5.10 – IL SALE DELLA TERRA (Matteo 5.13-16)

5.10 – Il sale della terra (Matteo 5.13-16)

  • 13Voi siete il sale della terra; ma se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente. 14Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, 15né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa luce a tutti quelli che sono nella casa. 16Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli.”.
  • Con queste parole ci troviamo di fronte per la prima volta a una definizione che Gesù fa sul suo uditorio, vedendo i discepoli e quelli che avrebbero creduto in Lui come “sale della terra” e “luce del mondo”. Nel definirli così fa seguire poi tre esempi – l’insipidirsi del sale, la città sul monte e la lampada – per concludere con un imperativo al verso 16: “Coì’ risplenda la vostra luce davanti agli uomini”. Se poco prima il discorso delle beatitudini ha riguardato anche i trattamenti inflitti dal mondo ai discepoli, qui c’è un ribaltamento: sono loro ad influire sul mondo come vediamo dalla metafora del sale, sostanza tanto comune quanto necessaria.
  • Il sale è una sostanza da sempre conosciuta come esaltatore di sapidità ampiamente usato in cucina, ma è anche fondamentale per lo svolgersi di meccanismi fisiologici vitali come la trasmissione degli impulsi nervosi, lo scambio dei liquidi e la regolazione della pressione anche se è pericoloso superare la dose di più di 5 grammi giornalieri perché, in questo caso, può causare problemi ai reni e cardiaci. Qui però Gesù parla di sale “della terra”, alludendo alla testimonianza e capacità di annunciare il Vangelo al mondo una volta ricevuto lo Spirito Santo oppure, nel caso dei suoi uditori di allora, all’annunciare agli altri che era finalmente giunto il Regno di Dio nella Sua persona. In pratica, con quella definizione ai presenti, Nostro Signore indica loro il ruolo che avrebbero avuto se si fossero riconosciuti nelle Sue parole. Ciascun cristiano è potenzialmente “sale della terra” perché ciò che ha ricevuto può e deve – non per costrizione, ma come atto spontaneo e inevitabile – essere trasmesso, annunciato agli altri. Occorre prestare però attenzione: essere “sale della terra” non significa necessariamente diventare, essere dei predicatori come molti pensano o per far proseliti, ma possedere una proprietà fisica al nostro interno esattamente come ce l’ha il sale naturale, che dà sapore.
  • Data la definizione, Gesù contempla la possibilità che questo elemento perda le sue proprietà, riferendosi all’esperienza di allora: il sale veniva ricavato per evaporazione dal mare o da paludi, ma occorreva la massima attenzione perché il procedimento per la sua estrazione era primitivo e col sale potevano venire raccolte terra e impurità che lo facevano scadere a tal punto da tramutarlo in una polvere inservibile che veniva gettata sulla strada, non certo in un campo perché lo avrebbe fortemente impoverito. Ricordiamo che nelle antiche guerre, una volta distrutte e rase al suolo le città nemiche, vi si passava un aratro versando del sale nei solchi affinché non crescesse più nulla: non solo lo fecero i romani con Cartagine, ma lo troviamo anche nella Bibbia: “Abimelec combatté contro la città (Sichem) tutto quel giorno, la prese e uccise il popolo che vi si trovava, poi la distrusse e la cosparse di sale” (Giudici 9.45). “Terra salata” è anche una definizione usata frequentemente nella Scrittura per indicare un territorio arido e deserto.
  • Il sale, a parte il riferimento ai suoi effetti sul suolo, lo troviamo presente nella Legge: “Dovrai salare ogni offerta di oblazione: nella tua offerta non lascerai mancare il sale dell’alleanza del tuo Dio; sopra ogni offerta porrai del sale” (Levitico 2.13). Questo composto allora, come abbiamo letto, raffigurava l’alleanza di Dio con l’uomo: quale? Certo quella della Legge, ma anche le altre, in particolare quella che il Cristo portava con sé, a quel tempo non ancora rivelata. Eccoci giunti al punto: il sale che andava posto sopra ogni offerta lo ha dentro di sé chi crede nell’Agnello di Dio, che addirittura viene a lui paragonato, “voi siete”. Abbiamo questa proprietà, ma corriamo il rischio di perderla non rimanendo fedeli, dimenticandocene: essere il “sale della terra” non può costituire motivo di orgoglio perché, se si diventa insipidi, non si è più utili a nulla. La domanda “con che cosa lo si salerà” va letta come “In che modo potrà riacquistare il suo sapore?”. Ricordiamoci che i discepoli non sapevano di avere questa caratteristica, è Gesù che lo rivela, li avverte: “Fai attenzione, guarda che tu sei il sale della terra”, responsabilizzandoli e collegandosi alle beatitudini. Purtroppo la dimensione che subiamo ci costringe a dividere il discorso sul monte in blocchi come se fossero delle stanze da attraversare, ma ciò che Nostro Signore disse ai discepoli e alla gente venuta da ogni parte era un fiume che scorreva, non uno studio a puntate come il mio.
  • Questo primo paragone di Gesù è quindi un invito alla riflessione: dapprima informa i suoi discepoli del loro privilegio, dello scopo che hanno, quindi del fatto che portano dentro di sé l’alleanza che Dio ha fatto con loro e che non possono tenerla per sé. Poi, per la caratteristica che è stata loro data, essi sono il “sale del mondo” cioè danno un senso alla sua esistenza con la loro opera.
  • Il sale è anche riferito all’intelligenza spirituale: “Abbiate sale in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri” (Marco 9.50) e “Il vostro parlare sia sempre con grazia, condito con sale, per sapere come dovete rispondere a ciascuno” (Colossesi 4.6) là dove alcuni lo traducono con “senno”, quindi è l’intelligenza spirituale che dovrebbe caratterizzare i rapporti del cristiano coi fratelli e con gli altri uomini.
  • La parte finale del verso, sulle conseguenze del sale che perde le proprietà, viene espressa dall’autore della lettera agli Ebrei con queste parole: “Una terra imbevuta della pioggia che cade su di essa, se produce erbe utili a quanti la coltivano, riceve benedizione da Dio; ma se produce spine e rovi, non vale nulla ed è vicina alla maledizione: finirà bruciata” (6.7,8). Anche l’apostolo Pietro spiega questo concetto riferendosi a coloro che, dopo aver conosciuto Dio, si allontanano da Lui senza preoccuparsi delle conseguenze: “L’uomo è schiavo di ciò che lo domina. Se infatti, dopo essere sfuggiti alle corruzioni del mondo per mezzo della conoscenza del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, rimangono di nuovo in esse invischiati e vinti – quindi arrivano ad una condizione definitiva, una scelta deliberata senza possibilità di appello – la loro ultima condizione è diventata peggiore della prima” (2 Pietro 2.19,20).
  • La seconda definizione che dà Gesù ai discepoli è “La luce del mondo”, posizione che il cristiano dovrebbe occupare all’interno della società degli uomini. Salomone scrisse che “La strada dei giusti è come la luce dell’alba che aumenta lo splendore fino al pieno giorno. La via degli empi è come l’oscurità; essi non scorgono ciò che li farà cadere” (Proverbi 4.18,19). Sono entrambe strade visibili da chiunque, ma se quella del giusto non si vede, è impossibile notare la differenza. Ecco perché chi crede non brilla di luce propria, ma di quella di Cristo ed è chiamato a svilupparla, curarla tenendo ben presente quello che era prima dell’incontro con Lui e della sua conversione. “Un tempo eravate tenebre – notiamo che manca “nelle” -, ora siete luce del Signore. Comportatevi perciò come figli della luce. Ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate di capire – la necessità del sale – ciò che è gradito al Signore” (Efesi 5.5-10). Quindi quel “Voi siete la luce del mondo” allude a un dono ricevuto e i primi passi da compiere – e sono tanti – devono riguardare proprio la formazione spirituale attraverso quel “cercate di capire”, operazione impegnativa e attenta, preoccupandosi di essere fedeli nelle piccole cose in vista, se verranno, di quelle grandi. Solo così si potrà essere un riferimento per gli altri perché la luce di Dio è prima di tutto interiore: illumina l’uomo sulla sua condizione di peccato, punto di partenza che, se accolto con la volontà di una vita nuova, crea già di per sé una festa nel cielo: “Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di redenzione” (Luca 15. 7). “Cercate di capire” perché senza lo Spirito resteremmo nell’ignoranza. Troppo spesso il cristianesimo vorrebbe basarsi su una bontà generica e la comprensione degli altri, dimenticando che si cresce con la dottrina e non con le buone intenzioni.
  • Nostro Signore, allora come oggi, invita con le Sue parole alla responsabilità individuale, essendo invitati ad essere “…figli di Dio innocenti in mezzo a una generazione malvagia e perversa – alla quale appartenevamo anche noi comunque -. In mezzo a loro voi risplendete come astri nel mondo, tenendo salda la parola di vita” (Filippesi 2. 14,15). Già avendo un comportamento consono alla Parola di Dio il cristiano testimonia di non appartenere alla “generazione” di prima, quela in cui rientrava a tutti gli effetti prima della sua conversione. Egli ha un senso anche se è una piccola stella nel cielo notturno. Brilla nel buio. È una presenza, si riconosce, illumina per quanto gli è stato dato ed è per questo che il messaggio di Cristo è universale: pietre diverse formano la Chiesa, “pietre vive” come membra e organi distinti, che da soli non servirebbero a nulla, ma che formano il Corpo di Cristo.
  • Dopo la definizione di “Luce del mondo”, ecco i paragoni esplicativi: le città, i paesi costruiti su una montagna sono visibili e orientano il viaggiatore non solo nei suoi spostamenti, ma anche e soprattutto quando deve ricoverarsi in esse per la notte. Comunque sia, si vedono, “sono là”, è fisicamente impossibile non notarle. C’è chi prende atto della loro esistenza, e chi le visita.
  • La metafora della lampada, poi, è un’estensione del concetto di “luce” espresso poco prima: se la si accende, non la si mette sotto il moggio, antica unità di misura per le granaglie, costituito da una specie di secchio (conteneva circa 8 litri e mezzo). Mettere il lume sotto il moggio, evidentemente rovesciato, significava commettere un gesto assurdo, visto che la lampada si accendeva per illuminare l’ambiente e non per nasconderlo alla vista. Non di può quindi vivere contemporaneamente per se stessi, auto illuminandosi e finendo per godere di una luce a noi riservata, ma occorre porsi nella condizione di illuminare gli altri, cosa che diventa possibile quando si ha acquisito l’esperienza necessaria vista nella figura di un vaso che trabocca. Non può esserci luce se prima non si è illuminati, non può esserci comunicazione degna di tale nome se prima non la si è ricevuta e assimilata, come vediamo nei profeti dell’Antico Patto, che parlarono solo quando Dio li autorizzò a farlo.
  • La lampada sul candeliere significa anche avere una vita trasparente, santa e conforme al Vangelo perché in tal modo chi tra il mondo cerca o si pone delle domande sulla propria esistenza, la veda, ne sia attratto – se ha dentro di sé uno spirito non avverso – e accolga il messaggio d’amore del Cristo da cui sono escluse le regole del marketing “spirituale” caro a chi fa proseliti nella Chiesa e fuori.
  • Il fine della luce che risplende è “affinché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli”, frase che si riferisce all’inevitabile considerare che siamo figli della Luce a prescindere dal fatto che gli uomini si interessino di ciò che Dio ha loro da proporre. Un giorno ho sentito una persona dire “devo convertire qualcuno”: è concetto privo di senso, come se ci fosse dato il potere di salvare. Il cristiano che riconosce il suo Maestro è una luce, qui finisce il suo compito perché già esistendo come tale lo ha adempiuto; sono piuttosto gli altri cui spetta la scelta se dirigersi verso di lui, o evitarlo. Certo dobbiamo avere un carattere spirituale che ci contraddistingua, certo non può essere simulato pena l’incapacità a gestire le situazioni, per non parlare di ulteriori danni fatti a noi stessi e agli altri. Perché il cristianesimo è qualcosa di più che l’essere battezzati e il limitarsi a frequentare le Assemblee di una Chiesa. Amen.
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3.08 – LEVI MATTEO (Matteo 9.9-13)

3.08 – La chiamata di Levi Matteo (Matteo 9.9-13)

9Andando via di là, Gesù vide un uomo, chiamato Matteo, seduto al banco delle imposte, e gli disse: «Seguimi». Ed egli si alzò e lo seguì. 10Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. 11Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: «Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?». 12Udito questo, disse: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. 13Andate a imparare che cosa vuol dire: Misericordia io voglio e non sacrifici. Io non sono venuto infatti a chiamare i giusti, ma i peccatori»”

Levi Matteo è il settimo ad essere chiamato personalmente da Gesù nel gruppo dei suoi discepoli. Ricordiamo cronologicamente gli altri, che verranno disposti più avanti in ordine di funzione e carattere: i primi incontrati furono Giovanni con Andrea, quindi Simon Pietro, Filippo e Natanaele, chiamato Bartimeo. A seguirlo dopo la pesca sulle rive del lago di Galilea furono Pietro col fratello Andrea e subito dopo Giacomo con Giovanni. Matteo fu quindi il quinto di cui è espressamente scritta la chiamata, settimo se si contano i discepoli, poi chiamati apostoli, che incontrarono Gesù. Tutti i sinottici concordano nel collocare l’episodio dopo quello della guarigione del paralitico di Capernaum, di modo che il filo cronologico temporaneamente perduto o dubbio si riannoda. Marco scrive che “Uscì di nuovo lungo il mare, tutta la folla veniva a lui ed egli insegnava loro. Passando, vide Levi, figlio di Alfeo, seduto al banco delle imposte, e gli disse «Seguimi»” (2.13,14). Capernaum infatti, posta sulla via principale tra l’Egitto e Damasco, aveva una dogana posta dai romani per la riscossione delle tasse sulle merci che transitavano.

Matteo è chiamato da Marco “Levi, figlio di Alfeo” (2.14) e semplicemente “Levi” da Luca (5.29) perché, come molti stante la situazione politica del tempo, aveva un nome ebreo (Levi, cioè “Congiunzione”) e uno romano (Matteo, comunque di derivazione greca, “Dono del Signore”): coi romani, considerato il lavoro che faceva, si relazionava molto in quanto dipendente del loro governo. I pubblicani erano considerati dei “venduti” e disprezzati al pari delle prostitute e sappiamo che il fariseo di una nota parabola ringraziava Dio di non essere “come gli altri uomini e neppure come quel pubblicano” che era salito al Tempio con lui a pregare.

Levi Matteo era una persona colta e benestante, che conosceva già Nostro Signore perché era un suo parente. Matteo, lo abbiamo visto in Marco, è chiamato “Figlio di Alfeo” che in aramaico diventa “Cleopa”, o “Cleofa”, probabile marito di quella “Maria di Cleofa” presente alla crocifissione assieme ad altre donne, sorella di Maria madre di Gesù. Stante l’impossibilità di avere certezze assolute in proposito, è stato supposto che Alfeo–Cleofa fosse lo zio di Gesù e Matteo suo cugino, fratello di quel Giacomo detto “il minore” che rientrerà nel gruppo dei dodici. Va detto che lo studio delle relazioni parentali si presenta assai arduo sia per la doppia valenza che ha il termine “fratello”, che nell’antichità indicava anche una parentela prossima, ma anche per il “di” che poteva riferirsi a un rapporto di paternità come a un vincolo matrimoniale. Inoltre uno scritto di un autore esegetico importante pubblicato nei primi anni del ‘900 arriva a sostenere che non vi siano prove dell’equivalenza “Alfeo – Cleopa”. Personalmente ritengo che quel “figlio di Alfeo” non compaia a caso e che effettivamente vi fosse un legame tra i personaggi citati, per quanto non dimostrabile con assoluta certezza.

A prescindere da questi rapporti che nulla vanno a modificare nella dottrina, cerchiamo di capire Matteo più da vicino: era una persona che viveva col guadagno del suo lavoro e non faceva la cresta sulle tasse come molti suoi colleghi. Il fatto che sapesse benissimo di essere disprezzato dai suoi correligionari e che non se ne facesse un cruccio, è indice di autonomia decisionale e maturità. Evidentemente Matteo era giunto alla conclusione che fosse meglio lavorare onestamente e dignitosamente senza infrangere il comandamento “Non rubare”. Era poi una persona attenta alla realtà che lo circondava: sicuramente, per il suo lavoro e le conoscenze di persone che gli raccontavano le cronache dei dintorni, aveva avuto modo di ragionare molto su quel Gesù da Narareth che già aveva operato miracoli di ogni tipo in Capernaum e nella Galilea, oltre che sui contenuti dei discorsi alla gente. Questo apostolo dai due nomi si rivelerà come “Congiunzione” nello scrivere in suo Vangelo, particolarmente accurato nell’analizzare le profezie che riguardano Gesù come Cristo – ne cita 60 -, e “Dono di Dio” per la sua opera scritta, che da sempre ha aiutato i credenti nel corso della storia per la comprensione dell’opera di Nostro Signore. Gesù quindi sapeva di poter contare su di lui esattamente come era successo con gli altri, Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni, Filippo e Natanaele-Bartolomeo. Se così non fosse, non gli avrebbe mai detto “Seguimi” e se Matteo non avesse concluso, non sappiamo quanto tempo prima, che la vita che conduceva quotidianamente non poteva avere nulla a che fare con quella spirituale ed eterna, o anche solo il voler vivere vicino a quel Maestro, non avrebbe mai abbandonato il suo lavoro: Luca scrive infatti “Ed egli, lasciando tutto, si alzò e lo seguì” (5.28). Fu una reazione immediata, colse al volo un’occasione irripetibile non preoccupandosi di altro, il che ci dice molto della considerazione nella quale teneva la propria vita fino ad allora tranquilla e ordinata nonostante il disprezzo in cui era tenuta la sua professione.

In lui vi dovette essere molta gioia poiché organizzò poco dopo “un grande banchetto nella sua casa” non penso per festeggiare l’avvenimento della sua chiamata, ma piuttosto per permettere alle persone che conosceva di avere il privilegio di ascoltare Gesù, di stare con lui, di condividere la sua presenza. Esattamente come dovrebbe accadere nelle riunioni di Chiesa in cui occhi e orecchie spirituali dovrebbero essere centrate su Cristo, presente secondo la Sua promessa dei “due o tre” radunati nel Suo nome.

Matteo quindi organizza un convito importante non solo quanto a numero e tipo di partecipanti e invitando le persone che conosceva: tutto questo suscitò l’indignazione dei farisei (“Gli scribi dei farisei” secondo Marco): come poteva, quel Rabbi che faceva miracoli cacciando demoni e insegnando nelle sinagoghe, stare a tavola con “pubblicani e peccatori”, termine quest’ultimo riferito ai trasgressori della legge morale e cerimoniale di Israele?

La risposta di Gesù, che sentì la domanda, fu duplice: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati”, alludendo al fatto che, se fosse vissuto separato dai peccatori non avrebbe mai potuto parlare loro. Egli li vedeva soli nella loro condizione spirituale, ma non arroganti e presuntuosi nell’anima e nello spirito come quei farisei, malati pure loro, ma nella condizione di chi il medico lo rifiuta perché convinto di essere sano. La frase che segue subito dopo, “Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”, allude proprio a questo perché era tutto l’impianto morale dei farisei ad essere in difetto per cui li invita ad “andare” e a “imparare” (un modo per dire che avrebbero dovuto tornare a scuola) cosa volesse dire “Io voglio misericordia e non sacrifici”. Tra l’altro, proprio “Va’ e impara” era un’espressione che i Farisei utilizzavano molto spesso a conclusione di un discorso per far pesare sugli altri la superiorità che pensavano di avere.

Da sempre i farisei – allora come oggi – facevano e fanno interminabili dissertazioni su qualunque versetto biblico andando ben oltre l’esegesi con un metodo che Gesù definirà con queste parole: “Guai a voi, scribi e farisei, ipocriti, (…) che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello”, un paragone che illustra molto bene il loro metodo di guardare alle minuzie perdendo di vista ciò che effettivamente era ed è la sostanza delle cose. Solo la conversione avrebbe potuto guarire quei malati che si credevano sani, e per questo Gesù li invita a considerare il passo di Osea 6.6 che conoscevano molto bene, ma che viene loro ripetuto a voce: la misericordia “piuttosto che” – traduzione più corretta di “e non” – sacrifici, quindi la parte cerimoniale della Legge a loro tanto cara. Anche oggi molti per conversione intendono una rinuncia, un abbandono di azioni e comportamenti che caratterizzavano la loro vita di peccatori prima del loro incontro personale col Signore: se questo non è di per sé sbagliato, va detto che senza una profonda rivisitazione della propria vita e un’assimilazione della Parola di Dio che porta alla rinuncia, il loro gesto può essere un’azione che può lasciare dei rimpianti e dei residui all’interno dei loro cuori che a lungo andare possono sempre esplodere con conseguenze destabilizzanti. Matteo, e prima di lui gli altri, avevano lasciato le loro cose, quindi il loro modo di vivere, solo nel momento in cui avevano capito sì che quella era l’unica cosa che potessero fare, ma che tutto ciò che possedevano si era svuotato di significato. Non fu una rinuncia dolorosa, ma la scelta tra ciò che era prezioso e ciò che non aveva più valore. Purtroppo molti anche oggi intendono il cristianesimo come un’applicazione di norme e comandamenti, dimenticando che è una libera espressione di un sé che si manifesta attraverso l’applicazione di principi etici.

Tornando all’episodio, guardare alla Legge cerimoniale da parte dei farisei e dei loro scribi significava osservare una religione che consisteva soltanto nell’aderire alla lettera a quanto era comandato da Dio, ma trascurandone totalmente lo spirito. Anche ai tempi di Osea (VII secolo a.C.) si credeva che la cosa più gradita a Dio fosse il sacrificio esteriore e materiale perché era molto più facile far pagare i propri peccati a una vittima innocente, l’animale, piuttosto che esaminarsi profondamente per mutare radicalmente il proprio interno. Anche Samuele, ancora prima, aveva detto “Il Signore gradisce gli olocausti e i sacrifici come chi ubbidisce alla sua voce? Ecco, ubbidire è più prezioso che il sacrificio, e attendere più del grasso dei montoni” (1 Samuele 15.22). Possiamo dire che questo tipo di ragionamento avviene anche oggi nel cristianesimo nel momento in cui, ad esempio, si fa di Dio una persona che dovrebbe essere sempre attenta ad esaudire le preghiere che pongono sempre e costantemente al centro le necessità materiali dell’individuo anziché una richiesta di aiuto e soccorso per eliminare ciò che ritarda il cammino con lui. Sono queste preghiere che vengono costantemente disattese perché, come disse l’apostolo Giacomo, “Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni. Gente infedele! Non sapete che l’amore per il mondo è nemico di Dio?” (Giacomo 4.2,3).

Alla base dell’atteggiamento farisaico esiste sempre una presunzione che ha santificato l’orgoglio, che nulla sa dell’amore che non sia per se stessi. Invece pochi versi dopo quelli che abbiamo citato, Giacomo scrive “Dio resiste ai superbi, ma dà la sua grazia agli umili. Sottomettetevi dunque a Dio; resistete al diavolo, ed egli fuggirà da voi. Avvicinatevi a Dio ed Egli si avvicinerà a voi. Peccatori, purificate le vostre mani. Uomini dall’animo indeciso, santificate i vostri cuori. Riconoscete la vostra miseria, fate lutto e piangete; le vostre risa si cambino in lutto e la vostra allegria in tristezza. Umiliatevi davanti al Signore ed egli vi esalterà”. (4.6-10).

 

Gesù dichiara quindi di non essere venuto a chiamare chi si ritiene giusto, ma chi sa di avere bisogno di lui, cosa possibile solo se è consapevole di essere un peccatore, una persona in antitesi a lui e quindi soggetta ad essere respinta da parte Sua. In pratica, chi è malato chiama il medico perché si rende conto della sua condizione, ne avverte i sintomi e quindi si rivolge a lo può guarire, anzi, se è grave cerca il medico migliore. Per tutti i cosiddetti “sani” valgono invece le parole, tra le innumerevoli, di Proverbi 1.30,31: “Vi ho chiamati, ma avete rifiutato, ho steso la mano e nessuno se ne è accorto. Avete trascurato ogni mio consiglio e i miei rimproveri non li avete accolti; anch’io riderò delle vostre sventure, mi farò beffe quando su di voi verrà la paura, quando come una tempesta vi piomberà addosso il terrore, quando la disgrazia vi raggiungerà come un uragano, quando vi colpiranno angoscia e tribolazione. Allora mi invocheranno, ma io non risponderò, mi cercheranno, ma non mi troveranno. Perché hanno odiato la sapienza e non hanno preferito il timore del Signore e non hanno accettato il mio consiglio e hanno disprezzato ogni mio rimprovero; mangeranno perciò il frutto della loro condotta e si sazieranno dei loro consigli”.

Se quindi una persona è consapevole di essere un peccatore, riconoscendosi in tal modo malato, ha bisogno di confrontarsi con Dio e Gesù Cristo, la Sua diretta Parola. Solo allora potrà essere guarito ed instaurare con Lui un rapporto unico di dipendenza e bisogno continuo; viceversa potrà solo rimanere nelle propria convinzione, umanamente sazio nella propria coscienza. Si tratta di un pericolo che tutti possono correre, anche i cristiani che perdono di vista la loro chiamata e lo scopo per cui vivono il loro pellegrinaggio terreno in vista dei “nuovi cieli e nuova terra dove dimora stabile la Giustizia” promessi e preparati per loro. Ricordiamo le parole all’angelo della Chiesa di Laodicea: “Tu dici «Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla». Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo” (Apocalisse 3.17). Perché, questo è il punto, “Non c’è nessun giusto, neppure uno” (Romani 3.9). Amen.

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