12.29 – IL CIECO NATO II/VI (Giovanni 9.4-7)

12.29– Il cieco nato II (Giovanni 9.4-7)      

 

4Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. 5Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo». 6Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco 7e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe» che significa Inviato. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.

 

Per motivi di esposizione ho spezzato in due la frase detta da Gesù ai discepoli per cui è giusto ricordare che, prima del verso 4, disse “Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Sorge comunque un problema sul “noi”, che viene tradotto da manoscritti che così scrivono, ma altri hanno “io compia” che pare più corretta. Se così non fosse, i discepoli avrebbero avuto parte attiva nel miracolo e soprattutto, al posto di “finchè io sono nel mondo, sono la luce del mondo”, dovremmo avere “siamo”, cosa ovviamente non sostenibile. Ricordiamo infatti che aveva detto “Voi siete la luce del mondo”, ma in prospettiva, per quello che sarebbero diventati una volta nata la Chiesa. Il verso va quindi letto “Bisogna che io compia le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno” anche perché i discepoli, in un certo senso, riflettevano la luce del loro Maestro come Lui, nella Sua umanità, quella del Padre, anche se in modo perfetto, per quello che gli uomini avrebbero potuto constatare nella loro limitatezza. Le “opere di colui che mi ha mandato”, poi, non erano certo limitate ai miracoli, ma soprattutto all’insegnamento e a tutte le opere di misericordia del Suo ministero, cosa che i discepoli non potevano fare.

Le parole che suscitano la nostra attenzione sono indubbiamente il “giorno”, sinonimo di operosità (“L’uomo esce alla sua opera e al suo lavoro fino alla sera”, Salmo 104.23), e la “notte”, che ha riferimento con ciò che ostacola, come lo stesso Gesù disse con le parole “Il giorno non ha forse dodici ore? Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma, se cammina di notte, inciampa, perché non ha luce” (Giovanni 11.9).

Allora, “finché è giorno” è riferito alla Sua presenza di persona fisica sulla terra e “la notte” la abbiamo dal momento dell’arresto fino ai tre giorni in cui il Suo corpo rimase nel sepolcro in cui davvero “nessuno può – poté – agire”. Fu un tempo in cui i discepoli furono soli e poterono misurarsi – senza ancora lo Spirito Santo – con la pochezza della loro fede. La “notte” allora, sotto questo aspetto, vide il tradimento di Pietro, l’incredulità di Tommaso, dei due discepoli sulla via di Emmaus che dissero a Gesù, da loro non riconosciuto, “Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti: recatesi al mattino al sepolcro e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto” (Luca 24.22-24).

Anche qui abbiamo un esempio di cecità spirituale che va individuata in quel “ma lui non l’hanno visto” in cui dimostrano non solo di non credere alla testimonianza delle donne, ma anche di non considerare che veramente Gesù potesse adempiere alle promesse sulla Sua resurrezione. Trovarono il sepolcro vuoto, ma Lui non c’era: che cosa poteva essere accaduto, se non quanto preannunciato quando era con loro?  Ricordiamo Matteo 17.22: “Mentre si trovavano insieme in galilea, Gesù disse loro: «Il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno, ma il terzo giorno risorgerà». Ed essi furono molto rattristati”. Ancora in 20.17-19: “Mentre saliva a Gerusalemme, Gesù prese in disparte i dodici discepoli e lungo il cammino disse loro: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno ai pagani perché venga deriso e flagellato e crocifisso, e il terzo giorno risorgerà”; impossibile che quelle parole fossero state dimenticate, per cui l’incredulità dei discepoli altro non era che un effetto del loro essere uomini nella carne ancora non trasformati dallo Spirito Santo.

Tornando ora agli effetti del “giorno” e della “notte”, il primo, grazie alla presenza di Gesù, comportava l’evaporarsi di ogni dubbio, la gioia del servizio vista nella missione dei settantadue (e prima in quella dei dodici), il poter rivolgere al Maestro ogni domanda e avere ogni chiarimento, ma la “notte”, senza di lui, aveva portato unicamente solitudine e disorientamento. Mi chiedo ipoteticamente, se i giorni nel sepolcro fossero stati di più, in che condizioni avrebbe trovato i discepoli, non essendo sceso il Consolatore che avrebbe rammentato loro tutto ciò gli aveva detto. Una volta risorto, però, abbiamo il mandato universale: “A me – e a nessun altro – è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli in tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Matteo 28.18-20).

Con noi non “ogni tanto”. Non solo quando Lo invochiamo, ma secondo la “legge della continuità” che già aveva capito Davide nel suo Salmo 139.1-5: “Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu conosci quando mi siedo e quando mi alzo, intendi da lontano – cioè prima che nascano in me – i miei pensieri, osservi il mio cammino e il mio riposo, ti sono note tutte le mie vie. La mia parola non è ancora sulla lingua ed ecco, Signore, già la conosci tutta. Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano”. Gesù, il risorto, Colui che ha vinto la morte, la “Parola fatta carne” è con noi tutti i giorni “fino alla fine del mondo”, tradotto anche “fino alla fine dell’età presente” cioè quando avrà termine quel periodo in cui il tempo continuerà ad essere misurato.

“Finché io sono nel mondo, io sono la luce del mondo” è una frase che ha proprio riferimento all’imminente arrivo della “notte” che Gesù sapeva essere prossima, ma anche alla guarigione del cieco nato esattamente come quando, prima di far risorgere Lazzaro, disse “Io sono la risurrezione e la vita”, entrambe qualifiche dimostrate con due miracoli “impossibili”, ricordando le parole “Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla” (vv.32,33).

La “luce del mondo”, Gesù, non era quindi un sole alternativo che illuminava la terra e le dava vita, ma una luce molto più attiva e potente, in grado di dare a una persona non vedente dalla nascita la totale e piena guarigione. Possiamo immaginarci la meraviglia di quell’uomo una volta tornato a vedere: ogni cosa per lui era nuova, tutto ciò che fino a poco prima aveva solo avvertito con gli altri sensi, veniva posto nella sua reale proporzione. Se ci pensiamo, non è cosa poi tanto diversa da quanto avviene in chi crede: “Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così. Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie son passate; ecco, ne sono nate di nuove” (2 Corinti 5.16,17). Ciechi anche noi dalla nascita, ora guariti, per quanto occorrerebbe sviluppare molto il concetto del cammino cristiano e del mantenere l’occhio spirituale sano perché, se non curiamo il nostro essere interno, possiamo soffrire delle stesse patologie dell’occhio naturale con relativi problemi di orientamento e valutazione. Un fratello definiva l’occhio “un organo direzionale della vita dell’uomo”: se malato, tutto il corpo ne risente.

Stupisce in questo episodio che Luca non riferisca alcun dialogo tra il cieco e Gesù, ma solo dei gesti visti nel fare un impasto di fango con la saliva e applicarglielo sugli occhi usando quindi un linguaggio non verbale mettendo nelle condizioni quell’uomo, che senz’altro aveva affinato con gli anni il proprio udito e il tatto, di comprendere quando stava accadendo, come già fatto in poche, altre occasioni. Il cieco nato allora sentì Gesù che gli si avvicinava, i rumori e la Sua voce così diversa dalle altre che aveva udito, presumo per tranquillizzarlo visto che si sarà sicuramente allarmato nel momento in cui sentì le Sue mani e il fango sugli occhi, senza sapere che in quel momento si stava formando un uomo nuovo che sarebbe da lì a poco stato in grado di vedere. In questo dialogo, come vedremo, Nostro Signore gli disse di chiamarsi Gesù.

Sono convinto che nella Sua voce quella persona abbia avvertito qualcosa di diverso sia perché lo lasciò fare (se si fosse sentito minacciato avrebbe certamente chiesto aiuto) e ancor più perché quanto a lui chiesto, cioè di andarsi a lavare nella piscina di Siloe, rappresentava un problema, per quanto non superabile: non possiamo sapere con certezza dove i due si incontrarono, ma nel caso in cui ciò si fosse verificato nei pressi del Tempio, la distanza fra la piscina e lo stesso era di circa 500 metri in linea d’aria che chiaramente aumentavano percorrendo la strada per arrivarvi. Resta il fatto che fu detto al cieco che, per guarire, non bastava l’intervento di Gesù che ancora non conosceva, ma doveva andarsi a lavare là. In altri termini, per guarire avrebbe dovuto fare un cammino, faticare, gli veniva chiesto di usare la volontà, di collaborare.

Anche oggi Gesù guarisce dalla cecità che ci portiamo dietro dalla nascita e possiamo paragonare il Suo sacrificio all’impasto di fango applicato sugli occhi del cieco che non porterebbe alcuna utilità all’uomo se non si recasse alla piscina a lavarsi, prima camminando fino a là e poi detergendosi gli occhi perché così gli è stato detto. Ecco perché la Croce è salvezza, ma anche giudizio: se aderire ad essa è adeguarsi alla perfezione, va da sé che rifiutarla significa permanere in uno stato di totale estraneità, identificarsi nell’imperfetto assoluto e quindi nell’immondo.

A sua volta il percorso del cieco rappresenta il pensiero, il ragionare sul da farsi una volta ascoltato il messaggio del Vangelo e il lavacro la rinuncia ad appartenere al mondo per fidarsi del Cristo. Obiettivamente, lavarsi da quel fango per guarire era qualcosa di umanamente assurdo, eppure il risultato sarà una condizione nuova, l’acquisizione della vista che mancava.

Possiamo immaginare cosa abbia provato quel cieco una volta toltosi il fango con quell’acqua: le strade che aveva percorso, i muri delle case che aveva toccato, le voci delle persone ora gli apparivano nella loro realtà e non grazie a una ricostruzione mentale imperfetta attraverso il tatto e l’udito Per la prima volta quell’uomo assaporava la spazialità, la tridimensionalità, la visione. E, come dalle ultime parole del nostro passo, “tornò che ci vedeva”. Abbiamo un altro ritorno, collegandoci a quanto detto su quello dei settantadue discepoli, certamente quello della riconoscenza perché il cieco voleva conoscere Colui che lo aveva guarito e certo il suo fu un percorso molto più agevole di quello dell’andata solamente che, una volta raggiunto il posto ove era solito mendicare, non Lo trovò.

Quell’uomo avrebbe potuto benissimo andare a casa sua guarito, ma desiderava manifestare la sua riconoscenza a chi lo aveva liberato dalla condizione umiliante in cui versava, ma di Lui conosceva solo il nome: come vedremo, infatti, a quanti lo interrogheranno dirà “L’uomo che si chiama Gesù – ecco quindi che tra i due vi fu un dialogo che Luca non ha riportato – ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: «Va’ a Siloe e lavati!». Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista»” (v.11).

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