07.25 – CINQUE CANTICI V.V (Isaia 53.10-12)

7.25 – Cinque cantici V-V (Isaia 53.10-12)

 

10Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con i dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. 11Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. 12Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli”.

 

Se nelle riflessioni precedenti abbiamo visto ciò che il Servo ha dovuto subire dagli uomini a Lui avversi e in particolare i loro piani per risolvere il problema che costituiva la Sua predicazione – ricordiamo le parole “tolto di mezzo” e “sradichiamolo dalla terra dei viventi, di lui non rimanga alcun ricordo” – il verso 10 inizia con un “Ma” che contrappone la loro volontà a quella di Dio. Allora leggiamo che “…al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori” nel senso che ha dato il proprio benestare al fatto che gli uomini potessero fargli ciò che avevano in animo, ma – attenzione – non fu mai nulla di più di quanto era stato stabilito: ricordiamo che ci fu un solo momento fissato per questo e che solo in quell’istante ebbero potere su di Lui. Possiamo pensare quando a Nazareth intendevano buttarlo giù da una rupe, a quando vollero farlo re dopo aver moltiplicato i pani e i pesci, a quando “caddero a terra” dopo che Gesù, al Getsemane, disse “Sono io”.

Quindi l’uomo, che mai come nel momento in cui aveva Nostro Signore nelle mani si sentì autonomo e libero di fargli ciò che voleva, in realtà si mosse all’interno di confini ristretti e ben precisi. Ricordiamo che non ebbe potere neppure sul Suo corpo poiché non fu consentito ai torturatori di spezzargli neppure un osso. Così scrive Giovanni in 19.31-37: “Era il giorno della Parasceve– il giorno della preparazione della festività del sabato – e i giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato (era infatti un giorno solenne quel sabato), chiesero che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via. Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all’uno e all’altro che erano stati crocifissi insieme con lui. Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue ed acqua. Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate. Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: «Non gli sarà spezzato alcun osso». E un altro passo della Scrittura dice ancora: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto»”.

In particolare il primo riferimento possibile è all’agnello pasquale, cui era comandato che nessun osso gli fosse rotto (Esodo 12. 3-14 e Numeri 9.12).  E “Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato” (1 Corinti 5.7) quale Agnello di Dio perfetto. Il primo riferimento all’Antico Patto attese circa 1500 anni prima di adempiersi nel sacrificio di Gesù e la pericope “Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” è di Zaccaria 12.10, cioè circa 500 anni prima che Cristo assumesse una forma umana. Il Cristo doveva venire “trafitto” e certo quell’anonimo soldato, dandogli quel colpo, non immaginava di adempiere ciò che era stato stabilito. L’uomo, quindi, non fa mai in ogni caso ciò che vuole, ma solo quello che Dio gli consente.

Proseguendo nella lettura del decimo verso del canto, l’attenzione di Isaia si focalizza sul Servo, che “si offrirà in sacrificio di riparazione”. E qui risiede il mistero a lungo tempo nascosto nella storia sul perché sia richiesta una vita innocente per pagare il prezzo del peccato: chi ha un animo sensibile prova disagio in questo, al fatto che dal peccato di Adamo ed Eva sia sempre stata una vita estranea alla trasgressione a subirne le conseguenze, ma se ci pensiamo si tratta di un pensiero non correttamente formulato ed influenzato dalla repulsione che suscita la morte di un animale. Dobbiamo pensare che ai nostri progenitori era stata affidata la tenuta responsabile del territorio di Eden e che la sopravvivenza di tutto quel santo ecosistema, in cui morte e violenza non esistevano, dipendeva da loro perché superiori a tutti gli altri esseri viventi essendo dotati di libero arbitrio e di coscienza. Astenendosi dal cibarsi del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male a vantaggio di quello della vita, rinnovavano quotidianamente l’amore per il loro creatore da un lato, per loro stessi dall’altro perché in tal modo mantenevano l’equilibrio di quella vita perfetta che si rifletteva su tutto il creato che erano chiamati ad amare e difendere. La morte non esisteva quindi né per loro, né per tutte le altre creature. Il fatto che fossero nudi e non se ne vergognassero significa anche che la temperatura di quell’ambiente rendeva superfluo qualunque vestito che riparasse dal freddo, dal vento, dalle intemperie e dal disagio. Ogni cosa era permeata dalla presenza di Dio e dalla loro. L’assenza del vestito, inoltre, stava ad indicare che non vi era nulla da nascondere, non vi erano riserve in quel rapporto, la fiducia era totale tanto fra creature che fra loro e il creatore.

Col peccato il primo sacrificio avvenne proprio in Eden: l’uomo, divenuto incompatibile con la santità di quel luogo, avrebbe dovuto avere un riparo, essere protetto da un vestito e Dio provvide a fargli una tunica in pelle di animale perché i nostri progenitori non sapevano come fare a coprirsi. Le foglie di fico intrecciate non servivano a nulla. Lì morì il primo, o i primi innocenti. L’animale non aveva peccato, ma subì le conseguenze del peccato dell’uomo. Da lì in poi ne morirono tanti di loro, uccisi da altri perché il disequilibrio, conseguenza della trasgressione, aveva oramai irrimediabilmente corrotto il creato. Tutti erano fuori dal Giardino di Dio.

La cultura pagana che abbiamo purtroppo acquisito fin da bambini ci ha fatto assimilare alla parola “sacrificio” qualcosa di personalmente sgradevole e ancora oggi la intendiamo in questo modo, pensando che significhi rinunciare a qualcosa di nostro; eppure “sacri-ficio” significa “faccio una cosa sacra”, quindi che appartiene a una dimensione che non è la mia, che non posso giudicare perché il mondo del sacro, se mi coinvolge, lo fa senza rendermi totalmente partecipe e non potrebbe farlo perché è lontano da me. Ho i piedi piantati per terra, non posso alzarmi in volo senza ricorrere a strumenti che mi aiutino e, in ogni caso, presto o tardi tornerò inevitabilmente al suolo. Parlo di me come uomo di carne, ovviamente.

Il sacrificio dell’innocente non è qualcosa che posso capire o giudicare, mentre ho la facoltà di scegliere se cibarmi di carne e pesce oppure no, per non essere coinvolto in morti che non condivido. Ma il fatto che il sacrificio sia “una cosa santa al Signore” è proprio quel “al Signore” che pone un confine tra le mie possibilità intellettive e la Sua realtà, posto che oggi il sacrificio dell’Antico Patto è cosa superata e inutile. Perché comunque “conosciamo in parte”. Tutto questo tenendo ben presente che la mentalità di una persona e di un popolo è profondamente radicata nella propria epoca e nel territorio in cui vive e il sacrificio, nella sua accezione originaria, va appunto dalla caduta di Adamo ed Eva fino alla morte di Gesù, quell’ultimo Adamo fatto “in spirito vivificante” che, a differenza di quello dell’animale, dà la vita ed è stato fatto “una volta per sempre”.

Secondo il nostro verso decimo “vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore” proprio perché perfetto, compiuto, senz’altro elemento da aggiungere. Altrimenti non avrebbe avuto la totalità come caratteristica.

Nel “vedrà una discendenza” individuiamo la Chiesa, certo non quella dei (pre)potenti, della grande finanza, della violenza o della superstizione, ma dei “beati” con cui si apre il sermone sul monte, quella degli Atti e delle lettere, quella dei salvati che operano in base ai doni ricevuti oggi sparsi nelle denominazioni nessuna delle quali può arrogarsi il diritto di definirsi unica. In ciascuna esiste il “rimanente fedele” che attende il ritorno del Suo Signore. Il Servo “vivrà a lungo”, cioè per tutto il tempo che durerà la terra e oltre, quindi nell’eternità, “nei secoli dei secoli”, vivrà ben oltre al metro umano che vede una morte a circa 33 anni il fermarsi di una vita nel pieno vigore. Ricordiamo le parole del Risorto all’apostolo Giovanni: “Ero morto, ma ora vivo per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi” (Apocalisse 1. 18).

Isaia al verso 11 dà una spiegazione sobria di un aspetto del “sacrificio di riparazione” del Servo con le parole “Dopo il suo intimo tormento” in cui la Sua sofferenza viene quantificata: “intimo” cioè “che si trova nella parte più interna e profonda”, che non fu circoscritto al dolore fisico nonostante fosse atroce. Il “tormento” non è un dolore generico, ma qualcosa che rode con insistenza senza dare tregua: quando questo sarà finito, e si concluderà col “gran grido” che precedette di pochi istanti la Sua morte (per infarto), “vedrà la luce” dopo aver conosciuto per la prima e unica volta le tenebre del peccato che alla croce prese su di sé venendo privato dell’assistenza del Padre. La frase “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato” non fu detta da una persona in preda alla sofferenza fisica, ma a quella spirituale. Ricordiamo Romani 5.25: “È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati”.

Ebbene il Servo, dopo aver visto la luce, “si sazierà della sua conoscenza”, traduzione che può trarre in inganno essendo il verso corretto “Egli godrà della fatica dell’anima sua e ne sarà saziato” che prosegue con “giustificherà molti, si addosserà le loro iniquità” (notare il plurale): solo da Lui sarebbe potuta uscire una “stirpe eletta, un sacerdozio regale, una nazione santa, un popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere ammirevoli di lui, che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua meravigliosa luce. Un tempo voi eravate un non-popolo, ora invece siete popolo di Dio; un tempo eravate esclusi dalla misericordia, ora invece avete avuto misericordia” (1 Pietro 2.9,10). E qui Pietro ci fa rientrare già nel dodicesimo verso del canto, “Io gli darò in premio le moltitudini”.

Infine, proprio questo verso anticipa le conseguenze del sacrificio del Servo e del suo abbassarsi, dello spogliarsi “fino alla morte” cioè lì fu il suo culmine. “Dei potenti farà bottino” è una profezia che va ancora oltre nei secoli e copre il periodo dell’era della Grazia fino al tempo del giudizio che era stato rivelato già a Davide: “Oracolo del Signore al mio Signore: «Siedi alla mia destra finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei miei piedi. (…) Egli abbatterà i re nel giorno della sua ira, sarò giudice tra le genti, ammucchierà i cadaveri, abbatterà teste su vasta terra” (Salmo 110. 1,5,6), immagine cruda che si realizzerà nel tempo della fine che rappresenta l’alt definitivo di Dio ai progetti degli uomini che Lo escludono.

Annoverato tra gli empi “mentre portava il peccato di molti”, quindi non di tutti perché è solo nel momento in cui l’essere umano accetta quel sacrificio per la propria salvezza eterna che si ottiene il perdono eterno. E nel “mentre intercedeva per i colpevoli” vediamo nell’immediatezza la richiesta di perdono, “perché non sanno quello che fanno”, per i soldati secondo i quali Gesù era un malfattore come tanti, ma anche quella per tutti coloro che sarebbero venuti nel tempo fino ai nostri giorni. Anche noi, prima del nostro incontro con Cristo, non sapevamo quello che facevamo. Ma abbiamo ottenuto perdóno, intercessione e difesa perché “…se qualcuno ha peccato, abbiamo un Avvocato presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccato; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo” (1 Giovanni 2.1,2). Amen.

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07.23 – CINQUE CANTICI V.III (Isaia 53.4-6)

7.23 – Cinque cantici V-III (Isaia 53.4-6)

 

4Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. 5Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. 6Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. 7Maltrattato si lasciò umiliare e non aprì la bocca. Era come un agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori e non aprì la sua bocca. 8Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu messo a morte. 9Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno sulla sua bocca. 10Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con i dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. 11Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. 12Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli.

 

“Eppure” è una congiunzione avversativa che si riferisce a parole dette precedentemente: “Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo di dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima”  (v.3); “Eppure”esprime opposizione, contraddizione a un giudizio di altri. È la pietra scartata dai costruttori diventata angolare cui abbiamo accennato precedentemente.

Il verso quarto, nella sua prima parte, si riferisce al ministero pubblico del Servo e alla sua conclusione: la frase “si è caricato delle nostre sofferenze e si è addossato i nostri dolori” ha indubbiamente connessione col peccato dell’umanità portato alla croce, ma anche all’immedesimazione nello stato rivelatore di esso, visto nell’infermità, nella malattia, nella possessione dello spirito del male, tutti elementi che, senza il “peccato originale”, non esisterebbero. Pensiamo alla vita  Gesù in terra: non si limitò alla crocifissione, punto culminante della Sua esistenza, ma nacque, crebbe, raggiunse l’età di trent’anni in cui i Leviti iniziavano a prestare servizio nel Tempio, dopo di che iniziò a sua predicazione non limitandosi all’esposizione di belle e interessanti teorie: non si fermò mai per il bene dell’uomo guarendolo spiritualmente e fisicamente: “Venuta la sera, gli portavano molto indemoniati ed egli scacciò gli spiriti con la parola e guarì tutti i malati, perché si compì ciò che era stato detto dal profeta Isaia: «Egli ha preso le nostre infermità e si è caricato delle nostre malattie»” (Matteo 8.16). Gesù era l’unico a poter mantenere la promessa “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò riposo”.

Ecco allora che Nostro Signore si fece carico della pena dell’esistenza umana. Come? Vivendola, faticando e condividendo la vita di tutti anche guarendoli, lui che lo poteva fare, dimostrando così ai beneficiari, quindi anche a noi, non tanto che a Dio nulla era impossibile, concetto che già conoscevano, ma che Lui si interessava di loro e per loro aveva un progetto di salvezza. Dal mondo teorico della teologia astratta rabbinica, il miracolato veniva posto al centro, nella condizione di vivere personalmente la grazia che gli era stata fatta.  Al posto di “Eppure” della nostra traduzione, Diodati usa “Veramente”, cioè un “amen”, che esclude un sentimentalismo celebrativo e al posto di “caricarsi delle nostre sofferenze” usa il “portare” che suggerisce un moto, una continuità, un’attività incessante.

Ci sono poi due sostantivi, “dolore” e “sofferenza”, che potremmo intenderli come sinonimi, ma sbaglieremmo perché il primo è un fatto oggettivo mentre la seconda è soggettiva e può addirittura essere il costrutto dell’immaginazione di chi la prova. Il primo è inevitabile, è uno strumento di informazione e di allarme, appartiene al nostro corpo costituito di ossa, muscoli, nervi, cellule, organi. La seconda è stata invece definita “l’esperienza dell’esperienza del dolore che è sempre soggettiva e mai universale. Interiorizzata, problematizzata, cosciente e interrogante, riguarda il corpo vissuto che interagisce con il sé vissuto”. Con la prima parte del verso quarto, allora, Isaia guarda e vede il Servo come Colui che ha svolto un’opera perfetta, senza tralasciare nulla del corpo e dell’anima dell’uomo per alleggerirlo: si è “caricato” e si è “addossato”. Ha “portato” quotidianamente i dolori e le sofferenze della sua creatura per la quale aveva creato il mondo assieme al Padre e allo Spirito Santo.

E gli uomini? E il popolo? Salvo rarissime eccezioni, fraintese, poiché “e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato”: dimenticando le Sue parole e i miracoli che spaziarono dalla guarigione di una febbre alta alla resurrezione del figlio di una vedova di Nain, del capo di un Sinagoga o di Lazzaro per non parlare dell’ultimo, il riattaccare l’orecchio di Malco. Ebbene, nell’immediato, nel tempo del buio, il risultato fu lo scuotere la testa dei presenti alla crocifissione. Per loro era inconcepibile che chi aveva aiutato gli altri non potesse liberarsi, o coi suoi “poteri” o con l’intervento di Colui del quale pretendeva di essere figlio.

Quegli uomini, e con loro molti altri nelle epoche seguenti, non compresero cosa stava realmente accadendo alla croce, anche se, nei versi seguenti del cantico, Isaia lo spiega molto bene. “Lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato”, idea unilaterale non del tutto sbagliata se confinata in quello spazio, ma che non teneva affatto conto del perché si stessero realizzando quegli eventi che l’apostolo Paolo, probabile autore della lettera agli Ebrei, spiegherà molto bene.

Infatti: “Tuttavia quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli– riguardo al corpo per la vita terrena –, lo vediamo coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto, perché per la grazia di Dio egli provasse la morte a vantaggio di tutti. Conveniva infatti che Dio, per il quale e mediante il quale esistono tutte le cose, lui che conduce molti figli alla gloria, rendesse perfetto per mezzo delle sofferenze il capo che guida alla salvezza. Infatti, colui che santifica e coloro che sono santificati provengono tutti da una stessa origine; per questo non si vergogna di chiamarli fratelli, dicendo: «Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli, in mezzo all’assemblea canterò le tue lodi»” (2.9-12).

Ancora, nella stessa lettera abbiamo la storia spirituale di Gesù uomo: “Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo chiamato da Dio sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchisedec” (5.7-10), figura tanto superiore quanto misteriosa sulla quale hanno indagato in tanti, che a un certo punto emerge benedicendo Abramo. Di lui null’altro sappiamo se non che era “sacerdote dell’Iddio altissimo” e re di Salem, poi Gerusalemme secondo una comune opinione. È a lui, al suo “ordine” che viene collegato Gesù nell’esposizione dottrinale dell’apostolo Paolo: “È senza padre, senza madre, senza genealogia, senza inizio di giorni né fin di vita, simile quindi al Figlio di Dio. Questo Melchisedec, rimane sacerdote in eterno” (Ebrei 7.3).

Arrivando al verso quinto abbiamo quattro episodi in coppia divisi in due parti: “trafitto per le nostre colpe e schiacciato per le nostre iniquità” vanno dritti alla realtà immediatamente percepibile, mentre “Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui, per le sue piaghe siamo stati guariti” descrivono gli effetti del Suo sacrificio. Anche qui per avere una visione più ampia è bene andare alla versione Diodati, che scrive “ferito per i nostri misfatti e tritato per le nostre iniquità”: sono gli effetti del peccato perché “Egli portò i nostri peccati– “caricarsi” e “addossarsi” – nel suo corpo sul legno della croce perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti”. Sono parole dell’apostolo Pietro nella sua prima lettera, in 2.24, che si rifà e spiega il verso di Isaia che abbiamo letto. Era quello l’unico modo perché avvenisse la nostra liberazione, non vivendo più per il peccato, ma per la giustizia. E Gesù sappiamo essere l’unica via di accesso al Padre, l’unico Dio perché “vivente”.

Ferito” e “trafitto”: un fratello scrisse che “Al Signore Gesù furono inflitti tutti e cinque i generi di ferite note alla scienza medica: contusioni (percosse con un’asta, senza contare quelli a mani nude); lacerazioni (flagellazione), ferite penetranti (la corona di spine); ferite perforanti (i chiodi) e da punta (la lancia)”.

Così, nello “schiacciato”, o “tritato”, abbiamo una descrizione di quanto la forza del peccato sia devastante, opprimente e distruttiva, patita al nostro posto: “Colui che non aveva conosciuto peccato– perché Santo anche per tutta la sua vita terrena – Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui potessimo diventare giustizia di Dio” (2 Corinti 5.21). Sono parole d’amore impossibile a quantificare così come lo è lo scopo di quest’azione: “perché in lui potessimo diventare giustizia di Dio”. Ognuno di noi è chiamato a chiedersi se lo è e da qui comprendiamo quanto abbiamo bisogno di lui per essere e quindi agire. Personalmente rifiuto la reazione di alcuni credenti a questa frase, che si ritengono santi e perdonati sempre e a prescindere dai loro pensieri, parole ed opere: noi, imperfetti e defettibili per natura, soggetti a volte a sbagli anche macroscopici se perdiamo di vista la nostra realtà, abbiamo bisogno ogni giorno, sempre, della giustizia di Dio alla quale fare appello. Sempre del Suo amore, sempre del suo perdono. Tutto ciò nonostante, per la Sua Grazia, le porte del cielo siano per noi aperte.

Ma non basta: “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge, diventando lui stesso maledizione per noi, poiché sta scritto «Maledetto chi è appeso al legno» perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse ai pagani e noi, mediante la fede, ricevessimo la promessa dello Spirito” (Galati 3.13,14). Qui il riferimento è a Deuteronomio 21.21,23 che si riferisce alla morte più infamante: “Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu l’avrai messo a morte e appeso ad un albero, il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull’albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l’appeso è una maledizione a Dio e tu non contaminerai il paese che il Signore, tuo Dio, ti dà in eredità”.

Per concludere, chiedendoci cosa voglia dire la frase “ci ha riscattati dalla maledizione della Legge”, possiamo capirla mettendola in connessione con verso sesto del Cantico, “Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada”: questo era il risultato, quando i 613 precetti, 248 positivi e 365 negativi, avevano condotto al contrario di quanto avrebbe dovuto essere il suo scopo: ottenere una nazione santa davanti a tutte le genti con le modalità che troviamo descritte nel capitolo 7 del libro del Deuteronomio. Quella Legge, santa perché procedente da Dio, fu disattesa e per questo divenne, alla luce della Grazia e non di altre, maledizione. Ecco perché ci voleva un riscatto e il prezzo fu pagato non dagli uomini, ma da YHWH nella persona del Servo, fu pagata dal Figlio.

Parliamo ora di numeri. I Maestri ebrei nel Talmud (Makkoth 23b) rilevano che il valore numerico della parola Torah (Legge) è di 611; 613 è la cifra che si ottiene sommando al numero della Legge i primi due dei dieci comandamenti che, a differenza degli altri otto, sono posti in prima persona: ricordiamo il primo “Io sono il Signore Iddio tuo, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla casa di schiavitù. Non avere altri dèi oltre a me” e il secondo, “Non farti scultura, né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra. Non ti prostrare a loro e non li servire, perché io, il Signore, sono un Dio geloso; punisco l’iniquità dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione di quelli che mi odiano, e uso bontà fino alla millesima generazione verso quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti” (Esodo 20.2,4).

Ancora, guardando alla quantità dei precetti positivi e negativi, 248 e 365, il primo era considerato quello delle ossa nel corpo umano (oggi sappiamo che sono 270 alla nascita e 206 nell’adulto) e il secondo non solo quello dei giorni dell’anno, ma anche quello dei legamenti che collegano le ossa fra loro. “Attraverso questi numeri la Torah quindi vuol dire che con le nostre 248 singole ossa dobbiamo compiere le 248 azioni prescritte e che ogni giorno dell’anno dobbiamo impegnarci a non violare i 365 precetti negativi”. Così insegnavano. E aggiungono oggi: “Nella pratica però non tutti questi precetti sono attuabili e non da tutti; alcuni necessitano dell’esistenza del Tempio di Gerusalemme, che secondo la tradizione rabbinica potrà essere ricostruito solo quando giungerà il Messia e radunerà tutte le dieci tribù disperse del popolo d’Israele. Altri sono limitati ai soli uomini, altri alle donne, altri sono rivolti solo ai Kohanim, i membri della famiglia sacerdotale, coloro che cioè vantano di discendere da Aaronne, fratello di Mosè”.

Aggiungo che lo stesso numero 611, 6+1+1=8, suggerisce un nuovo inizio, la Grazia allora non ancora esistente se non nelle profezie messianiche, quindi sotto questo aspetto già da allora la Legge denotava la necessità di un compimento, di una nuova era, o dispensazione più perfetta. E 6+1+3=10, la perfezione vista nell’esigenza di Dio nei confronti della Sua creatura. Come afferma infatti l’autore della lettera agli ebrei qui più volte ricordata, “Ma ora Gesù è incaricato di una funzione nuova e più grande: quella di essere mediatore di un’alleanza molto migliore, fondata su migliori promesse. Infatti, se la prima alleanza fosse stata perfetta, non sarebbe stato necessario sostituirla con un’altra.(…) Così Dio parla di un’alleanza nuova, e perciò dichiara superata l’alleanza precedente. E quando una cosa antica invecchia, le manca poco a scomparire” (8.6-13). Ciò è stato fatto “facendo ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti”: senza tutte queste azioni, e altre che vedremo in questo cantico, nulla sarebbe cambiato. Ci sarebbero solo pecore sperdute, senza pastore, destinata a vagare prima di conoscere inevitabilmente la morte. Amen.

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07.19 – CINQUE CANTICI III/V (Isaia50.4-6)

7.19 – Cinque cantici III/V (Isaia 50.4-6)

 

TERZO CANTICO

 

4Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli. 5Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. 6Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. 7Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso. 8È vicino chi mi rende giustizia: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. 9Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole? Ecco, come una veste si logorano tutti, la tignola li divora. 10Chi tra voi teme il Signore, ascolti la voce del suo servo! Colui che cammina nelle tenebre, senza avere luce, confidi nel nome del Signore, si affidi al suo Dio. 11Ecco, voi tutti che accendete il fuoco, che vi circondate di frecce incendiarie, andate alla fiamme del vostro fuoco, tra le frecce che avete acceso. Dalla mia mano vi è giusto questo; voi giacerete nel luogo dei dolori.”.

 

L’esame dei quattro (o cinque a seconda  di come li si vuol suddividere) canti del servo è scaturito dalla domanda dei discepoli a seguito dell’episodio della tempesta sedata in cui dissero “Chi è costui, cui anche il mare e i venti obbediscono?”. Commentando ciò che quegli uomini si chiedevano, è stato sottolineato che i discepoli avevano a portata di mano tutti gli elementi per darsi una risposta, se non altro per i riferimenti al Dio che era intervenuto, ai tempi dell’Antico Patto, sugli elementi della natura servendosi di loro e dominandoli. I discepoli però non erano dottori della Legge, anche se non possiamo escludere che tra loro ve ne fossero, e difficilmente avrebbero potuto collegare i canti del Servo al loro Maestro, cosa che fecero successivamente, come dimostrato da Matteo che cita costantemente le profezie che Lo riguardavano. Questi canti possono essere letti e interpretati oggi e sono in grado di rispondere alla domanda sorta sulla barca a tempesta sedata, “Chi è costui?” sotto l’aspetto profetico.

Il terzo canto espone sinteticamente, da un punto di vista “morale”, la vita del Servo da quando iniziò a insegnare e predicare alla morte sulla croce. Il quarto verso ne spiega la condizione, lo scopo: gli è stata data “una lingua da discepolo” e, secondo questa traduzione, ha avuto come Maestro direttamente il Padre; disse infatti un giorno “Tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Giovanni 15.15). Diodati, tralasciando altre versioni che usano termini intermedi, come ad esempio “da iniziati”, riporta “Mi ha dato la lingua degli uomini dotti” con riferimento non ai sapienti di questo mondo, ma di coloro che erano in grado di esporre la Legge allo stesso popolo che attribuiva Gesù che la spiegava un’autorità vera, superiore a quella degli Scribi e Farisei. Ricordiamo in proposito l’annotazione a commento di quando, dodicenne,  era in mezzo ai dottori: “Tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte”. “Lingua dei dotti” vista nel suo significato più alto che è quello di essere in grado di parlare a chiunque, con concetti semplici o comunque adatti alla persona che ascolta perché lo scopo di quel parlare era “saper indirizzare una parola allo sfiduciato”, tradotto anche con “afflitto” che ci collega alla seconda beatitudine, quella di coloro che “saranno consolati”. Dare una parola che porti sollievo non è facile se ci si vuole immedesimare in chi ne ha bisogno e il libro di Giobbe, con gli interventi dei suoi “amici” venuti a consolarlo con frasi fatte moralmente condivisibili nei contenuti, ma per nulla rapportate al suo caso, testimonia che parole sbagliate e di giudizio portano all’effetto opposto e aumentano la sofferenza dell’interessato.

Le parole di Gesù, invece, indicarono sempre una via d’uscita, l’unica possibile per determinare una soluzione spirituale del problema, dell’origine del dolore, a volte accettata e altre, più spesso, rifiutata. La via spirituale è infatti opposta a quella della carne e una persona, di fronte a una situazione o a uno stato che gli dà pena, se non ne cerca le ragioni e i rimedi spirituali per uscirne, resta coinvolto in essa. È il “laccio” di cui più volte troviamo citazione nelle Scritture. Sono concetti che si collegano al verso 10 che nella sua prima parte dice: “Chi tra voi teme il Signore, ascolti la voce del suo servo!”. Chi “teme il Signore”, cioè lo conosce od è cosciente della Sua esistenza, non deve ascoltare altre voci se non quella di chi è stato “fatto e formato” per rappresentarLo, portare la Sua parola agli uomini perché temere il Signore non è sufficiente, non dà garanzie di riuscita se non ci si appella al Servo. Ricordiamo le parole “Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Giovanni 14.6) e “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò” (Matteo 11.28). A me e non ad altri.

I più grandi profeti, da Mosè in poi, nonostante il ruolo determinante che ebbero nella conduzione del popolo oppure nel trasmettere il messaggio di JHWH, ebbero dei punti di fallimento e non poteva essere diversamente in quanto uomini. Così non per Gesù, attento “ogni mattina”, di cui i vangeli attestano lunghe preghiere in cui non solo presentava i suoi perché fossero preservati dal male, ma perché nessuna Sua parola andasse sprecata: “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata” (Isaia 55.10,11). La parola di Dio infatti non torna senza un risultato, in salvezza o in giudizio.

Il verso quinto, “il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro”, testimonia l’instancabilità del Servo, fedele in tutto tanto nel poco che nel grande, dagli spostamenti per le varie regioni del territorio al punto più alto e per noi determinante della Sua vita, quello dell’arresto, del processo fino alla crocifissione. Rileviamo il non opporre resistenza alla volontà del Padre – che aveva accettato responsabilmente – nelle tre azioni viste nel dare il dorso ai flagellatori, le guance a chi gli strappava la barba, il non sottrarre la faccia agli sputi, tutti eventi che rientravano in ciò per cui era venuto al mondo. Gesù infatti non nacque per risolvere problemi umanamente contingenti come nella visione messianica ebraica, ma dare la sua vita per gli uomini quale “Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”.

Nel verso settimo ci troviamo di fronte a un interessante parallelo con Luca 9.51 che non tutti traducono allo stesso modo: “Avvenne, nel compiersi dei giorni della sua assunzione, che egli indurì il volto– letteralmente “fermò la faccia” – per andare a Gerusalemme”; altri, preoccupati di dare il significato più immediato, riportano “prese la ferma decisione di”, impedendo però di fatto la connessione col cantico. L’indurimento del volto come la pietra può essere visto effettivamente con la risolutezza: Gesù sapeva che, a Gerusalemme, avrebbe dovuto affrontare il combattimento più grande di tutta la sua vita terrena che iniziava proprio col mettersi in viaggio recandosi al Golgotha.

Il Servo indurisce il volto, prende ferma determinazione in quanto cosciente dell’assistenza del Padre e sa che non resterà confuso: ciò testimonia la piena coscienza del Suo ruolo, ma è anche sinonimo di resistenza addirittura maggiore rispetto alle violenze e agli oltraggi che gli verranno fatti. Anche qui possiamo fare una connessione importante: si tratta di Ezechiele 3.8,9 quando Dio dice al profeta “Ecco, io ti do una faccia indurita quanto la loro faccia e una fronte dura quanto la loro fronte. Ho reso la tua fronte come diamante, più dura della selce. Non li temere, non impressionarti davanti a loro; sono una genìa di ribelli”. È compito del profeta, quindi dell’uomo di Dio, non avere timore dei suoi simili né del destino che gli prospettano, avendo fondato e costruito la loro esistenza su un terreno diverso, destinato a crollare perché non vedono che il loro presente illudendosi che resti immutabile. Chiariscono bene il concetto le parole dell’apostolo Paolo “A me poco importa venire giudicato da voi o da un tribunale umano;(…) il mio giudice è il Signore” (1 Corinti 4.3,4).

Paolo è quindi conscio non solo dell’abisso che separa il metro valutativo umano da quello di Dio, ma che l’uomo può arrivare solo fino a un certo punto: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno il potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire l’anima e il corpo nella Geenna” (Matteo 10.28). Ancora Paolo spiegherà il concetto in Romani 8.31-39, le cui parole su rifanno anche al volto e alla fronte duri letti in Ezechiele: “Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?(…) Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è quel che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto alla destra di Dio e intercede per noi. Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?(…) Io infatti sono persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Gesù Cristo, nostro Signore”.

Penso che questi versi siano un ideale collegamento con l’ottavo e nono del cantico, quando leggiamo “Chi oserà venire a contesa con me?(…) Chi mi accusa?(…) Chi mi dichiarerà colpevole?”; sappiamo che furono necessari falsi testimoni contro di Lui e che Gesù fu dichiarato colpevole dagli uomini, non certo dal Padre. La morte stessa, data la forza totale della Sua innocenza, non poté trattenerlo. Una delle vere ragioni della resurrezione di Nostro Signore non fu tanto perché era onnipotente e in grado di sconfiggere la morte, ma perché lei stessa era la conseguenza del peccato per cui, se il Cristo non ne aveva commessi, anzi aveva adempiuto la legge punto per punto, era impossibile avesse potere su di lui, neppure sul suo corpo. Per concludere questo breve inserto, Isaia 51.7,8 riporta un appello: “Non temete l’insulto degli uomini, non vi spaventate per i loro scherni; poiché le tarme li roderanno come una veste e la tignola li roderà come la lana, ma la mia giustizia dura per sempre, la mia salvezza di generazione in generazione”.

Tornando al cantico, la frase “Come veste si logorano tutti, la tignola li divora” mostra la reale condizione in cui versano gli accusatori: da un lato Lui, attaccabile solo nel corpo, dall’altro loro, che si logorano “come veste” – e sappiamo che lo stesso è scritto anche per la terra – quindi poco a poco, quasi senza che se ne accorgano e, in questo accadere, non esiste rimedio. “La tignola” che il vestito corrode, poi, è figura di quel processo che porta il corpo esanime a decomporsi lasciando solo alla polvere il compito di testimoniare quel che resta di una vita coscientemente spesa ad opporsi all’amore di Dio. Perché anche la loro anima verrà ridotta al nulla: “Ecco, tutte le vite sono mie:(…) chi pecca morirà” (Ezechiele 18.4).

Il cantico, per quel che ci compete, si conclude con un invito a due categorie di persone, “Chi teme il Signore” e “Chi cammina nelle tenebre”: i primi, pur avendo un atteggiamento corretto, devono “ascoltare la voce del Suo servo”, l’unico in grado di condurli correttamente lungo quei “pascoli erbosi” figura della fede e della dottrina. Senza questo ascolto, si rischia di essere sterili e di possedere convinzioni errate destinate ad ostacolare il rapporto con il Padre. I secondi, sono quelli che sono coscienti di andare a tentoni, senza una luce che ne rischiari cammino: anche per loro, proprio perché consapevoli della condizione in cui versano, è detto di “confidare nel nome del Signore”, quindi non in un Dio generico, costruito per appagare il vuoto interiore.

Resta il verso undicesimo in cui vediamo non solo gli accusatori, i detrattori e i responsabili della morte del corpo del Servo per eccellenza, ma tutti quelli che combattono gli altri servi, coloro che hanno creduto e testimoniano: “Voi tutti che accendete il fuoco– figura di un’idea, di un progetto per distruggere –, che vi circondate di frecce incendiarie– chi si circonda di qualcosa è per rafforzarsi anche psicologicamente –, andate alle fiamme del vostro– la responsabilità – fuoco, tra le frecce che avete acceso– altro rafforzativo della responsabilità –. Dalla mia mano– figura della volontà e del potere – vi è giunto questo: voi giacerete nel luogo dei dolori”. Sicuramente da porre una sottolineatura sul fatto che i nemici del Servo (e dei suoi fratelli) non confluiranno in un luogo di dolore generico, ma “nel luogo”, quindi in un posto preciso in cui possiamo identificare quello “stagno ardente di fuoco e zolfo” in cui verrà gettato Satana con i suoi angeli. Angeli ribelli, ma anche tutti coloro che gli avranno dato ascolto e obbedienza. Amen.

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