01.16 – ASTRONOMI (Matteo 2.1-3)

01.16 – ASTRONOMI (Matteo 2.1-3)

 

1Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme 2e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo.3All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme».”.

 

Dopo l’episodio di Simeone ed Anna, Luca scrive che “Quando ebbero tutto compiuto secondo la legge di Mosè, fecero ritorno alla loro città di Nazaret” (2.39). In realtà il loro ritorno a Nazareth avvenne dopo molto tempo perché Luca non riporta la visita dei Magi e il viaggio in Egitto intrapreso per sfuggire ai piani omicidi di Erode il Grande che ci racconta Matteo. Ecco allora che Luca vuole dirci che la Nazareth fu raggiunta dai tre non dopo il rito della circoncisione di Gesù, ma piuttosto che ci furono altri avvenimenti omessi, riassunti nel verso “Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui” (Luca 2.40). Mentre Matteo ci parla dei Magi e della fuga in Egitto, Luca pone tre tappe, circoncisione – Nazareth – Gesù che cresce, e quel “la grazia di Dio era sopra di lui” contempla la protezione a lui accordata nei due periodi di cui parla Matteo.

Venendo al testo in esame, possiamo dire che è più impegnativo di quanto possa sembrare e ci rimanda agli scritti e alla persona del profeta Daniele perché tra lui e i Magi c’è un rapporto di continuità: i Magi provenivano “da Oriente”, una zona molto vasta che comprendeva la Mesopotamia, la Persia e il deserto siro-arabico. I Magi costituivano la classe sociale più elevata dopo re e prìncipi ed erano sacerdoti dello zoroastrismo, versati nelle scienze di allora con particolare riguardo per l’astronomia che studiavano da secoli ogni notte suddivisi in turni. Nelle loro terre erano considerati i rappresentanti di un sapere superiore e ritenevano il cielo notturno una sorta di grande finestra attraverso la quale leggere il volere degli dèi. È stato detto che fossero astrologi, definizione che però non può raccordarsi ai nostri odierni, così esperti nel redigere prognostici assolutamente generici, quindi adattabili alla realtà di quelli che li consultan. I Magi di allora erano convinti che per ogni persona che nascesse vi fosse una stella – ricordiamo le parole “Abbiamo visto spuntare la sua stella” – che in qualche modo la guidava o proteggeva, ma la loro conoscenza di quell’astro così specifico che attendevano poggiava le sue basi proprio sulle profezie e gli insegnamenti di Daniele, attivo a Babilonia circa 600 anni prima di loro.

Il fatto che abbiano detto “La sua stella” testimonia che quei sapienti fossero assolutamente certi che il fenomeno che avevano osservato dovesse ricondursi alla nascita del Saošyant, il salvatore del mondo che aspettavano e sapevano doveva arrivare.

Credo che per capire il loro pensiero vada dato uno sguardo alle loro credenze: la religione che professavano era monoteista ed era stata fondata da Zarathustra prima del VI sec. a.C. (ma c’è chi la fa risalire al XVIII). Era riconosciuto un unico creatore, “Signore dell’esistenza e della vita attraverso il Suo operare” (Avesta Iasna 31.8) e si sosteneva un continuo confronto fra Bene e Male prevedendo la “Vita” e la “Migliore Esistenza” per chi avesse seguito il primo, o la “Non-Vita” e la “Peggiore Esistenza” (Ibid. 30.3,4) per chi avesse fatto la scelta opposta. Soprattutto Zarathustra, loro profeta, sosteneva che alla fine dei tempi sarebbe giunta una figura messianica che avrebbe guidato le forze del bene alla vittoria e alla redenzione del cosmo. I Magi quindi aspettavano, secondo i loro testi sacri, un redentore, un salvatore. Resta il perché cercassero proprio “il re dei giudei che è nato”, domanda rivolta agli abitanti di Gerusalemme con assoluta certezza. E qui entra il profeta Daniele.

Daniele, il profeta, il cui nome significa “Dio giudica”, o “Dio è mio giudice”: fu deportato a Babilonia da Nabucodonosor dopo la distruzione di Gerusalemme del 586 a.C. unitamente ai nobili della città e ai migliori giovani del regno di Giuda perché fossero al suo servizio. Daniele e altri giovani (Anania, Misael e Azaria che in seguito furono chiamati con nomi babilonesi) furono istruiti alla corte del re per tre anni, periodo che la Scrittura descrive così: “Dio concesse a questi quattro giovani – cioè i tre più Daniele – di conoscere e comprendere ogni scrittura e ogni sapienza, e rese Daniele interprete di visioni e sogni. (…) Su qualunque argomento in fatto di sapienza e di intelligenza il re li interrogasse, li trovava dieci volte superiori a tutti i maghi e indovini che c’erano in tutto il suo regno” (Daniele 1.17,20).

Percorrendo brevemente il libro di questo profeta, ci rendiamo conto che molti furono gli episodi tramandati dalla storia di corte e che interessarono i sapienti della sua epoca, i Magi di allora: pensiamo all’interpretazione dei sogni del re sul futuro del suo regno, l’episodio in cui i tre amici di Daniele furono gettati nella fornace senza subire alcun danno (3.46-50) oltre alle sue profezie che i Magi di allora tramandarono a quelli che poi si recheranno a Gerusalemme alla ricerca del “Re dei giudei che è nato”.

La prima profezia si trova in 7.13-14: “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno, tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto”. La seconda è la profezia delle settanta settimane di anni che molti, Newton compreso, hanno cercato di comprendere; si tratta di pochi versi che riassumono tutta la storia umana dal tempo di Daniele fino alla fine del mondo che conosciamo e vanno letti a volte in termini matematici, in altre per simboli o per quadri.

Le “settanta settimane” vanno divise in varie sezioni, la prima delle quali è introduttiva: “Settanta settimane sono fissate per il tuo popolo e per la tua santa città per mettere fine all’empietà, mettere i sigilli ai peccati, espiare l’iniquità, stabilire una giustizia eterna, suggellare visione e profezia e ungere il Santo dei Santi” (9.24). Qui abbiamo l’annuncio del tempo che Dio ha stabilito sull’umanità prima che la totalità del Suo piano si compia. Si tratta di un tempo suddiviso in quattro periodi storici precisi: il primo, della durata di sette settimane, è descritto così dall’angelo Gabriele: “Sappi e intendi bene: da quando uscì la parola sul ritorno e la ricostruzione di Gerusalemme fino a un principe consacrato, vi saranno sette settimane” (v.25). Si tratta di un preciso riferimento all’editto di Artaserse II che, nel 445 a.C., autorizzò la ricostruzione della città santa e la ricostruzione delle sue mura. Il “principe consacrato” è poi identificabile in Esdra, sacerdote e scriba considerato dagli israeliti come il personaggio più importante dopo Mosè perché Esdra tornò a Gerusalemme con altri capi del popolo e costituì il nuovo stato ebraico.

Il secondo periodo storico è rappresentato da 62 settimane così descritte: “Durante sessantadue settimane saranno restaurati, riedificati piazze e fossati, e ciò in tempi angosciosi”; questo si riferisce a tutti gli avvenimenti che caratterizzarono lo sviluppo spirituale della città, non tanto quello materiale per il quale 434 anni (62×7) appaiono decisamente troppi.

Le 62 settimane, quindi 69 calcolando le 7 precedenti, terminano con la crocifissione di Gesù quando leggiamo “Dopo sessantadue settimane, un consacrato sarà soppresso senza colpa in lui; il popolo di un principe che verrà distruggerà la città e il santuario; la sua fine sarà un’inondazione e, fino alla fine, guerra e desolazioni decretate” (v.26). In questo verso viene citata anche la distruzione di Gerusalemme dalle truppe romane di Tito avvenuta nel 70 d.C.. Ora occorre fare una sottolineatura fondamentale, e cioè: mentre il testo ha una precisione pressoché chirurgica nel dividere le prime sette settimane dalle altre 62, così non avviene tra la 69ma e la 70ma. In questo “cuscinetto”, in questo spazio, si inserisce la dispensazione della grazia che è, come mi diceva un amico, “quel periodo in cui il peccatore ha il diritto, convinto dallo Spirito Santo di peccato, giustizia e giudizio, di essere salvato indipendentemente dal suo stato sociale, etnico o geografico”.

Notiamo la fine di Gerusalemme che avverrà, come altri traducono, “con un’inondazione” o “come per inondazione” a sottolineare la violenza e la moltitudine che si scatenerà su di essa. Leggendo il verso, poi, vediamo che c’è un’altra “fine” vista nell’espressione “fino alla fine, guerra e desolazioni decretate” che a mio parere sono il riassunto, in prospettiva, di tutte le sofferenze e vicissitudini che il popolo ebraico subirà nella storia.

L’ultima settimana, la 70ma, non è citata chiaramente, ma la si distingue con facilità perché caratterizzata da due periodi di uguale durata: “Egli stringerà una forte alleanza con molti per una settimana e, nello spazio di metà settimana, farà cessare il sacrificio e l’offerta; sull’ala del tempio porrà l’abominio della desolazione e ciò sarà fino alla fine, fino al termine segnato sul devastatore” (v.27). Trovo qui un accenno a quell’epoca di falsa pace mondiale proclamata dal “Figlio della perdizione” (tre anni e mezzo, la metà settimana) e all’altra, a lui seguente e opposto, di pari durata in cui avverranno i gravi giudizi che Dio manifesterà su tutta la terra che troviamo descritti nei capitoli da 6 a 18 dell’Apocalisse.

Mi rendo conto di aver aperto una finestra verso una trattazione dagli sviluppi enormi che qui non è possibile affrontare; parlare della profezia di Daniele ha qui senso perché questo profeta, citato molte volte anche nella letteratura ugaritica, quindi della Mesopotamia e per estensione d’Oriente, non parlava solo con il re, ma anche con gli alti membri della corte essendo lui stesso uno di loro. Con queste persone il profeta aveva un rapporto quotidiano e certo disse ben di più di quello che troviamo scritto nel suo libro. Ad esempio, non sappiamo quali furono le domande che il re rivolse a quei giovani per trovarli dieci volte più sapienti degli uomini validi di cui si era circondato.

Daniele era l’uomo della rivelazione, una persona in cui la sapienza divina non era disgiunta da quella umana e, a contatto con la cultura della corte, la estese e la ampliò, certamente estendendo la profezia di Balaam sul salvatore quando disse “Io lo vedo, ma non ora; io lo contemplo, ma non da vicino: una stella spunta da Giacobbe, uno scettro sorge da Israele” (Numeri 24.17). Teniamo presente che Daniele non svolse il suo ministero per poco tempo, ma rimase anche nelle corti di Baldassar, figlio di Nabucodonosor, e in quella di Dario il Medo, per cui i suoi insegnamenti orali furono certamente molti e vennero tramandati proprio dai sacerdoti e dai sapienti locali, i Magi appunto, che a loro si dedicarono cercando di trattenerli e comprenderli per quanto potessero. Sapevano che dovevano attendere la stella che sarebbe “spuntata da Giacobbe”.

I Magi che arrivarono a Gerusalemme avevano nel loro bagaglio culturale la nozione, presente nella cultura dell’epoca, di un radicale cambiamento politico e sociale derivato dalla nascita di un re che, secondo le profezie in loro possesso, doveva appartenere al popolo di Israele. Ecco quella che potremmo definire “L’eredità di Daniele”! Per questo osservavano il cielo ogni notte, sfruttando le loro conoscenze plurisecolari: erano persiani, forti delle tradizioni astronomiche babilonesi che per prime divisero in dodici – notare il numero – settori uguali le costellazioni attraversate dal sole e dal pianeti (lo zodiaco). Già nel I millennio a.C. i babilonesi avevano rappresentato graficamente la precessione degli equinozi, cioè lo spostamento dell’asse attorno al quale la terra compie la sua rotazione giornaliera.

Chi era profondamente interessato a questi fenomeni, non poteva essere un astrologo. Chi osservava le stelle come loro, sapeva vedere e soprattutto cercare in quel cielo notturno così diverso dal nostro, oggi inquinato tanto da sostanze quanto dalla luce artificiale. Sappiamo che i Magi videro “la sua stella” e qui si scatenarono molte ipotesi prima tra le quali una cometa, la cui idea comparve per la prima volta con Giotto, che vide quella di Halley nel 1301 e la dipinse nella cappella degli Scrovegni a Padova proprio nell’episodio dell’adorazione dei magi. Johannes Keplero nel 1604, per spiegare la stella, propose l’idea dell’esplosione di una nova e di una supernova perché ne vide una in quell’anno, ma per capire correttamente la “stella” vista dai Magi occorre considerare il fenomeno luminoso che si manifestò a seguito alla triplice congiunzione Giove – Saturno nella costellazione dei pesci che avvenne attorno al 7 a.C.: troppo presto? Troppo tardi? La data non deve turbare più di tanto perché Dionigi il Piccolo, cercando di stabilire l’anno 1 coincidente con la nascita di Cristo, fece un errore di calcolo sbagliando di qualche anno e non possiamo sapere quando Nostro Signore effettivamente nacque.

Una triplice congiunzione si ha quando un incrocio di pianeti si verifica per tre volte: nel cielo uno supera l’altro, poi torna indietro per il moto apparente della terra per poi superarlo nuovamente. Due astronomi dell’Università di Genova, Giuseppe Veneziano e Mario Codebò, hanno ricostruito al calcolatore il cielo che dovettero osservare i Magi a partire dal 4 giugno del 7 a.C.: appare chiaramente il moto retrogrado dei pianeti da Est verso Ovest e altrettanto chiaro è il fatto che, se quei sapienti si fossero mossi per seguirlo, sarebbero giunti in Palestina. Una cometa non avrebbe mai potuto “fermarsi”, mentre la congiunzione sì, nel caso in cui avesse terminato il suo moto retrogrado per riprendere quello diretto.

I Magi fecero un tragitto impegnativo e faticoso di circa 800 km dalla Persia a Gerusalemme, percorrendo la via della seta presumibilmente ad un ritmo di 30-35 km al giorno, portando doni che dimostrarono la comprensione del fatto che quel “potere, gloria e regno” che avrebbe avuto il “Re dei Giudei che è nato” era di natura spirituale e non politica.

C’è poi un secondo personaggio che già abbiamo incontrato, Erode il Grande. La carovana dei Magi era giunta a Gerusalemme e all’inizio non dovette avere fatto molto scalpore perché in città era frequente assistere all’arrivo di carovane e pellegrini in occasione delle feste comandate; c’era però quella domanda su dove fosse il re del giudei che era nato e soprattutto lo scopo dichiarato di quella ricerca: “abbiamo visto la sua stella e siamo venuti ad adorarlo”. Nessuno condivise il loro entusiasmo. Al contrario abbiamo letto che quel loro informarsi con insistenza generò turbamento tanto in Erode quanto negli abitanti della città, che più che far caso al ricercare dei Magi iniziarono a temere le conseguenze delle loro domande, gli effetti che quelle avrebbero avuto sul tiranno che, sentendosi minacciato nel suo potere, chissà quali rappresaglie o crudeli iniziative avrebbe potuto mettere in atto. Il verso successivo di Matteo infatti ci dice che Erode, saputo il motivo dell’arrivo dei Magi in città, riuniti “tutti – nessuno escluso – i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo”. Poi, facendo in modo di non allarmarli, li convocò in segreto per approfondire ulteriormente con lo scopo di perfezionare il proprio piano per uccidere Gesù. Erode non s’interessò di quella nascita. Non lui, non gli abitanti di Gerusalemme. Ma degli estranei, rappresentanti di un sapere antico e lontano, figura dei popoli che Dio riunirà, sì.

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