamente concreto, riassume la Sua vita e il legame col Padre, la “lode” è invece quel sentimento di riconoscenza nel constatare l’adempimento di fatti che, pur sapendo che sarebbero avvenuti, si vedono concretati in quel preciso momento: i settantadue avevano svolto con successo la loro missione ed i miracoli erano la prova più evidente del fatto che Dio era stato con loro, costituivano una sorta di Sua firma.

E, storicamente parlando, il lodare Iddio accomunò tutti, popolo d’Israele e profeti quando constatarono quanto provveduto per loro, per non parlare di Davide e dei suoi Salmi. Ricordiamo 1 Cronache 16.23-26, che riporta (v.7) “Davide per la prima volta affidò ad Asaf e ai suoi fratelli questa lode al Signore: Cantate al Signore, uomini di tutta la terra, annunciate di giorno in giorno la sua salvezza. In mezzo alle genti narrate la sua gloria, a tutti i popoli dite le sue meraviglie. Grande è il Signore e degno di ogni lode, terribile sopra tutti gli dèi. Tutti gli dèi dei popoli sono un nulla, il Signore invece ha fatto i cieli”.

Ecco allora perché Gesù prosegue con “Signore del cielo e della terra”: è un riferimento a tutto il creato visibile e invisibile come in Deuteronomio 10.14 che, letto con attenzione, conferma il fatto che dell’universo abbiamo una visione parziale: “Ecco, al Signore, tuo Dio, appartengono i cieli, i cieli dei cieli, la terra e quanto in essa contiene”. Ora potremmo discutere sul fatto se “i cieli dei cieli” siano quelle regioni calcolate in anni luce (e relativi multipli) oppure quei territori in cui pochi, ultimo l’apostolo Giovanni, ebbero il privilegio di addentrarsi e riportare ciò che videro. Un ampliamento della definizione “Signore del cielo e della terra” lo diede l’apostolo Paolo nell’Areopago di Atene: “Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa. Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio perché cerchino Dio, se mai, tastando qua e là come ciechi, arrivino a trovarlo, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come hanno detto anche alcuni dei vostri poeti” (Atti 17.24-28).

Possiamo allora usare quest’ultimo verso come ponte per le parole successive del nostro testo: “…perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli fanciulli”. La rivelazione di Dio quindi esiste per Sua stessa ammissione, è lì, disponibile a chiunque abbia un cuore “puro” nel senso di non avanzare altra pretesa al di fuori di voler seguirLo, esserGli sottomesso, vivere con e in Lui, cosa che i “sapienti” e i “dotti” del popolo, responsabili della sua educazione a tutti i livelli, avevano smesso da tempo di fare. Il profeta Isaia, al capitolo quinto del suo libro, elencando tutta una serie di personaggi negativi, scrive al verso 21 “Guai a coloro che si credono sapienti e si reputano intelligenti”: sono tutti quelli che fanno riferimento e usano per i propri scopi una sapienza umana e si servono della loro intelligenza per umiliare il prossimo. Chi si crede “sapiente” e “intelligente” non vive che per se stesso, è convinto di possedere le chiavi per comprendere tutto, ma in realtà si ritrova prigioniero della sua incapacità di cogliere i princìpi nella loro globalità ed essenza, prigioniero dei propri ragionamenti, sempre pronto a vedere ciò che gli si propone come un attentato alla sua presunta supremazia. E qui sta la violenza, non nel percuotere, ma nel volere costantemente prevalere sugli altri indipendentemente dal modo o dalla tattica. Questo, attenzione, non risparmia nemmeno il campo della lettura ed esposizione della Parola di Dio.

Piuttosto, la situazione morale e spirituale del tempo di Gesù, ma purtroppo anche dopo, fino ai nostri giorni, è quella descritta in Isaia 29.10,11: “(…) il Signore ha versato su di voi uno spirito di torpore, ha chiuso i vostri occhi, cioè i profeti, e ha velato i vostri capi, cioè i veggenti. Per voi ogni visione sarà come le parole di un libro sigillato: si dà a uno che sappia leggere dicendogli «Per favore, leggilo», ma quegli risponde: «Non posso, perché è sigillato». Oppure si dà il libro a chi non sa leggere dicendogli: «Per favore, leggilo», ma quegli risponde: «Non so leggere»”. Se ci pensiamo queste parole ci possono rammentare, quanto allo “spirito di torpore” versato, a quando “Il Signore indurì il cuore del faraone” nel libro dell’Esodo: lo fece solo quando quell’uomo dimostrò di non tenere in alcun conto i miracoli prodotti da Mosè per convincerlo a lasciare andare il popolo per servirLo; il faraone oppose alla parola di Dio i propri interessi, resistendo coscientemente alla proposta che gli veniva rivolta. Ecco perché ad ogni uomo è dato un tempo, una vita a termine.

“Le hai rivelate ai piccoli”: agli uni nasconde, agli altri rivela. Sono “gli eletti” di cui parla Paolo in Romani 11. 7-10: “Israele non ha ottenuto quello che cercava; lo hanno ottenuto invece gli eletti. Gli altri invece sono stati resi ostinati, come sta scritto: «Dio ha dato loro uno spirito di torpore, occhi per non vedere e orecchi per non sentire» fino al giorno d’oggi. E Davide dice: «Diventi la loro mensa un laccio, un tranello, un inciampo e un giusto castigo! Siano accecati i loro occhi in modo che non vedano e fa’ loro curvare la schiena per sempre!»”.

Il “queste cose” di cui parla Gesù è allora tutto quanto serve per la comprensione finale, la sola necessaria vista nel sacrificio della croce, della Sua morte e resurrezione perché “La parola della croce è stoltezza per quelli che si pèrdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio” (1 Corinti 1.18). Ancora: “Se il nostro Vangelo rimane velato, lo è in coloro che si pèrdono: in loro, increduli, il dio di questo mondo ha accecato la mente, perché non vedano lo splendore del glorioso Vangelo di Cristo, che è immagine di Dio” (2 Corinti 4.3,4). Ecco come viene spiegata la differenza fra i “sapienti e dotti” e i “piccoli”. La sapienza terrena si basa comunque su ciò che è destinato a passare, quella rivelata riguarda l’eternità nella quale ogni credente è destinato ad entrare ed è solo quella che può spingerlo a proseguire un cammino che sarebbe altrimenti arido, inconsistente, inutile.

Nella seconda parte dell’inno Gesù dà una definizione di sé che più chiara non potrebbe essere, identificandosi totalmente nel Padre e ribadendo di essere l’Unico in grado di rivelarlo stante la loro unione e identità l’Uno nell’Altro, precisando che “Tutto mi è stato dato dal Padre mio”, come ribadirà agli undici prima di dar loro il mandato della predicazione una volta risorto: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra” (Matteo 28.18). Non potrebbe essere diversamente: “Egli la manifestò in Cristo – cioè la Sua potenza verso di noi – quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni Principato e Potenza, al di sopra di ogni Forza e Dominazione e di ogni nome che viene nominato non solo nel tempo presente, ma anche in quello futuro. Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose. Essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose” (Efesi 1.21-23). Ancora Filippesi 2.9,10: “Per questo – la sua obbedienza fino alla morte di croce – Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami «Gesù è Signore! A gloria di Dio Padre”.

Notiamo “ogni ginocchio”, cioè tutti, “sapienti e intelligenti” compresi che dovranno farlo non certo in salvezza, ma caso mai emuli di quei demòni che si prostravano davanti a Gesù riconoscendolo come Figlio di Dio, ma da Lui prontamente zittiti.

Il nostro episodio si conclude con una spiegazione ai discepoli “in disparte”, a confermare una rivelazione personale: c’è l’annuncio di una beatitudine per quanto vedevano e ascoltavano alla luce del fatto che “molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono”: sono le stesse parole che disse quando i discepoli gli chiesero perché parlasse attraverso le parabole: “perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono”. Anche lì vi erano quelli che non ritenevano di avere alcun bisogno di Lui, bastavano a loro stessi. Invece Gesù, ai discepoli e quindi a ognuno di noi, ricorda un motivo di gioia e lode a Dio Padre: “molti profeti e re” hanno vissuto in una dispensazione diversa, non illuminata come la nostra, in prospettiva di tutti coloro che, invece, le avrebbero vedute. E (anche) qui sta la responsabilità che ciascuno di noi porta. Amen.

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12.26 – IL RITORNO DEI SETTANTADUE (Luca 10.17-20)

12.26 – Il ritorno dei settantadue (Luca 10.17-20)

             

17I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». 18Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. 19Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. 20Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».

 

Ci troviamo di fronte a un episodio impegnativo sia a livello di riflessioni quanto di collocazione temporale. Luca, che ci illustra ciò che avvenne da quando Gesù uscì da Gerusalemme, scrive che “I settantadue tornarono” senza specificare dove e quando. Ora, essendo stati mandati in missione all’atto della Sua partenza dalla Galilea per Gerusalemme, possiamo supporre che fu da loro raggiunto in quella città, ma gli evangelisti non hanno ritenuto opportuno specificare il momento in cui ciò avvenne anche perché non tornarono tutti insieme. Leggendo Giovanni, poiché pare esservi un breve vuoto narrativo tra l’uscita di Gesù dal Tempio e l’incontro con l’uomo cieco dalla nascita – in cui tra l’altro viene posta in risalto la presenza dei discepoli (Giovanni 9.1,2) – , ecco la scelta di inserire qui l’incontro con loro precisando che si tratta di una mia opinione personale che non vuole sminuire quanto ipotizzato da altri nel loro trattare l’argomento.

Il verso 17 contiene diversi momenti degni di sottolineatura, il primo dei quali è “tornarono” che ci parla di fedeltà alle istruzioni ricevute, tra le quali il luogo dell’appuntamento, ma anche del fatto che quei discepoli dimostrarono di non avere alternative a Gesù e il loro ritorno ci rivela che al di fuori del vivere attorno al loro Maestro non avrebbero saputo cosa fare, soprattutto una volta constatati gli effetti del mandato e la differenza col vivere nel mondo. Ricordiamo in proposito quando Pietro disse “Signore, a chi ce ne andremmo noi? Tu solo hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Giovanni 6.68,69).

Tornare. In senso generale, tutti noi lo facciamo: a volte è un’abitudine, a volte è una scelta ma comunque, quando lo si fa, è perché il luogo o la/le persone che raggiungiamo costituiscono per noi un centro più o meno importante. In questo caso però la pericope “Tornarono pieni di gioia” esclude la routine, il semplice acquisito, qualcosa che si fa perché non si hanno alternative e allora ci si adegua allo status quo. E qui la “gioia” dei discepoli, che arrivarono da Gesù poco per volta stante i diversi luoghi da loro raggiunti, era diversa da quella che avrebbe potuto procurarne una umana. La loro “gioia” fu quella di chi constata l’adempimento delle promesse di Dio e di avere adempiuto correttamente le istruzioni ricevute; ricordiamole: “La messe è abbondante, ma pochi sono gli operai! Pregate dunque il signore della messe perché mandi operai nella sua messe! Andate, ecco, vi mando come agnelli in mezzo ai lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: «Pace a questa casa!». Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà a voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra. Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano e dite loro: «È vicino a voi il regno di Dio». Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: «Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate che il regno di Dio è vicino»” (Luca 10.2-11).

Ora è facile supporre che i settantadue si fossero attenuti scrupolosamente a tutto quanto ordinato, compreso il “pregate”, il non distrarsi per nessun motivo raffigurato nel non salutare “nessuno lungo la strada”; la conseguenza di questo loro comportamento andò al di là della guarigione dalle malattie perché “Anche i demòni si sottomettono nel tuo nome”. Quei discepoli erano consci che da soli non avrebbero mai potuto compiere nulla di quanto era stato ordinato loro. Era dunque la “gioia” del riscontro e della liberazione, dell’elevarsi, del servire con successo perché si erano attenuti alle disposizioni del Maestro senza esitazioni o titubanze ed erano stati premiati con un risultato che andava al di là delle loro aspettative, come rileviamo dall’ “anche” del verso in esame. Se raccordiamo questo successo con l’episodio in cui i dodici non erano riusciti a guarire un indemoniato (Luca 9.40), possiamo capire perché questi discepoli fossero nello stato che ci viene descritto.

La risposta di Gesù si articola su tre punti, il primo dei quali è un’altra dichiarazione della Sua presenza nell’eternità, “Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore”, con la quale dà una visione tanto dell’immediatezza del giudizio su questo personaggio, quanto della fine cui è destinato. Leggendo Isaia 14.12-15, infatti, abbiamo la stessa panoramica: “Come sei caduto dal cielo – tua residenza di un tempo –, astro del mattino, figlio dell’aurora? – la dignità che aveva – Come sei stato gettato a terra, signore di popoli? Eppure tu pensavi nel tuo cuore: «Salirò in cielo, sopra le stelle di Dio innalzerò il mio trono, dimorerò sul monte dell’assemblea, nella vera dimora divina. Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all’Altissimo» – ricordiamo le parole “sarete come Dio” dette ad Eva . E invece sei stato precipitato negli inferi – cioè nelle assolute regioni inferiori –, nelle profondità dell’abisso! Quanti ti vedono ti guardano fisso, ti osservano attentamente: «È questo l’individuo che sconvolgeva la terra, che faceva tremare i regni, che riduceva il mondo a un deserto, che ne distruggeva le città – con una morale perversa –  che non apriva le porte del carcere ai suoi prigionieri?» – perché se non interviene il Cristo a liberare è impossibile che Satana rinunci a tenere l’uomo per sé – Tutti i re dei popoli, tutti riposano con onore, ognuno nella sua tomba. Tu, invece, sei stato gettato fuori dal sepolcro, come un virgulto spregevole; sei circondato da uccisi trafitti da spada – l’onta della sconfitta –, deposti sulle pietre della fossa, come una carogna calpestata – cioè contaminata, immonda, e contaminante –. Tu non sarai unito a loro nella sepoltura, perché hai rovinato la tua terra, hai assassinato il tuo popolo”.

Le parole di Gesù si raccordano anche a Ezechiele 12-19 di cui riporto la parte dal 17: “Il tuo cuore si era inorgoglito per la tua bellezza, la tua saggezza si era corrotta a causa del tuo splendore: ti ho gettato a terra e ti ho posto davanti ai re, perché ti vedano. Con la gravità dei tuoi delitti, con la disonestà del tuo commercio hai profanato i tuoi santuari; perciò in mezzo a te ho fatto sprigionare un fuoco per divorarti. Ti ho ridotto in cenere sulla terra, sotto gli occhi di quanti ti guardano. Quanti fra i popoli ti hanno conosciuto, sono rimasti attoniti per te, sei divenuto oggetto di terrore, finito per sempre”.

La valenza della parole di Gesù, come tutte del resto, è anche in questo caso enorme perché ci parla al tempo stesso della rapidità del giudizio sull’Avversario che cadde dall’alto dei cieli intesi come dimora di Dio ed elevazione spirituale infinita non tanto sulla terra quanto a pianeta, ma nei suoi abissi, nell’inferiorità assoluta come abbiamo visto nella scorsa riflessione. Scrive l’apostolo Pietro nella sua seconda lettera: “Dio infatti non risparmiò gli angeli che avevano peccato, ma li precipitò in abissi tenebrosi, tenendoli prigionieri per il giudizio. Ugualmente non risparmiò il mondo antico, ma con altre sette persone salvò Noè, messaggero di giustizia, inondando con il diluvio un mondo di malvagi. Così pure condannò alla distruzione le città di Sodoma e Gomorra, riducendole in cenere, lasciando un segno ammonitore a quelli che sarebbero vissuti senza Dio. Liberò invece Lot, uomo giusto, che era angustiato per la condotta immorale di uomini senza legge. Quel giusto infatti, per quello che vedeva e udiva mentre abitava in mezzo a loro, giorno dopo giorno si tormentava a motivo delle opere malvagie. Il Signore dunque sa liberare dalla prova chi gli è devoto, mentre riserva, per il castigo nel giorno del giudizio, gli iniqui, soprattutto coloro che vanno dietro alla carne con empie passioni e disprezzano il Signore” (4-10).

E sono convinto che nel “giusto Lot” ci possiamo identificare anche noi, testimoni del degrado morale e dell’indottrinamento satanico di questi ultimi tempi che viviamo.

La citazione di questi versi avrebbe potuto limitarsi al quarto, ma riportarli tutti può aiutare nel considerare come l’Avversario e i suoi angeli costituiscono un tutt’uno con l’uomo che li segue esattamente come chi crede è un tutt’uno con Colui che li ha salvati. Infatti: “…ma costoro – gli iniqui –, irragionevoli e istintivi, nati per essere presi e uccisi, bestemmiando quello che ignorano, andranno in perdizione per la loro condotta immorale, subendo il castigo della loro iniquità. (…) Costoro sono come sorgenti senz’acqua e come nuvole agitate dalla tempesta, e a loro è riservata l’oscurità delle tenebre. Con discorsi arroganti e vuoti e mediante sfrenate passioni carnali adescano quelli che da poco si sono allontanati da chi vive nell’errore. Promettono loro libertà, mentre sono essi stessi schiavi della corruzione. L’uomo infatti è schiavo di ciò che lo domina” (vv. 12,13; 17-19).

Oltre a tutti questi versi dei profeti e di Pietro, non possiamo non citare l’atto finale: Satana è stato privato di tutta la sua regalità e dignità, ma se ne è costruita una propria come del resto fa qualunque persona lontana da Dio, ignorando in realtà di rendersi schiavo di chi non lo libererà mai, come abbiamo letto. Satana, “che seduce tutta la terra abitata, fu precipitato sulla terra e con lui anche i suoi angeli” (Apocalisse 12.9), ma soprattutto sarà gettato “nello stagno di fuoco” assieme alla morte, agli inferi” e a chi non risulterà “scritto nel libro della vita” (20.14,15). E sono convinto che anche qui, cadrà “come una folgore”.

Ora, tornando al nostro episodio, Gesù ricorda a tutti coloro che gli appartengono che, ascoltando e servendo Colui che ha visto “Satana cadere dal cielo come una folgore”, non hanno nulla di cui temere: sono dalla parte di chi è più potente di lui e infatti disse “Nulla potrà danneggiarvi”, certo “se rimanete fedeli alla mia parola” e non, come sostengono alcuni, a prescindere. Ricordiamo Giovanni 8.38,39: “Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”.

Nostro Signore conclude poi il suo intervento esortando i discepoli a vedere il successo della loro missione non come qualcosa di personale o di umano: certo avevano guarito da malattie e possessioni, ma solo in quanto conseguenza della loro fede e, paradossalmente, i loro risultati andavano ridimensionati, ricondotti all’origine del loro essere figli di Dio. I miracoli, infatti, sono la conseguenza dell’essere vicini a Dio, ma possono anche essere prodotti dall’Avversario per “sedurre se possibile anche gli eletti”. Era quindi importante considerare l’origine, la causa e non l’effetto: “rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli”, la vera gioia assoluta. I – presumo tanti – miracoli operati avevano contribuito allo sviluppo del Vangelo da loro annunciato e non era certo poca cosa, ma il motivo della gioia doveva risiedere nel fatto che i nomi di quei discepoli erano scritti nel libro della vita a prescindere dalle loro opere. Se Gesù  non avesse specificato questo, avrebbe lasciato i futuri credenti nella convinzione che solo chi fa miracoli e gira il mondo a predicare sia degno di Lui. La “gioia” che i settantadue provavano, se non correttamente indirizzata, avrebbe potuto col tempo inorgoglirli: i miracoli compiuti, tangibili, incontestabili, saranno infatti usati con parsimonia dagli stessi apostoli nei libro degli Atti e, come tutti quelli dei Vangeli operati da Gesù, rimarranno nella Chiesa a memoria e si diraderanno una volta acquisito il concetto che il vero miracolo è appunto quello del nome scritto nel registro di Dio.

“Molti, ve l’ho già detto più volte e ora con le lacrime agli occhi ve lo ripeto, si comportano da nemici della croce di Cristo. La loro sorte finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio. Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra. La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose” (Filippesi 3.18-20).

Ecco il vero motivo della gioia, la radice: il nostro nome scritto, il nostro corpo di morte che è stato riscattato in vista della resurrezione e dell’ultima chiamata ad unirci a Lui, ora e quando ritornerà per rapire la Sua Chiesa o in giudizio. Amen.

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12.25 – PRIMA CHE ABRAHANO FOSSE, IO SONO (Giovanni 8.58)

12.25– Prima che Abrahamo fosse, io sono (Giovanni 8.58 )

           

58Rispose Gesù: «In verità, in verità io vi dico: prima che Abrahamo fosse, Io Sono». 59Allora raccolsero delle pietre per gettarle contro di lui, ma Gesù uscì dal Tempio.

 

Con questo verso, le cui parole scaturiscono dall’impossibilità dei Giudei di comprendere l’essenza e il ruolo di Gesù, ci troviamo di fronte a una realtà di enorme portata. Già abbiamo avuto modo di ragionare sul significato dell’ “Io Sono”, ma qui gli insegnamenti che possiamo trarre sono infiniti perché la realtà di Nostro Signore si raccorda al tempo in cui Abrahamo era vissuto e al tempo stesso parlava ai suoi oppositori nel Tempio. In queste parole, precedute da due amen, vediamo l’eternità dell’ “Io Sono”, ma soprattutto sottolineiamo il “prima”e il “fósse”, anche questa forma del verbo essere che implica l’esistere, cioè pensare ed agire, scegliere, muoversi. Umanamente l’ “essere”, visto dalla parte dell’uomo, comprende un inizio e una fine, chiama in causa la persona dalla nascita alla morte, quindi ci parla di come l’uomo ha agito.

Vediamo anche come Abrahamo, il cui nome compare in questo capitolo dieci volte, venga citato per primo e sia usato come collegamento in quanto nominato dai Giudei ai versi 39 (“Il nostro padre è Abrahamo”), 52 (“Abrahamo è morto e anche i profeti”) e 53 (“Sei tu più grande del nostro padre Abrahamo, che è morto? Anche i profeti sono morti; chi pretendi di essere”?). In questo caso, allora, Abrahamo è usato perché citato dai Giudei ed è da vedere non più come il cosiddetto “padre della fede”, ma come essere umano cui è abbinato il “fósse”, al passato remoto cioè un tempo che si usa per indicare un fatto ormai avvenuto, concluso e – attenzione – senza legami con il presente. Il passato remoto, nell’uso comune, può corrispondere a un distacco emotivo rispetto all’evento raccontato, mentre nello scritto letterario risponde più a una scelta stilistica.

Il “fósse”, quindi, indica che la persona è indubbiamente esistita ma che, nonostante la sua importanza, in quel momento non aveva più senso e non certo perché la sua valenza storica era diminuita: davanti ai Giudei non stava un uomo, ma l’ ”Io Sono”, il “Colui che è”, che Abrahamo lo aveva chiamato e assistito, aveva a lui parlato ed era a lui infinitamente superiore.“Fósse”è quindi da applicare a tutti gli uomini, ciascuno con la sua storia che lo distingue dagli altri indipendentemente dalla fede, dal fatto che accolga o rifiuti l’invito di Dio a ravvedersi, racchiude ciò che ha fatto dalla culla alla bara e, soprattutto, annuncia un tempo ormai chiuso, scaduto, ed è sotto questo aspetto che va letto il libro del Qoèlet, o Ecclesiaste, che dà una lettura orizzontale della vita umana avvertendo il lettore che tutto passa e scavando in profondità nel tema arrivando a dire che “Né del saggio né dello stolto resterà un ricordo duraturo e nei giorni futuri tutto sarà dimenticato. Allo stesso modo muoiono il saggio e lo stolto”(2.16). Nel “fósse”possiamo allora considerare il passo “vi è una sorte unica per tutto: per il giusto e per il malvagio, per il puro e l’impuro, per chi offre sacrifici e per chi non li offre, per chi è buono e per chi è cattivo, per chi giura e per chi teme di giurare”(9.2).

Il “fósse”che ci accomuna, però, si scontra con l’ “Io Sono”quando, sempre in questo libro, leggiamo “Riconosco che qualsiasi cosa Dio fa, dura per sempre; non c’è nulla da aggiungere, nulla da togliere. Dio agisce così perché lo si tema. Quello che accade, già è stato; quello che sarà, è già avvenuto. Solo Dio può cercare ciò che ormai è scomparso”(3.14,15).

E infatti “Io Sono”  è una definizione che solo Dio può dare perché non soggetto al tempo degli uomini, Lui che ha comandato la fine dell’immobilità in quell’allora “non universo” nato dal “Sia la luce!”del primo giorno. Il Figlio è quindi l’ “Io Sono”che si manifestò proprio allora e poi in tutti gli interventi nei confronti degli uomini dell’Antico Patto, quindi dal tempo dei Vangeli ad oggi e nell’attesa che tutti gli eventi stabiliti si compiano in quanto è “l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine”. La Sua presenza costante nell’eternità verrà dichiarata in questo Vangelo quando, in un passo che vedremo fra breve, disse ai settantadue discepoli tornati da Lui “Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore”(Luca 10.18).

Quando mi sono trovato a progettare questo scritto mi sono chiesto quanto valesse la pena sviluppare il verso in esame, ma l’ho trovato infinito per cui, se solitamente di fronte a passi importanti tendo a svilupparlo in più parti, qui preferisco dare solo degli spunti che ciascuno sarà libero di seguire o ampliare se e come meglio crede. Non si può sottolineare un dato importante e cioè che “prima che Abrahamo fosse”è una traduzione che omette “nato”in quanto il verbo greco usato non è “eimi”, appunto “essere”, ma “ghignomai”, che sì ha “essere” come primo significato, ma rapportato al nascere come “divenire”, “accadere”, per cui il Figlio era lì tanto quando Abrahamo nacque, quanto quando “diventò”, cioè crebbe con tutto ciò che comporta (gioia, dolore, riflessione, amara constatazione dei propri errori e fede operante nelle promesse e nei comandamenti di Dio).

La domanda ora è se possiamo sapere qualcosa di ciò che era nell’eternità di YHWH prima che il mondo fosse, ma non ci è stato rivelato dalla Scrittura. Di ciò che c’era prima, per lo meno fisicamente, c’è la sola spiegazione che abbiamo imparato a conoscere non appena presa in mano una Bibbia, “In principio Iddio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque”(Genesi 1.1). Poi, però, se la figura di YHWH rimane distante, quanto a santità ed esigenze, dall’essere umano, non così il Figlio, raffigurato come sappiamo nella Sapienza che fu “generata”nel senso di rivelazione agli uomini, chiamata, vita in un contesto diverso. E in Proverbi 8.22-31 e segg. abbiamo qualcosa di assolutamente nuovo: “Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra. Quando non esistevano gli abissi, io fui generata, quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, quando ancora non aveva fatto la terra e i campi né le prime zolle del mondo. Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come un artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo”. Ora, qui è racchiuso quel periodo antecedente a “Sia la luce”fino alle tante parole rivolte ad Adamo quando era innocente e che Mosè non ci ha riportato.

Nel Nuovo Testamento poi abbiamo “In principio era il Verbo”, cioè l’inizio assoluto, o “l’inizio senza inizio” come è stato definito perché non si può negare che, se il “Principio”di Genesi 1 è riferito al tempo della terra, quello di Giovanni 1 è un “Principio”che appartiene all’eternità. Poi, nel nostro verso, Gesù contrappone il divenire di Abrahamo alla Sua realtà di “Io Sono”e, senza il Suo intervento, l’uno sarebbe stato incommensurabilmente distante dall’Altro, non ci sarebbe stato nessun piano di Dio e Nostro Signore non sarebbe neppure venuto sulla terra. Padre, Figlio e Spirito Santo sarebbero rimasti com’erano nel loro splendido isolamento, ma sarebbero rimasti senza amore da dare. Ogni uomo sarebbe assolutamente lontano ed estraneo da Loro, condannato a una vita priva di futuro, di progetto, di programma, di destinazione. Suicidi dalla nascita. Ma, appunto, abbiamo usato il condizionale, cioè Gesù “sarebbe”, non “È”, non “Io Sono”.

Tornando al nostro episodio, i Giudei presenti non ebbero alcun problema a raccordare l’ ”Io Sono”di Gesù all’ “Io Sono colui che sono”di Esodo 3.14,15 quando Dio rispose così quando gli fu chiesto come si chiamasse: Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli israeliti e dico loro: «Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi». Mi diranno: «Qual è il suo nome?». E io cosa risponderò loro?». Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!”». E aggiunse: «Così dirai agli israeliti: «Io-Sono mi ha mandato a voi!»»”.

I Giudei, fatto questo collegamento per una volta corretto, lungi dal credere, vollero ricorrere alla lapidazione per bestemmia e, per farlo, raccolsero le pietre che si trovavano in gran quantità nel cortile esterno non essendo il Tempio ancora ultimato.

Sorge a questo punto il problema insito nel “ma Gesù uscì dal tempio”che conclude il nostro episodio: certo un bestemmiatore degno di lapidazione non poteva non venire sorvegliato per cui è inammissibile che Nostro Signore abbia approfittato della distrazione dei Giudei che, intenti a raccogliere pietre, non si curarono di Lui; piuttosto abbiamo una ripetizione di quanto già avvenuto altre volte, ad esempio a Nazareth quando lo volevano gettare dalla rupe della città. Semplicemente, non era ancora giunta l’ora della Sua morte, per cui l’importante non è il metodo usato da Lui, ma il tema dell’assoluta impotenza dell’uomo di fronte a Dio. E mi viene in mente Salmo 2.1-4: “Perché le genti sono in tumulto e i popoli cospirano invano? Insorgono i re della terra e i prìncipi congiurano insieme contro il Signore e il suo consacrato: «Spezziamo le loro catene, gettiamo via da noi il loro giogo!». Ride colui che sta nei cieli, il Signore si fa beffe di loro”. Ricordiamo anche Abdia 1.10, “Si fa beffe dei re e dei capi se ne ride; si fa gioco di ogni fortezza: l’assedia e la conquista”.

Credo che sia questa la spiegazione più pertinente anche perché “Ma Gesù uscì dal tempio”è una traduzione che concilia il problema dei testi più antichi che non hanno una versione univoca. Ad esempio Giovanni Diodati e non solo, affidandosi a un altro corpo di scritti altrettanto autorevoli, riporta “Ma Gesù si nascose ed uscì dal tempio, essendo passato per mezzo loro, e così se ne andò”, creando così un parallelo con Luca 4.30 (a Nazareth) “Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino”.

Se Gesù era il “Servo”per eccellenza, allora vale quanto scritto da Davide in Salmo 18.18, “Mi liberò da nemici potenti, da coloro che mi odiavano ed erano più forti di me”, o in Salmo 53.4, “Siano svergognati e confusi quanti attentano alla mia vita; retrocedano e siano umiliati quanti tramano la mia sventura”.

Ragionando poi sul verso esteso, cioè quello che amplia “Ma Gesù uscì dal tempio”, vediamo che il “si nascose”non specifica dove, per cui dobbiamo ammettere che poté benissimo rendersi non visibile dai suoi oppositori nel senso di aver “impedito ai loro occhi di riconoscerlo”come avverrà ai due discepoli sulla via di Emmaus (Luca 24.16). Ricordiamo che “Siano svergognati e confusi quanti attentano alla mia vita”rende più probabile l’irriconoscibilità fisica, oltre che di ruolo, di Gesù per i Giudei. Credo che il testo ci autorizzi a pensarla in questo modo.

La giornata al Tempio si conclude in questo modo, col “nascondersi” di Nostro Signore passando “in mezzo a loro”e uscendo, azione che anticipa quel “mi cercherete, ma non mi troverete”che abbiamo recentemente incontrato in queste meditazioni figura del fatto che, se il Signore va cercato “mentre lo si può trovare”, va da sé che verrà il tempo in cui questo non sarà possibile. Sarà allora, nell’ineluttabilità di un destino scelto, responsabilmente o irresponsabilmente non importa, che il Signore raccoglierà il grano nel Suo granaio e lascerà le scorie a bruciare. Amen.

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