5.05 – LE BEATITUDINI 4: FAME E SETE DI GIUSTIZIA (Matteo 5.3-10)

5.5 – Il sermone sul monte : le beatitudini IV (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

BEATI QUELLI CHE HANNO FAME E SETE DELLA GIUSTIZIA

Condizione che denota l’impossibilità di sfamarsi e dissetarsi nonostante se ne avvertano i sintomi. Chi ha fame e sete cerca di soddisfare questo bisogno primario cercandolo ovunque possa, ma se permane in questa condizione vuol dire che ciò che ha eventualmente assunto ha fallito il suo scopo, non ha risolto il suo problema e cerca di sfamarsi e dissetarsi a sazieà. Questa applicazione è però più adatta alla nostra visione che a quella dell’uditorio di Gesù, che poneva il riferimento, come già avvenuto nelle sue precedenti enunciazioni, a passi che erano, o potevano essere, noti, primo fra tutti il Salmo 89.14 che recita “Giustizia e diritto formano la base del tuo trono, benignità e verità vanno davanti al tuo volto” e la conseguente supplica di Davide, conscio di essere in difetto: “Vivificami nella tua giustizia” (Salmo 112.40), parola che nella Scrittura indica la giustificazione davanti a Dio e la santità della vita vista nel perfetta conformità al Suo volere.

Credo che in questa fame e in questa sete si riassuma tutto il vissuto di quanti tra il popolo di Israele attendevano l’Unto del Signore di cui Isaia scrisse “La giustizia sarà fascia delle sue reni e la fedeltà la cintura dei suoi fianchi” (11.5) perché consci non solo si non averne, ma che neppure essa poteva trovarsi sulla terra, altro grande tema compreso in questa beatitudine. Davide scriveva “La mia anima è assetata di Dio, del Dio vivente” (Salmo 42.2), quindi non di un dio qualunque inventato o presunto: si tratta di quel Dio vivente, Unico e vero che legge nel cuore umano che chiama anche attraverso una fame e sete così particolare che non tutti provano. Essere “affamati e assetati di giustizia” significa escludere la propria, così facile e immediata, soprattutto così su misura per l’uomo naturale, sempre pronto a giudicare e condannare il proprio simile non pensando, non sapendo e spesso volutamente ignorando di compiere le stesse cose di chi condanna.

E ancora una volta qui si aprono due mondi, quello terreno e quello spirituale che proprio nell’uomo affamato e assetato di giustizia trovano il loro punto di incontro, una base, una possibilità, vista prima di tutto nel credere in Lui. Andiamo alle origini, in Genesi 15 che contiene un passo che tutti i lettori della Bibbia conoscono per essere stato citato dall’apostolo Paolo nella sua lettera ai Romani a proposito della giustificazione per fede. Troviamo Abamo a colloquio con Dio, in uno dei tanti avuti con Lui in cui già aveva avuto modo di illustrargli il Suo progetto anche sulla sua discendenza. “…la parola dell’Eterno fu rivolta in visione ad Abramo, dicendo: «Non temere, Abramo, io sono il tuo scudo e la tua ricompensa sarà grandissima». Ma Abramo disse «Signore, Eterno, che mi darai, perché io sono senza figli e l’erede della mia casa è Eliezer di Damasco? (…) Tu non mi hai dato alcuna discendenza; ora ecco, uno nato in casa mia sarà mio erede». Allora la parola dell’Eterno gli fu rivolta, dicendo «Questi non sarà tuo erede, ma colui che uscirà dalle tue viscere sarà tuo erede». Poi lo condusse fuori e gli disse «Guarda il cielo e conta le stelle, se le puoi contare» quindi aggiunse «Così sarà la tua discendenza». Ed egli credette a Dio, che glielo mise in conto di giustizia” (Genesi 15.1,6).

Ebbene, il “credere” di Abramo gli fu messo “in conto di giustizia” non solo perché aveva fatto sua la promessa fattagli in quel momento, ma soprattutto perché non dubitò nonostante gli anni che aveva, che erano 86 (Genesi 16.16), in cui avere figli è impossibile. “Credere a Dio” in questo caso è riconoscerlo come tale, tacere nel momento in cui Lui parla, non porre barriere, non rispondere con un “ma” alle Sue parole. Abramo sapeva che, come disse Gesù, “Ciò che è impossibile per gli uomini, è possibile per Dio”. Il credere di Abramo indicava una mente e un cuore a Lui rivolto indipendentemente dalla condizione di peccatore, quindi di inferiorità assoluta, in cui si trovava. Dobbiamo infatti sottolineare che il testo di Genesi nulla ci dice di quello che fece tra i suoi 86 e i 99 anni, età che aveva quando “…l’Eterno gli apparve e gli disse «Io sono il Dio onnipotente, cammina alla mia presenza e sii integro; e io stabilirò il mio patto fra me e te, e ti moltiplicherò grandemente»” (17.1,2), ben 13 anni dopo. E 13 anni di silenzio sono umanamente tanti. Abramo esteriormente era una persona come molte, eppure fu eletto, chiamato da Dio che lo scelse. Guardando alla storia di quest’uomo, vediamo che il suo nome compare alla fine dell’elenco della discendenza di Sem e poi a un certo punto Dio irrompe nella sua vita, quando aveva 75 anni, con una chiamata: “Vattene dal tuo paese, dal tuo parentado e dalla casa di tuo padre nel paese che io ti mostrerò, e io farò di te una grande nazione e ti benedirò grandemente e renderò grande il tuo nome e tu sarai una benedizione” (12.1). Abramo avrebbe potuto benissimo rimanere dov’era, rispondere “No, grazie” perché non credo non si trovasse a suo agio circondato dai parenti con cui i legami, nella realtà tribale di allora, erano molto stretti. Eppure se ne andò, lasciò il suo ambiente, ritenendo le benedizioni che gli venivano promesse migliori.

Ora, sappiamo che fu il “credere” e il conseguente agire che gli fece avere l’accreditamento in giustizia di cui abbiamo letto. Fu una scelta naturale così come altrettanto naturale, conseguente, fu il modo con cui Iddio lo considerò, cioè “giusto” nonostante i suoi errori anteriori e posteriori, che troviamo documentati in Genesi. Abramo fu una delle persone descritte in Salmo 25.9 “Buono e retto è il Signore: indica ai peccatori la via giusta, guida i mansueti secondo giustizia, insegna agli umili la sua via”, là dove i peccatori sono tutti gli uomini senza distinzione. Basta solo che questa via essi la vogliano riconoscere e seguire per rimediare alla condizione che, in quanto tali, non avrebbero mai modo di modificare. Ai peccatori indica la via giusta, la sola che li possa salvare, in alternativa alle tante che possono percorrere sospinti dalla loro natura. Chi è peccatore non sa dove andare, fa percorsi a caso in base ai propri sensi che lo dominano al momento e cambia strada nell’attimo stesso in cui questi mutano. Non compie scelte libere perché nessuna delle direzioni che prende è dominata dalla ragione, ma dal suo sentire momentaneo.

Eppure, se la destinazione finale è l’eternità, la via, la verità e la vita non possono che essere una sola. I mansueti, i docili al suo volere, vengono guidati secondo giustizia perché tutti i sentieri di Dio lo sono. E agli umili, tradotti anche “poveri” con evidente richiamo a quelli di spirito, insegna la Sua via: “insegnare” significa etimologicamente “mettere segni nella mente”, dal latino “in-signare”, cioè “mettere un segno dentro” e, da vocabolario, “In genere, colui che insegna fa sì, con le parole, con spiegazioni, o anche solo con l’esempio, che qualcun altro acquisti una o più cognizioni, un’esperienza, un’abitudine, la capacità di compiere un’operazione o apprenda modo di fare un lavoro”.

Ogni essere umano sa fare qualcosa per averlo appreso da qualcun altro, ma nessuno è in grado per natura di conoscere le cose di Dio, salvo che Lui glielo insegni, gli imprima nella mente se non altro i fondamenti di cosa voglia dire camminare secondo la Sua volontà. Il resto viene col tempo.

Ecco, credo che su questi principi si basi la fame e la sete della giustizia, che per la moltitudine che ascoltava Gesù si riferiva a un concetto preciso, così diverso da quello degli scribi e dei farisei che ritenevano di possederla già per i loro meriti di studio e abnegazione alla legge formale che si erano costruiti: “Se la vostra giustizia non supera quella degli scribi e dei farisei, voi non entrerete affatto nel regno dei cieli” (Matteo 5.20). La folla che era lì, che penso fosse composta da molti che cercavano nel Cristo la fonte della giustizia o volevano anche solo sentirlo parlare, viene così messa in condizione, nello stesso frangente, di valutare da sola cosa cercasse, domanda che fu la prima rivolta a Giovanni e Andrea: “Cosa cercate?”.

Ci vuole quindi fame e sete di giustizia per rivolgersi a Gesù, sapendo che in lui e in nessun altro la si può trovare. Abbiamo letto nel Salmo 25 che “il Signore indica ai peccatori la via giusta, guida i mansueti secondo giustizia, insegna agli umili la sua via”, azioni al presente ma che denotano continuità nel tempo perché la giustizia di cui si ha fame e sete comprende un percorso visto prima di tutto nella giustificazione davanti a Dio, poi nel condurre una vita santa nonostante la nostra imperfezione e le cadute purtroppo inevitabili. E qui è automatico inserire il verso di Paolo che dice “Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore” (Romani 5.1). Pace con Dio significa non essere più visti da Lui come ostili ed estranee per cui, altro verso molto conosciuto, “Voi non siete più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi, e membri della famiglia di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù” (Efesi 2.19,20).

È questo un aspetto dell’essere saziati, che raggiungerà la sua pienezza con la cittadinanza eterna, che già abbiamo, del Regno che sarà instaurato nella nuova terra. Vediamo però il verso di Efesi: “Non siete più stranieri né ospiti”. C’è un presente, non un futuro. Poi, una condizione che è cessata, quella di essere “straniero o ospite”, termini che suggeriscono una temporaneità: lo straniero è chi non appartiene al Paese in cui vive perché a lui estraneo per cultura e origine; l’ospite poi è qualcuno con cui si condivide un periodo “da” ”a” e poi tutto torna come prima. L’ospite è colui che condivide con noi, nella nostra casa o a tavola, un tempo limitato perché destinato a scadere. “Voi non siete più” è qualcosa riferito al passato, come dire “una volta eravate stranieri e ospiti”. Una volta, adesso no. Dimenticate quello che eravate perché questo non conta più, oggi siete persone diverse.

Se hai creduto in Gesù Cristo, se Dio ti ha giustificato per fede, non sei più né uno straniero né un ospite, ma un concittadino dei Santi e un membro della famiglia di Dio, concetto sconosciuto nell’Antico Patto, ma dichiarato nel Nuovo perché Gesù è chiamato “il primogenito fra molti fratelli” (Romani 8.29): è la trasformazione operata dalla Grazia. Io che credo, tu che credi, sono e siamo fratelli di Gesù, cioè apparteniamo alla stessa famiglia e a Lui abbiamo la possibilità di rivolgerci per ogni cosa. “Concittadini dei santi”, cioè di quelli che popolano e popoleranno la “Santa città”, la Gerusalemme che ha da venire, quella nuova, e “membri della famiglia di Dio”, condizione possibile tramite il sublime, perfetto sacrificio del Figlio. Sono prospettive nuove per un peccatore che, se perdonato, ha trovato pace con Dio, cioè ha visto rimuovere la sua condizione di peccato che prima impediva un rapporto con Lui. A volte il cristiano può dimenticarsi di questa comunione che si è venuta a creare, se in essa non si nutre, se ad essa non pensa, se perde di vista la sua cittadinanza vera, se dimentica che, visto il verso che abbiamo letto, ha una carta di identità con su scritto il proprio nome e cognome che lo qualifica come individuo. Può accadere che ci si dimentichi di quanto siamo costati, la morte di quel “Figlio” che è morto e risorto per noi, di essere una persona, un individuo unico e irripetibile per il quale Cristo stesso ha dato la sua vita per salvarlo.

Il credente ha una identità e una dignità che gli altri, quelli che vivono il mondo e per il mondo, non hanno e non possono avere, è radicato su un fondamento che è quello che hanno posto gli apostoli e che ha Cristo come pietra angolare cioè quella che sostiene tutta la costruzione, il corpo, la Chiesa vera che gli apostoli hanno fondato a prezzo di sofferenze e fatiche; alcuni di loro hanno affrontato il martirio non tanto per essere di esempio, ma in quanto non potevano rinnegare quello che avevano ricevuto come elezione, mandato, salvezza, amore.

Poi c’è la promessa, “saranno saziati”: come? Questo avviene sia sulla terra, al presente, che in cielo, in futuro, per la caparra dello Spirito Santo che ci è stato dato, quello che ora attenua la fame e la sete e che in futuro sazierà pienamente. E vengono in mente le parole di Gesù alla donna samaritana: “Chiunque bene di quest’acqua avrà di nuovo sete, ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno”. Amen.

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