06.01 – IL CENTURIONE DI CAPERNAUM (Luca 7.1-10)

6.01 – Il centurione di Capernaum (Luca 7.1-10)

Quando ebbe terminato di rivolgere tutte le sue parole al popolo che stava in ascolto, Gesù entrò in Cafàrnao. 2Il servo di un centurione era ammalato e stava per morire. Il centurione l’aveva molto caro. 3Perciò, avendo udito parlare di Gesù, gli mandò alcuni anziani dei Giudei a pregarlo di venire e di salvare il suo servo. 4Costoro, giunti da Gesù, lo supplicavano con insistenza: «Egli merita che tu gli conceda quello che chiede – dicevano -, 5perché ama il nostro popolo ed è stato lui a costruirci la sinagoga». 6Gesù si incamminò con loro. Non era ormai molto distante dalla casa, quando il centurione mandò alcuni amici a dirgli: «Signore, non disturbarti! Io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto; 7per questo io stesso non mi sono ritenuto degno di venire da te; ma di’ una parola e il mio servo sarà guarito. 8Anch’io infatti sono nella condizione di subalterno e ho dei soldati sotto di me e dico a uno: «Va’!», ed egli va; e a un altro: «Vieni!», ed egli viene; e al mio servo: «Fa’ questo!», ed egli lo fa». 9All’udire questo, Gesù lo ammirò e, volgendosi alla folla che lo seguiva, disse: «Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!». 10E gli inviati, quando tornarono a casa, trovarono il servo guarito.”.

Narrato da Matteo e da Luca, è un miracolo particolare perché è il primo in cui a beneficiare dell’intervento di Gesù è un pagano, per quanto, come vedremo, molto vicino all’identità religiosa di Israele. Per analizzare l’episodio occorre tenere presente più fattori: l’operato di Gesù fino a quel punto, chi fosse il centurione, il suo carattere, la sua posizione spirituale e, infine, perché la sua richiesta fu esaudita.

Capernaum fu, come sappiamo, la città in cui Gesù fissò la propria residenza per un certo tempo e in cui operò miracoli non quantificabili per quantità. Sappiamo che nella Sinagoga guarì un indemoniato (Luca 4.31-37), un paralitico calato dal tetto perché raggiungerLo sarebbe stato altrimenti impossibile (Marco 2.1-12), la suocera di Pietro e l’uomo dalla mano rattrappita (Marco 3.1-11), ma non ci vengono riportati tutti gli altri, racchiusi nella frase “…gli presentarono tutti i malati, colpiti da varie infermità e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici, ed egli li guarì” (Matteo 4.24). Luca ci dice che “La sua fama si diffondeva in ogni luogo della regione all’intorno” (4.37) e che “le folle lo cercavano e lo raggiunsero e lo trattenevano perché non andasse via da loro” (4.42).

Ora a Capernaum c’era un centurione romano, appartenente a una legione imperiale le cui coorti erano stanziate in varie zone della Galilea di cui Erode Antipa era il tetrarca. Erode aveva un suo esercito, composto da Galilei, che però a quel tempo era dislocato sulle frontiere di Edom, pronto a entrare in guerra col di lui suocero Areta. Per ricordare ad Antipa che, nonostante la sua alta carica, dipendeva comunque da Roma, il proconsole di Siria aveva inviato truppe romane con la funzione di mantenere l’ordine pubblico. Il centurione era il comandante dell’unità di base dell’esercito, la centuria, formata da 80 – 100 uomini. Polibio, per quanto vissuto circa 150 anni prima, scrive “I centurioni devono essere non tanto uomini audaci e sprezzanti del pericolo, quanto invece in grado di comandare, tenaci e calmi, che inoltre non muovano all’attacco quando la situazione è incerta, né si gettino nel pieno della battaglia, ma al contrario sappiano resistere anche se incalzati e vinti, e siano pronti a morire sul campo di battaglia”. Spesso il centurione era un aristocratico, solitamente giovane perché si trovava al primo grado della carriera militare, ma questa posizione sociale non lo favoriva in caso di guerra, poiché era sempre posto in prima linea per infondere coraggio ed esempio ai suoi soldati.

Ora il centurione del nostro episodio viveva a Capernaum da tempo, quello necessario per guardarsi attorno e capire la popolazione con cui aveva a che fare: gente difficile, ostile, che lo guardava, per lo meno all’inizio, con disprezzo perché rappresentante di un governo straniero. Il fatto che leggiamo al “…ama il nostro popolo ed è stato lui a costruirci la sinagoga”, oltre ad altri particolari che vedremo, ci dice che, poco a poco, quell’uomo iniziò ad interessarsi e ad interagire con l’ebraismo, pur non convertendosi ad esso. Da come si esprimerà con Gesù, possiamo dedurre che il far costruire la sinagoga di Capernaum, fornendo evidentemente le risorse economiche e le maestranze, non fu un atto calcolato per ingraziarsi gli abitanti, ma un’azione proveniente dal cuore, toccato dalla profonda diversità del monoteismo giudaico rispetto alle credenze del paganesimo.

Ebbene quel centurione, abituato a comandare e a gestire l’autorità del suo grado, aveva un servo col quale intercorreva un rapporto particolare. Luca annota che quel servo “gli era molto caro”, segno che doveva appartenere alla casa del centurione dalla nascita perché proprio quelli venivano trattati con affetto e indulgenza. Spesso, poi, gli schiavi nati in casa finivano per diventare compagni di gioco dei figli dei padroni e nascevano amicizie che duravano tutta la vita cosicché, una volta cresciuti, il padrone finiva per trattare lo schiavo come un suo eguale. Pare difficile leggere diversamente il rapporto tra questi due uomini soprattutto considerando che un centurione, uomo di guerra in prima fila, era chiamato e abituato a gestire i suoi sentimenti anteponendo autorità e comando.

Leggiamo che il centurione aveva “udito parlare di Gesù”, supponiamo nei dettagli visto che era il responsabile dell’ordine pubblico di quella città: non solo era a conoscenza dei miracoli che Nostro Signore aveva fatto, ma anche il contenuto della sua predicazione che pensiamo approvasse, come emerge dai dettagli di Luca. Matteo scrive che andò di persona, Luca che gli inviò degli anziani del popolo: il primo evangelista pone l’accento sulle sue parole, identificando gli inviati come espressione diretta del mittente, il secondo sul fatto che quegli anziani presero a cuore il problema di quell’uomo conoscendolo come “giusto”e vicino a loro.

Vediamo ora il contenuto della richiesta: per prima cosa, il centurione espone il suo caso: “Signore, il mio servo è in casa, a letto, paralizzato e soffre terribilmente” (Matteo 8.6), parole che escludono una semplice richiesta di guarire una persona che, in quanto malata, procurava un disagio perché non in grado di svolgere il proprio compito. Quel “soffre terribilmente” esprime tutta la preoccupazione e l’immedesimazione verso il servo con parole essenziali come diretto ed essenziale era il carattere di quell’uomo.

C’è un dato molto importante in proposito: abbiamo una richiesta, ma che si limita a presentare una situazione, “soffre terribilmente”, cioè manca l’ordine di una convocazione forzata che, per la posizione che il centurione aveva, avrebbe sempre potuto ordinare inviando dei soldati al posto degli anziani. Tra le righe, quindi, ancora una volta leggiamo “se tu vuoi, puoi” e non “vieni qui e fai quello che ti ordino”. L’anonimo centurione sa di rivolgersi non a un medico, che si chiama quando si ha bisogno perché quello è il suo lavoro, ma a un inviato di Dio e al Figlio di Dio stesso nel quale evidentemente credeva, come rileviamo dalle parole che gli disse tramite alcuni amici che gli mandò mentre Gesù si stava incamminando verso la sua abitazione: “Signore, non disturbarti! Io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto; per questo io non mi sono ritenuto degno di venire da te, ma di’ soltanto una parola e il mio servo sarà guarito”.

La prima parte, “non sono degno”, è simile a quanto disse Giacobbe in preghiera in Genesi 32.10 “Io sono indegno di tutta la bontà e di tutta la fedeltà che hai usato verso il tuo servo”, o di Isaia 6.5 quando, alla visione di Dio e dei suoi Angeli, disse “Ohimè, io sono perduto, perché sono un uomo dalle labbra impure e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito” oppure, per gli scritti del Nuovo Patto, a quelle di Giovanni Battista che, parlando di Colui che sarebbe arrivato dopo, disse “Io non sono degno neppure di slegare il laccio del sandalo” (Giovanni 1.27). Ricordiamo anche Pietro, quando disse a Gesù “Signore, tu lavi i piedi a me?”. Sono espressioni che denotano la coscienza di quanto sia distante la persona che le pronuncia dalla santità di Dio, indegna di ricevere le sue attenzioni, al quale comunque si rivolge sperando, conscio del fatto che possa provvedere.

Il centurione, inoltre, dimostra di conoscere non solo la potenza di Gesù cui sarebbe bastato dire “una parola” perché il suo servo guarisse, ma di collocarlo in un ambito preciso; ricordiamo il Salmo 33.8,9 “Tema il signore tutta la terra, tremino davanti a lui gli abitanti del mondo. Perché egli parlò, e tutto fu creato. Comandò, e tutto fu compiuto”. Alla potenza di Gesù, il centurione riconosce anche il suo potere liberatorio: “Nell’angustia gridarono al Signore, ed egli li salvò dalle loro angosce. (…) Mandò la sua parola, li fece guarire e li salvò dalla fossa” (Salmo 107.13 e v.20). Quel centurione non si riteneva “degno”, sapeva di non essere una pecora“perduta della casa di Israele”, ma, come la donna cananea più avanti, era consapevole di essere una creatura, di avere un’anima che il Signore cercava, in un certo senso ricambiato. Gli riconosceva anche il potere sugli elementi, conscio della distanza tra umano e spirituale che li divideva, come dice al verso ottavo, “anch’io sono un subalterno”, cioè nonostante l’autorità che il Governo di Roma gli aveva dato e il fatto che potesse disporre delle persone, a sua volta era sottoposto ad altri e comunque nulla poteva di fronte a una malattia, cosa che non era per Gesù. Il discorso del centurione in questo verso è militare: se lui era al tempo stesso un’autorità ed era a sua volta sottoposto ad altri, così Gesù avrebbe potuto dire alla morte e alla malattia “Va’”, e questa si sarebbe allontanata dal suo servo. La conoscenza di quel centurione certo era imperfetta, ma aveva capito le cose essenziali che lo portarono non solo all’esaudimento della preghiera, ma a un riconoscimento pubblico: “All’udire questo, Gesù lo ammirò”. Perché Dio ascolti, non è bisogno quindi essere dei “grandi uomini”, dei perfetti, degli asceti, dei santi irraggiungibili cui solo a loro è permesso chiedere, ma delle persone normali, che riconoscono in Cristo il risolutore, Colui che può, a cui appartiene quell’ “oltre” per noi irraggiungibile.

Avrà saputo quel centurione della guarigione del figlio dell’ufficiale reale, avvenuta in Cana di Galilea? Forse, ma in ogni caso dimostra di aver compreso che la volontà di Cristo andava al di là del fatto che fosse presente o meno nella casa. Come noi, che siamo testimoni della sua grazia e del suo amore senza averlo visto, ma con la consapevolezza che è con noi tutti i giorni, fino alla fine. Amen.

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3.07 – IL PARALITICO DI CAPERNAUM (Luca 5.17-26)

3.07 – Il paralitico di Capernaum (Luca 5.17-26)

 

17Un giorno stava insegnando. Sedevano là anche dei farisei e maestri della Legge, venuti da ogni villaggio della Galilea e della Giudea, e da Gerusalemme. E la potenza del Signore gli faceva operare guarigioni. 18Ed ecco, alcuni uomini, portando su un letto un uomo che era paralizzato, cercavano di farlo entrare e di metterlo davanti a lui. 19Non trovando da quale parte farlo entrare a causa della folla, salirono sul tetto e, attraverso le tegole, lo calarono con il lettuccio davanti a Gesù nel mezzo della stanza. 20Vedendo la loro fede, disse: «Uomo, ti sono perdonati i tuoi peccati». 21Gli scribi e i farisei cominciarono a discutere, dicendo: «Chi è costui che dice bestemmie? Chi può perdonare i peccati, se non Dio soltanto?». 22Ma Gesù, conosciuti i loro ragionamenti, rispose: «Perché pensate così nel vostro cuore? 23Che cosa è più facile: dire «Ti sono perdonati i tuoi peccati», oppure dire «Àlzati e cammina»? 24Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di perdonare i peccati, dico a te – disse al paralitico -: àlzati, prendi il tuo lettuccio e torna a casa tua». 25Subito egli si alzò davanti a loro, prese il lettuccio su cui era disteso e andò a casa sua, glorificando Dio. 26Tutti furono colti da stupore e davano gloria a Dio; pieni di timore dicevano: «Oggi abbiamo visto cose prodigiose»”.

 

La guarigione del paralitico di Capernaum è narrata da tutti i sinottici, per quanto con varianti che non mutano sostanzialmente il significato dell’episodio, anzi lo arricchiscono di particolari. Anche questo rientra in quei miracoli che gli evangelisti inseriscono senza una successione cronologica certa per quanto Matteo lo collochi dopo il discorso della montagna e l’intervento sugli indemoniati di Gadara, scrivendo “Salito su una barca, passò all’altra riva e giunse nella sua città”. Credo che agli evangelisti prema, nel caso dell’esposizione di questi miracoli, dare la precedenza più sul contenuto dottrinale che cronologico, problema che non si sono posti non ritenendolo importante al contrario degli autori del Pentateuco in cui la successione degli eventi è fondamentale e non può lasciare adito a dubbi pena la loro non comprensione. Marco scrive che Gesù tornò a Capernaum “dopo alcuni giorni” lasciando così indeterminato il periodo di predicazione in Galilea: lì sappiamo, ricordando Giovanni 2.12, che “dopo le nozze di Cana scese a Capernaum insieme a sua madre, ai suoi fratelli e ai suoi discepoli”.

Ora il fatto che fosse tornato là, fece sì che ricominciasse la sua attività spirituale alla quale si accompagnavano guarigioni di ogni tipo. La sua presenza in Capernaum attirò non solo il popolo comune, ma anche “farisei e dottori della Legge, venuti da ogni villaggio della Galilea e della Giudea, e da Gerusalemme”, segno che la guarigione del paralitico avvenne non immediatamente il suo ritorno in quella cittadina. Ci volle infatti del tempo tra il suo arrivo in città e che questa notizia si diffondesse, così come per il viaggio che dovettero fare alcuni da Gerusalemme alla casa di Gesù.

È triste constatare che quella che avrebbe dovuto essere teoricamente la parte migliore del popolo di Israele vista nei farisei e nei dottori della Legge, che avrebbero dovuto tramandarsi, tradizioni religiose a parte, anche quanto fosse profonda la dottrina che Gesù aveva dimostrato di possedere fin dall’età di dodici anni, era là non per ascoltarlo e confrontarsi con l’Unica fonte di vita, ma per giudicarlo e coglierlo in flagrante secondo il loro metodo. Non troviamo se non con Nicodemo, che era dei loro, un dialogo che denoti una volontà di capire, di raccordare il principio in base al quale “nessuno può fare i segni che tu fai, se Dio non è con lui ” con il voler assimilare la reale identità di Gesù. Quel fariseo però, nonostante il proprio bagaglio storico culturale che molto lo impedì nel suo cammino – ma chi, salvo rare eccezioni, non lo è? – era un onesto.

Ora c’era in Capernaum un paralitico – che in nessuno dei tre racconti dice mai una parola – che poteva contare sull’aiuto di alcune persone, almeno quattro, che volevano a tutti i costi fosse guarito: volevano portarlo a Gesù, ma capirono ben presto che i loro tentativi di entrare per la porta della casa sarebbero stati inutili a causa della folla che, essendo la casa piena, si accalcava per ascoltare il Maestro.

A questo punto è doveroso spendere qualche parola su come fossero fatte le case di allora: avevano un solo piano oltre il quale c’era una terrazza alla quale si accedeva tramite una stretta scalinata posta all’esterno. In alternativa, se la casa confinava con altre, c’era un muretto di divisione a dividere le due terrazze – e l’eventuale area cortilizia circostante –, che naturalmente avevano anche la funzione di tetto come leggiamo ad esempio in Matteo 24.17 “Chi si trova sul tetto della casa, e avrà le sue masserizie dentro la casa, non scenda a prenderle”. Allora come oggi, se vedere una persona su un tetto è cosa inusuale, certo non lo è se si tratta di una terrazza.

Ora è molto probabile che avvenne così: i quattro o più amici del paralitico arrivarono alla casa di Gesù e compresero l’impossibilità di entrarvi, stante la molta gente accalcata intorno; non riuscirono neppure a raggiungere la scalinata esterna per accedere alla terrazza e allora passarono da quella vicina. Scavalcarono, con tutta la fatica e la cautela del caso stante l’amico che trasportavano sul lettino, il muretto che divideva una terrazza dall’altra e così giunsero a quella della casa di Gesù. A questo punto, si misero a lavorare sul pavimento – soffitto, costituito da fango essicato o argilla che poggiava su un fitto strato di rami sostenuti da travi. Sulla terrazza esisteva molto spesso uno strumento particolare, una sorta di rullo, un cilindro che in caso di pioggia veniva fatto rotolare su e giù per il pavimento per compattare l’impasto di argilla ed evitare che piovesse in casa. Vero è che Luca, a differenza di Matteo e Marco, parla di “tegole”, ma il termine non va collegato al nostro; piuttosto alla sua etimologia dal latino “tegere”, cioè “coprire”. Ciascuno proteggeva il soffitto-terrazzo come poteva e non è escluso che vi fossero, nel punto scelto dagli amici del paralitico, magari delle tavole a protezione del pavimento che, per la natura del manufatto, avrebbe potuto essere riparato dagli stessi in breve tempo e con uno sforzo certo minore rispetto a quello fatto per condurre il loro amico infermo fin lì.

A quanto risulta dai sinottici, questi calarono il loro amico dal tetto senza dire nulla: il loro comportamento parlava da solo perché avevano fatto la fatica di portare quell’uomo fin lì e quindi ingegnarsi per raggiungere Gesù consapevoli che avrebbero dovuto fare in fretta stante le probabilità che, da un momento all’altro, finisse di parlare ed uscisse di casa per ritirarsi in qualche luogo sconosciuto a pregare. Ecco che il loro comportamento rivelava due cose: erano certi che Gesù avrebbe potuto guarire il loro amico e al tempo stesso denota l’amore che avevano per lui perché sicuramente quel trasporto era faticoso se non altro per il caldo, visto che non sappiamo quanto pesasse quel corpo incapace di muoversi e forse di parlare. Non credo di essere azzardato dicendo che quella che Gesù e i presenti videro altro non fu che una preghiera fatta con le opere e non con le parole, come ve ne saranno altre. E sappiamo molto bene che è quello che facciamo che rivela spesso il nostro pensiero al di là di ciò che possiamo dire.

A questo punto avviene qualcosa di estraneo alle aspettative di tutti: Gesù non dice “guarisci” o “àlzati”, ma “Uomo, ti sono rimessi i peccati”, frase che Matteo riporta leggermente diversa: “Coraggio, figlio, ti sono perdonati i peccati”, segno che Lui conosceva il passato, la storia di quella persona e che era la condizione di peccato in cui versava a renderlo paralitico per cui solo il perdono di Dio avrebbe potuto liberarlo. Ma posiamo anche andare oltre: perché Gesù avrebbe detto “Coraggio” se non ci fosse stato bisogno di consolarlo al di là della sua condizione fisica? Dire “Àlzati” avrebbe risolto tutto, e invece la prima parola fu “Coraggio”, cioè un invito morale. È così azzardato supporre che quell’uomo fosse angosciato, oltre che dalla sua paralisi, per uno o più peccati commessi che avevano finito per penalizzarlo in quel modo? Non credo che Gesù avesse pronunciato una frase del genere se non fosse stato il peccato che tormentava la coscienza e non la paralisi il problema di quell’uomo, né tantomeno che dire “ti sono rimessi i peccati” fosse stato uno strumento per suscitare la discussione, che poi avvenne, coi farisei e i dottori presenti che Robert Steward definisce “al tempo stesso giuristi e teologi, legislatori e sacerdoti della nazione giudaica”.

Ebbene, quei sapienti furono immediatamente scandalizzati: “Chi è costui che dice bestemmie? Chi può perdonare i peccati, se non Dio soltanto?”. Due sono gli elementi su cui soffermarsi, il “costui” usato in senso spregiativo, e il bestemmiare, che se nel greco classico si usa per denotare ogni sorta di maldicenza contro il prossimo, in quello ellenistico di Luca denota empietà e malvagio parlare contro Dio.

A questo punto Nostro Signore, che conosceva i ragionamenti dei suoi oppositori, li interroga sul perché pensassero quelle cose. Matteo scrive “Perché pensate cose malvagie nel vostro cuore? Che cosa infatti è più facile: dire «Ti sono perdonati i peccati», oppure «Àlzati e cammina»?”: fu sicuramente un rimprovero, ma con lo scopo di porre i suoi antagonisti di fronte alla loro coscienza. Parafrasando: “Perché pensi così? Prima che a me, rispondi a te stesso, cerca le ragioni di questo tuo astio alla luce di quello che sai giù su di me e a quello che vedrai”. La seconda parte delle parole di Gesù sono destinate a zittire i pensieri e i mormorii di quelli: è facile dire a una persona “ti sono rimessi i peccati”, ma non altrettanto a un paralitico di alzarsi e camminare, cosa che avvenne, lasciando muti e soli quei religiosi di fronte alle loro responsabilità. E il termine ebraico che indicava la parola “peccato” poteva indicare tanto una colpa commessa quanto le sue conseguenze ed era proprio l’infermità corporale grave e cronica che, come già visto in altri episodi, la denotava.

Venendo a noi, l’incontro con Gesù e le sue parole lascia sempre, all’inizio, l’essere umano solo di fronte a sé stesso: è a un bivio, deve inevitabilmente scegliere se rimanere nelle convinzioni di cui è vittima nonostante creda il contrario, oppure mettersi in discussione di fronte a quanto gli viene detto. Non è facile: richiede umiltà, apertura, disponibilità e sì, rinunciare a se stessi per seguirLo nel cammino. Il problema, la domanda, non è “cosa perdo se accetto Gesù Cristo”, ma “dove vado e a quale punto arrivo se seguo me stesso e dove vado e dove arrivo se seguo Lui”.

La vita che scorre da quando l’uomo è stato estromesso da Eden ad oggi è descritta in sintesi dal re Salomone in tutto il libro dell’Ecclesiaste, o Qoelet: “3Quale guadagno viene all’uomo
per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole? 4Una generazione se ne va e un’altra arriva,
ma la terra resta sempre la stessa. 5Il sole sorge, il sole tramonta e si affretta a tornare là dove rinasce.
6Il vento va verso sud e piega verso nord. Gira e va e sui suoi giri ritorna il vento.
7Tutti i fiumi scorrono verso il mare, eppure il mare non è mai pieno: al luogo dove i fiumi scorrono,
continuano a scorrere. 8Tutte le parole si esauriscono e nessuno è in grado di esprimersi a fondo.
Non si sazia l’occhio di guardare né l’orecchio è mai sazio di udire. 9Quel che è stato sar
e quel che si è fatto si rifarà; non c’è niente di nuovo sotto il sole. 10C’è forse qualcosa di cui si possa dire:
«Ecco, questa è una novità»? Proprio questa è già avvenuta nei secoli che ci hanno preceduto.
11Nessun ricordo resta degli antichi, ma neppure di coloro che saranno si conserverà memoria
presso quelli che verranno in seguito”
(Ecclesiaste 1.3-11). Anche questa è una paralisi, per quanto illusoriamente mobile.

Al paralitico vengono affidati tre compiti: alzarsi, prendere il lettino al quale per molto tempo e con sofferenza era stato costretto, e andarsene a casa sua. Sarebbe iniziata per lui una vita nuova, perfettamente conseguente al perdono dai peccati ricevuto. E non è certo sottovalutabile la sua reazione: “Subito egli si alzò davanti a loro, prese il lettuccio su cui era disteso e andò a casa sua, glorificando Iddio”. Si noti che non è scritto che ringraziò l’uomo Gesù, ma glorificò Iddio, cioè riconobbe che quanto avvenuto era stato possibile unicamente grazie a quel Dio che prima gli aveva fatto patire le conseguenze di una condizione di peccato e poi gli aveva rimesso ogni colpa. “Glorificare Dio” era la stessa cosa che ringraziare chi lo aveva guarito e, ancor di più, chi gli aveva rimesso i peccati. Da un lato abbiamo perdono e guarigione, dall’altro gli uomini della Legge orale e scritta che rimasero lì, induriti sulle loro posizioni senza un perché. Non si trattava più, come annota Giuseppe Ricciotti, “di qualche elegante questione casistica rabbinica, ad esempio di sapere se fosse lecito di sabato sciogliere il nodo di una fune o trasportare un fico secco”, ma di ammettere semplicemente che il Regno di Dio era finalmente giunto a loro e che Gesù stava dimostrando di essere l’incarnazione delle promesse fatte ai profeti a partire da Abrahamo, che loro ritenevano loro padre. Nessuno di loro lo fece.

Concludendo, abbiamo una cosa che in questo episodio accomuna gli ostili a Gesù, il paralitico e i suoi amici: tutti intraprendono un cammino per andare da Lui. I primi per accusarlo e il risultato che ottennero fu solo sconfitta e livore, i secondi consapevoli che solo Nostro Signore avrebbe potuto risolvere il loro grave problema, E la gioia fu il loro premio. I primi pensavano di essere qualcosa, i secondi partecipavano alla sofferenza dell’amico e andarono a Cristo per essere esauditi, o anche solo ascoltati attraverso le loro azioni. Solo la Parola di Dio che è Spirito e Vita può quindi risolvere la condizione di peccato in cui si trova l’uomo perché solo per mezzo della fede si riceve la giustificazione e la pace di Dio.

E Davide nel suo Salmo 108.13 scrive sotto la dispensazione della Legge “Il Signore è buono e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore. Egli non continua a contestare e non conserva per sempre il suo sdegno, non ci tratta secondo le nostre colpe – cosa che il cristiano sa molto bene –. Come il cielo è alto sulla terra, così grande è la sua misericordia su quanti lo temono; come dista l’Oriente dall’Occidente, così allontana da noi le nostre colpe. Come un padre ha pietà dei suoi figli – il Padre Nostro che è nei cieli – così il Signore ha pietà di quanti lo temono”. Amen.

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3.03 – LA SUOCERA DI PIETRO E I MALATI (Luca 4.38-44)

3.03 – La suocera di Pietro e i malati (Luca 4.38-44)

 

38Uscito dalla sinagoga, entrò nella casa di Simone. La suocera di Simone era in preda a una grande febbre e lo pregarono per lei. 39Si chinò su di lei, comandò alla febbre e la febbre la lasciò. E subito si alzò in piedi e li serviva.40Al calar del sole, tutti quelli che avevano infermi affetti da varie malattie li condussero a lui. Ed egli, imponendo su ciascuno le mani, li guariva. 41Da molti uscivano anche demòni, gridando: «Tu sei il Figlio di Dio!». Ma egli li minacciava e non li lasciava parlare, perché sapevano che era lui il Cristo.42Sul far del giorno uscì e si recò in un luogo deserto. Ma le folle lo cercavano, lo raggiunsero e tentarono di trattenerlo perché non se ne andasse via. 43Egli però disse loro: «È necessario che io annunci la buona notizia del regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato». 44E andava predicando nelle sinagoghe della Giudea”.

Nulla sappiamo, come in numerosi casi di guarigione, dell’uomo liberato dallo spirito impuro che abbiamo visto nella scorsa riflessione se non che era stato messo nella condizione di ricominciare tutto da capo dopo un’attenta revisione del suo comportamento. Ora Luca e non solo, nell’episodio precedente, avendoci informato che tutto avvenne di sabato, ci consente di sapere che la casa di Pietro e Andrea era nei pressi della Sinagoga, poiché in quel giorno non potevano essere percorsi più di 890 metri, distanza stabilita dai rabbini studiando il passo di Giosuè 3.4 in cui si parla dello spazio che doveva intercorrere tra l’Arca dell’Alleanza, portata dai sacerdoti e dai leviti, e il resto del popolo. Anche il primo verso del nostro testo, “Uscito dalla sinagoga, entrò nella casa di Simone”, lascia pensare ad un’azione quasi immediata.

Marco riferisce che “Usciti dalla sinagoga vennero, con Giacomo e Giovanni, in casa di Simone e Andrea. Ora la suocera di Simone giaceva in letto, con la febbre, ed essi subito gliene parlarono” (1.30). È quindi probabile che quella casa fosse di proprietà di entrambi i fratelli, poiché erano benestanti stante il guadagno ottenuto dalla loro professione di pescatori. Il lago di Galilea infatti non era povero di fauna ittica e i guadagni erano consistenti (pensiamo a Zebedeo, padre di Giacomo e Giovanni, che aveva una flotta di barche e dei dipendenti al suo servizio).

Della febbre abbiamo già parlato in occasione della guarigione del figlio del funzionario reale, ma qui possiamo notare il diverso approccio: Gesù si chinò su di lei, “comandò alla febbre” – Marco scrive “La fece alzare” – “…e la febbre la lasciò”. Il chinarsi implica piegarsi con la persona verso qualcuno, in questo caso per sollevarla: è un gesto di aiuto verso un essere umano in difficoltà, a letto. Implica l’avvicinarsi ed è segno di compassione che denota volontà di aiutare, in questo caso guarire. È la prima volta in cui troviamo scritto che Nostro Signore si china su qualcuno, lui che avrebbe potuto agire stando distante come già avvenuto. Lui Figlio e Dio stesso, che poteva rimanere nella gloria e nell’onore che aveva, Creatore e Signore del cielo e della terra, si occupa di un essere umano chinandosi. Non so se quella donna fosse più grave del figlio del funzionario reale che stava per morire –, ma era in condizioni prossime alle sue perché Luca ci parla di “grande febbre” secondo l’uso di classificarla in “grande” o “piccola” di allora, come testimonia Galeno, medico greco del primo secolo D.C. i cui punti di vista hanno dominato la medicina occidentale fino al Rinascimento; con quel gesto Gesù volle manifestare la sua identificazione con l’essere umano nella sua condizione di impotenza a vivere come vorrebbe, cioè senza incappare in malattie e tutto quanto lo rallenta nelle sue attività quotidiane. Ricordiamo che la febbre poteva anche essere preludio di malattie più importanti, se non saliva e raggiungeva livelli tali da causare la morte. Gesù si china su di lei, denotando interesse e compassione. È giusto ripeterlo perché a volte, soggetti come tutti gli esseri umani istintivamente a reagire con ansia e paura di fronte alla malattia, tendiamo a dimenticare questo atteggiamento del Salvatore chino sull’uomo dimostrando prima di tutto si comprendere e sapere la condizione in cui la persona può venirsi a trovare.

Gesù opera non di sua iniziativa, ma perché i discepoli “lo pregarono per lei” diventando così un esempio anche per i cristiani, chiamati a pregare gli uni per gli altri e non solo per loro stessi. Troppe volte si tende a porre davanti a Lui i nostri problemi contingenti, si prega magari perché si hanno dei dolori fisici e non si fa caso alle sofferenze fisiche e morali del nostro prossimo, che crede come noi e forse non importuna Dio presentando i suoi problemi di salute perché ne ha di più importanti. I discepoli “Lo pregarono” perché sapevano che il suo intervento poteva essere risolutore. Gesù quindi operò come scrisse Isaia 750 anni prima della Sua venuta nel mondo in 53.4 quando scrisse “…eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori”.

Leggiamo che “comandò alla febbre”, altri traducono “sgridò la febbre”: non sappiamo quali parole usò, fatto sta che il Suo fu un comando pronunciato a voce alta e quella donna guarì istantaneamente: leggiamo “subito si alzò in piedi e li serviva”. La risposta a quella preghiera fu rapida, ma soprattutto inequivocabile come lo è qualsiasi intervento di Dio nei confronti nostri e di altri.

Per estensione, se la febbre naturale blocca le attività ordinarie dell’uomo, quella spirituale fa altrettanto e in un ambito più importante. Si contrae per ignoranza, per negligenza, trascuratezza, perché siamo esseri umani, di carne e può capitare che non sempre, per molte ragioni, siamo in grado di porre su noi stessi la vigilanza che dovremmo. Di qui l’importante contenuto della preghiera del “Padre Nostro” “non esporci alla tentazione”, traduzione più corretta rispetto a quella più usata, “non indurci”. Come cristiani, dovremmo avere il coraggio di riconoscere la nostra febbre, possibilmente quanto inizia appena ad insorgere, e chiedere a Dio l’aiuto per uscirne.

 

Ora la notizia di quella guarigione trapelò all’esterno e andò ad aggiungersi a quella della liberazione dell’indemoniato nella sinagoga fatta poco prima: era sabato, era proibito svolgere qualsiasi attività e per questo la gente attese, prima di portargli i malati nel prosieguo del racconto, che arrivasse il tramonto, cioè quando il giorno si concludeva e non si era più sotto il vincolo del quarto comandamento che è opportuno citare: “Ricordati del giorno di sabato per santificarlo. Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro, ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo o la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te” (Esodo 20.9,10). Ancora, Geremia 17.21,22 riporta “Così dice il Signore: per amor della vostra stessa vita, guardatevi dal trasportare un peso in giorno di sabato e di introdurlo per le porte di Gerusalemme. Non portate alcun peso fuori dalle vostre case in giorno di sabato e non fate alcun lavoro, ma santificate il giorno di sabato, come io ho comandato ai vostri padri”.

Rileggiamo ora i versi di Luca: “Al calar del sole, tutti quelli che avevano infermi affetti da varie malattie li condussero a lui. Ed egli, imponendo su ciascuno le mani, li guariva. Da molti uscivano anche demoni, gridando “Tu sei il Figlio di Dio!”. Ma egli li minacciava e non li lasciava parlare, perché sapevano che era lui il Cristo”. Marco completa l’episodio: “Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni, ma non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano” (1.32-33).

Credo sia importante porre la nostra attenzione su due elementi, cioè la differenza intercorrente fra il “tutta la città”, o i “tutti” e i “molti”, che non indicano la stessa cosa. Si radunò davanti alla porta della casa di Simone una quantità impressionante di gente a tal punto che si può dire che tutta la città di Capernaum era presente, malati e indemoniati compresi portati là dai parenti. Però non tutti quelli portati a Gesù guarirono, poiché Marco scrive “Guarì molti”, cioè non adottò un comportamento universale, ma selettivo proprio perché altrove abbiamo letto che “conosceva quel che c’è nell’uomo”. Ecco allora che Nostro Signore guarì coloro che erano vittime e non protagoniste della loro condizione di peccato. La guarigione di un peccatore infatti ha senso solo se questi è disposto a ravvedersi e non per comportarsi come se nulla fosse una volta guarito perché tornerebbe nella sua condizione di prima, se non peggiore. Anche oggi credo che il Signore sappia fare distinzioni tra chi è protagonista o vittima di un peccato, quindi di se stesso nel profondo a livello di volontà, e che agisca di conseguenza. La Sua lettura dei cuori infatti è la capacità di valutare, più che i pensieri presenti in esso, ciò che è nell’anima e lo spirito che muove la persona, vale a dire il suo passato e il suo presente. E sì, anche il futuro che ne è spesso la conseguenza.

Poi ci sono gli indemoniati, persone che si manifestavano con i loro disturbi apertamente, a differenza dell’anonimo che abbiamo visto nella Sinagoga. Qui direi che è obbligatoria una domanda: si può escludere che Marco e Luca abbiano fatto rientrare nella categoria degli indemoniati anche delle persone disturbate mentalmente? Non a priori poiché il campo delle scienze che si occupano della mente è oggi molto vasto e una gran quantità degli interrogativi di allora hanno trovato una spiegazione nelle neuroscienze e nella psichiatria, per quanto non tutte. Piuttosto, l’indemoniato va raccordato al contesto storico di allora, in cui la lontananza da Dio del popolo di Israele aveva causato loro gravi danni: ricordiamo che non avevano profeti da 350 anni, che la presenza stessa dei malati, dei paralitici, ciechi e altre categorie a vasto raggio erano i sintomi di un allontanamento da quel Dio che aveva promesso, in caso di fedeltà ai suoi comandamenti, l’assenza di quelle che chiamiamo “sventure” e di qualsiasi tipo di malattie. Nell’Antico Patto, una malattia in Israele era sempre il risultato di un peccato, mentre per gli altri popoli era piuttosto la conseguenza della loro condizione ereditata da Adamo, vale a dire un corpo soggetto ad ammalarsi, logorarsi e infine morire. La presenza degli indemoniati tra il popolo testimoniava, in fin dei conti, quanto fosse lontana la loro mente dall’attesa del Cristo promesso.

Oggi Satana agisce in coloro che glielo consentono e ne fa dei suoi strumenti come fu il caso di Giuda Iscariotha di cui a un certo punto, nell’ultima cena di Gesù con gli apostoli, è scritto: “E intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda Iscariotha, figlio di Simone. E allora, dopo quel boccone, Satana entrò in lui” (Giovanni 26,27). Ciò va detto per non incorrere nell’errore di alcune Chiese i cui componenti tendono a vedere l’opera del demonio ovunque, anche nelle persone depresse dimenticando che la mente, al pari del corpo, può sempre ammalarsi e va curata.

Credo che ogni cristiano debba piuttosto meditare quanto scrive Giovanni nella sua prima lettera: “Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che noi vi annunciamo: Dio è luce e non vi è in lui tenebra alcuna. Se diciamo di essere in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, siamo bugiardi e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri e il sangue di Gesù, il Figlio suo, ci purifica da ogni peccato. Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. Se diciamo di non avere peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi” (1 Giovanni 5,10).

Tornando all’ultimo verso del nostro secondo episodio, leggiamo che i demoni lo qualificavano come Figlio di Dio, ma che Gesù non li lasciava parlare: erano testimoni di cui non aveva bisogno, inopportuni, che non avevano alcun diritto di qualificarlo in quel modo per quanto corrispondesse a verità. “Tu sei il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente”, come gli disse Pietro, è una frase che compete alla persona che Lo riconosce come Unico riferimento per la propria salvezza eterna.

 

Il terzo momento descritto da Luca ci conferma le due nature di Gesù, che dopo i tre episodi, cioè la guarigione dell’indemoniato, della suocera di Pietro e dei molti indemoniati, si alzò presto per pregare, cioè chiedere al Padre l’assistenza di cui aveva bisogno come uomo; ricordiamo le parole “Il mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato”, quel cibo che i suoi discepoli non conoscevano. Gli abitanti di Capernaum non potevano certo dimenticare le guarigioni del giorno precedente e si misero a cercarlo. I primi a fare questo furono i discepoli, poi seguiti dagli altri. Infatti Marco scrive “E Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero «Tutti ti cercano»” (1.36,37): erano legati al fatto che dovesse restare lì, che avesse ancora molto da fare. Quelli di Capernaum però erano animati da un sentimento egoistico, come scrive Luca, perché “cercavano di trattenerlo perché non se ne andasse via” nel senso che volevano avere a loro disposizione quel Maestro così diverso dagli altri: prima doveva guarire le loro malattie e poi gli insegnare la Scrittura nella Sinagoga. Doveva essere motivo di vanto per Capernaum, città sulla quale poi pronuncerà una maledizione. Fu il loro un comportamento diverso da quello dei samaritani che abbiamo letto da poco, in cui Giovanni non riferisce di miracoli fatti in mezzo a loro, anche se non possiamo escludere che non siano avvenuti. I samaritani accolsero Gesù “con gioia”, a Capernaum inizia la volontà, non molto velata, di farne un condottiero politico o uno strumento di richiamo per la città al punto che più avanti, quando si recherà a Nazarth, i suoi concittadini pretendevano che facesse presso di loro gli stessi miracoli che aveva fatto là.

Su Capernaum Gesù formulerà un giudizio importante: “…e tu, Capernaum, sarai forse innalzata fino al cielo? Precipiterai fino agli inferi! Perché, se a Sodoma fossero avvenuti i prodigi che sono stati in mezzo a te, oggi essa esisterebbe ancora! Ebbene io vi dico, nel giorno del giudizio la terra di Sodoma sarà trattata meno duramente di te” (Matteo 11.22-24).

Gesù però non poteva accettare i sentimenti che animavano i suoi nuovi concittadini e, come lui stesso dice, la sua predicazione non poteva essere contenuta in un perimetro limitato, ma avrebbe dovuto essere per tutto il popolo di Israele: “È necessario che io annunci la buona notizia del regno anche alle altre città; per questo sono stato mandato”. Quindi, Luca dà un accenno su un periodo ulteriore: “E andava predicando nelle sinagoghe della Giudea”, che altre versioni indicano più correttamente nella Galilea dove si trovava. Un cammino che diversi commentatori hanno ritenuto abbia compiuto da solo.

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3.02 – L’INDEMONIATO NELLA SINAGOGA DI CAPERNAUM (Luca 31.37))

3.02 – L’indemoniato nella Sinagoga di Capernaum (Luca 4.31-37)

 

31Poi scese a Cafàrnao, città della Galilea, e in giorno di sabato insegnava alla gente. 32Erano stupiti del suo insegnamento perché la sua parola aveva autorità. 33Nella sinagoga c’era un uomo che era posseduto da un demonio impuro; cominciò a gridare forte: 34«Basta! Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». 35Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E il demonio lo gettò a terra in mezzo alla gente e uscì da lui, senza fargli alcun male. 36Tutti furono presi da timore e si dicevano l’un l’altro: «Che parola è mai questa, che comanda con autorità e potenza agli spiriti impuri ed essi se ne vanno?». 37E la sua fama si diffondeva in ogni luogo della regione circostante”.

Di questo episodio parlano Luca e Marco, che integra il racconto con una annotazione: “…erano stupiti dal suo insegnamento: Egli insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi” (1.22). Come abbiamo anticipato nello scorso episodio, la guarigione dell’indemoniato fu il primo dei sette miracoli compiuti da Gesù in giorno di sabato ed avvenne in una Sinagoga a sottolineare la continuità fra Antico e Nuovo Patto. Il contenuto della Sua predicazione fu probabilmente graduale: parlando a tutti, quindi in gran parte al popolo e poi agli eventuali dottori presenti, partiva dalle Scritture che lo riguardavano e le aggiornava, mostrando i veri contenuti della Legge e dei Profeti. Ma soprattutto la Legge, che secondo l’insegnamento dell’apostolo Paolo “possiede soltanto l’ombra dei futuri beni e non la realtà stessa delle cose”, andava esposta, commentata in modo tale da condurre il popolo a Lui.

Nello scorso capitolo ho accennato al fatto che a Capernaum inizia un tempo nuovo, un periodo di insegnamento e di dedizione totale alla creatura e lo vedremo nei miracoli, negli insegnamenti, nei segni di Cristo. Ora Credo che il Suo insegnamento consistesse appunto in questo: ampliare la conoscenza in merito agli avvenimenti e ai precetti che molti, se non tutti, conoscevano in modo limitato e freddamente osservante.

L’obiettivo di Gesù era quindi da un lato quello di portare in luce ciò che era in ombra, dall’altro dimostrare inconfutabilmente che, attraverso i segni che compiva e avrebbe compiuto, aveva un’autorità che procedeva da Dio, ciò per condurre gli uomini a riconoscerlo come il Figlio di Dio nel quale il Padre si era compiaciuto. Non era infatti lontano il tempo in cui, parlando nella Sinagoga di Nazareth e commentando Isaia dirà “Oggi si è compiuto quello che voi avete ascoltato” (Luca 4.21), facendo esplicito riferimento a se stesso. Insegnando nella Sinagoga, già provocava nella gente un senso di rispetto e di edificazione perché si distingueva da chiunque nell’esporre: era la sua consacrazione e la conseguente relazione che aveva con il Padre che produceva quell’insegnamento autorevole così distante da quello degli scribi che si limitavano a discorsi basati su concetti religiosi, osservanti l’estensione della tradizione orale così lontana dall’amare “il Signore Iddio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e tutta la tua mente”; ciò produceva un’esposizione magari accademica, ma certo non in grado di dissetare l’anima perché mancava l’acqua viva che doveva sgorgare. Luca 4.14 ha scritto “Insegnava nello loro sinagoghe e tutti gli rendevano lode”, cosa impossibile senza questa caratteristica. Anche oggi chi insegna il Vangelo dovrebbe essere in grado di presentarlo con l’autorità che deriva dall’esperienza, dall’aver provato prima di tutto i benefici della Grazia su di sé piuttosto che percorrere i sentieri della storia e della tradizione, a meno che non sia strettamente necessario e limitatamente all’inquadramento nel tempo di un determinato personaggio o corrente.

Qual era la destinazione, l’obiettivo a lunga scadenza che Gesù si prefiggeva? Dare la sua vita perché gli uomini credessero in Lui e si salvassero. Così Paolo in Ebrei 10.11-14: “Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati. Cristo, invece, avendo offerto un solo sacrificio per il peccato, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi. Infatti, con un’unica offerta, egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati”.

Salvare l’uomo significa sottrarlo a Satana in vista del giudizio futuro su di lui e questo è uno dei motivi per cui lo spirito immondo, come abbiamo letto, gli si rivolterà contro. E qui abbiamo il primo dato: un vero insegnamento, fosse anche una semplice frase di natura spirituale, non può che generare una reazione in positivo o in negativo. In quella Sinagoga Luca e Marco ci dicono che c’era un uomo posseduto da uno spirito immondo di cui probabilmente nessuno si era mai accorto perché, in caso di comportamento sconnesso, gli sarebbe stato impedito l’accesso: frequentava allora le riunioni in quell’edificio probabilmente con regolarità e non aveva mai dato adito a preoccupazioni o provvedimenti tali da escluderlo dalla comunità. Ecco allora che quell’uomo frequentava l’assemblea sentendosi a suo agio tra le preghiere formali e gli insegnamenti frutto della scienza scritturale umana proposta dagli scribi. Anche oggi sono tanti quelli che frequentano i radunamenti di Chiesa per lavare le loro coscienze, oppure per sentirsi a posto senza pensare al Corpo di Cristo al quale appartengono. La Chiesa non è costituita da membri isolati gli uni dagli altri, ma da persone che interagiscono tra loro per un bene comune. In pratica sono un corpo solo, ciascuno con una funzionalità precisa. Chiamati fuori da un mondo che non riconosce Dio, rischiano di chiudersi dentro loro stessi, attratti più da eventuali riti e atteggiamenti esteriori più che dal vivere assieme in Cristo.

Ma torniamo all’episodio: non resta che concludere che la presenza di Gesù e le sue parole su un brano di scrittura specifico abbiano provocato nel demone che abitava quella persona anonima la reazione che abbiamo letto. Penso che Gesù abbia affrontato un passo impegnativo, come del resto tutti quelli che coinvolgono l’osservanza spirituale di un comandamento, quello che c’è dietro, le sue profonde implicazioni, della Legge o di una profezia sul trionfo del Messia sul peccato, su Satana e i suoi angeli. Prestiamo ora attenzione alle parole di Giacomo, fratello di Gesù nella sua lettera: “Tu credi che c’è un solo Dio? Fai bene, anche i demoni lo credono e tremano” (2.19). I demoni, come ha spiegato Giacomo, hanno due caratteristiche: la prima è che credono – ma per questo non sono salvati – perché lo hanno visto e conosciuto il Suo primo giudizio; la seconda è il tremare, verbo che ha come suo secondo significato l’essere in uno stato di agitazione, di ansia, di paura interiore.

I demoni infatti sanno che un giorno Satana avrà il capo schiacciato dalla progenie della donna e che il loro destino sarà l’essere gettati nello stagno di fuoco e di zolfo con lui, ma non quando. Ecco il perché della frase che quello spirito, che fino a quel momento era rimasto silente accontentandosi di vivere in quell’uomo dominandolo, ha una reazione che si caratterizza con delle frasi che iniziano quasi con un imperativo: “Basta!”, che tuttavia è più corretto tradurre con “Lasciaci” o con un grido, “Ah!”. Marco scrive infatti “diede in grido” (1.23). Quel demone non tollerava prima di tutto di ascoltare un insegnamento di vera dottrina perché, se lo Spirito convince di peccato, quella predicazione generava in lui un cortocircuito. La presenza e le parole di Gesù erano diventate letteralmente intollerabili.

Se l’intento di Satana è tenere l’uomo all’oscuro della verità in modo che l’uomo non giunga alla salvezza e di compromettere nella maniera più grave possibile il rapporto dei credenti, non poteva tollerare quelle parole di vita che, per lui, erano di morte. L’apostolo Giovanni, nella sua prima lettera in 3,8, scrive che “Gesù è venuto per distruggere le opere del diavolo“.

Lo spirito impuro, inoltre, si considerava un tutt’uno con la persona che occupava, la considerava già una sua proprietà e, infatti, parla al plurale, “Che vuoi da noi (…) sei venuto a rovinarci?”. Da qui possiamo fare un’altra riflessione: per possedere quella persona, vale a dire la sua anima e il suo spirito, voleva dire che la stessa glielo aveva permesso con un comportamento non consono alla Scrittura, in particolare nei confronti della Legge, con una ribellione sistematica a uno o più comandamenti, quel decalogo dato agli uomini per evitare che offendessero Dio. Dei dieci, diversi da quello che è insegnato nel catechismo della Chiesa di Roma, ne abbiamo quattro che riguardano la relazione con Dio (1. Non avere altri dèi oltre a me – 2. Non farti scultura, né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra, non ti prostrare davanti a loro e non li servire – 3. Non pronunciare il nome del Signore, tuo Dio, invano – 4. Ricordati del giorno di riposo per santificarlo) e sei sono norme comportamentali tra simili che vanno a danneggiare uno o più soggetti in modo tale da rendere impossibile un contatto con Lui: “5. Onora tuo padre e tua madre – 6. Non uccidere – 7. Non commettere adulterio – 8. Non rubare – 9. Non attestare il falso contro il tuo prossimo – 10. Non desiderare la casa del tuo prossimo, non desiderarne la moglie né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue né il suo asino, né cosa alcuna del tuo prossimo”.

Ora va fatta molta attenzione: i punti in cui quella persona era mancante alla luce del decalogo poteva riguardare il settimo comandamento “Non commettere adulterio” o l’ottavo “Non rubare”, azioni che possono diventare continuative, abitudinarie perché suscettibili, soddisfacendo la carne, ad essere continuate nel tempo e a coperte da una coscienza di per sé impura. Entrambe le infrazioni, poi, sono la conseguenza della coltivazione del decimo comandamento relativo al non desiderare ciò che è di altri, azione che non implica la semplice, bonaria invidia che porta ad esempio un uomo che manca di certe cose accessorie a considerare un suo simile fortunato perché invece le possiede e lì si ferma.

La pratica abituale del trascurare i comandamenti di Dio, soprattutto quelli che possono essere difficilmente scoperti, porta l’uomo a porsi in contrapposizione con Lui, ad adagiarsi su un sistema religioso fatto da uomini: “tanto nessuno mi vede”. Frequentando la Sinagoga, quell’uomo aveva trovato un compromesso e da un lato il recarsi alle riunioni soddisfaceva il suo senso religioso, quindi carnale. Era una situazione da sdoppiamento della persona, che si comportava ora in un modo ora in un altro senza alcun problema.

A questo punto occorre precisare che lo spirito impuro aveva trovato un terreno quanto mai fertile in quella persona per potersi stabilire al suo interno: l’innominato indemoniato aveva finito per diventare una vittima delle proprie concupiscenze materiali e paradossalmente aveva trovato un equilibrio nella sua incontinenza. Solo di fronte alla responsabilizzazione vista nella predicazione di Nostro Signore fu possibile una reazione perché l’impurità non può reggere di fronte alla santità di Dio che la giudica e condanna.

Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei, il Santo di Dio!” (v.34): vediamo che prima lo chiama “Nazareno”, in tono evidentemente spregiativo per denigrarlo davanti ai presenti che sapevano quanto fossero rozzi gli abitanti di quella città; poi abbiamo la domanda “Sei venuto a rovinarci?”, che in un altro episodio altri demoni aggiungeranno “prima del tempo?”.

Ecco, qui intervenire Giuda nella sua lettera ai versetti 5 e 6 che scrive “A voi che conoscete tutte queste cose, voglio ricordare che il Signore, dopo aver liberato il popolo dalla terra d’Egitto, fece poi morire quelli che non vollero credere e tiene in catene eterne, nelle tenebre, per il giudizio del grande giorno, gli angeli che non conservarono il loro grado ma abbandonarono la propria dimora”: sono catene che non li bloccano nella loro attività, ma non consentono loro di andare oltre a un certo punto, non hanno piena autonomia. Ecco perché possono agire solo in quei contesti in cui viene loro dato uno spazio.

E questo episodio ci insegna una realtà sulla persona indemoniata: il problema non è se indemoniato sia il malato mentale o chi ha problemi psichici che a volte la psicoterapia o le cure farmacologiche sono in grado di aiutare, ma l’uomo che, col suo comportamento, consente di lasciarsi dominare da istinti e forme di ragionamento che a lungo andare consentono a uno spirito immondo di abitarlo. Non tutti quelli che si comportano come l’indemoniato di Capernaum a livello di infrazioni ai comandamenti sono effettivamente tali, ma l’episodio ci insegna che questo è possibile. Non è un ragionamento superstizioso, anzi è un’estensione delle parole di Gesù a proposito di due realtà, entrambe attinenti al nostro caso.

In Luca 16.13 leggiamo che “Nessuno può servire a due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro”. Da questo importante passo rileviamo che l’uomo, che si ritiene autonomo e si proclama libero, in realtà è e rimane un servo; è l’entità con la quale si relaziona che determina il suo carattere e l’a chi sono rivolti i suoi pensieri.

La seconda ci è data per descrivere lo stato di una persona liberata dallo spirito immondo, che non può rimanere da sola, ma iniziare un cammino che abbia Cristo come fondamento: “Quando lo spirito impuro esce dall’uomo, si aggira per luoghi aridi cercando sollievo, ma non ne trova. Allora dice «Ritornerò da dove sono uscito». E, venuto, la trova vuota, spazzata e adorna. Allora va, prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui, vi entrano e vi prendono dimora e l’ultima condizione di quell’uomo diventa peggiore della prima” (Matteo 12.43-45).

 

C’è una terza frase che lo spirito impuro pronuncia pubblicamente: “Io lo so chi sei, il Santo di Dio!”: non riconosce Gesù come profeta generico, ma gli dà quel titolo conosciuto dal popolo come Colui che doveva arrivare, era un titolo non morale, ma ufficiale e preciso che quello spirito non poteva pronunciare: se lo fece, era solo per evidenziare che il tempo per la sua fine non era ancora giunto e voleva essere lasciato stare, libero di occupare quell’uomo.

Satana conosce il suo destino, ma sa anche che prima della sua definitiva sconfitta avrà modo di sedurre “perfettamente” gli uomini degli ultimi tempi, quando si manifesterà tramite un sistema politico (la Bestia) e con un suo rappresentante – un presidente? – chiamato “falso profeta”: “Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti verrà l’apostasia e si rivelerà l’uomo della perdizione, l’avversario, colui che si innalza sopra ogni essere chiamato e adorato come Dio, fino a insediarsi nel tempio di Dio, pretendendo di essere Dio” (2 Tessalonicesi 2.3). Riconoscere in Gesù “Il Santo di Dio”, che costituisce per l’uomo salvezza, qui ha per conseguenza la proibizione di parlare e l’ordine di uscire da quell’uomo.

A questo punto il resoconto di Luca e di Marco sono diversi: Luca scrive “E il demonio lo gettò a terra in mezzo alla gente e uscì da lui, senza fargli alcun male”, mentre Marco “E lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte, uscì da lui” (1.26). Mi sono chiesto il perché di questi punti di vista, apparentemente contraddittori perché tra lo straziare fortemente e il non fare alcun male esiste differenza. Luca esamina il fatto dal punto di vista medico e, considerato il fatto che quell’uomo ritornò in sé, pone l’accento sulla sua guarigione: non riportò fratture, sanguinamenti, tornò in sé. Marco, che ebbe Pietro come fonte primaria sicuramente presente nella Sinagoga, mette invece l’accento sulla sofferenza spirituale di quell’uomo. “Straziandolo forte” si riferisce probabilmente alla sofferenza che lo spirito impuro gli provocò, sofferenza psichica e morale: lo gettò a terra e con convulsioni. Un tentativo di rivalsa di fronte all’abbandono che gli era stato ordinato.

Sono senz’altro da citare le parole che un caro fratello scrisse un giorno: “Ecco un’importante verità alla quale tutti i credenti devono prestare la massima attenzione: quando noi consegniamo a Satana parte della nostra mente o del nostro corpo, ricordiamoci che, pur se aiutati, protetti e salvati da Gesù, prima di lasciarci il male cercherà di umiliare la nostra vita senza pietà come fece proprio con l’anonimo posseduto”. “Senza pietà”, sentimento che non appartiene né a Satana, né ai suoi angeli, siano essi spiriti immondi o esseri definiti “umani”.

L’episodio si conclude col timore che si impossessò dei presenti, abituati ad assemblee regolate da un susseguirsi di eventi senza che nulla le turbasse: non poteva essere altrimenti. Tuttavia il fatto generò delle domande importanti perché all’insegnamento con autorità di Gesù era subentrata la dimostrazione del suo dominio sugli spiriti a Lui contrari: “Che parola è mai questa, che comanda con autorità agli spiriti impuri, ed essi se ne vanno?”.

Marco scrive invece “Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità – notare il termine “nuovo” –. Comanda persino agli spiriti impuri, ed essi gli obbediscono” (1.27). Con quest’ultima frase, i presenti confessano di non aver mai visto niente di simile, soprattutto gli anziani che probabilmente avevano anche visto spiriti impuri all’opera senza che nessuno avesse potuto far niente per scacciarli e farsi ubbidire da loro. Solo Gesù c’era riuscito, a conferma di essere l’unico liberatore possibile.

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