12.27 – L’INNO DI LODE (Luca 10.21-23)

12.27– L’inno di lode (Luca 10.21-23)        

 

21In quella stessa ora Gesù esultò di gioia nello Spirito Santo e disse: «Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così hai deciso nella tua benevolenza. 22Tutto è stato dato a me dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo».23E, rivolto ai discepoli, in disparte, disse: «Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. 24Io vi dico che molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono».

 

Forse fu proprio la frase “Rallegratevi piuttosto che i vostri nomi sono scritti nei cieli” a far vedere a Gesù il popolo nuovo che sarebbe sorto dopo il Suo sacrificio e relativa sconfitta della morte. Per riportare una traduzione più corretta, “esultò di gioia nello spirito” nel senso che Luca, tramite i testimoni presenti all’evento, volle mettere il risalto la profondità della partecipazione nella gioia di Gesù uomo, un trasporto che Lo coinvolse nel profondo, riportando le stesse parole di un analogo inno in Matteo 11.25-27 preceduto dalle parole “In quel tempo Gesù disse”, cioè senza collegarle ad un episodio preciso che ora sappiamo quale fosse.

La gioia profonda di Gesù, credo, è quella di un uomo diverso dagli altri che, ancora in un corpo di carne come il nostro, non può far altro che elevare al Padre una preghiera di ringraziamento, o meglio un inno che ha nelle prime parole “ti rendo lode”: l’uomo Gesù è conscio di chi è come funzione, ruolo, ma anche di essere umano per cui con questa lode stabilisce il contatto col Padre sapendo di essere ascoltato più di chiunque altro. Alcune versioni originali non meno degne di attenzione di questa hanno “onore e lode”, elementi che costituiscono un tutt’uno e sono al tempo stesso distinti.

L’ “onore” di cui parla Nostro Signore è per Lui molto impegnativo perché scaturisce dalla Sua Testimonianza concretata attraverso la santità della Sua intera vita e di essere “il servo che io sostengo”. Dio Padre infatti non avrebbe mai potuto accettare questo “onore”, e conseguentemente la “lode”, se non fosse proceduta da questa perfezione di servizio: chi rivolgeva al Padre questo inno non era un “brav’uomo”, un “giusto” considerato tale per la sua fede e le opere che da essa scaturivano, ma il Servo perfetto che avrebbe adempiuto la Sua volontà per la salvezza di chi si fosse aggrappato a Lui e alle Sue perfezioni. L’ “onore” è quindi qualcosa di estremamente concreto, riassume la Sua vita e il legame col Padre, la “lode” è invece quel sentimento di riconoscenza nel constatare l’adempimento di fatti che, pur sapendo che sarebbero avvenuti, si vedono concretati in quel preciso momento: i settantadue avevano svolto con successo la loro missione ed i miracoli erano la prova più evidente del fatto che Dio era stato con loro, costituivano una sorta di Sua firma.

E, storicamente parlando, il lodare Iddio accomunò tutti, popolo d’Israele e profeti quando constatarono quanto provveduto per loro, per non parlare di Davide e dei suoi Salmi. Ricordiamo 1 Cronache 16.23-26, che riporta (v.7) “Davide per la prima volta affidò ad Asaf e ai suoi fratelli questa lode al Signore: Cantate al Signore, uomini di tutta la terra, annunciate di giorno in giorno la sua salvezza. In mezzo alle genti narrate la sua gloria, a tutti i popoli dite le sue meraviglie. Grande è il Signore e degno di ogni lode, terribile sopra tutti gli dèi. Tutti gli dèi dei popoli sono un nulla, il Signore invece ha fatto i cieli”.

Ecco allora perché Gesù prosegue con “Signore del cielo e della terra”: è un riferimento a tutto il creato visibile e invisibile come in Deuteronomio 10.14 che, letto con attenzione, conferma il fatto che dell’universo abbiamo una visione parziale: “Ecco, al Signore, tuo Dio, appartengono i cieli, i cieli dei cieli, la terra e quanto in essa contiene”. Ora potremmo discutere sul fatto se “i cieli dei cieli” siano quelle regioni calcolate in anni luce (e relativi multipli) oppure quei territori in cui pochi, ultimo l’apostolo Giovanni, ebbero il privilegio di addentrarsi e riportare ciò che videro. Un ampliamento della definizione “Signore del cielo e della terra” lo diede l’apostolo Paolo nell’Areopago di Atene: “Il Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che contiene, che è Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo né dalle mani dell’uomo si lascia servire come se avesse bisogno di qualche cosa. Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio perché cerchino Dio, se mai, tastando qua e là come ciechi, arrivino a trovarlo, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come hanno detto anche alcuni dei vostri poeti” (Atti 17.24-28).

Possiamo allora usare quest’ultimo verso come ponte per le parole successive del nostro testo: “…perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli fanciulli”. La rivelazione di Dio quindi esiste per Sua stessa ammissione, è lì, disponibile a chiunque abbia un cuore “puro” nel senso di non avanzare altra pretesa al di fuori di voler seguirLo, esserGli sottomesso, vivere con e in Lui, cosa che i “sapienti” e i “dotti” del popolo, responsabili della sua educazione a tutti i livelli, avevano smesso da tempo di fare. Il profeta Isaia, al capitolo quinto del suo libro, elencando tutta una serie di personaggi negativi, scrive al verso 21 “Guai a coloro che si credono sapienti e si reputano intelligenti”: sono tutti quelli che fanno riferimento e usano per i propri scopi una sapienza umana e si servono della loro intelligenza per umiliare il prossimo. Chi si crede “sapiente” e “intelligente” non vive che per se stesso, è convinto di possedere le chiavi per comprendere tutto, ma in realtà si ritrova prigioniero della sua incapacità di cogliere i princìpi nella loro globalità ed essenza, prigioniero dei propri ragionamenti, sempre pronto a vedere ciò che gli si propone come un attentato alla sua presunta supremazia. E qui sta la violenza, non nel percuotere, ma nel volere costantemente prevalere sugli altri indipendentemente dal modo o dalla tattica. Questo, attenzione, non risparmia nemmeno il campo della lettura ed esposizione della Parola di Dio.

Piuttosto, la situazione morale e spirituale del tempo di Gesù, ma purtroppo anche dopo, fino ai nostri giorni, è quella descritta in Isaia 29.10,11: “(…) il Signore ha versato su di voi uno spirito di torpore, ha chiuso i vostri occhi, cioè i profeti, e ha velato i vostri capi, cioè i veggenti. Per voi ogni visione sarà come le parole di un libro sigillato: si dà a uno che sappia leggere dicendogli «Per favore, leggilo», ma quegli risponde: «Non posso, perché è sigillato». Oppure si dà il libro a chi non sa leggere dicendogli: «Per favore, leggilo», ma quegli risponde: «Non so leggere»”. Se ci pensiamo queste parole ci possono rammentare, quanto allo “spirito di torpore” versato, a quando “Il Signore indurì il cuore del faraone” nel libro dell’Esodo: lo fece solo quando quell’uomo dimostrò di non tenere in alcun conto i miracoli prodotti da Mosè per convincerlo a lasciare andare il popolo per servirLo; il faraone oppose alla parola di Dio i propri interessi, resistendo coscientemente alla proposta che gli veniva rivolta. Ecco perché ad ogni uomo è dato un tempo, una vita a termine.

“Le hai rivelate ai piccoli”: agli uni nasconde, agli altri rivela. Sono “gli eletti” di cui parla Paolo in Romani 11. 7-10: “Israele non ha ottenuto quello che cercava; lo hanno ottenuto invece gli eletti. Gli altri invece sono stati resi ostinati, come sta scritto: «Dio ha dato loro uno spirito di torpore, occhi per non vedere e orecchi per non sentire» fino al giorno d’oggi. E Davide dice: «Diventi la loro mensa un laccio, un tranello, un inciampo e un giusto castigo! Siano accecati i loro occhi in modo che non vedano e fa’ loro curvare la schiena per sempre!»”.

Il “queste cose” di cui parla Gesù è allora tutto quanto serve per la comprensione finale, la sola necessaria vista nel sacrificio della croce, della Sua morte e resurrezione perché “La parola della croce è stoltezza per quelli che si pèrdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio” (1 Corinti 1.18). Ancora: “Se il nostro Vangelo rimane velato, lo è in coloro che si pèrdono: in loro, increduli, il dio di questo mondo ha accecato la mente, perché non vedano lo splendore del glorioso Vangelo di Cristo, che è immagine di Dio” (2 Corinti 4.3,4). Ecco come viene spiegata la differenza fra i “sapienti e dotti” e i “piccoli”. La sapienza terrena si basa comunque su ciò che è destinato a passare, quella rivelata riguarda l’eternità nella quale ogni credente è destinato ad entrare ed è solo quella che può spingerlo a proseguire un cammino che sarebbe altrimenti arido, inconsistente, inutile.

Nella seconda parte dell’inno Gesù dà una definizione di sé che più chiara non potrebbe essere, identificandosi totalmente nel Padre e ribadendo di essere l’Unico in grado di rivelarlo stante la loro unione e identità l’Uno nell’Altro, precisando che “Tutto mi è stato dato dal Padre mio”, come ribadirà agli undici prima di dar loro il mandato della predicazione una volta risorto: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra” (Matteo 28.18). Non potrebbe essere diversamente: “Egli la manifestò in Cristo – cioè la Sua potenza verso di noi – quando lo risuscitò dai morti e lo fece sedere alla sua destra nei cieli, al di sopra di ogni Principato e Potenza, al di sopra di ogni Forza e Dominazione e di ogni nome che viene nominato non solo nel tempo presente, ma anche in quello futuro. Tutto infatti egli ha messo sotto i suoi piedi e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose. Essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose” (Efesi 1.21-23). Ancora Filippesi 2.9,10: “Per questo – la sua obbedienza fino alla morte di croce – Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami «Gesù è Signore! A gloria di Dio Padre”.

Notiamo “ogni ginocchio”, cioè tutti, “sapienti e intelligenti” compresi che dovranno farlo non certo in salvezza, ma caso mai emuli di quei demòni che si prostravano davanti a Gesù riconoscendolo come Figlio di Dio, ma da Lui prontamente zittiti.

Il nostro episodio si conclude con una spiegazione ai discepoli “in disparte”, a confermare una rivelazione personale: c’è l’annuncio di una beatitudine per quanto vedevano e ascoltavano alla luce del fatto che “molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono”: sono le stesse parole che disse quando i discepoli gli chiesero perché parlasse attraverso le parabole: “perché guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono”. Anche lì vi erano quelli che non ritenevano di avere alcun bisogno di Lui, bastavano a loro stessi. Invece Gesù, ai discepoli e quindi a ognuno di noi, ricorda un motivo di gioia e lode a Dio Padre: “molti profeti e re” hanno vissuto in una dispensazione diversa, non illuminata come la nostra, in prospettiva di tutti coloro che, invece, le avrebbero vedute. E (anche) qui sta la responsabilità che ciascuno di noi porta. Amen.

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