15.10 – IL FARISEO E IL PUBBLICANO I/II (Luca 18.9-14)

15.10 – Il fariseo e il pubblicano I/II (Luca 18.9-14)

 

9Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo». 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». 14Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

 

Questa parabola, una delle più note del Vangelo e anche una delle più commentate, ha una particolarità espressa nella dedica del verso 9: “per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri”. Mentre gli altri evangelisti inquadrano le parabole che Gesù espone a volte specificando il luogo o i destinatari (popolo o discepoli), Luca introduce l’argomento con parole sue, come ad esempio abbiamo visto con la parabola del giudice iniquo (“sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai”, 18.1) o quella delle dieci mine, ancora da analizzare: “Disse ancora una parabola, perché erano vicini a Gerusalemme ed essi pensavano che il regno di Dio dovesse manifestarsi da un momento all’altro” (19.11). Quindi, nell’esposizione delle parabole di Gesù, c’è sempre una dedica e uno scopo preciso affinché la gente possa riconoscersi e meditare.

La parabola del fariseo e del pubblicano è efficace perché pone a confronto due posizioni, due mentalità diametralmente opposte, la prima delle quali è purtroppo presente allora come oggi in molti credenti che, come i farisei del tempo, si credono superiori agli altri e li guardano dall’alto in basso. Per costoro valgono le parole di Romani 12.3 in cui l’apostolo Paolo scrive “Non valutatevi più di quanto conviene, ma valutatevi in modo saggio e giusto, ciascuno secondo la misura di fede che Dio gli ha dato”. Disprezzare gli altri è la conseguenza inevitabile della presunzione che porta a tenere l’altro in nessuna considerazione senza far caso alle qualità che può avere; l’esatto contrario di quanto leggiamo in Filippesi 2.3, “Non fate nulla per rivalità o vanagloria, ma ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri superiore a se stesso”. Ecco perché la parabola ha valore universale nel tempo e coinvolge tutti, certo non solo i due protagonisti e le categorie storiche che rappresentano.

Nel corso di questi scritti molti dati abbiamo portato sui farisei, sul loro formalismo religioso esasperato, camuffato da un sapere fine a sé stesso che li portava a “filtrare il moscerino e ad inghiottire il cammello” (Matteo 23.24), poche sui pubblicani, categoria che non subì mai rimproveri  da Gesù come la prima.

Costoro avevano in appalto, dal governo romano al quale pagavano un fisso annuale, la riscossione delle imposte. L’esazione delle entrate era stabilita dalla legge romana ed era inferiore all’incasso reale previsto, per cui il guadagno dei pubblicani consisteva nel tenere per sé la somma eccedente e spesso, per aumentarla, cercavano di far versare ai contribuenti più di quanto dovuto arrivando a fare delle vere e proprie estorsioni. Il termine “pubblicano” nei Vangeli indica sia l’appaltatore, come ad esempio Zaccheo, ma molto più spesso i semplici esattori, che dipendevano da chi aveva ufficialmente l’appalto. Sappiamo che costoro venivano sempre associati ai “peccatori” perché mal considerati e invisi alla società che li vedeva come dei venduti all’occupante pagano; non parliamo poi dell’opinione che dovevano avere di loro i farisei, che se disprezzavano gli israeliti non appartenenti alla loro categoria, dovevano odiare profondamente coloro che, riscuotendo tasse secondo loro non dovute – ricordiamo la domanda sulla legittimità della riscossione del tributo a Cesare posta a Gesù – le derubavano ai loro correligionari e al Tempio.

La prima sottolineatura possibile è sulle prime parole, “Due uomini salirono al tempio a pregare”, che istintivamente può suscitare in noi un sentimento di comunione sia perché capiamo il loro impulso, sia perché viene spontaneo considerarli fratelli tra loro, uniti almeno nel sentimento della preghiera perché appartenenti allo stesso popolo di Dio. Queste due persone percorrono più o meno il medesimo tratto di strada, compiono lo stesso sforzo del salire che non farebbero se non ne avvertissero il bisogno. I due uomini “salgono” perché hanno bisogno di farlo, perché la preghiera in casa propria non basta e il Tempio, allora, era la dimora di Dio che stava nel “Luogo santissimo” in cui, come sappiamo, poteva accedere solo il Sommo Sacerdote una volta all’anno.

I due quindi arrivano al Tempio, superano il Cortile del Gentili, quello delle Donne ed entrano nell’altro, degli Uomini, e lì si fermano perché oltre non potevano andare. Il Fariseo percorre tutto quel cortile, giunge davanti al Luogo Santo e lì si ferma, il pubblicano invece leggiamo “fermatosi a distanza”, quindi dal fariseo e dal Santuario. Il primo, rispettoso dei ruoli tra l’essere fariseo e sacerdote, non invade il luogo a loro riservato, ma va fino al limite estremo a lui consentito, come siamo autorizzati a pensare dalle parole “stando in piedi” che, se si riferissero a una mera posizione, non avrebbero senso perché tutti, indipendentemente dalla classe sociale, pregavano in quel modo, quindi anche il pubblicano.

“Stando in piedi” indica allora non la posizione del corpo, ma il contegno, l’atteggiamento, mentre “in disparte”, contrariamente a quanto potrebbe apparire, non intende collocare la persona ai margini del cortile, ad esempio vicino a una colonna o a un muro, ma semplicemente che la sua preghiera fu muta, “tra sé” come propriamente traduce una sola versione, quella di don Emilio Ottaviano.

Ecco allora che già qui abbiamo un primo indicatore di ciò che animava i due personaggi avanti che iniziassero a parlare: il fariseo era colui che, secondo lui conoscendo la Scrittura e praticando la Legge, aveva pieno diritto a stare “davanti”, ad “avere i primi posti”, come dirà Gesù in un altro contesto; il pubblicano non sa dove stare, al di là del fatto che, essendo un uomo, poteva avere accesso a quel settore del Tempio. Ma si ferma “a distanza”, cioè appena all’ingresso, evidentemente non sentendosi degno di avvicinarsi, ma come vedremo avendo ben chiaro come pregare.

Vediamo allora la preghiera del fariseo, che inizia con un ringraziamento, il che di per sé sarebbe positivo se non fosse solo una scusa per glorificare se stesso: “Ti ringrazio perché non sono – cioè non esisto, non mi estrinseco – come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri e neppure come questo pubblicano”. La sua preghiera si divide in due parti: nella prima elenca ciò che non è, ma è lui a dirlo e non YHWH a cui si rivolge. Quest’uomo in poche parole si dichiara giusto da se stesso e in quanto tale ritiene di collocarsi a pieno diritto davanti al Luogo Santo, lui puro non solo per il suo non essere “come gli altri uomini”, ma anche per tutte le formalità cui adempie e che elencherà subito dopo.

Il dramma della sua “superiorità” personalmente lo individuo nelle parole “e neppure come questo pubblicano”, segno che si era accorto della sua presenza guardandosi attorno prima di iniziare a snocciolare in preghiera le proprie presunte qualità, oppure fin dalla salita al Tempio. “Neppure come questo pubblicano” è il confronto sprezzante con un’altra creatura di Dio venuta lì per pregarLo, alla quale nega la possibilità di venire ascoltato perché, se il fariseo è puro e separato, l’altro rappresenta l’esatto suo contrario, quindi, secondo quest’ottica, chi merita ascolto è sempre e solo uno, che non può essere altri se non chi è puro, “non come gli altri uomini”.

E qui occorre fare attenzione perché si tratta di una presunzione istintiva e al tempo stesso ragionata, visto come si consideravano i farisei, ma che trova nella Scrittura una forte e chiara opposizione. Così troviamo in Isaia 1.15-17: “Quando venite a presentarvi a me, chi richiede a voi questo, che veniate a calpestare i miei atri? – quelli del Tempio – Smettete di presentare offerte inutili; l’incenso – pure ordinato da Dio – per me è un abominio, i noviluni – i giorni di festa –, i sabati e le assemblee sacre: non posso sopportare delitto e solennità. Io detesto i vostri noviluni e le vostre feste; per me sono un peso, sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, io distolgo gli occhi da voi. Anche se moltiplicaste le preghiere, io non le ascolterei: le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, allontanate dai miei occhi il male delle vostre azioni. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova”. Ancora in 58.1,2: “Grida a squarciagola, non avere riguardo: alza la voce come il corno, dichiara al mio popolo i suoi delitti, alla casa di Giacobbe i suoi peccati. Mi cercano ogni giorno, bramano conoscere le mie vie, come un popolo che pratichi la giustizia e non abbia abbandonato il diritto del suo Dio; mi chiedono giudizi giusti, bramano la vicinanza di Dio”.

Si può pretendere di pregare e di essere ascoltati, come questo fariseo, senza avere la minima idea di ciò che si è veramente, di sentirsi superiori perché si appartiene non più a un’etnia quanto a una Chiesa o denominazione, soprattutto perché si osserva tutta la forma che una religione prescrive e, infatti, la seconda parte della preghiera del nostro personaggio si snoda attraverso una serie di osservanze, “digiuno due volte la settimana e pago la decima di tutto quanto posseggo” (v.12): azioni che certo non coinvolgono la persona nel suo intimo, nella coscienza.

La Legge di Mosè prescriveva un giorno solo di digiuno in un anno e ciò avveniva per il giorno dell’espiazione (Levitico 16.29,30; Numeri 19.7) cioè lo yom kippur caratterizzato dall’invio del capro espiatorio, ma col tempo si aggiunsero molti altri digiuni volontari e i farisei, per loro, ne avevano istituito due alla settimana, corrispondenti al nostro lunedì e giovedì. Anche sulla decima la Legge prescriveva si pagasse sul bestiame e i frutti della terra (Numeri 18.21; Levitico 28.30; Deuteronomio 14.22), ma quest’uomo le pagava su “tutto quanto” possedeva, le cose minute come “la menta, l’aneto e il cumino” (Matteo 23.23), tema su cui le scuole giudaiche si interrogavano se fossero dovute o meno. Erbe aromatiche, a volte dalle quali si estraeva un olio di gradevole sapore che aveva proprietà riscaldanti e stimolanti, erano oggetto di decima, ma poi si trascuravano “le cose più gravi della legge, il giudizio, e la misericordia, e la fede” (ibidem)

Concludendo questa prima parte, lo studio delle minuzie aveva trascurato la pietà e la pratica vera dell’essere popolo di Dio, come già sappiamo. Eppure Geremia 2.35 dichiara “Tu dici: «Io sono innocente, perciò la sua ira si è allontanata da me». Ecco, io ti chiamo in giudizio perché hai detto: «Non ho peccato»”. Ricordiamo anche Apocalisse 3.17, la chiesa di Laodicea di cui ci siamo occupati da poco. Questo si verifica quanto la metodologia della carne, sempre la stessa, opprimente, banale, schiavizzante, prende il posto di quella vera, spirituale, unica a dare una prospettiva nel tempo: “C’è gente che si crede pura, ma non si è lavata dalla sua lordura”.

Non credo che a questa gente interessi “lavarsi”: si reputano presentabili, non hanno bisogno di pentirsi di nulla, tantomeno di guardarsi dentro perché, avendo loro stessi, credono di avere ogni cosa perché l’Io è il contenitore totale, perché siamo e l’essere comporta il potere e il volere. Tutto possono, tutto vogliono. E oltre a ciò, pretendono che Dio li ascolti. Amen.

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15.09 – LA FEDE SULLA TERRA III/III (Apocalisse 3.14-21; Luca 18.8)

15.09 – La fede sulla terra III/III: Apocalisse 3.14-21 (Luca 18.8)

 

17Tu dici: Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo”.

 

Presunzione. La stessa che s’impossessa di chi si scorda, quando ha svolto tutti i compiti affidatigli, di appartenere alla categoria dei “servi inutili”. Al limite, credo che siamo autorizzati a prendere atto che qualcuno degli incarichi lo abbiamo svolto con diligenza e ci è riuscito bene, ma non per questo possiamo ritenerci importanti. Come abbiamo letto non tanto tempo fa, l’unico commento possibile è “Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Luca 17.10).

Invece, dando spazio all’orgoglio, i Laodicesi anziché interrogarsi sulla loro reale posizione spirituale davanti a Dio, si consideravano semplicemente nel giusto secondo la loro ottica, che poi era quella del popolo, convinzione forse derivante dalla realtà che vivevano come appartenenti a una città, appunto ricca, confondendo la vita nel mondo con quella spirituale. Si tratta di una convinzione non certo appartenente solo a loro, ma proveniente da una sopravvalutazione delle possibilità e realtà che avevano, come certi Corinti di cui Paolo dice nella sua prima lettera “Voi siete già sazi, siete già diventati ricchi; senza di noi, voi già siete diventati re” (4.8) per concludere “…mi renderò conto delle parole non già di quelli che sono gonfi d’orgoglio, ma di ciò che veramente sanno fare” (v.19).

Stridono con la posizione dei Laodicesi, e di chiunque li imita, le parole di Giacomo, “fratello del Signore”: “Siate di quelli che mettono in pratica la Parola del Signore, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi; perché, se uno ascolta la Parola e non la mette in pratica, costui assomiglia a un uomo che giarda il proprio volto allo specchio: appena si è guardato, se ne va, e subito dimentica com’era. Chi invece fissa lo sguardo sulla sua legge perfetta, la legge della libertà – precisazione importante, perché altrimenti potremmo pensare a quella di Mosè – e le resta fedele, non come un ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla” (1.22).

“Non ho bisogno di nulla” è un’affermazione indicativa perché non ha riferimento all’autosufficienza di chi da Dio dipende, ma di chi è convinto che quel poco che ha appreso sia sufficiente a prescindere da come agisce, pensa, progetta. Ignazio, vescovo di Antiochia, scrivendo ai Corinti attorno all’anno 107, usa infatti queste parole: “Non vi comando come Pietro e Paolo: loro furono apostoli, mentre io non sono altro che un rifiuto”.

La realtà che l’ “Amen” mette di fronte ai Laodicesi l’abbiamo letta: “Non sai – cioè non ti rendi conto perché sazio di te stesso – di essere – cioè vivere, che in realtà esisti come – un infelice, un miserabile – che vivi nella desolazione, nella miseria -, un povero – privo di risorse, non in grado di mantenersi – cieco – non in grado di vedere, valutare, comportarsi in modo a quel tempo e non solo presentabile – e nudo – privo di quei vestiti che solo Dio può dare”.

 

 

18Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco e abiti bianchi per vestirti e perché non appaia la tua vergognosa nudità, e collirio per ungerti gli occhi, e recuperare la vista.

 

“Consiglio”, non “ordino”. Dio non obbliga nessuno, ma dà indicazioni nel solo interesse della sua creatura. Sappiamo che da Lui si compera “senza denari e senza prezzo”, ma cosa vuol dire? Che l’unica “moneta” è la conversione, le “opere degne” di essa che consistono in un profondo stravolgimento delle nostre abituali azioni, modo di pensare. Se prima eravamo indifferenti a qualunque richiamo o invito spirituale pensando solo alla santificazione del nostro orgoglio, al portare avanti sempre ed ostinatamente le nostre esigenze, con la conversione viene tutto eliminato per un vantaggio nuovo, un premio nei cieli. Non si tratta di rinunciare a tutto ciò che ci circonda, ma solo a ciò che torna a nostro danno spirituale.

Gli “abiti bianchi per vestirti” rivelano, nel colore dell’innocenza e della purezza, l’uomo non più asservito alla mentalità inculcata dall’Avversario e finalmente libero dai suoi vincoli. E infatti il vero cristiano è colui che è stato “strappato dall’attuale, malvagio secolo”.

Indicativo è il “collirio”, che a Laodicea veniva prodotto assieme ad altre sostanze idonee a curare il corpo, per “recuperare la vista”, ricordo di quella perfetta che Adamo possedeva in Eden. “Oro purificato dal fuoco” – quindi attraverso la sofferenza, la fede, la preghiera, la nuova ottica proveniente da esse -, “abiti bianchi” e “collirio” vanno “comperati”, come dissero le vergini savie alle stolte in Matteo 26.9, “No, perché – l’olio, figura dello Spirito Santo – non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratene”. Ricordiamo anche la parabola del tesoro nascosto, “Il regno dei cieli è simile ad un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo” (13.44). Impossibile comprare senza rinuncia, senza sbarazzarsi dell’inutile avere, quel bagaglio che ognuno di noi porta con sé non senza fatica ed ecco perché “il mio gioco è dolce e il mio carico leggero”. Nessuno comprerebbe mai qualcosa che gli è veramente utile senza rinunciare al denaro, o parte di esso, che possiede ed è solo quando la ricchezza materiale viene vista come un ostacolo alla vita spirituale che questo può avvenire.

I “vestiti bianchi” sono per coprirsi e al tempo stesso i soli, perché comprati da Dio, che possono impedire la vergogna antica di Adamo e sua moglie che, una volta che ”i loro occhi si aprirono”, si scopersero privi di qualsiasi forma di presentabilità di fronte a Colui che li aveva creati per amarli ed essere amato.

 

Quindi, prima di passare all’esame dei versi successivi e a conclusione di questo primo blocco, possiamo concludere che Gesù parla in maniera inequivocabile ai Laodicesi usando termini che potevano ben capire: con gli aggettivi “freddo – caldo – tiepido” chiama in causa l’acqua che avevano, che partiva pressoché bollente da Ierapoli, o fredda dalle sorgenti di Colosse, ma arrivava da loro tiepida. Poi i termini “ricco” e “arricchito” trovavano constatazione nella condizione agiata dei cittadini. L’ “oro purificato dal fuoco” è quello più puro possibile, al 999,99% che non contempla la presenza di altri metalli come l’argento, il rame o il palladio che ne abbassano la caratura, né tantomeno quelle impurità che vengono eliminate da una continua fusione e rifusione passando per il crogiuolo. Quando Gesù parla di questo oro, sapeva di essere immediatamente compreso. Lo stesso avviene per i “vestiti”, perché Laodicea li produceva: vengono richieste vesti bianche, quindi prive di quei colori ricercati che tanto piacevano ed erano tesi ad esaltare la ricchezza delle persone. Infine, anche quando viene citato “il collirio”, abbiamo la stessa cosa, essendo anch’esso un prodotto Laodicense.

Sta all’essere umano fare i necessari collegamenti: vivere in quella città equivaleva ad avere tutto, essere autosufficienti (la zecca, gli altri manufatti e i conseguenti guadagni), ma proprio perché ciò che avevano consentiva un’autonomia raramente riscontrabile, sono chiamati a capire che il vero benessere è un altro, che se dal punto di vista della vita orizzontale avevano tutto, non erano affatto autorizzati a sentirsi tali dal punto di vista spirituale perché, in realtà, non avevano nulla ed erano esattamente come quei poveri che disprezzavano e costituivano per loro motivo di imbarazzo.

Quale insegnamento per noi e per loro? Possiamo citare, partendo dall’Antico Patto, il consiglio in Proverbi 3.7, “Non ti stimare savio da te stesso; temi il Signore e allontanati dal male”, e per il Nuovo abbiamo le importanti parole dell’apostolo Paolo in  Galati 6.5: “Se uno pensa qualcosa pur essendo nulla, inganna se stesso. Ciascuno esamini invece l’opera propria, così avrà modo di vantarsi in rapporto a se stesso e non perché si paragona ad altri”. Capiamo? È evidente che il primo nemico lo abbiamo nel nostro uomo carnale, il primo a ingannare quello spirituale; e l’autoinganno si verifica anche nella vita reale quando sottovalutiamo o sopravvalutiamo determinate circostanze. Invece, siamo chiamati ad esaminare il risultato delle nostre opere dalle quali potremo trarre o motivo di soddisfazione, sempre nell’ottica dell’inutilità del servo, o di critica costruttiva per migliorare. Anche questo fa parte del cammino, del pellegrinaggio perché, migliorando noi, i talenti affidatici iniziano a fare frutto.

Infatti: “Voi, mettendoci da parte vostra ogni impegno – ecco l’essere “caldi” – aggiungete alla vostra fede la virtù. Alla virtù la conoscenza – perché senza di lei si commettono molti errori –; alla conoscenza l’autocontrollo; all’autocontrollo la pazienza; alla pazienza la pietà; alla pietà l’affetto fraterno e all’affetto fraterno l’amore. Perché se queste cose si trovano in voi, non vi renderanno né pigri, né sterili – tiepidi – nella conoscenza del nostro Signore Gesù Cristo. Ma colui che non ha queste cose è cieco o miope, avendo dimenticato di essere stato purificato dei suoi vecchi peccati” (2a, 3.7-10).

Abbiamo da queste parole una lezione molto importante: ci sono credenti che, fraintendendo i doni dello Spirito con l’entusiasmo, non hanno compreso che il cammino cristiano passa attraverso le tappe indicate dall’apostolo: impegno – fede – virtù – conoscenza – autocontrollo – pazienza – pietà – affetto fraterno e amore, tappe interdipendenti nel senso che non è che una volta raggiunta una debba ritenersi cosa conclusa per passare alla successiva. E basta poco per rendersi conto che certo a Laodicea tutto questo non veniva praticato.

A questo punto torniamo alla domanda di Gesù che ha dato origine a queste riflessioni, “Ma il figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”: la Chiesa di Laodicea sarà quella che Lo vedrà, come del resto anche tutti gli uomini di quel tempo. Anche se molti cristiani sono incappati nell’inganno della simulazione, dell’ascolto della Parola senza praticarla, della superficialità nella religione che non salva, Laodicea è un sistema di vita praticato, predicato, profondamente avvertito, sentito, istituzionalizzato ed è qui che sta la sua colpa: nell’insieme, perché è la Chiesa del fallimento in quanto ha disatteso il proprio compito di “colonna e sostegno della verità”. Quando parla il popolo, chiude la bocca a Dio nel senso che gli impedisce di parlare e rivelarsi se non quando è troppo tardi, a meno che non intervenga in ravvedimento, non “compri” da Lui il necessario.

Ecco perché subito dopo Gesù dice “tutti quelli che amo li riprendo e li correggo. Sii dunque zelante, e ravvediti”, ultimo verso che considereremo. Se il Signore non ci riprendesse e correggesse, non saremmo Suoi figli. La correzione mette a disagio, fa soffrire, costringe a cercarne le ragioni, ad un esame rigoroso. E l’esortazione della seconda parte del verso è di per sé un filtro, perché può esservi zelo senza conoscenza (quindi spiritualmente inconcludente, portatore di errori perché soggetto a fraintendimenti colossali), o può esservi conoscenza senza zelo (altrettanto inconcludente, con l’aggravante dell’indifferenza). E tutto converge ancora una volta nel ravvedimento, greco metànoia, cioè “trasformazione della mente”. È quanto di più facile e al tempo stesso difficile che ci sia perché richiede che l’uomo si abbandoni a Dio, si lasci amare, lasciando da parte le proprie aspirazioni e interessi terreni, tenendo la propria mano nell’attesa che Lui stesso la prenda. Amen.

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15.08 – LA FEDE SULLA TERRA II/III (Apocalisse 3.14-21; Luca 18.8)

15.08 – La fede sulla terra II/III: Apocalisse 3.14-21 (Luca 18.8)

 

8Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».

 

Proseguendo nelle nostre meditazioni sulla domanda di Gesù, resta da esaminare il testo di Apocalisse 3.14-22, lettera alla Chiesa di Laodicea il cui nome significa “Giustizia al popolo” oppure “Il popolo parla”. Dando uno sguardo veloce al significato delle sette Chiese, va specificato che queste in primo luogo sono reali e appartengono al tempo in cui Giovanni scrive ma sono anche figura, stante le loro caratteristiche profondamente diverse l’una dall’altra, delle varie epoche attraverso le quali è passato il cristianesimo; ciascuna di esse, quindi, ha un periodo storico in cui ha operato nel senso che si parte da Efeso, figura della Chiesa primitiva, per arrivare appunto a Laodicea che è quella degli ultimi tempi, colei che finirà con il rapimento, senza nulla togliere alle realtà che queste avevano al tempo in cui Giovanni scrive questo libro.

Ogni lettera è indirizzata all’angelo di ciascuna Comunità, cioè al responsabile, colui che ha il dono della sua presidenza, che veglia sul suo andamento morale, spirituale e dottrinale come descritto in 1 Timoteo 5,17, “I presbìteri – o vescovi, coloro cui è affidato il governo della Comunità – che esercitano bene la presidenza siano considerati meritevoli di un duplice riconoscimento, soprattutto quelli che si affaticano nella predicazione e nell’insegnamento”.

Il presbìtero è colui che veglia su se stesso per essere irreprensibile e al tempo stesso sugli altri perché non entrino all’interno della Chiesa dottrine estranee a quella del Vangelo ed è responsabile della condotta globale di essa. Agisce non in termini e modi dispotici, ma mette a frutto e in pratica ciò che ha appreso e gli è stato rivelato dallo Spirito, non anteponendo la propria umanità ed essere, ma ha disinteressatamente a cuore che tutti camminino secondo verità e carità essendo, appunto, responsabile del comportamento e condotta sua e degli altri.

Va da sé che in questo suo agire non può essere solo, ma necessita della collaborazione e pratica di vita da parte di tutti che, col loro battesimo e confessione di fede, hanno dato il proprio benestare affinché l’amore di Dio e di Gesù Cristo potesse agire in loro. Ecco allora che, sotto questo profilo, la responsabilità dell’angelo della Chiesa è proporzionalmente la stessa di ogni appartenente ad essa e così ogni lettera è, per connessione, indirizzata ad ogni credente. Una Chiesa non ha un “capo”, ma una persona che è connessa vicendevolmente con gli altri e l’unica distinzione è il dono e le capacità affidategli. L’angelo della Chiesa locale agisce indirizzando gli altri senza costringerli, forzarli, tenendo conto delle capacità e attitudini di ciascuno.

Per capire Laodicea, e per connessione ciascuna delle sette Chiese, è allora necessario acquisire i dati basilari su di esse. La città in cui si trovava quella Comunità era molto ricca, un centro commerciale sede di numerose banche e di una zecca. Laodicea era rinomata per la sua attività produttiva (tessuti in particolare) e aveva una scuola di medicina che preparava unguenti. Il problema di Laodicea – altro motivo di applicazioni spirituali che ciascuno di noi può fare liberamente – era quello dell’acqua perché per questo dipendeva da due città vicine, Ierapoli e Colosse.

Strabone e Vitruvio, storico e geografo il primo, architetto e scrittore il secondo, riportano che l’acqua di Laodicea conteneva sedimenti minerali a tal punto da costringere gli ingegneri romani ad installare dei filtri per limitare la dannosa quantità di calcare ed evitare che le tubature scoppiassero. L’acqua di Laodicea, di per sé, era imbevibile.

Siccome Paolo non risulta vi sia stato, si ipotizza fosse stata fondata da Epàfra basandosi su Colossesi 4.12,13 ove leggiamo “Epafra, che è dei vostri del è servo di Cristo Gesù, vi saluta. Egli lotta sempre per voi nelle sue preghiere perché siate saldi, come uomini compiuti, completamente disposti a fare la volontà di Dio. Infatti gli rendo testimonianza che si dà molta pena per voi, per quelli di Laodicea e per quelli di Ierapoli”.

Al verso 16, poi, abbiamo “Quando questa lettera sarà letta da voi – a Colosse – fate che venga letta anche nella Chiesa dei Laodicesi e anche voi leggete quella inviata ai Laodicesi”, andata perduta. Dal tenore della lettera data da Nostro Signore Gesù Cristo a Giovanni nell’Apocalisse, abbiamo la conferma che tutti gli elementi negativi di Laodicea come città, cioè l’autonomia conseguente alla constatazione dell’importanza avuta nel mondo, alle conquiste in campo commerciale e scientifico di allora, avevano finito per raffreddare pressoché completamente il messaggio cristiano nella sua essenza e pratica. I Laodicesi confondevano il benessere materiale con quello spirituale.

Infatti:

 

14Così parla l’Amen, il testimone degno di fede e veritiero, il Principio della creazione di Dio.”

 

Abbiamo qui le credenziali della fonte che sta per parlare: in primo luogo l’Amen, parola in cui si racchiude il tutto, cioè la Verità, essendo questa la sua traduzione corretta, ben diversa da “così sia” come comunemente accettato. Oltre a questo, troviamo “il testimone degno di fede e veritiero” che l’Amen rafforza. Giovanni, al contrario di quanto ha fatto per il Vangelo, qui scrive sotto dettatura, non inserisce né aggiunge nulla di suo come farà per tutto il libro, salvo brevi annotazioni che rendono se possibile ancora più vero ciò che riporta. Giovani infatti aggiunge, nel libro, preziose note sulla sua esperienza, come fecero alcuni profeti prima di lui.

Abbiamo poi “Il principio della creazione di Dio” dove con questo termine possiamo includere tutti quei riferimenti alla parola “principio” che troviamo nella Scrittura a partire dalla Genesi fino a questo libro. “Principio” inteso certo come “inizio”, ma soprattutto come “scopo”, quello vero della creazione, che contemplava tanto le sei “ere” quanto la conoscenza e il rimedio del/al peccato di Adamo e sua moglie, quindi la redenzione dell’uomo attraverso i millenni. Il verso 14 costituisce un avvertimento a tutti i credenti di quella Chiesa e al tempo stesso fornisce loro, in ventun parole (3×7) la firma, il sigillo d’autorità che precede il messaggio.

 

15Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo!”

 

L’ “Amen”, con tutti gli altri due attributi, “conosce”. Il suo sapere è dato dalla perfezione che costituisce la Sua stessa Essenza, da sempre, quale “Io sono”. Il “Conosco” non è una semplice presa d’atto di un dato o condizione, ma il risultato di una profonda analisi, valutazione dei pro e dei contro, dei motivi che hanno portato l’angelo, e per correlazione tutti i credenti di quella Chiesa, a una condizione spirituale che non può classificarsi né come apertamente positiva o negativa esattamente come fu, per connessione, per quel servitore che, ricevuto un talento in una conosciutissima parabola, non crea al suo padrone né un danno né un guadagno. Quella moneta che viene restituita, in pratica, è la summa della neutralità: tanto mi hai dato, tanto ti restituisco, il tuo dovuto è questo; in pratica è come se dicesse “non ho lavorato per te, ma non nemmeno ho peccato perché non ti ho tolto nulla”. Dimenticando che “In questo è glorificato il Padre mio, che voi portiate molto frutto”.

“Le tue opere” e la conoscenza di esse, oltre a sottolineare ancora una volta la totale, perfetta conoscenza del Gesù glorificato, sono il risultato dell’amore per Lui e della fede al tempo stesso che qui, evidentemente, difettano in maniera profonda perché i termini “freddo” e “caldo” hanno riferimento con la posizione spirituale dei Laodicesi che, se fossero freddi, sarebbe come se non avessero mai conosciuto il messaggio del Vangelo e quindi avrebbero modo di riceverlo e, se “caldi”, godrebbero di quella posizione felice di dipendenza da Dio con fede. Il risultato delle loro “opere”, invece è “tiepido”, cioè si colloca nella dimensione dell’ambiguità, nella pratica del “un colpo al cerchio e uno alla bótte”, privo di entusiasmo, fervore, amore, ma basato sul compromesso. Come ha scritto un fratello, il credente di Laodicea “non è contrario alla pratica cristiana, ma nemmeno è acceso di ardore per la verità, di amore per Dio: si adagia nella mediocrità di un cuore diviso”.

Perché? Le ragioni vanno ricercate nel significato del suo nome, “il popolo parla”. Appunto l’attenzione a ciò che dice e vuole il popolo hanno preso il posto all’osservanza della parola di Dio. Gli appartenenti a Laodicea, allora, non hanno né danno un’identità precisa, non illuminano, non conducono in un luogo o verso una direzione chiara, predicano usanze e riti, sono religiosi, dicono magari “Signore, Signore, ma il loro cuore è lontano da me”. Non solo, ma inseriscono nel loro credo e metodo di vita l’apparenza intesa come sostituzione della fonte: praticano la solidarietà, ma esaltandola come pratica del “buon uomo”, portano avanti un Vangelo adulterato, con aggiunte ed eliminazioni per non turbare una “pace” che consiste nel non disturbare prima di tutto la coscienza, insomma l’esatto contrario del vero messaggio cristiano portato avanti dagli Apostoli e da tutti coloro che ne hanno accolto le parole, le spiegazioni, gli esempi forniti loro dal Maestro.

Il popolo parla, vuole un messaggio su misura. Prende il Vangelo e lo adatta alle proprie esigenze, ricorda ciò che gli piace e scarta tutto quanto non gli fa comodo e così insegna a fare. E proprio per questo è tiepido. Coltiva la religione e non la sostanza, pecca con comodità e naturalezza perché “tanto poi si pente” con una pratica-visione errata della confessione, non fa propria la freschezza della parola di Dio che non solo non lo disseta, ma impedisce agli altri di potersi dissetare. E l’acqua di Laodicea, come sappiamo, era imbevibile a meno che non provenisse – ma fino a un certo punto – dalle due città di Colosse e Ierapoli, non eccessivamente distanti da lei.

Tra l’altro, sempre a proposito di acqua, anche quella proveniente da Ierapoli, che usciva bollente dalle sue sorgenti, quando arrivava a Laodicea era tiepida, ma i depositi calcarei che conteneva, le davano ancora un sapore sgradevole che provocava spesso il vomito causato dal carbonato di calcio. Quella proveniente da Colosse, poi, fresca e dissetante  in loco, giungeva dopo un percorso di 17 km circa e dissetava poco perché aveva perso la sua freschezza originale. A Laodicea, quindi, nessuno poteva bere da una fonte fresca, figura della Parola di Dio, di “Chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà mai più sete in eterno”.

Abbiamo poi la frase “Magari tu fossi freddo, o caldo!” che è a mio giudizio terribile perché, secondo quanto mi pare di capire, la condizione di chi è ateo è preferibile a quella di chi è religioso formalmente, che magari chiama in causa principi cristiani e poi li disattende, ma soprattutto è rimasto e intende rimanere quello di prima, rifiuta la conversione, cerca o pratica un equilibrio esclusivamente egoistico. Abbiamo allora la Chiesa del fallimento.

 

16Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca”

 

Gesù parla ai Laodicesi in modo che capiscano molto bene il Suo messaggio, in quanto l’acqua tiepida era l’unica che potevano bere, con tutti gli inconvenienti del caso. Notiamo però che, nonostante la gravità dei termini con cui si esprime, non dice “Ti ho vomitato”, ma “Sto per”, oppure come altre versioni “ti vomiterò”, a sostegno del fatto che così avverrà se i membri di quella Chiesa non si ravvedranno, non riprenderanno a considerare tutte le loro azioni.

Per non appesantire, concludo il capitolo, che volutamente non va mai oltre, salvo rari casi, i tre fogli dattiloscritti. Laodicea è una Chiesa immobile. Non fa passi né in avanti, verso l’uomo portando un messaggio che potrebbe liberarlo, né indietro perché a parole non rinnega nulla di quanto le è stato affidato, ma lo fa coi fatti. Dovrebbe illuminare, ma porta pallidi riflessi che altro non fanno se non allungare o esaltare le ombre. Dovrebbe scaldare i cuori, ma provoca al limite dei battiti curiosi e anomali. Dovrebbe porsi come fonte di verità, ma preferisce andare a braccetto con idee sociali e buone azioni dimenticando di avere avuto un ruolo ben diverso. Amen.

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