10.04 – LA PRIMA MOLTIPLICAZIONE DEI PANI E DEI PESCI 1/2 (Marco 6.35-44)

10.4 – La prima moltiplicazione dei pani e dei pesci I (Marco 6.35-44)

 

35Essendosi ormai fatto tardi, gli si avvicinarono i suoi discepoli dicendo: «Il luogo è deserto ed è ormai tardi; 36congedali, in modo che, andando per le campagne e i villaggi dei dintorni, possano comprarsi da mangiare». 37Ma egli rispose loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Gli dissero: «Dobbiamo andare a comprare duecento denari di pane e dare loro da mangiare?». 38Ma egli disse loro: «Quanti pani avete? Andate a vedere». Si informarono e dissero: «Cinque, e due pesci». 39E ordinò loro di farli sedere tutti, a gruppi, sull’erba verde. 40E sedettero, a gruppi di cento e di cinquanta. 41Prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li dava ai suoi discepoli perché li distribuissero a loro; e divise i due pesci fra tutti. 42Tutti mangiarono a sazietà, 43e dei pezzi di pane portarono via dodici ceste piene e quanto restava dei pesci. 44Quelli che avevano mangiato i pani erano cinquemila uomini”.

 

Si tratta di un episodio in cui abbiamo ben quattro versioni che, armonizzate tra loro, ci offrono una visione d’insieme molto utile e ricca di applicazioni spirituali. Ciò che avvenne prima di quel “Essendosi ormai fatto tardi”, che Marco usa per significare che “il giorno cominciava a declinare”(Luca 9.12), ci è noto: Gesù, ritiratosi coi dodici su una collina nei pressi di Betsaida, era stato raggiunto dalla folla ed aveva guarito molti malati che gli avevano portato, oltre ad “insegnare loro molte cose”senza fermarsi nel senso che non sentì il tempo che stanca e ci rende soggetti ad orari che rispettiamo quasi senza rendercene conto: la vita ha un ritmo che comporta l’azione, l’attenzione, il mangiare e il dormire, esigenze e ritmi che gli apostoli, al contrario del loro Maestro, avevano ben presente: il primo non ne era vincolato, i secondi sì. Certo anche in questa circostanza seguivano con l’interesse di sempre i Suoi discorsi, ma da persone terrene si rendevano conto che, guardando il sole che iniziava a declinare, quella gente, se non fosse stata licenziata, avrebbe dovuto fare i conti con la realtà della situazione: erano più di cinquemila persone, lontani da casa e da un centro abitato, senza cibo ed infatti Luca riporta le parole “Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne– in realtà agroùs, poderi –  dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta”(9.12). Fu il loro un intervento inopportuno perché, così facendo, i dodici pensarono di capire meglio del loro Maestro la situazione e di dovergli suggerire qualcosa cui non aveva pensato.

A proposito di “sera”, va ricordato che per gli ebrei ve n’erano due: la prima iniziava alle tre del pomeriggio, la seconda al tramonto o poco dopo. Luca scrive del “giorno(che) cominciava a declinare”(9.12), ma non basta a farci stabilire che si trattasse della seconda, come vedremo.

Aiutandoci con le versioni che i quattro Evangelisti ci hanno lasciato, il dialogo tra Gesù e i suoi avvenne in questo modo: dopo l’invito a congedare la folla, vi fu la risposta che non capirono: “Non occorre che vadano, voi stessi date loro da mangiare”(Matteo 14.16) e poi, rivolto a Filippo per metterlo alla prova, “«Dove andremo a comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Gli rispose Filippo: «Duecento denari – che Giuda aveva nella borsa? – di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo». Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci, ma cos’è questo per tanta gente?»(Giovanni 6.5-9). Sappiamo che a questo punto Gesù ordinò ai dodici di far sedere tutti, a gruppi di cento e di cinquanta, sull’erba verde, dettaglio che conferma la Pasqua imminente, che cadeva in primavera, altrimenti l’erba non vi sarebbe stata, oppure sarebbe stata di colore marroncino, arsa dal sole.

Ora, sostando su quanto fin qui accaduto, una prima nota va fatta sul luogo, cioè il territorio di Betsaida, che viene spontaneo identificare nella patria di Andrea, Pietro e Filippo, ma che non trova tutti i commentatori concordi e stabilire se vi fossero, come per Betlehem che aveva quella di Giuda e quella di Efrata, due Betsaida con lo stesso nome. Stabilirlo con certezza è arduo e le teorie sono contrastanti. Il fatto che Giovanni scriva “Filippo era di Betsaida di Galilea”(12.21) sembra essere una precisazione necessaria per distinguerla da un’altra. Da un lato la Betsaida dei tre apostoli tutto poteva essere tranne che un luogo deserto essendo che, rinomata per la pesca e meta di grandi carovane che a lei confluivano proprio per il mercato del pesce che si svolgeva sulla spiaggia, difficilmente avrebbe potuto avere spazi isolati. Il biblista John Lee Thompson sostiene che la città era posta alla foce del Giordano ed era però divisa in due parti, una appartenente alla Galilea, l’altra, restaurata da Erode Filippo cui diede il nome di Julia in onore della figlia di Augusto, nella Gaulonite e fu probabilmente qui che Gesù e i dodici trovarono modo di sostare.

A parte questa indicazione, incerta stante i dubbi anche fra gli archeologi, abbiamo dall’episodio una grande quantità di dati che cercheremo di mettere in ordine a partire dai numeri, che iniziano ad emergere subito dopo la frase“Voi stessi date loro da mangiare”, che se Gesù non fosse stato “La parola fatta carne”e quindi lo stesso Dio che sfamò il popolo d’Israele con la manna nel deserto, sarebbe essere stata pronunciata da una persona fuori dalla realtà, stante la presenza di cinque pani e due pesci, cifre sinonimo di penalizzazione e ambivalenza.

CINQUE

,            È il numero di mesi in cui Elisabetta, futura madre di Giovani Battista, si tenne nascosta (Luca 1.23). Pensiamo poi alle vergini stolte e alle savie dell’omonima parabola, per cui è un riferimento anche alla selezione  e scelte dell’uomo. L’apostolo Paolo, in 1 Corinti 4.18, scrive “…in assemblea preferisco dire cinque parole con la mia intelligenza per istruire anche gli altri, piuttosto che diecimila parole con il dono delle lingue”, per cui il riferimento è anche all’essenzialità nel poco, a ciò che basta. Ancora, il cinque si riferisce a ciò che è minimo e a prima vista trascurabile:“Cinque passeri non si vendono forse per due soldi? Eppure nemmeno uno di essi è dimenticato davanti a Dio”(Luca 12.6).

Se da un lato abbiamo questi riferimenti, il cinque indica qualcosa che può venir moltiplicato, quanto a forza, dalla potenza di Dio: pensiamo a Levitico 26 quando il Signore dice “Se seguirete le mie leggi, se osserverete i miei comandi e li metterete in pratica,(…) io stabilirò la pace sulla terra, e quando vi coricherete, nulla vi turberà– pensiamo alle preoccupazioni e ai pensieri che si accentuano soprattutto di notte –. Farò sparire dalla terra le bestie nocive– che oggi sterminiamo con sostanze inquinanti e di cui tutta l’umanità pagherà il prezzo a suo tempo – e la spada non passerà sui vostri territori. Voi inseguirete i vostri nemici ed essi cadranno dinnanzi a voi colpiti di spada. Cinque di voi ne inseguiranno cento, cento di voi ne inseguiranno diecimila”(3-8). Abbiamo anche i talenti dati a quel servo che ne fruttò altrettanti in Matteo 25. Il “cinque”, allora, rappresenta ciò che possiede l’uomo, ciò che esiste e resterebbe privo di significato senza un intervento diretto di Dio, o qualcosa fatto in suo Nome o per Lui.

 

DUE

Nonostante sia già stato sviluppato più volte, possiamo riferirlo anche all’esercizio del libero arbitrio: pensiamo alla bigamia che Lamek, figlio di Caino, esercitò per primo. Se guardiamo agli animali che entrarono nell’arca e non solo, è un numero che ci parla della sopravvivenza di una specie vista nella presenza del maschio e della femmina. Possiamo connetterlo al numero di volte in cui Mosè percosse la roccia in Kades, azione che gli costò il mancato ingresso nella terra promessa. Ancora il due come numero penalizzante lo vediamo in Geremia 2.13 a proposito dei peccati commessi dal popolo: “Ha abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si è scavato delle cisterne, cisterne piene di crepe, che non trattengono l’acqua”.

Ora Gesù, dicendo ai dodici “Date voi loro da mangiare”, li autorizzava a farsi da tramite, veicoli, collaboratori della potenza dell’Iddio Vivente e Vero per poter sfamare la folla presente, figura di chiunque ascolta la Parola di Dio: sta a lui riconoscere il miracolo della moltiplicazione del messaggio e dei concetti, oppure limitarsi a prendere atto che esistono, senza poi ricordarsene. Mi spiego: tra le persone che verranno divise a gruppi di cinquanta e di cento, non tutti erano pronti a credere o erano lì perché desiderosi di diventare dei discepoli. C’erano persone curiose, ma anche avversari, eppure tutti mangeranno, cioè in un modo o in un altro verranno fatti partecipi della persona di Gesù. La maggioranza non capirà il senso di quel miracolo talché Luca ci dice che, una volta sfamata la folla, “Sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo”(9.15). La responsabilità quindi dell’essere umano, tanto allora quanto oggi, risiede nel decidere cosa farsene di quel “pane”che i discepoli gli danno. Portare la Parola di Dio al prossimo, oggi, significa renderlo partecipe di eventi di cui abbiamo testimonianza certa e che vediamo per fede non perché abbiamo bisogno di credere in qualcosa, ma in quanto portatori di un miracolo assoluto e totale visto nella nostra salvezza, nell’essere stati “strappati”da quel mondo di cui altrimenti condivideremmo la fine senza alcuna speranza.

Per concludere questa prima parte restano da esaminare i numeri “cinquanta” e “cento”, cioè i componenti dei gruppi in cui fu suddivisa la gente sul posto. La suddivisione in quel modo avvenne per ordine pratico, per evitare il caos che una distribuzione non ordinata avrebbe comportato: code, liti, prevaricazioni dei più forti verso i più deboli, forse accaparramento incontrollato. E sappiamo che “il nostro non è un Dio di confusione, ma di ordine”. Se Matteo scrive che Gesù ordinò alla folla di “sedersi sull’erba verde”, Marco cita i numeri cinquanta e cento, Luca riporta “di cinquanta circa”e in questo caso dovettero formarsi cento nuclei di persone, dieci circa per ogni apostolo che distribuiva i pani e i pesci anche se possiamo pensare che a loro si aggiunsero altri discepoli arrivati lì in con la folla. Possiamo comunque immaginare quanto tempo ci sia voluto non solo per organizzare la gente, ma anche per distribuire i pani e i pesci.

 

CENTO

La prima volta che incontriamo questo numero nella Scrittura è riferito agli anni che ebbe Abrahamo quando generò Isacco, il figlio promesso, a differenza degli ottantasei, cifra insignificante che non verrà più utilizzata, di quando ebbe Ismaele da Agar sua schiava. “Cento”esprime la sufficienza nel senso di quanto basta agli occhi di Dio, mentre per l’uomo è un multiplo che indica soddisfazione, il plenum. Possiamo citare i cento cubiti del recinto della Dimora, i cento uomini inseguiti da cinque del passo di Levitico 26 citato poco sopra, i cento prepuzi dei Filistei uccisi che Davide dovette portare a Saulle. Ricordiamo anche l’enormità del debito del servitore spietato, diecimila talenti, cioè cento per cento. Possiamo ricordare anche il primo risultato della morte del chicco di grano (Matteo 13.8), la pecora perduta che completa il gregge delle novantanove già presenti (Luca 15.1-7).

 

CINQUANTA

È i numero dell’ipotesi e della libertà: ricorda la preghiera di Abrahamo in favore di Lot suo nipote, la Pentecoste avvenuta cinquanta giorni dopo la morte di Gesù e il Giubileo, che si celebrava ogni cinquant’anni che si caratterizzava attraverso la liberazione di tutti coloro che erano soggetti a un vincolo, debitori e schiavi.

Tutti questi elementi, espressi attraverso i numeri, sono quelli sotto certi aspetti “nascosti” in un miracolo che apparirà completamente diverso dagli altri e che meraviglierà tanto la gente quanto gli apostoli e i discepoli. E tutto partì da pani d’orzo e pesci che aveva “un ragazzo” che li aveva portati con sé per mangiarli, o per venderli.

La domanda di Gesù fu “Quanti pani avete? Andate a vedere”: è un invito a verificare le loro possibilità, mettere da parte il dato e attendere ciò che Dio avrebbe fatto di ciò che avrebbero avuto, che era apparentemente un nulla, come disse Andrea: “…ma cos’è questo per sfamare tanta gente?”(Giovanni 6.9). Se allora Eliseo, con la vedova di Sarepta, confermò di essere un profeta del Dio Vivente e Vero, Nostro Signore intervenne sulle molecole dei pani e dei pesci come Dio Creatore facendo in modo non solo che non finissero, ma che si avanzassero dodici ceste.

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4.03 – APOSTOLI 3 (Luca 6.12-16)

4.3 – Apostoli III (Luca 6.12-16)

12In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. 13Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli: 14Simone, al quale diede anche il nome di Pietro; Andrea, suo fratello; Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, 15Matteo, Tommaso; Giacomo, figlio di Alfeo; Simone, detto Zelota; 16Giuda, figlio di Giacomo; e Giuda Iscariota, che divenne il traditore.”

GIACOMO E GIOVANNI

            Tratteremo questi due apostoli assieme per i dati a disposizione che spesso li accomunano, oltre che per parentela intercorrente fra loro. Sappiamo che erano figli di Zebedeo che sulle rive del lago di Galilea aveva una flotta di barche e dei dipendenti, per cui erano benestanti, ma a differenza di Pietro e Andrea di cui è ricordato solo il padre, Giona, per Giacomo e Giovanni abbiamo anche il nome della madre, Salome, che si distinguerà per far parte del gruppo di donne che condivideva, coi discepoli, i viaggi con Gesù nel suo ministero. Faceva parte del suo seguito, ma soprattutto fu presente alla crocifissione come ci dice Matteo 27.55,56 quando scrive “Vi erano là anche molte donne, che osservavano da lontano; esse avevano seguito Gesù dalla Galilea per servirlo. 56Tra queste c’erano Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e di Giuseppe, e la madre dei figli di Zebedeo”. Salome non solo seguirà Gesù fino alla morte sulla croce, ma voleva occuparsi anche del suo corpo per imbalsamarlo. Sarà una componente della Chiesa di Gerusalemme e probabilmente faceva parte di quelle 120 persone sulle quali scenderà lo Spirito Santo.

Marco ci dice che a questi due apostoli Gesù “diede il nome di Boanèrges, cioè figli del tuono” a significare secondo molti il loro carattere umano energico e impetuoso che si rivelò in alcuni episodi nei Vangeli: ad esempio Giovanni era tra quelli che volevano impedire a un innominato di cacciare i demoni nel nome di Gesù (Marco 9.38) e col fratello rivolsero al loro Maestro una richiesta che denotava poca riflessione e una forte ambizione umana, probabilmente sobillati dalla loro madre col la quale avevano parlato. Scrive sempre Marco: “Gli si avvicinarono Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedeo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra». Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato»” (10.35-40). Matteo, nel passo parallelo, scrive che la richiesta fu portata avanti dalla loro madre Salome (20.20-24), ma il fatto che la risposta di Gesù anche in quella versione sia al plurale, “Voi non sapete quello che chiedete”, lascia supporre che i tre fossero concordi nel presentare quella richiesta. Questo episodio è scritto che provocò l’indignazione degli altri dieci apostoli: “All’udire questo, gli altri dieci furono indignati contro i due fratelli” (v. 24).

Altro passo particolare che denota il loro carattere lo troviamo in Luca 9.51,55: Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto, egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme e mandò messaggeri davanti a sé. Questi si incamminarono ed entrarono in un villaggio di Samaritani per preparargli l’ingresso. Ma essi non vollero riceverlo, perché era chiaramente in cammino verso Gerusalemme. Quando videro ciò, i discepoli Giacomo e Giovanni dissero: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Si voltò e li rimproverò. E si misero in cammino verso un altro villaggio”.

A parte questi dati mi risulta però difficile pensare che Nostro Signore li chiamò “figli del tuono” unicamente per il loro carattere, così come non credo abbia chiamato Simone “Cefa” perché era il più robusto di tutti; piuttosto, Lui che guardava non all’uomo ma al suo cuore e a quello che sarebbe diventato con l’opera della Grazia e dello Spirito Santo, pensava al “tuono” come quella voce e presenza di Dio che la maggioranza non comprende e che va rivelata. Dopo il discorso di Gesù sulla sua imminente morte e resurrezione, quando disse “Padre, glorifica il tuo nome”, leggiamo che “Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato»” (Giovanni 12.28,29). Un ultimo passo, che poi cronologicamente nella storia umana è il primo a mettere in connessione il tuono con la presenza di Dio, lo troviamo in Esodo 19.16: “Il terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore”.

Possiamo fare allora queste considerazioni: il tuono nella Scrittura è un suono sostitutivo di una realtà percepibile e pochi, ma incomprensibile a molti ed infatti, nel passo di Giovanni, fu quello sentito dalla folla e fu solo l’evangelista, e probabilmente quanti dei discepoli erano con lui, ad ascoltare le parole “L’ho glorificato e lo glorificherò ancora”. Ciò che non avvenne al battesimo di Gesù, quando la voce “Questo è il mio diletto figlio in cui mi sono compiaciuto” fu udita da tutti. Giacomo e Giovanni, allora, furono chiamati “figli del tuono” anche perché avrebbero rivelato ciò che Dio voleva fosse conosciuto dagli uomini senza possibilità di fraintendimento. Perché fossero formati, furono anch’essi testimoni di eventi che gli altri dodici non videro a parte Pietro: pensiamo alla trasfigurazione, alla resurrezione della figlia di Giairo, capo della sinagoga di Capernaum. A loro Gesù concesse di essergli vicini negli ultimi momenti nell’orto del Getsemani: “Allora Gesù andò con loro in un podere, chiamato Getsèmani, e disse ai discepoli: «Sedetevi qui, mentre io vado là a pregare». E, presi con sé Pietro e i due figli di Zebedeo, cominciò a provare tristezza e angoscia. E disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte; restate qui e vegliate con me». Andò un poco più avanti, cadde faccia a terra e pregava, dicendo: «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu!». Poi venne dai discepoli e li trovò addormentati. E disse a Pietro: «Così, non siete stati capaci di vegliare con me una sola ora? Vegliate e pregate, per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole». Si allontanò una seconda volta e pregò dicendo: «Padre mio, se questo calice non può passare via senza che io lo beva, si compia la tua volontà». Poi venne e li trovò di nuovo addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti. Li lasciò, si allontanò di nuovo e pregò per la terza volta, ripetendo le stesse parole. Poi si avvicinò ai discepoli e disse loro: «Dormite pure e riposatevi! Ecco, l’ora è vicina e il Figlio dell’uomo viene consegnato in mano ai peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino» (Matteo 26.36-46).

Giacomo e Giovanni realizzarono il loro compito di “figli del tuono” come testimoni ed effettivamente bevvero quel “calice” ed ebbero quel “battesimo” di cui parlò loro Gesù dopo la richiesta non corretta che gli rivolsero; ciò avvenne con la testimonianza che dettero entrambi il primo come componente di spicco nella comunità di Gerusalemme divenendo martire della Chiesa, fatto uccidere da Erode Agrippa I: “In quel tempo il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa. Fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni. Vedendo che ciò era gradito ai Giudei, vece arrestare anche Pietro” (Atti 12.1,2). Di Giovanni invece è noto che, pur non passando attraverso il martirio, subì tutte le forti persecuzioni di cui fu oggetta la Chiesa tanto per mano giudaica quanto sotto l’impero di Domiziano. Autore del quarto Vangelo, il più spontaneamente dottrinale, quello che può essere definito “il Vangelo dell’amore”, è autore di tre lettere e dell’Apocalisse, l’unico libro lasciato ai cristiani per riconoscere i tempi e gli eventi che avrebbero accompagnato la Chiesa nella sua storia dall’ascensione al cielo di Gesù al suo ritorno.

Giacomo, secondo una terminologia che non mi trova consenziente, è detto “il maggiore” per distinguerlo da un altro omonimo apostolo, che è già indicato negli elenchi come “Giacomo di Alfeo”. C’è poi anche un altro Giacomo, detto nel libro degli atti il “fratello del Signore”, che ebbe un ruolo importante nella Chiesa di Gerusalemme.

La singolarità del rapporto che Giovanni aveva col suo Maestro è descritta nel suo Vangelo dopo l’annuncio dell’imminente tradimento da parte di uno di loro: “I discepoli si guardavano l’un l’altro, non sapendo bene di chi parlasse. Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola a fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece cenno di informarsi chi fosse quello di cui parlava” (Giovanni 13.22-24). Giovanni accompagnerà Gesù fino alla crocifissione, che in quella occasione gli affidò sua madre: “Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo «Ecco tua madre». E da quell’ora il discepolo lo accolse con sé” (Giovanni 19.26,27).

È da notare che Gesù affida la propria madre a Giovanni quando Maria aveva altri figli e figlie che avrebbero potuto occuparsi di lei, ma non vi sarebbe stata la stessa parentela spirituale e quel discepolo sarebbe stato il più idoneo a sostenerla.

 

FILIPPO

Altro apostolo che conosciamo già in queste meditazioni cronologiche. Il suo carattere ed il retroterra culturale che lo caratterizzavano emergono proprio dai passi che abbiamo già affrontato: ricordiamo che mentre Giovanni e Andrea si recarono spontaneamente da Gesù, con Filippo che conoscevano fu il contrario: “Il giorno dopo Gesù volle partire per la Galilea, trovò Filippo e gli disse «Seguimi». Filippo era di Betsaida, la città di Andrea e di Pietro” (Giovanni 1.43,44). Il “Trovare”, che è tradotto anche con “incontrare”, se può significare imbattersi in qualcuno, implica però una ricerca, un’attesa. Certo Nostro Signore non s’imbatté per caso in Filippo perché sapeva che lo avrebbe incontrato e chiamato usando lo stesso invito che ebbe con Levi Matteo, “Seguimi”. E Filippo è scritto che subito dopo “trovò” Natanaele,: come Giovanni, Andrea e i loro fratelli, era un discepolo di Giovanni Battista che non solo non seppe trattenere la gioia del suo incontro col Maestro, ma diede prova di essere persona avveduta ed espansiva andando a cercare Natanaele (Bartolomeo) per dirgli “Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i profeti: Gesù, figlio di Giuseppe, da Nazareth” (Giovanni 1.45). Persona discreta, scelse di non perdere tempo a convincerlo del fatto che Gesù fosse il Messia, ma preferì che fosse Natanaele stesso a sperimentarlo di persona con le parole “Vieni e vedi”.

Filippo era anche una persona aperta e pronta al servizio, come già abbiamo accennato mettendolo in relazione con Andrea nell’episodio dei greci che volevano vedere Gesù e, nell’occasione del miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci, fu messo alla prova dal Maestro con la frase “Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?” (Giovanni 6.5). Non ottenne altro che una risposta tecnica, cioè che duecento denari di pane non sarebbero bastati.

La figura di quest’apostolo, come accaduto con Pietro, è utile perché testimonia ancora una volta di quanto la natura umana sia sempre in opposizione alle esigenze, alle realtà di Dio e non possa comprenderle senza l’opera dello Spirito Santo: tornando ancora all’ultima cena, leggiamo ciò che avvenne dopo che Giuda uscì dalla sala.

Simon Pietro gli disse: «Signore, dove vai?». Gli rispose Gesù: «Dove io vado, tu per ora non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi». Pietro disse: «Signore, perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te!». Rispose Gesù: «Darai la tua vita per me? In verità, in verità io ti dico: non canterà il gallo, prima che tu non m’abbia rinnegato tre volte. Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me. Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: «Vado a prepararvi un posto»? Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, verrò di nuovo e vi prenderò con me, perché dove sono io siate anche voi. E del luogo dove io vado, conoscete la via». Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?». Gli disse Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me. Se avete conosciuto me, conoscerete anche il Padre mio: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto». Gli disse Filippo: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gli rispose Gesù: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: «Mostraci il Padre»? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse.” (Giovanni 13.36-38; 14.1-11).

Abbiamo qui un quadro desolante: Pietro si dichiara pronto a dare la vita per il suo Maestro ma, terrorizzato, lo avrebbe rinnegato tre volte. Tommaso, dopo tre anni di vita comune con lui, non aveva ancora capito che Gesù se ne sarebbe tornato al Padre soprattutto dopo il suo discorso sulla casa dalle molte stanze e Filippo, completamente fuori contesto, gli dice che a loro sarebbe bastato che gli fosse mostrato il Padre dimenticando le parole “Io e il Padre siamo uno”. Questo episodio è la prova di quanto qualsiasi uomo, in quanto tale, sia naturalmente distante da Dio nel momento in cui segue i propri pensieri, dà retta ai suoi impulsi, cerca di capire con il proprio metro e intelligenza ciò che invece dev’essere lo spirito a comunicare. Vero è che lo Spirito Santo non era ancora sceso, ma ricordiamo che già da allora erano possibili rivelazioni da parte del Padre, come quando Pietro riconobbe in Gesù “Il Cristo, il figlio dell’Iddio Vivente”.

Concludendo, anche la storia di Giacomo, Giovanni, Filippo e come vedremo di tutti gli undici, testimonia che per ogni essere umano che accetta di far entrare Gesù Cristo nella propria vita non può che esistere un prima e un dopo, una progressione nella conoscenza, nella grazia e nell’amore ricambiato di Dio. E lo stesso Pietro, nella sua prima lettera, cita Isaia scrivendo “Ecco, io pongo in Sion una pietra angolare, eletta e preziosa. E chi crederà in lei non resterà confuso”.

 

GIACOMO DI ALFEO

            Sono davvero pochi i dati su questo nono apostolo salvo che, come abbiamo visto con Matteo, fosse suo fratello. Di lui si sa solo che faceva parte della Chiesa di Gerusalemme e che era presente alla discesa dello Spirito Santo sui suoi componenti.

 

SIMONE LO ZELOTA

Così chiamato da Luca, ma da Matteo e Marco “Simone il cananita” che, contrariamente a quando si possa pensare, non indica una provenienza geografica, ma ha lo stesso significato perché l’ebraico “qana” si riferisce alla corrente degli zeloti fondata da Giuda il galileo di cui parlò Gamaliele in Atti 5-37: “Dopo di lui – Teuda – al tempo del censimento sorse Giuda il Galileo, che trascinò dietro a sé molta gente; anch’egli perì e tutti coloro che lo seguirono furono dispersi”. Come per Giacomo di Alfeo, null’altro sappiamo di questo apostolo se non che era stato un appartenente di quel gruppo, che oggi i media definirebbero “terrorista”. Gli zeloti infatti erano nati da una rivolta contro il censimento di Quirino ed erano divenuti una setta che faceva incursioni e uccideva sia i cittadini dell’impero romano che gli ebrei sospettati di collaborare con loro. I romani li chiamavano “sicari”, cioè “pugnalatori” per la loro tecnica più diffusa descritta da Giuseppe Flavio nella sua “Guerra giudaica”: “in Gerusalemme nacque una nuova forma di banditismo, quella dei cosiddetti sicari, che commettevano assassinii in pieno giorno nel mezzo della città. Era specialmente in occasione delle feste che essi si mescolavano alla folla, nascondevano sotto le vesti dei piccoli pugnali e con questo colpivano i loro avversari. Poi, quando questi cadevano, gli assassini si univano a coloro che esprimevano il loro orrore e recitavano così bene da essere creduti e quindi non riconoscibili”. Se Simone lo zelota era uno di loro, resta un testimone di quanto profondo sia stato il cambiamento avvenuto in lui, che accettò di condividere la vita dei dodici accanto a un pubblicano come Matteo e a vivere le adunanze di chiesa non solo con ebrei.

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