05.40 – NON FATEVI TESORI SULLA TERRA (Matteo 6.19-21)

05.40 –Non fatevi tesori sulla terra (Matteo 6.19-21)

“…19Non accumulate per voi tesori sulla terra, dove tarma e ruggine consumano e dove ladri scassìnano e rubano; 20accumulate invece per voi tesori in cielo, dove né tarma né ruggine consumano e dove ladri non scassìnano e non rubano. 21Perché, dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore.

In questo nostro percorso sulla lettura cronologia dei Vangeli nonostante i limiti, ho ritenuto opportuno riprendere dal verso 19 tralasciando quelli da 14 a 18 perché già affrontati col “Padre nostro”; leggiamo infatti: “Se voi perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche voi; ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe”). Abbiamo fatto lo stesso anche quando abbiamo trattato la vanità e l’ipocrisia come motore delle azioni religiose: “E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipocriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu digiuni, profùmati la testa e làvati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che è nel segreto, ti ricompenserà” (vv.19-21).

Possiamo dire che, con i versi oggetto di meditazione, Nostro Signore torna agli esempi semplici, immediatamente comprensibili ai suoi uditori di allora come di oggi. In particolare, se la presenza dei ladri che scassinano e rubano è a prescindere dall’epoca, è il dettaglio della “tarma”e della “ruggine”a portarci ai tempi antichi e, allo stesso tempo, a darci un dettaglio importante: i “tesori sulla terra” di cui parla Gesù sono costituiti da tutto quanto è soggettivamente prezioso, che può essere riconosciuto in quel “per voi”, riferito alle esigenze e attitudini di ciascuno. Se accumulo qualcosa “per me”, significa che intendo mettere da parte per un futuro che non mi appartiene ciò che mi rappresenta, ciò a cui tengo e che non voglio condividere con altri. Accumulare richiede attenzione ed energie e chi lo fa mette in atto il suo progetto di soddisfazione personale. In ciò che ammassiamo “per noi” ci sono spesso le nostre aspettative future e, se il caso più comune e banale è l’accumulo di denaro, possiamo avere anche quello di libri, quadri, gioielli, orologi, francobolli, case, terreni, insomma tutto quanto mettiamo da parte per poi controllarlo, ammirarlo, sapere che esiste perché nostro. “La roba”, insomma. A volte, l’uomo tende a identificarsi in ciò che possiede a tal punto da vederlo come una propria creatura.

Le parole di Nostro Signore non intendono essere un invito alla povertà e a disprezzare il mettere da parte per il proprio futuro, ma sottolineare il controsenso tra il premunirsi eccessivamente per la propria vita terrena a scapito di quella futura. Leggiamo in 2 Corinti 12.14 “Non spetta ai figli mettere da parte per i genitori, ma ai genitori per i figli” e “Se poi uno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele” (1 Timoteo 5.8). Mettere da parte e risparmiare è una cosa, accumulare tesori “per noi” è un’altra, dipende dal valore che dà il cuore alle cose, se queste diventano o sono dominanti.

Gesù sul monte non si rivolge a persone particolarmente ricche o avide come quelle che incontreremo nelle parabole o in altre situazioni, ma a chi tra loro aveva il concetto dell’accumulare anche piccole cose senza escludere le grandi, come appunto testimoniato dalla “tarma”, che intaccava le vesti preziose che i ricchi tenevano sia per loro stessi, sia per far doni o per essere distribuite agli invitati di una loro festa. Pensiamo poi alla “ruggine”, dall’originale “bròsis” indicante quel consumo e perdita di peso che non intaccava l’oro o l’argento, ma le monete di bronzo comuni che, ammassate in quantità, consistevano senza dubbio quei “tesori” eventualmente ammassati dagli uditori del Signore. Siccome banche a quel tempo non esistevano; le monete venivano nascoste sotto terra o in punti particolari nelle case, ma si deterioravano o potevano essere rubate dai ladri, andando così perdute per il furto oppure decadevano in peso e valore.

Chi vorrebbe monete arrugginite? E ancora, chi passerebbe il tempo a togliere da loro la ruggine, data la quantità accumulata di monete? Ne uscirebbe un lavoro enorme, non retribuito, che andrebbe ad aggiungersi a quello già fatto per aver guadagnato quella somma, ora diventata inservibile.

Ecco allora che, con questo semplice esempio, Gesù vuole avvertire l’uomo che lo ascolta quanto non possa avere nulla di certo: la persona guadagna e mette da parte, ma non è detto che un giorno possa godere il frutto delle sue fatiche. La persona accumula per sé presumendo di assaporare un giorno il risultato dei suoi sforzi, ma può perdere ogni cosa; pensiamo alle tragedie che si verificano anche oggi, in cui persone che hanno investito i risparmi di una vita, o la liquidazione, si sono ritrovate senza nulla perché truffati o semplicemente perché le banche che avrebbero dovuto tutelarli sono fallite. Pensiamo ai terremoti, agli uragani o alle inondazioni che, di colpo, cancellano e portano via in un attimo ciò che le persone hanno costruito o realizzato con fatica.

Ebbene Gesù esorta ancora una volta i suoi uditori ad alzare lo sguardo, a cercare di cambiare frequenza ricettiva, ad andare oltre perché ai tesori che si possono sempre perdere si contrappongono quelli messi da parte nel cielo, che la perfetta contabilità di Dio ripone con interessi inossidabili. E qui ci ritroviamo ancora una volta di fronte ai baratri che si frappongono tra ciò che è terreno e spirituale come rileviamo nei due “accumulate per voi” del testo: chi lo fa per i “tesori sulla terra” avrà corruzione e perdita come risultato, chi lo fa per quelli in cielo non solo ritroverà tutto quanto che avrà messo da parte, ma lo vedrà moltiplicato secondo le promesse di Gesù ai suoi quando parlò loro del “premio” e delle “corone” di giustizia, gloria e vita.

C’è però una precisazione fondamentale, e cioè che Gesù ancora una volta pone l’accento sul cuore: a nulla serve abbandonare la volontà dell’accumulare i tesori se il esso non è rinnovato, se non acquisisce, se non assimila il principio dell’aderire a Dio con tutto se stesso rifiutando l’inganno satanico nelle ricchezze di questo mondo: viceversa, nulla cambierà, si correrebbe il rischio di cadere nella religiosità, vale a dire di abbandonare qualcosa per uno o più precetti astratti per poi ritrovarsi più vuoti di prima ed essere costretti a fingere davanti a se stessi e agli altri per sopravvivere. Scrive l’apostolo Paolo: “Quelli che invece vogliono arricchirsi, cadono nella tentazione, nell’inganno di molti desideri insensati e dannosi, che fanno affogare gli uomini nella rovina e nella perdizione. L’avidità del denaro infatti è la radice di tutti i mali; presi da questo desiderio, alcuni hanno deviato dalla fede e si sono procurati molti tormenti” (1 Timoteo 6.9,10). Rileviamo qui alcune parole significative che si pongono in antitesi alla libertà nella quale viene posta la persona che fa proprio il Vangelo: “inganno”, “insensato”, “dannoso”, “affogare”, “rovina”, “perdizione” sono termini che non lasciano scampo; soprattutto è la presenza del desiderio insensato e dannoso che fa riflettere perché porta direttamente alla fine, alla nostra essenza mortale. Siamo esseri che, per quanto intelligenti e in grado di progettare, abbiamo un termine che non conosciamo e che Satana ci tiene nascosto a livello di idea, di concetto. L’uomo infatti è convinto di avere un domani, sempre.

Ricordiamo le parole “Sì, sono un soffio i figli di Adamo, una menzogna tutti i figli degli uomini: tutti insieme, posti sulla bilancia, sono più lievi di un soffio” (Salmo 62.10) e Proverbi 23.4,5 “Non affannarti per accumulare ricchezze, sii intelligente e rinuncia. Su di esse volano i tuoi occhi, ma già non ci sono più: perché mettono ali come aquila e volano verso il cielo”. Ecco allora che i tesori, anziché parlare di potenza, di posizione altolocata e sotto certi aspetti intoccabilità nel contesto umano, ne attestano la fragilità: in opposizione alla gloria terrena, scrive il salmista “Fammi conoscere, Signore, la mia fine, quale sia la misura dei miei giorni, e saprò quanto fragile io sono. Ecco, di pochi palmi hai fatto i miei giorni, è un nulla per te la durata della mia vita. Sì è solo un soffio ogni uomo che vive. Sì, è come un soffio chi si affanna, accumula e non sa chi raccolga”. Sono versi che ciascuno può meditare come meglio crede, tenendo presente che a nulla serve pensare che, essendo la vita breve, è meglio viverla nel migliore dei modi: questo sarebbe un’idea valida a condizione che questa fosse veramente una sola, ma come affrontare l’altra, che non potrà esistere se quella sulla terra si sarà basata sul consumo della stessa e se nulla si sarà fatto per accumulare i “tesori nel cielo” di cui ha parlato Nostro Signore? Si tratta di un tema estremamente serio: ho conosciuto molte persone non credenti che, in salute, accettavano serenamente l’idea della morte, ma piangevano ed erano terrorizzati nel momento in cui credevano si avvicinasse. O si avvicinava per davvero. E nel lavoro che svolgevo un tempo ne ho visti tanti.

Salomone, figlio di Davide, uomo di cui troviamo scritto molto nella Bibbia, scrisse fra gli altri il libro dell’Ecclesiaste, o Qoèlet, in cui riversò la sua esperienza particolare di uomo. Leggiamo alcune sue parole 2.3-11: “Ho voluto fare un’esperienza– che come re cui nulla era precluso poteva concedersi. Salomone cioè volle provare, diremmo oggi, “qualcosa di diverso” –:allietare il mio corpo con il vino e così afferrare la follia, pur dedicandomi con la mente alla sapienza”. La sua ricerca si volse dunque alla soddisfazione della sua persona, sperava di trovare delle alternative alla gestione responsabile del suo rapporto con Dio che lo aveva onorato consentendogli di edificargli il Tempio oltre che colmarlo di ricchezze proporzionali alla sua saggezza di cui, alla fine, io sospetto non sapeva cosa farsene perché venutegli a noia. Infatti l’autore del testo continua e scrive “Volevo scoprire se c’è qualche bene per gli uomini che essi possono realizzare sotto il cielo durante i pochi giorni della loro vita”. Volle cioè rendersi indipendente da quello che la sapienza di Dio già gli aveva rivelato e toccare con mano. Notare l’espressione “i pochi giorni”: solo chi è avanti negli anni e si volta indietro scopre che il suo tempo è passato come un soffio. I giovani, al limite, sospettano che sia così, se sono in grado di guardare al loro debole passato e un delirio di onnipotenza non s’impossessa di loro o l’inesperienza non si fa dogma.

Per far capire al lettore chi sia stato e cos’abbia realizzato, ecco che Salomone si presenta: “Ho intrapreso grandi opere, mi sono fabbricato case, mi sono piantato vigneti. Mi sono fatto parchi e giardini e vi ho piantato alberi da frutto di ogni specie; mi sono fatto vasche per irrigare con l’acqua quelle piantagioni in crescita”. Quest’uomo quindi ebbe la possibilità di contemplare il risultato delle proprie fatiche, che non si limitarono alla realizzazione di grandi opere: “Ho acquistato schiavi e schiave e altri ne ho avuti nati in casa; ho posseduto anche armenti e greggi in gran numero, più di tutti i miei predecessori in Gerusalemme. Ho accumulato per me– ecco l’ “accumulare per voi” di cui Gesù parla – anche argento e oro, ricchezze di re e provincie. Mi sono procurato cantori e cantatrici, insieme con molte donne, delizie degli uomini. Sono divenuto più ricco e potente di tutti i miei predecessori a Gerusalemme, pur conservando la mia sapienza”. La ricerca di Salomone fu quindi “a tutto tondo”, senza tralasciare nulla, la sua fu una ricerca del piacere secondo la carne e sappiamo che questa comportò il traviamento del suo essere. Prosegue confessando “Non ho negato ai miei occhi nulla di ciò che bramavano, né ho rifiutato alcuna soddisfazione al mio cuore, che godeva di ogni mia fatica: questa è stata la mia parte che ho ricavato da tutte le mie fatiche”. Salomone potrebbe essere considerato l’equivalente degli uomini e donne che vengono citati ogni anno dalla rivista “Forbes” che pubblica i nomi delle persone più ricche del mondo in termini di miliardi di dollari USA.

Ebbene, alla fine, è scritto nel nostro testo: “Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo affrontato per realizzarle. Ed ecco, tutto è vanità e un correre dietro al vento. Non c’è alcun guadagno sotto il sole”. Perché? Perché se tutto si basasse sulla soddisfazione personale non resterebbe altro che un terribile, arido deserto che ci sforzeremmo di vedere fiorito.

Io ho visto come vivono i ricchi. Pur non appartenendo al loro ambiente, da giovane sono stato ammesso alla loro cerchia, forse perché mi ritenevano simpatico oppure li incuriosivo in quanto diverso da loro pur non essendo di condizione sociale umile. Anche la vita del ricco è fatta di piccole cose, esattamente come quella del povero. A parte la preoccupazione di come spendere i propri soldi, nulla cambia e ciò che può apparire attraente per chi non ha le loro possibilità economiche, per loro è la norma per cui vivere un’estate su una barca del costo di centinaia di milioni equivale ad uscire in mare con un canotto per un ragioniere di banca. Avere molte ville in giro per l’Italia o il mondo significa spesso dimorarvi per qualche tempo e non sapere cosa fare ed escogitare stratagemmi per non annoiarsi, vivendo di quello che offre un giorno che anche per loro porta la sua pena. Ogni istante sono costretti ad affidarsi al presente, alla carne, alla terra.

Eppure, ciascuno ha il suo tesoro cui rimane attaccato perché altrimenti non saprebbe come vivere. Gesù però dice “dove è il tuo tesoro, qui sarà il tuo cuore”. È un invito a considerare la propria condizione di vita, la propria prospettiva perché sta a noi scegliere il terreno sul quale costruire. Abbiamo una vita da vivere sulla terra e siamo chiamati a gestirla con accortezza e non certo da incoscienti, il che comprende tanto la dissolutezza quanto il misticismo inconcludente, tenendo presente che “(Dio Padre) ci ha rigenerati per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi” (1 Pietro 1.4). Credo che i veri cristiani siano invitati a considerare se si identificano o meno in queste parole: “Chi avrò per me nel cielo? Con te non desidero nulla sulla terra. Vengono meno la mia carne e il mio cuore; ma Dio è roccia del mio cuore, mia parte per sempre” (Salmo 72.25,26). Se manca l’identificazione in questo passo, occorre che si lasci agire lo Spirito Santo e procedere ad una profonda rivisitazione del proprio stato.

* * * * *

05.35 – PADRE NOSTRO 5/9 (Matteo 6.9-13)

05.35 – Padre nostro – V (Matteo 6.9-13)

 

9Voi dunque pregate così: Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome,10venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra. 11Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 12e rimetti a noi i nostri debiti  come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori, 13e non abbandonarci alla tentazione, ma liberaci dal male.14Se voi infatti perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi;15ma se voi non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe.”.

 

RIMETTI A NOI I NOSTRI DEBITI…

Il verso 12 è molto chiaro e parrebbe non necessario di approfondimenti: si chiede al Padre la remissione dei debiti che abbiamo con Lui come noi ci impegniamo a fare altrettanto con chi li ha verso di noi o, meglio, perché abbiamo avuto, accettando il Vangelo, lo stesso trattamento da Lui. Anche se è così, possiamo dire che questo è un verso molto impegnativo e la comprensione di quanto esprime credo possa far del bene a tutti noi, stante il rapporto profondo e continuo esistente tra Antico e Nuovo Patto. Ancora una volta dobbiamo partire dalla realtà conosciuta dagli uditori di Gesù che, nell’attesa che la parola “debito” venisse spiegata con la parabola del servo spietato, potevano collegarsi alla preghiera che Salomone rivolse a YHWH quando l’Arca dell’alleanza fu trasferita nel tempio. La preghiera è contenuta in 1 Re 8.36-50 e ne riportiamo una parte: “Quando il tuo popolo Israele sarà sconfitto di fronte al nemico perché ha peccato contro di te, ma si converte a te, loda il tuo nome, ti prega e ti supplica in questo tempio, tu ascolta nel cielo, perdona il peccato del tuo popolo Israele e fallo tornare sul suolo che hai dato ai loro padri. Quando si chiuderà il cielo e non ci sarà pioggia perché hanno peccato contro di te, ma ti pregano in questo luogo, lodano il tuo nome e si convertono dal loro peccato perché tu li hai umiliati, tu ascolta nel cielo, perdona il peccato dei tuoi servi e del tuo popolo Israele, ai quali indicherai la strada buona su cui camminare, e concedi la pioggia alla terra che hai dato in eredità al tuo popolo. Quando sulla terra ci sarà fame o peste, carbonchio o ruggine, invasione di locuste o bruchi, quando il suo nemico lo assedierà nel territorio delle sue città o quando vi sarà piaga o infermità di ogni genere, ogni preghiera e ogni supplica di un solo individuo o di tutto il tuo popolo Israele, di chiunque abbia patito una piaga nel cuore e stenda le mani verso questo tempio, tu ascoltala nel cielo, luogo della tua dimora, perdona, agisci e da’ a ciascuno secondo la sua condotta, tu che conosci il suo cuore, poiché solo tu conosci il cuore di tutti gli uomini, perché ti temano tutti i giorni della loro vita sul suolo che hai dato ai nostri padri”.

Qui viene descritta una realtà che è presa d’atto di una sconfitta, di eventi che, per la dispensazione in cui si trovava il popolo, potevano essere chiaramente riconducibili ad un intervento di Dio teso a punire una condizione di peccato. Allo stato di cose descritto, cioè l’essere vinti dal nemico, la presenza della siccità, della malattia o altro, segue una vera richiesta di perdono dovuta a un forte dolore interiore. Il popolo, cioè, non avrebbe dovuto soltanto “chiedere perdono” come in un banale rito, ma convertirsi (ricordiamo le parole di Giovanni Battista, “ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino”).  Salomone stesso dice “Se si convertono dal loro peccato”, ponendo la condizione, la sola in grado di testimoniare che il ravvedimento è avvenuto e che la richiesta di perdono è sincera. Possiamo dire che, relativamente alla remissione del peccato da parte di Dio, la stessa cosa avviene anche oggi: in questo tempo in cui le calamità naturali sono una conseguenza delle violenze che uomini scellerati hanno perpetrato su un pianeta prossimo al collasso, non possiamo certo fare gli stessi collegamenti dell’Israele allora; tuttavia per ogni uomo viene il momento in cui si ritrova a fare i conti con delle sconfitte di fronte alle quali è obbligato a chiedersi se queste derivino dal naturale svolgersi della vita, oppure siano un richiamo di Dio alla conversione e questo vale anche per i credenti.

Nell’ultima parte della preghiera di Salomone, poi, vediamo come veda il popolo come organismo di individui, passando ad esaminare il singolo perché facente parte di esso e per questo dotato di individualità e responsabilità: “Dà a ciascuno secondo la sua condotta, tu che conosci il suo cuore”. Lo stesso avviene anche oggi per noi.

Nel Padre nostro Gesù parla di “debiti”perché, come vedremo, esiste un “debito” con Dio, quello che non c’è uomo sulla terra che non abbia, e dei “debiti”. Il primo è quello che rendeva i cristiani incompatibili con Lui visto nella condizione di peccato ereditata alla nascita, i secondi sono quelli che come credenti possiamo sempre contrarre a causa di una mancata vigilanza sulle nostre azioni, cioè quelli che possiamo commettere nella carne perché siamo defettibili. Essere dei salvati non implica l’essere santi e puri a prescindere delle nostre azioni, cioè che siamo stati liberati dal peccato una volta per tutte e che quindi non peccheremo più, ma percorrere una strada fatta di astensione da ciò che offende la nostra dignità e posizione di credenti penalizzando anche fortemente il rapporto che abbiamo con Lui.

Cos’è il peccato? È un termine che si riferisce a qualsiasi azione che possiamo commettere estranea alla volontà e santità di Dio. Il “peccato” è prima di tutto un modo di ragionare, di essere e di vivere, quello di chi esiste ignorando più o meno deliberatamente la Sua presenza, le Sue aspettative nei confronti della creatura che si ritrova così abbandonata a se stessa e cerca di soddisfarsi da un punto di vista fisico e psichico raggiungendo lo scopo per brevi periodi. Ora sappiamo che, grazie al sacrificio di Cristo sulla croce, chiunque lo comprenda e lo accetti consapevolmente per la propria salvezza eterna, in tal modo accogliendolo, viene fatto figlio di Dio venendo liberato dalla sua condizione di peccatore: viene accolto così com’è, viene perdonato, cessa di essere straniero ed avventizio secondo versi che abbiamo citato diverse volte.

L’Agnello di Dio toglie il “peccato del mondo”, non “dal” mondo, non elimina la possibilità di compierlo anche da parte di chi è salvato e redento. E per “togliere” si intende prendere su di sé. C’è un’opinione diffusa in certe Chiese cristiane secondo la quale chi ha creduto, perdonato una volta per sempre dal sangue versato di Cristo, non abbia più bisogno di domandare il perdono dei suoi peccati quotidiani perché non può più peccare. Eppure Giovanni nella sua prima lettera sappiamo che scrive “…se qualcuno ha peccato, noi abbiamo un Avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto“ (1 Giovanni 2.1).

Davide scrisse “Per il tuo nome, Signore, perdona la mia colpa, anche se grande” (Salmo 25.11), e “Liberaci e perdona i nostri peccati, a motivo del tuo nome” (Salmo 79.9), richieste rivolte a chi è tanto giusto quanto pietoso nei confronti della creatura che a Lui si rivolge. Possiamo dire che la preghiera del “Padre nostro” si occupa non del debito originale, ma di quelli che si accumulano o possono presentarsi lungo il nostro cammino terreno di cui chiediamo la remissione, possibile a due condizioni: perché ne abbiamo compreso la portata e perché li abbandoniamo, la sola azione che possa dimostrare, come già detto, l’avvenuto ravvedimento. Quando ero bambino e andavo a confessarmi, al termine c’era l’”atto di dolore” che si concludeva con le parole “propongo di non offendervi mai più, Signore misericordia perdonatemi”: col tempo, mi sono chiesto se pronunciare quelle parole a distanza di giorni non fosse un alibi, un modo per legittimare certi miei comportamenti perché tanto venivo perdonato e assolto comunque. La stessa cosa succede a molti anche oggi, che pongono in essere comportamenti liberi sapendo che tanto poi, andandosi a confessare, si pentono formalmente regolando così i propri “debiti”.

Nulla di più sbagliato. Si tratta di un modo di ragionare falso e distorto, utilitaristico, che non ha nulla a che vedere con lo Spirito e tutto ha a che fare con l’essere umano carnale, diabolico e ipocrita perché sapere che non esiste peccato che non possa essere rimesso non è una realtà che possiamo distorcere a nostro vantaggio, servircene per i nostri fini personali. Chi agisce così è una persona che, se non si ravvede, sarà solo un religioso, cioè uno che rientra nelle categorie di cui Gesù sappiamo disse “Questo è il premio che ne hanno”.

Utile in proposito un breve commento e relativa lettura su Efesi 4.17-32 che si apre con un paragone importante. L’apostolo Paolo si rivolge a dei credenti che avevano da poco abbandonato il paganesimo e quindi risentivano inevitabilmente dei suoi retaggi e per questo vengono invitati a meditare sulla loro condizione: “Vi dico dunque e vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani con i loro vani pensieri, accecati nella loro mente, estranei alla vita di Dio a causa dell’ignoranza che è in loro e della durezza del loro cuore. Così, diventati insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza e, insaziabili, commettono ogni sorta di impurità”. Qui vediamo che il paganesimo, la vita normale quotidiana, “orizzontale”, si caratterizza con vani pensieri, cioè “privi di consistenza, internamente vuoti”, cecità mentale, estraneità alla vita di quell’unico Dio che la vita può dare. Ignoranza e durezza del cuore, entrambe coltivate più o meno consapevolmente, hanno portato insensibilità spirituale e piena disposizione a ciò che è animale e terreno non dando loro altra scelta se non quella di rifugiarsi nella dissolutezza che va a tamponare l’insoddisfazione. I germi del paganesimo, che si concretano nell’anarchia spirituale, li porteremo sempre con noi, se non altro come bagaglio storico. C’è però un’avversativa lapidaria vista nel “Ma” che apre il verso 20: “Ma non così– cioè comportandovi in quel modo – voi avete imparato a conoscere il Cristo, sedavvero gli avete dato ascolto e sein lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare con la sua condotta di prima l’uomo vecchio che si corrompe seguendo passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità”.

Qui abbiamo un grande insegnamento: prima di tutto io noto dei “se”, che vanno idealmente a collegarsi alla preghiera di Salomone citata poco prima; è un “se” che fa la differenza, è una verifica, è un garanzia. Facile dire che si conosce Gesù Cristo e che si ha il Suo Spirito soprattutto in certi ambienti evangelici; molto meno agevole è dimostrare di avere abbandonato l’uomo vecchio che si corrompe seguendo passioni ingannevoli e ancor di più il suo metodo di giudicare. L’uomo vecchio segue le proprie passioni e si basa su di esse, ma alla fine queste crollano. Siamo chiamati a rinnovarci e a rivestire l’uomo nuovo. Siamo chiamati a non rimanere immobili nelle nostre posizioni perché la stasi non esiste e comprometterebbe gravemente la nostra realtà. Chi non si evolve, come ci dimostra la “parabola dei talenti”, in realtà va indietro e peggiora progressivamente senza rendersene conto.

Agire senza rinnovarsi, senza cercare di portare il nostro modo di pensare e di essere a un livello superiore coltivando lo Spirito ma continuando nelle azioni dell’ ”uomo vecchio”, equivale a contristarlo: “E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, con il quale foste segnati per il giorno della redenzione. Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato voi in Cristo”. Ecco un’altra applicazione col debito rimesso: lo Spirito Santo abbiamo letto che è un “segno” dato per il giorno della redenzione, ma la presenza dentro di noi di elementi dominanti estranei, come quelli che caratterizzano l’uomo vecchio che a volte torna a manifestarsi, fanno parte di quei tanti “debiti” che abbiamo il diritto dovere di chiedere al Padre che ci siano rimessi. E siccome le stesse azioni negative le possono compiere dei fratelli nei nostri confronti, chiedere che ci venga perdonato senza che noi perdoniamo, è un’assurdità. L’uomo che un giorno si è messo alla ricerca di Dio, trovandolo, non può venire lasciato solo nel proprio cammino di ricerca e edificazione spirituale.

* * * * *

5.08 – LE BEATITUDINI 7: GLI OPERATORI DI PACE (Matteo 5.3-10)

5.8 – Il sermone sul monte : le beatitudini VII (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

 

BEATI GLI OPERATORI DI PACE

Più che “pacifici” come in alcune traduzione, è corretta quella di “operatori di pace” o “coloro che si adoperano per la pace” nel senso che si impegnano per costituirla. La parola greca, letteralmente è, è “coloro che pongono la pace”, cioè non tanto quelli che sono di indole pacifica, istintivamente contrari alle dispute, ai litigi e alle lotte, ma quegli uomini che compiono sforzi per riconciliare coloro che sono nemici, o per prevenire i dissidi. Si tratta di una beatitudine particolare, raccordabile a quella dei mansueti e dei misericordiosi, che comporta l’essere chiamati “figli di Dio”, cioè avere un riconoscimento. Può sembrare scontato, ma non è così perché l’operatore di pace non è un diplomatico, chi appende alla finestra una bandiera con i colori dell’arcobaleno, chi rifiuta aprioristicamente l’uso delle armi o che pretende di insegnare la pace agli altri come stato d’animo interiore o esteriore, ma chi l’ha trovata in Cristo e per questo ha deposto il contendere, innato in lui, come metodo di espressione. La pace altrimenti è irraggiungibile e ciò può avvenire anche nel cristianesimo quando, più che difendere l’essenza del Vangelo dentro di noi, ci preoccupiamo delle nostre posizioni e coltiviamo l’orgoglio: nel momento in cui la fede diventa un alibi, e quindi è uno degli scopi della carne per apparire o salvaguardare “l’uomo vecchio”, ecco che viene a mancare.

Anche questa beatitudine viene pronunciata da Gesù per il suo uditorio guardando sia il presente, ma soprattutto il futuro: la folla sul monte poteva facilmente ricordarsi di Davide, al quale Iddio non consentì di costruirgli il Tempio, come leggiamo in 1 Cronache 22.7-10: “Davide disse a Salomone: «Figlio mio, io stesso avevo in cuore di costruire una casa al nome dell’Eterno, il mio Dio. Ma la parola dell’Eterno mi fu rivolta dicendo «Tu hai versato molto sangue e hai fatto molte guerre; perciò non costruirai una casa al mio nome, perché hai versato molto sangue sulla terra davanti a me. Ma ecco ti nascerà un figlio che sarà uomo pacifico e io gli darò riposo da parte di tutti i suoi nemici tutt’intorno. Egli si chiamerà Salomone e nei suoi giorni darò pace e tranquillità ad Israele. Egli costruirà una casa al mio nome: egli sarà per me un figlio e io sarò per lui un padre, e renderò stabile il suo trono su Israele per sempre”.

Il brano letto è indubbiamente interessante: Davide fece molte guerre e sparse molto sangue, anche se ciò serviva per la stabilità e la sussistenza di Israele, fu un servitore utile che tuttavia aveva messo in luce un aspetto di Dio in cui non si compiace, preferendo sempre la pace al dar luogo ai suoi giudizi e ricorrendo ad essi solo quando l’uomo lo pone nelle condizioni di non agire altrimenti. È questo un modo sbrigativo per accennare l’argomento, ma affrontando la severità di Dio andremmo fuori tema. Davide non era idoneo alla costruzione del tempio non perché “cattivo”, ma perché l’utilità che aveva avuto sconfiggendo tutti quei popoli descritti nei libri storici si era esaurita e un uomo come lui non poteva edificare un Tempio all’Iddio misericordioso e lento all’ira. Questo naturalmente in estrema sintesi. Per costruire il Tempio ci voleva un uomo come Salomone, appunto dall’ebraico šalôm, pace. E il suo regno ebbe una pace – a parte lievi interruzioni – praticamente continua che portarono ricchezza, prosperità, aumenti nel commercio e costruzioni.

Nella storia di Davide e in quella di suo figlio abbiamo un forte insegnamento sulla natura umana poiché il primo, nonostante la protezione di Dio in tutte le fasi più determinanti della sua vita e un continuo avere di fronte concretamente la sua assistenza, fu adultero e omicida. Anche Salomone, con tutta la sua saggezza divenuta proverbiale e la sua storia edificante, finì in una condizione triste vista in 1 Re 11.1-11: “Il re Salomone amò molte donne straniere, oltre alla figlia del faraone: moabite, edomite, sidònie e ittite, provenienti dai popoli di cui aveva detto il Signore agli israeliti «Non andate da loro ed essi non vengano da voi, perché certo faranno deviare i vostri cuori dietro i loro dèi». Salomone si legò a loro per amore. Aveva 700 principesse per mogli e 300 concubine; le sue donne gli fecero deviare il cuore. Quando Salomone fu vecchio, le sue donne gli fecero deviare il cuore per seguire altri dèi e il suo cuore non restò integro con il Signore, suo Dio, come il cuore di Davide, suo padre. Salomone seguì Astarte, dea di quelli di Sidone, e Milcom, obbrobrio degli ammoniti. Salomone commise il male agli occhi del Signore e non seguì pienamente il Signore come Davide, suo padre. Salomone costruì un’altura per Camos, obbrobrio dei Moabiti, suo monte che è di fronte a Gerusalemme, e anche per Moloc, obbrobrio degli Ammoniti. Allo stesso modo fece per tutte le sue donne straniere che offrivano incenso e sacrifici ai loro dèi. Il Signore, perciò, si sdegnò contro Salomone, perché aveva deviato il suo cuore dal Signore, Dio d’Israele, che gli era apparso due volte e gli aveva comandato di non seguire altri dèi, ma Salomone non osservò quanto gli era stato comandato”.

Un uomo integro, Davide, non poté costruire il Tempio, ma un uomo pacifico e saggio, Salomone, giunse al punto da seguire dèi immaginari e a costruire templi per gli “obbrobri” degli Ammoniti, cioè gli idoli. Se, come scrive l’apostolo Paolo, queste cose sono state scritte per nostro insegnamento, consideriamo ciò che quel re aveva ricevuto: “Dio concesse a Salomone sapienza, una grandissima intelligenza e una mente vasta come la sabbia che è sulla riva del mare. E la sapienza di Salomone superò la sapienza di tutti i figli di Oriente e tutta la sapienza degli Egiziani. Da tutti i popoli veniva gente per udire la sapienza di Salomone, mandati da tutti i re della terra che avevano sentito parlare della sua sapienza” (1 Re 4.29-30,34). Questo re, quindi, è l’esempio più eclatante di chi, permettendo a ciò che è impuro di svilupparsi dentro di lui, finisce per corromperlo. Siamo sempre al solito tema, quello del peccato che raramente fa nell’essere umano una brutale irruzione, ma si presenta sempre come qualcosa di apparentemente trascurabile, di “quasi innocuo”, naturale. Ma che poi presenta il conto quando è troppo tardi e chi si trova a pagarne le conseguenze è proprio chi ha sottovalutato il problema.

Ecco quindi il perché della citazione di Davide, uomo di guerra, e di Salomone, uomo di pace: il primo fu considerato come una persona che seguì Iddio “pienamente” e con il cuore “integro” nonostante il peccato commesso con Uria e sua moglie, il secondo invece fu un uomo a cui molto fu dato, ma diede prova di non saper gestire quanto ricevuto e fu giudicato per questo. Allora va da sé che col termine “operatori di pace” Gesù alluda agli uomini che si adoperano per essa utilizzando uno strumento la cui gestione corretta è possibile solo se guidata dallo Spirito Santo, dato ai figli di Dio che ne hanno la responsabilità.

Della pace, come esseri umani, abbiamo due idee, quella interiore e quella tra gli uomini o i popoli, entrambe irraggiungibili, possibili solo per un certo periodo tempo; basta poco a rompere il loro equilibrio. Il cristiano deve tenere presente sempre che ci sono due ambiti in cui vive, quello terreno e quello spirituale e che è nella misura in cui si dedica all’uno piuttosto che all’altro che realizza l’una o l’altra pace. Un caro fratello raffigurava la vita del credente in una “L” affermando che se la sua base era dominante sull’altezza, questi avrebbe vissuto una vita dominata dalla carne, dalla terra, dal proprio “io”; ecco perché nella preghiera del “Padre Nostro” leggiamo “dacci oggi il nostro pane quotidiano”, meglio tradotto con “necessario”, alludendo sì al cibo per il naturale sostentamento del nostro corpo, ma ancor di più a quello spirituale. Gesù disse “Vi lascio la pace, vi dò la mia pace. Non la dò come il mondo la dà a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbiate timore” (Giovanni 14.27). Chiedersi ogni giorno cosa facciamo della pace che Cristo ci ha lasciato, è importante.

In contrapposizione, a proposito di pace umana, va tenuto presente l’insegnamento di Paolo ai credenti di Tessalonica, la cui Chiesa si riuniva in casa di un certo Giasone. Tra gli interrogativi cui era necessario dare una risposta, vi erano quelli relativi alla destinazione finale di coloro che morivano e sul tempo in cui Gesù Cristo sarebbe ritornato: Paolo scrive “Riguardo poi ai tempi e ai momenti, non avete bisogno che ve lo scriva, perché sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte. E quando la gente dirà «C’è pace e sicurezza» allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta e non potranno sfuggire. Ma voi, fratelli, non siate nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre” (1 Tessalonicesi 5.1-4). Pace e sicurezza irraggiungibili, posticci, effimeri su cui l’uomo cerca di costruire lasciando da parte quelle che solo il Cristo risorto può dare.

Chi appartiene a Dio e lo segue, non può che essere un portatore di pace, tanto dentro di sé quanto nei suoi rapporti con gli altri, non può non adoperarsi ad essa tanto più in seno alla Chiesa di cui fa parte perché Cristo stesso è stato un riconciliatore: “È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli” (Colossesi 1.19, 20).

Chi davvero crede, ha avuto la sua persona lavata e santificata dal sangue di Gesù, deve fare altrettanto: “Chi è tra voi saggio e intelligente? Con la buona condotta mostri che le sue opere sono ispirate a mitezza e sapienza. Ma se avete nel vostro cuore gelosia amara e spirito di contesa, non vantatevi e non dite menzogne contro la verità. Non è questa la sapienza che viene dall’alto: è terrestre, materiale, diabolica; perché dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. Invece la sapienza che viene dall’alto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera. Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia” (Giacomo 3.13-18).

Ecco gli operatori di pace: saranno chiamati, riconosciuti da Dio stesso come suoi figli. Amen.

* * * * *