13.10 – LA PARABOLA DEL RICCO STOLTO (LUCA 12.13-21)

13.10 – La parabola del ricco stolto (Luca 12.13-21)         

 

13Uno della folla gli disse: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». 14Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». 15E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede». 16Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. 17Egli ragionava tra sé: «Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? 18Farò così – disse -: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. 19Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!». 20Ma Dio gli disse: «Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?». 21Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».

 

            Prima di affrontare questa parabola va dato un breve cenno introduttivo, trattandosi di un racconto inserito solo da Luca. I versi da 1 a 10, che riportano il discorso di Gesù sul “lievito dei farisei”, sul temere non “coloro che possono uccidere il corpo, ma colui che, dopo aver ucciso, ha il potere di gettare nella Geenna”, la “bestemmia contro lo Spirito Santo”e la Sua assistenza a chi crede, sono già stati affrontati, ma senza sottolineare che furono pronunciati di fronte a una folla di “migliaia ai persone, al punto che si calpestavano a vicenda”(Luca 12.1).

Ebbene, fra tutta questa gente, ammettendo che il fatto sia avvenuto proprio in quel contesto, stava un uomo che non prestava la minima attenzione a quanto veniva detto, ma era angustiato perché aveva un fratello che non ne voleva sapere di dividere con lui un’eredità. Evidentemente, arrovellandosi su come risolvere il problema e considerata l’influenza che Gesù aveva sul popolo, pensò che nessuno meglio di Lui avrebbe potuto convincere quel congiunto ostinato, attaccato a quanto stava per ricevere al punto da rifiutarsi di dividere ciò che legalmente apparteneva ad entrambi. Questa è la lettura più immediata della situazione che stava a monte della richiesta “Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità”: potrebbe essere stato che il “fratello”in questione fosse un discepolo, che costui fosse un primogenito cui spettava una parte doppia del lascito oppure semplicemente un avido, ma non rileva perché l’importante è che per la prima e unica volta nei Vangeli abbiamo una richiesta a Gesù di intervenire in una questione tipicamente terrena che, nella fattispecie, veniva spesso risolta da un consiglio di famiglia o dal “mediatore”, più propriamente “addetto alla divisione”che solitamente apparteneva alla cerchia di amici comuni più stretti e al quale veniva conferito l’incarico.

Da qui in poi Gesù si rivolge ai presenti – “disse loro”– e all’ignoto che si era rivolto a Lui esponendo una parabola che ha per tema l’avidità e lo sguardo orizzontale, l’ascolto esclusivo di se stessi e, per meglio dire andando alle parole del discorso della montagna, il “servire a Mammona”dove la “servitù” si concreta con l’appartenenza e la dipendenza. Non era infatti contemplata la figura del dipendente prezzolato, che presta il servizio pattuito e se ne va, ma quella del servo che apparteneva al padrone cui spettava il compito di nutrirlo e dargli una dimora. Appartenere e dipendere, quindi; e il rapporto che il servo intratteneva col suo padrone influenzava la sua stessa vita.

 

Abbiamo dunque letto “E disse loro”, non direttamente a chi gli aveva chiesto un intervento su questioni finanziarie, ma a tutti. Il testo, fra l’altro, non specifica se questa persona avesse torto o ragione in quel dividere.

Fate attenzione e guardatevi da ogni cupidigia”, così tradotto da “pleonexìa” che sta ad indicare il desiderio di avere di più di quanto abbiamo diritto “perché – come abbiamo letto –anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede”(v.15): ricordiamo come premessa Proverbi 15.16, “È meglio aver poco con il timore di Dio che un grande tesoro con inquietudine”e 16.16 “Possedere la sapienza è molto meglio dell’oro, acquisire l’intelligenza è preferibile all’argento”che estendono il significato delle parole di Gesù in modo tale che “ciò che egli possiede”sono i beni in senso stretto, materiale: se infatti la “vita” vera dipendesse da ciò che una persona ha, il regno di Dio apparterrebbe ai “ricchi” e non ai “poveri” secondo la classificazione spirituale che conosciamo.

 

Venendo alla parabola, mi sono chiesto quale sia il soggetto, cioè se l’uomo ricco o la brama di possedere ed effettivamente la questione si pone poiché abbiamo un agente, appunto il ricco, totalmente succube della propria condizione di sottomesso al proprio spirito avido. Scrivendo agli Efesi l’apostolo Paolo dirà “Sappiatelo bene: nessun fornicatore, o impuro, o avaro, cioè nessun idolatra, ha in eredità il regno di Cristo e di Dio”(5.5). Poi, in Colossesi 3.5, ben sapendo che il credente è un essere umano e in quanto tale soggetto ad impulsi negativi che si porta appresso, scrive “Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è l’idolatria: a motivo di queste cose l’ira di Dio viene su coloro che gli disobbediscono”.“Non abbiamo portato nulla nel mondo e nulla possiamo portare via”(1 Timoteo 6.7) quanto mai letteralmente consono al nostro episodio, ed Ebrei 13.5,6: “La vostra condotta sia senza avarizia: accontentatevi di quello che avete, perché Dio stesso ha detto: «Non ti lascerò e non ti abbandonerò». Così possiamo dire con fiducia: Il Signore è il mio aiuto, non avrò paura. Che cosa può farmi l’uomo?”.

Tenendo a mente questi passi, possiamo esaminare il fatto narrato da Nostro Signore: un uomo già ricco si ritrova di fronte ad “un raccolto abbondante”e questo dà luogo a tutta una serie di ragionamenti che escludono nella maniera più assoluta tanto Dio quanto il suo prossimo. Abbiamo letto “ragionava fra sé”e questa credo sia la chiave di lettura. Mi viene in mente Maria, madre di Gesù, che “da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”, intenta quindi in un percorso di ricerca spirituale, onorata della visita dell’angelo Gabriele.

Nella parabola del ricco stolto, invece, ogni discorso è proiettato ad un futuro che gli apparteneva solo teoricamente, non sapendo quando sarebbe intervenuta la morte a scrivere la parola “fine” al suo percorso esistenziale. È da notare la posizione di quest’uomo: la sua campagna aveva “dato un raccolto abbondante”quindi le sue ricchezze non erano frutto di oppressione, estorsione o frode. Presumiamo fosse una persona onesta, diligente nel coltivare i propri campi e, per la dispensazione in cui viveva, sapeva che tutto questo poteva costituire una benedizione di Dio. Per noi, credo fosse un modo per metterlo alla prova perché, anziché ringraziare Colui che gli aveva consentito quei raccolti e provvedere agli altri come faceva Giobbe che in quello traeva la sua soddisfazione, fu vittima della propria sollecitudine. Possiamo dire che, tanto più crescevano i suoi raccolti, tanto più aumentava il suo desiderio di possesso.

Il nostro testo giustamente traduce “cupidigia”al posto di “avarizia”perché, mentre l’avaro non spende mai – c’è chi ha detto che l’avaro è il miglior custode dei beni degli eredi –, chi è affetto da cupidigia prova un desiderio intenso, una smodata avidità e bramosia, non provando altro che il piacere del possesso. Infatti, nel suo progetto, a un certo punto si apre uno spazio riservato al godimento di ciò che possiede chiamando in causa la propria anima, cioè tutta la sua persona: “Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divertiti”(v.19).

Sono importanti anche gli altri verbi: “Che farò?”, “Farò così”, “demolirò”, “costruirò”, “raccoglierò”, “dirò– ancora una volta –a me stesso”. Non meno importante è il possessivo “mio”, che il testo riporta per cinque volte, a sostegno di un egoismo che abbraccia tutti gli aspetti della sua persona. Quel ricco era diventato la perfetta dimora di se stesso nel senso che si era totalmente chiuso agli altri che, se li avesse aiutati, lo avrebbero certamente benedetto, come il già citato Giobbe che, in 29.12,13 disse “…soccorrevo il povero che chiedeva aiuto e l’orfano che ne era privo. La benedizione del disperato scendeva su di me e al cuore della vedova infondevo la gioia. Ero rivestito di giustizia come di un abito, come mantello e turbante era la mia equità”.

Mi sono chiesto se la “morale” di quest’uomo contemplasse la morte. Credo di sì, ma la considerava come un evento remoto o, meglio, sul quale sorvolare esattamente come un’altra “morale”, quella del “mangiamo e beviamo, perché domani moriremo”(1 Corinti 15.32) o del “Venite, io prenderò del vino e ci ubriacheremo di bevande inebrianti. Domani sarà come oggi, e molto più ancora”(Isaia 56.12). Occupàti nel cercare soddisfazione nelle cose di questa vita ignorandone il suo senso profondo, passano i giorni, i mesi, gli anni fino a quando non si è costretti ad ammettere che l’evento tanto esorcizzato, inutilmente quanto temuto (ed altrettanto ignorato), è giunto.

Va infine sottolineato non tanto che la morte e il giudizio saranno la fine di tutto, quanto il contrasto fra le parole del ricco e quelle che Dio gli rivolge: “Stolto”in opposizione al giudizio che quell’uomo aveva di se stesso, fiero del risultato raggiunto. “Questa notte”in contrasto ai “molti anni”che si prometteva e infine quella “vita”– meglio da tradurre con “anima”–  che riteneva sua proprietà, che invece gli sarebbe stata “richiesta”perché ogni vita ed ogni anima è sempre data in prestito.

In tutto questo c’è però un elemento che pochi notano e cioè il tempo verbale, “ti sarà richiesta”che, tradotto letteralmente, è “richiedono”: questo rende l’idea di quanto fosse imminente la morte del ricco (e la relativa sentenza), ma pone degli importanti interrogativi su chi fossero quelli che richiedevano quella “vita”, o “anima”. Credo che qui i parallelismi possano essere due, il primo dei quali è ancora una volta nel libro di Giobbe, quando Satana chiese che fosse tentato e gli fu posto come limite di non prendere la sua vita, cosa che nel caso del ricco non avvenne. Facciamo attenzione perché, nel caso del ricco di questa parabola, l’Avversario chiese a Dio ciò che era suo e gli fu concesso di prenderlo. Una seconda soluzione, che poi è parte integrante della prima, riguarda il giudizio finale, chiesto a gran voce come da Apocalisse 6.10, per quanto in un contesto diverso.

Non si può che ammettere come quel “richiedono”, col suo plurale, sia molto più drammatico perché sottintende il fatto che il “rendiconto” avvenga, come in effetti sarà, non solo davanti alla presenza di Dio: “Non sapete che i santi giudicheranno il mondo?”(1 Corinti 6.2).

Gesù termina la parabola con una domanda, “Quello che hai preparato, di chi sarà?”, in cui vediamo che ciò che resiste è il piano di Dio e non quello dell’uomo, perché “Sì, come un’ombra l’uomo che passa. Sì, come un soffio che si affanna, accumula e non sa chi raccolga”(Salmo 39.7). Ricordiamo anche le parole di Salomone “Ho preso in odio ogni lavoro che con fatica ho compiuto sotto il sole, perché dovrò lasciarlo al mio successore. E chi sa se questi sarà saggio o stolto? Eppure potrà disporre di tutto il mio lavoro, in cui ho speso fatiche e intelligenza sotto il sole. Anche questo è vanità”(Ecclesiaste 2.18,19).

A conferma poi che ai presenti non è stata raccontata una favola, abbiamo infine il monito “Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio”(v.21): ci sono allora due destini, o meglio solo due destinazioni possibili per gli uomini, guardare a se stessi, o arricchirsi “presso Dio”per vivere tutte le conseguenze delle direzioni prese.

E possiamo concludere queste riflessioni con 2 Corinti 4. 16,17: “Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore invece si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria: noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne”. E più avanti Gesù dirà “Dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore”.Amen.

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