13.32 – IL CIECO NATO V/VI (Giovanni 9.24-34)

12.32 – Il cieco nato V (Giovanni 9.24-34)          

 

24Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». 25Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». 26Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». 27Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». 28Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! 29Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». 30Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. 31Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. 32Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. 33Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». 34Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori.

 

Il fatto che i Giudei avessero organizzato un processo, per quanto a senso unico, lo rileviamo dal “chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco”, indice del fatto che fosse stato fatto allontanare per non sentire la testimonianza dei suoi genitori. Molto indicativa è la frase “Da’ gloria a Dio!” che, in due passi dell’Antico Patto, è impiegata per esortare a una confessione. Così avvenne quando Giosuè esortò Acan a confessare di aver violato la legge sull’interdetto, “Figlio mio, da’ gloria al Signore, Dio d’Israele, e rendigli lode. Raccontami dunque che cosa hai fatto, non me lo nascondere” (Giosuè 7.14), e quando i Filistei, colpiti da bubboni, restituirono l’Arca del Patto: “…e date gloria ad Dio d’Israele. Forse renderà più leggera la sua mano su di voi, sul vostro dio e sul vostro territorio” (1 Samuele 6.5). Collegando questi passi, quindi, il Sinedrio esorta il cieco a confessare l’ipotetico espediente a cui era ricorso per ricuperare la vista, perché “Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore”.

Un’altra interpretazione riguardo al “Da’ gloria a Dio!” è l’invito a glorificare solo Lui per quella guarigione, essendo impossibile che fosse stato sanato da un violatore del sabato ma, pur logica, pare debole: i farisei, estremamente tortuosi, volevano andare alla radice del problema e così, se il cieco confessava di essersi inventato tutto, quel miracolo non sarebbe mai esistito. Era contemplato che un lebbroso potesse guarire e per questo c’erano i sacerdoti, deputati a decretare la scomparsa della malattia, ma che un cieco tornasse a vedere o un paralitico a camminare, no; rientrava nel caso dei miracoli che però avvenivano sempre per diretto intervento di un profeta, quando non di un angelo.

Come è stato osservato, “I farisei volevano far credere a quell’uomo di avere scoperto l’inganno, sicché non gli serviva a nulla perseverare nella menzogna. In pratica ricorsero a quell’artificio utilizzato spesso di indurre un accusato a confessare facendogli credere che i suoi complici hanno confessato ogni cosa per cui, continuando a negare, danneggia se stesso”. Quindi: era impossibile che Dio avesse concesso a Gesù, trasgressore del sabato e quindi peccatore, un simile potere di guarire, per cui non restava che dare “gloria a Dio” e confessare cosa effettivamente era accaduto.

Il metodo inquisitorio del Sinedrio fu però prontamente demolito dall’interessato, che diede una risposta fondata sui fatti: non conosceva Gesù, per quanto ne aveva sentito parlare, e prudentemente dice “Se sia un peccatore non lo so” (per quanto lo aveva definito “Profeta” poco prima), ma restava il fatto che “Una cosa so – la sola importante –: ero cieco e ora ci vedo”. “Ero” e “ora”, cioè tutta la vita che aveva condotto prima dell’incontro con Gesù e l’ “ora” in cui ne iniziava per lui una nuova; era quella su cui i Giudei dovevano basarsi, il fatto da cui partire e spettava a loro spiegarlo, perché la fede non si basa su una o più ipotesi o probabilità, ma soprattutto certezze. Anche per noi il riscatto “da questo misero corpo votato alla morte” è avvenuto col sacrificio di Cristo per cui “Io sono persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Romani 8.38): “ero” e “ora”, “eravamo” e “ora”, passato e presente come preludio al futuro, tempi in cui si riassume tutta la storia individuale dell’uomo che sceglie Gesù come proprio Signore e Salvatore, “Mio Signore e mio Dio”, come gli disse Tommaso.

Infatti “Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Romani 5.8), “Se, quando eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita” (5.10). Noi, che “eravamo per natura meritevoli d’ira, come gli altri” (Efesi 2.3), “come eravamo simili all’uomo terreno, così saremo simili all’uomo celeste” (1 Corinti 15.49). Gesù, come ha fatto con quel cieco, ha prodotto una trasformazione profonda che avvertiamo esattamente come chi “era” cieco e “ora” vedeva. Ogni altra considerazione in merito per sminuire o demolire quanto avvenuto si faceva insignificante, non valeva nulla perché il fatto parlava da solo.

Ora sappiamo dal testo che i Giudei tornano a quanto avvenuto chiedendogli di raccontarlo di nuovo, un’assurdità perché la testimonianza fornita fino ad allora era assolutamente chiara. Era evidente che, riascoltando il racconto dalla viva voce dell’inquisito, speravano di trovarvi qualche contraddizione o un punto debole: tutto interessava al Sinedrio tranne la ricerca della verità per cui il cieco guarito rifiuta di farsi loro strumento e arriva addirittura ad ironizzare su di loro: “Perché volete ascoltarlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?”.

L’ultima domanda contiene elementi importanti visti nel “forse”, “anche voi” e “suoi discepoli”: penso che il primo sia stato pronunciato in senso ironico perché i discepoli seguirono Gesù dopo essere venuti ed aver visto, cioè constatato chi Lui fosse, mentre in quel caso tante domande ripetute e tutti i tentativi per demolire la testimonianza di quell’uomo non avrebbero portato da nessuna parte; “anche voi”, poi, ci conferma che il cieco innominato desiderava conoscere e seguire Gesù oltre al fatto che sapeva dell’esistenza di “discepoli”. Ricordiamoci che abitava nei pressi del Tempio, che tutti lo conoscevano anche come mendicante e che i rapporti fra le persone allora erano molto diversi da quelli di oggi: a prescindere dal fatto che chiedesse l’elemosina, era comunque uno del popolo di Gerusalemme e con lui la gente si fermava – per quanto non tutti – parlando del più e del meno, ma soprattutto di Gesù che era in città già da qualche giorno e cosa aveva fatto. Se con l’ “anche voi” il cieco abbia voluto sottintendere “oltre a me”, abbiamo un chiaro distinguere fra i due elementi, lui e il Sinedrio; da una parte abbiamo chi aspettava di conoscere chi lo aveva guarito e dall’altra chi non credeva e chiedeva dettagli inutili: “una cosa so”, bastava quella.

La reazione a quello che il Sinedrio interpretò come un oltraggio fu quella di stabilire immediatamente una divisione: “Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè”, cioè siamo la sua discendenza spirituale, i suoi eredi perché se fu lui a dare la Legge di Dio al popolo, adesso noi ne siamo i custodi.

C’è qui, prima della risposta data dall’innominato, un particolare significativo, cioè che i farisei “lo insultarono”; è un dettaglio che passa quasi inosservato e compare solo una volta nei Vangeli, qui. Si sottolinea così l’ira e l’offesa del Sinedrio che, definendolo “discepolo”, rappresenta l’insulto più grave che potessero dargli, preannunciante la sua scomunica.

A questo punto emerge un’altra caratteristica dell’inquisito, quella di una persona in grado di cogliere il messaggio basilare delle Scritture: “Sappiamo – notare che utilizza il plurale – che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. (…). Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla”.

Queste frasi rivelano molto su chi le ha pronunciate perché non sono una citazione di versi precisi, ma la loro elaborazione. Dalle sue parole rileviamo che quell’uomo non si era mai identificato nei “peccatori” di professione e sperava di essere da Lui ascoltato, come in effetti avvenne ed ecco perché Gesù disse di lui “è perché in lui siano manifestate le opere di Dio”. Quindi, il cieco nato non aveva utilizzato la sua invalidità e sofferenza come giustificazione per ribellarsi a Dio, ma al contrario cercava di fare “la sua volontà”. Sono molti che bestemmiano anche per il più piccolo contrattempo e mi chiedo, sotto quest’ottica, cosa avrebbe potuto fare quest’uomo se non coltivare un perenne risentimento nei confronti di Colui che aveva permesso che nascesse così. Sarebbe stato naturale, se quel cieco avesse avuto un ego smisurato come purtroppo oggi possiedono in tanti.

Altra sottolineatura possibile sta nelle parole “Proprio questo mi stupisce: che voi non sapete di dove sia”: i “discepoli di Mosè” facevano riferimento a  lui per il ruolo di ammaestramento e condotta del popolo che aveva avuto, ma ignoravano volutamente il fatto che prima di tutto ebbe un’elezione diretta e fu da Dio assistito e guidato prima del popolo stesso, senza contare che non si crogiolò mai nel suo ruolo, ma fu sempre attento a valutare e ad ascoltare tanto Colui che lo aveva chiamato quanto i propri simili. Quasi sempre si tende a guardare la Legge come a qualcosa di punitivo, costrittivo e non si pensa che, accanto a passi “penalizzanti” ve ne sono di liberatòri e di assistenza – ad esempio – per il povero, per l’orfano, la vedova e lo straniero che comunque doveva integrarsi perfettamente col popolo di Dio diventandone parte attiva. E posiamo ricordare anche gli avvertimenti a non fare preferenze in giudizio tra il ricco e il povero-

Che i farisei fossero sì “discepoli di Mosè”, ma perversi, lo dimostra il passo riferito alle modalità di riconoscimento per chiunque pretendesse di essere un profeta: “Quando un profeta parlerà in nome del Signore e la cosa non accadrà e non si realizzerà, quella parola non l’ha detta il Signore. Il profeta l’ha detta per presunzione, non devi avere paura di lui” (Deuteronomio 18.22). Sono parole che hanno la stessa logica e semplicità del “ero cieco e ora ci vedo”, non è necessario un grande studio o esegesi per capirle. Cosa dovesse accadere al falso profeta è descritto al verso 20: “Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome  una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire”. Quindi dei veri “discepoli di Mosè” non avrebbero avuto nessuna difficoltà a mettere insieme i dati necessari su Gesù per riconoscerlo come il “Figlio di Davide, colui che doveva venire”.

Il passo in esame termina nell’unico modo possibile, cioè con la reazione farisaica che ancora  una volta spranga il cuore di fronte alla logica proposta dalle parole del cieco guarito, “Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?”: ancora una volta emerge lo spirito contrario di queste persone. Lo giudicano “nato tutto nei peccati” basandosi su ciò che quell’uomo era, incuranti di quello che “ora” era diventato. Un fratello ha detto un giorno che “la carità è paziente, ma l’errore non può” e qui abbiamo la dimostrazione più palese perché uno spirito contrario a Dio non può che attaccare violentemente, con parole o con fatti è irrilevante, chi è dalla Sua parte. “Tu” e “noi” sono i pronomi che stabiliscono la distinzione, la “gran voragine” che divide chi è figlio di Dio da chi non lo è ed il “bello” è che sono gli stessi Giudei a rimarcarla, per quanto presuntuosamente si ritenessero dalla parte giusta.

L’espulsione dalla sala del Sinedrio, violenta perché è scritto “lo cacciarono fuori”, preludeva alla scomunica di cui abbiamo già accennato, ma ecco che qui abbiamo un secondo intervento di Nostro Signore, non meno importante del primo quando lo aveva guarito: “Gesù seppe che lo avevano cacciato fuori” e si mise a cercarlo, trovandolo.

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