12.23 – NON VEDER LA MORTE IN ETERNO (Giovanni 8.48-51)

12.23 – Non veder la morte in eterno (Giovanni 8.48-51)

           

 

48Gli risposero i Giudei: «Non abbiamo forse ragione di dire che tu sei un Samaritano e un indemoniato?». 49Rispose Gesù: «Io non sono indemoniato: io onoro il Padre mio, ma voi non onorate me. 50Io non cerco la mia gloria; vi è chi la cerca, e giudica. 51In verità, in verità io vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno».

 

“Chi è da Dio ascolta le parole di Dio; perciò voi non le ascoltate: perché non siete da Dio” sono le parole di Gesù che danno luogo all’intervento dei Giudei che abbiamo letto. Ora è chiaro che l’ascolto cui fa riferimento Nostro Signore dev’essere costruttivo e chiama in causa l’elaborazione onesta delle Sue parole, quella che implica una valutazione serena e obiettiva di quanto da Lui annunciato e non quella puntigliosa e ostile messa in atto aprioristicamente dai suoi oppositori. Questi, agendo sempre e comunque ascoltando loro stessi, disattendevano e oltraggiavano proprio Colui che, quando Gesù venne battezzato, parlò ai presenti dal cielo dicendo “Questo è il mio amato figlio, nel quale mi sono compiaciuto” (Matteo 3.17). Così facendo i Giudei si ponevano completamente fuori dal piano di Dio, estranei a tutta quella generazione di uomini spirituali che li avevano preceduti essendo quello il tempo in cui “molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono” (Luca 10.24).

L’ascolto cui Gesù fa qui riferimento, che trova le sue radici anche negli scritti dell’Antico Patto, non è mai disgiunto da una profonda valutazione ed immedesimazione nel prossimo per non commettere errori di giudizio; ricordiamo ad esempio Deuteronomio 1.16, “Ascoltate le cause dei vostri fratelli e decidete con giustizia fra un uomo e suo fratello o lo straniero che sta presso di lui”. Ancora, ricordiamo le parole della Sapienza in Proverbi 8.6, dalle quali vediamo come non sia possibile scorporare l’ascolto dalla messa in pratica, “Ascoltatemi, perché parlerò di cose importanti e le mie labbra si apriranno per dire cose giuste”. Invece, i Giudei del nostro episodio possono essere identificati nel verso di Isaia 42.20, “Hai visto molte cose, ma senza prestarvi attenzione; le tue orecchie erano aperte, ma non hai udito nulla”.

Prova di tutto questo è proprio l’assurdo insulto del verso 48 in cui Gesù è definito “Samaritano” e, ancora una volta, “indemoniato”, così temporalmente vicino a quanto letto in 7.20, “Sei indemoniato! Chi cerca di ucciderti?”. Ora il termine “Samaritano” significa che Nostro Signore non era nemmeno considerato come un giudeo, ma come un vero e proprio impostore che con Israele e con Abrahamo non aveva nulla a che fare. Egli era dunque uno straniero, un scismatico, un impuro, per di più indemoniato, cioè una non persona posseduta da uno spirito che lo faceva parlare ed agire in modo tale da sedurre chi, come loro, non aveva che “un solo padre”, Abrahamo o Dio a seconda di come si ritenessero al momento.

Dal nostro testo, poi, non può essere ignorata la calma di Gesù, che non segue i Giudei sul terreno della contesa, ma resta sul sentiero della verità così a loro estranea, fedele a quanto scritto dall’apostolo Pietro che, nella sua prima lettera, annota “Anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca; insultato, non rispondeva con insulti. Maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia” (2.21-23).

Notiamo ora come risponde Gesù ai versi 49 e 50: se avesse parlato anche solo in modo enfatico, avrebbe sminuito la portata delle sue parole perché la loro gravità si sarebbe ridotta; Dio infatti non parla per spot pubblicitari in cui l’attenzione del bersaglio va indirizzata, stimolata con escamotages che lo convoglino a scelte para obbligate, ma tramite parole di verità che non hanno bisogno di sottolineature, grassetti o marcature varie; queste se mai le usa chi studia e, guardando ad esempio le nostre Bibbie, non ve n’è una uguale all’altra quanto a segni, evidenziazioni o note.

Dio non alza la voce come molti per farsi meglio sentire, per esternare rabbia o sostenere le proprie ragioni, ma avverte con la parola o con la lettera e soprattutto agisce mantenendo ciò che promette tanto nel bene quanto nel male. Sta solo all’uomo “ascoltare” perché nulla resterà in sospeso e nessuno resterà impunito o premiato a seconda di come avrà agito. Il tragico è che  raramente la creatura si ferma per pesare la portata della Parola di Dio.

Quanto Gesù dice va letto – “ascoltato” come nel nostro episodio – con tutto il suo peso scegliendo, individuando ciò ci riguarda direttamente. Ecco allora che qui abbiamo “Io non sono indemoniato: io onoro il Padre mio, ma voi non onorate me – la traduzione corretta è “mi disonorate” –. Io non cerco la mia gloria; vi è chi la cerca, e giudica”. Si tratta di parole dalla portata immensa, che ignorano completamente l’accusa dell’essere indemoniato, ma si spostano sulla Sua attività incessante di “onorare il Padre”, cioè aderire continuamente al Suo progetto per il recupero dell’uomo in modo tale che sia reso partecipe all’essenza del Padre e del Figlio, che troverà compimento nei “nuovi cieli e nuova terra dove dimora stabile la giustizia”.

L’“onorare il Padre” da parte di Gesù equivaleva all’esercizio di una costante innocenza, non contaminazione dal peccato, continuare ad essere un tutt’uno con Lui nonostante il proprio corpo di carne perché altrimenti avrebbe fallito. Se così non fosse stato, non avrebbe mai potuto essere il Figlio di Dio, manifestarsi al mondo, essere il solo tramite fra il Padre e l’uomo peccatore, rivelarLo. Se Gesù non avesse onorato il Padre in modo perfetto, potremmo dire di Lui che sì, sarebbe stato un grande profeta ma, come tutti i profeti, un uomo che ci ha fornito una rivelazione parziale di Dio e saremmo ancora qui ad aspettare un Liberatore, un Messia, il mediatore perfetto di cui Giobbe lamentava la mancanza. Ma c’è di più, saremmo dei pagani, cioè ancora estranei alla realtà e al piano di Dio che, eventualmente, potremmo vedere da lontano senza esserne partecipi.

Di fronte ai Giudei del nostro episodio, allora, stava Uno che onorava il Padre ed era in mezzo a gente che Lo disonorava, cioè non solo era totalmente indifferente a tutto ciò che diceva e faceva, ma Lo osteggiava in tutto e progettava già da tempo la sua morte.

L’ultima parte del verso, “Io non cerco la mia gloria; vi è chi la cerca, e giudica”, va divisa in due parti: la prima è chiara ed è, sotto certi aspetti, una risposta all’essere “un Samaritano” sotto l’aspetto dell’impostore. A Gesù non interessò mai ricevere un riconoscimento umano e basta ricordare l’episodio della prima moltiplicazione dei pani e dei pesci in cui leggiamo “Ma Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo far farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo” (Giovanni 6.15), ma quello spirituale certamente sì, non per se stesso, ma perché l’uomo potesse essere salvato. Possiamo dire che Nostro Signore non poteva cercare “la mia gloria” perché non avrebbe potuto portare da nessuna parte, sarebbe stata sterile perché credere in Lui disgiungendolo dal Padre avrebbe portato ad una visione incompleta, ad una religione come altre nonostante i miracoli e la resurrezione; invece, tutto è stato fatto, è stato “compiuto” in relazione al bisogno urgente, all’indispensabilità del fatto che Dio si rivelasse attraverso di Lui perché Gesù Cristo è il tramite che conduce al Padre, fonte di vita, responsabile di quel gesto di amore infinito e gratuito che fu la creazione dell’universo che avrebbe dovuto avere l’uomo al centro e non, come oggi, a margine, vittima di se stesso.

Penso che, più di altre parole, sia Giovanni 17.1-5 a renderci l’idea di quanto avvenuto: “…alzàti gli occhi al cielo, disse: «Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te. Tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. Io ti ho glorificato sulla terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. E ora, Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse”.

E qui arriviamo alla seconda parte del verso, “vi è chi la cerca, e giudica”, cioè Padre e Figlio assieme e qui possiamo vedere la differenza fra il Gesù in carne come “figlio dell’uomo” e come si manifesterà nell’ultimo giorno: “Il Padre non giudica nessuno, ma ha dato ogni giudizio al Figlio, perché tutti onorino il Figlio come onorano il Padre. Chi non onora il Figlio, non onora il Padre che lo ha mandato. In verità, in verità io vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5.22-24). Abbiamo allora Gesù in doppia veste, poiché non essendo venuto sulla terra per condannare il mondo, ma perché questo fosse salvato per mezzo di lui (Giovanni 3.17), ben altra realtà sarà vista da tutti una volta in cui sarà presente o assente come Avvocato Difensore. Infatti “…se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo giusto. Egli è vittima d’espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo”. Per capire la differenza fra il Cristo compassionevole dei Vangeli e il Dio glorificato e glorioso dopo la Sua resurrezione, è sufficiente la lettura del libro dell’Apocalisse in cui viene presentato in una versione molto diversa, per noi attuale – quando agli avvenimenti nell’eternità in cui è tornato – e al tempo stesso futura, quando il tempo del mondo e dell’umanità avrà fine.

E qui giungiamo al nostro ultimo verso in cui abbiamo il doppio “amen” di Gesù, “In verità in verità io vi dico: se uno osserva la mia parola, non vedrà la morte in eterno”. Anche qui la traduzione non è precisa perché l’ “osservare” potrebbe lasciar pensare ad un seguire freddamente un libretto di istruzioni; al contrario qui si parla di custodire, che implica un’azione ben diversa: un bene dato in custodia è qualcosa di prezioso, da curare continuamente, da proteggere, è qualcosa di cui si è responsabili. Se si fa questo, non si vedrà mai la morte e in particolare l’episodio della risurrezione di Lazzaro ne è un esempio perché, poco prima di operare, Gesù disse “Io sono la resurrezione e la vita. Chi crede in me, anche se muore, vivrà. Chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno” (Giovanni 11.25,26).

Anche qui è importante il verbo: “vedere la morte” equivale a farne esperienza, provarla e certo non si parla di quella del corpo, attraverso la quale tutti passeranno salvo quei credenti che saranno in vita al ritorno di Gesù. “Vedere la morte” è comunque un ebraismo che allude al morire e qui, raccordandoci a quanto detto poco prima, il parallelo è con Apocalisse 21.8, “Ma per i vili e gli increduli, gli abietti e gli omicidi, gli immorali, i maghi, gli idolatri e per tutti i mentitori è riservato lo stagno ardente di fuoco e di zolfo. Questa è la seconda morte”.

Per chi crede, per chi cerca ed è destinato a trovare, valgono però altre parole: “In verità in verità vi dico: chi ascolta la mia parola e crede a Colui che mi ha mandato, ha la vita eterna e non va incontro al giudizio, ma è passato dalla morte alla vita” (Giovanni 5.24). Amen.

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