05.44 – LE SOLLECITUDINI ANSIOSE – seconda e ultima parte (Matteo 6.25-34)

05.45 – Le sollecitudini ansiose II (Matteo 6.25-34)

 

25Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito? 26Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro? 27E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? 28E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano. 29Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. 30Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? 31Non preoccupatevi dunque dicendo: «Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?». 32Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani. Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. 33Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. 34Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena.

 

Credo, nello scorso episodio della nostra lettura dei Vangeli, di avere sufficientemente reso l’idea di ciò che significa rifiutare l’ansia derivante dalla preoccupazione costante per la nostra sopravvivenza: non si tratta di ricorrere alla “meditazione” intesa come pratica per estendere o controllare l’attività della mente, di scaricare tensioni irrisolte con l’attività fisica o fare rilassanti passeggiate nei boschi, ma di entrare in un ambito spirituale preciso, dominato dalla certezza e dalla consapevolezza dell’appartenenza a Dio in cui si crede e dal quale si dipende. Non sto parlando di uno “stato mentale” raggiunto, ma di un modo di vivere diverso che non ci si può autoimporre, ma si realizza come conseguenza di una pratica di vita, di un guardare all’esistenza in modo differente che esclude i mantra, le luci soffuse in una stanza per “fare atmosfera”, ma consiste in una camera e una porta chiusa: “Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” (Matteo 6.3).

L’ansia, in un soggetto sano, è uno stato che emerge dal rimuginare continuo su un problema che, nella sua mente, tende a farsi dominante. Nostro Signore non affronta lo stato ansioso a livello medico ma, come già visto in altre circostanze, preventivo e andandone all’origine. La preoccupazione “per la vostra vita” non è qui riferita al mangiare e al vestire, ma include anche tutte le altre problematiche esattamente come il “sudore del volto” preannunciato ad Adamo, che va ben oltre a quello provocato dalla fatica per provvedere al sostentamento quotidiano dell’uomo. La preoccupazione sorge istintivamente in noi, è un meccanismo di allarme come la paura, comune a tutti gli animali, che spinge chi la prova a mettersi in salvo o a lottare: la preoccupazione è uno stato d’animo che, quando persiste, spiritualmente è un campanello d’allarme perché ci indica che il nostro sguardo verticale è minoritario rispetto a quello orizzontale. La preoccupazione, soprattutto nei tempi in cui viviamo, è un fatto naturale.

La terra. Già il fatto che ogni cosa sia soggetta alla forza gravitazionale testimonia di per sé che a lei siamo ancorati, corporalmente e mentalmente. Ogni istante siamo costretti a confrontarci con problemi di varia entità che vanno risolti, ogni giorno porta “la sua pena” cui è sensibile il trinomio cuore-occhi-mente, ma a ben guardare il sentimento della preoccupazione, pur naturale, è fuori luogo perché l’essere umano che crede nel Padre e nel Figlio ha in loro un formidabile punto di riferimento, conoscendo Lui in anticipo cosa stiamo per chiedergli e di cosa abbiamo bisogno. Ricordiamo le parole “Il Padre sa” e “Non valete forse voi più di loro?”.

Vorrei però spostare l’attenzione su un verso molto importante, e cioè “Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani”, pronunciate come sappiamo a degli ebrei che si ritenevano superiori agli altri popoli perché eletti da Dio. Esistevano cioè solo loro; gli altri erano – e restano tuttora – goym, plurale di goy cioè “popolo”, “nazione” che troviamo per la prima volta in Genesi 10.5: “Da costoro– i figli di Sem, Cam e Jafet – derivarono le genti disperse per le isole, nei loro territori, ciascuna secondo la propria lingua e secondo le loro famiglie, nelle rispettive nazioni”. Per quanto l’atteggiamento ebraico nei confronti delle altre etnie dipenda da un maggiore o minore integralismo, l’idea di base è che questi siano di per sé impuri per quanto si affermi che i giusti di tutte le nazioni abbiano un posto nel mondo a venire. Da un lato si dice “Non devi essere ebreo per trovare il favore negli occhi di Dio”, dall’altro il Talmud paragona chi non è ebreo all’asino.

Ciò che allora Gesù vuol dire è molto semplice: non è la tua origine che fa di te una persona grata a Dio, ma ciò che sei veramente dentro di te. E l’apostolo Pietro dovette avere una visione per capire che, come dirà poi in Atti 10.34, “Dio non ha riguardo per la qualità delle persone”, alludendo alla loro origine ebraica o non. I presenti al sermone sul monte, come detto più volte, avevano tutti un’infarinatura biblica, frequentavano la Sinagoga ascoltando gli insegnamenti dei vari maestri che si succedevano nel commentare i passi scelti, ma quando si trattava di affrontare i problemi, ecco che la preoccupazione diventava ben presto ansia e si rivelava così tutta la natura umana, identica a quella dei pagani cioè di quei popoli che, pur avendo una religione, andavano alla ricerca “di tutte queste cose”, cioè l’accumulare, l’arricchirsi, la sollecitudine ansiosa per ciò che avrebbero mangiato e di ciò di cui si sarebbero vestiti. E questo vale sotto l’aspetto fisico e psichico.

I Testimoni di Geova, per i quali vale il verso “Guai a voi, (…), che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, quando lo è divenuto, lo rendete degno della Geenna due volte più di voi” (Matteo 23.15), spesso mettono dei banchetti con opuscoli e libri nei punti di passaggio della gente e offrono pubblicazioni dedicate a come risolvere il problema dell’ansia, sapendo quanto sia importante per molti guarirne; ad essa si sostituisce la religione intesa come osservanza di precetti e pseudo conoscenza, del fare-non fare, totalmente inutile senza un cuore rinnovato da Cristo e dallo Spirito Santo. Al suo posto si instaura forse un senso di soddisfazione perché si crede in qualcosa, ma il pericolo di avere e rivolgersi a un amico immaginario rimanendo imbottigliati in uno stallo è reale e molto spesso così avviene. Aderire a Cristo è, prima che ubbidienza, esame e ricerca, confronto, ascolto, attesa e, soprattutto, una costante vigilanza su se stessi. Questo è ciò che Nostro Signore esorta a fare ai suoi uditori: non adagiarti sul fatto che fai parte del popolo eletto, ma guarda a te stesso, parti dal principio elementare che, se ragioni e ti comporti come un pagano, essere “mio” a nulla ti serve. Ecco perché dobbiamo tener sempre presente che, sottoposti come tutti a problemi e ai seri motivi di preoccupazione che il mondo e non solo ci danno, siamo chiamati a verificare il nostro comportamento e a valutarci prima di cadere nel comodo giudizio delle opere e dei pensieri altrui: “Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo? Come puoi dire al tuo fratello «Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio» mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello” (Luca 6.41,42). Vedere bene, collegamento al trinomio visto tempo fa, significa fare proprio un lungo lavoro di perfezionamento sincero su se stessi, un esame continuo cui Gesù allude con l’imperativo “Vegliate, perché non sapete né il giorno, né l’ora”. Vediamo sempre qualcosa che non va negli altri, mai in noi. E qui viene in mente il comportamento di Giobbe che, pensando ai suoi figli, “offriva olocausti per ognuno di loro. Infatti pensava: «Forse i miei figli hanno peccato e hanno maledetto Dio nel loro cuore»” (Giobbe 1.5), segno che non trascurava nulla pur di tenersi unito al Dio che lo aveva benedetto fino ad allora.

C’è però un’ultima annotazione che riguarda un altro motivo per cui Gesù si espresse così a proposito delle preoccupazioni della vita: sapeva quanto potessero essere dominanti e andare a minare profondamente la fede e il rapporto con Lui. Per questo più avanti esporrà la parabola dei terreni su cui cade il buon seme: c’è la strada, il sassoso, quello su cui sono cresciuti i rovi e infine quello buono. Del seme che cade sul terreno tra i rovi leggiamo: “Quello che è seminato tra i rovi è colui che ascolta la Parola, ma la preoccupazione del mondo e la seduzione della ricchezza soffocano la Parola ed essa non dà frutto” (Matteo 13.22). Attenzione alla pianta scelta da Nostro Signore: il rovo è infestante, si diffonde rapidamente e si eradica con difficoltà perché tagliarlo o bruciarlo non risolve il problema. Quando poi è presente in gran numero, finisce per aggredire e soffocare la vegetazione circostante. Questi sono gli effetti del rovo per la terra, questi sono gli effetti della “preoccupazione del mondo” e della “seduzione della ricchezza” per l’uomo.

C’è quindi chi ascolta il Vangelo, s’interessa, ma crede a modo suo, vale a dire comprende quanto sia necessaria una scelta di vita diversa da quella che ha avuto fino all’annuncio della Parola, ma non ce la fa ad alzarsi in volo perché rimane ancorato proprio ai due elementi contestati da Gesù nel nostro passo. La “Preoccupazione del mondo” è qualcosa che schiaccia perché l’idea della sopravvivenza, intesa come conseguimento di aspirazioni e desideri oltre il proprio sostentamento basilare, si fa dominante. La “Seduzione della ricchezza” ha poi riferimento all’attrazione viva e irresistibile che suscita in molti anche solo l’dea di possedere denaro e beni che in tal modo restano appunto sedotti, quindi ingannati. È il trionfo dell’apparenza. Ho conosciuto persone dare un valore esagerato ai loro averi e poi, giunta la malattia degli ultimi giorni, scoprire troppo tardi che ciò in cui avevano posto le loro speranze non li poteva accompagnare da nessuna parte, era lì, conservato immobile in qualche luogo e all’improvviso si era fatto enormemente lontano da loro, estraneo. E si sentivano persi e completamente soli. Ciò che era stato loro, improvvisamente li stava lasciando come la vita che non potevano più trattenere. Penso al momento finale, quello in cui Dio chiama ogni essere umano a render conto di come ha speso la propria vita: lì vengono tirate le somme, lì abbandoniamo tutto ciò che ci avrà accompagnato fino a quel momento.

Il fatto è che tutto si ricollega non tanto alla morte, passaggio inevitabile e obbligato, ma alla destinazione finale: se non si accetta e soprattutto non si comprende che la vita terrena è un passaggio, un periodo datoci per agire secondo il volere di Dio e non il nostro, ecco allora che ci si affida più o meno inconsapevolmente a quel paganesimo che, ora che il Vangelo è stato rivelato, non ha più ragione di esistere. E dobbiamo fare attenzione perché il mondo, la terra con tutte le sue sollecitudini, ci attira a sé come la forza di gravità che àncora ogni cosa.

L’ansia deriva dalla preoccupazione e dalla mente che, contrariamente a quello che pensiamo, non è controllabile nei suoi automatismi: il pensiero ossessivo e ansioso trova le sue origini dalla solitudine che abbiamo in determinate circostanze, ma di fatto il cristiano sa benissimo che, “solo” non lo è. È stato amato a tal punto che il Figlio stesso è sceso dai cieli, dov’era con il Padre, per farsi uomo e dare la sua vita per lui. Sono molti i cristiani che, pur appropriatisi di questo messaggio e aver fatto una professione di fede, vivono preoccupandosi del domani. Ma indipendentemente dal problema che può opprimerli, non possono consentire che divenga dominante a tal punto da interferire nel loro rapporto col Dio che ascolta e parla comunque: se questo accade, se cioè l’ansia diventa dominante, sono chiamati a chiedersi se la casa che hanno costruito sulla roccia non vada rinforzata, se non sia il caso di rivedere i calcoli fatti a suo tempo per la sua stabilità. La roccia, infatti, garantisce l’edificazione ottimale, ma chi porta i materiali, li sceglie e li assembla è sempre l’uomo, per quanto aiutato dello Spirito Santo che dev’essere messo nelle condizioni di agire.

Ecco allora che qui ritornano le parole di Gesù sui pagani che “di queste cose vanno in cerca”: se tu che sei cristiano ti ritieni superiore agli altri e li giudichi ritenendoli impuri e perduti, stai attento a quello che hai dentro, al tuo tesoro, ai tuoi occhi e al tuo cuore perché, se poi ti comporti come loro, rischi di trovarti in una posizione ancora peggiore. Certo, questo vale quando l’eccezione diventa un abitudine e tutta la vita è improntata su un continuo compromesso tra ciò in cui si dice di credere e ciò che realmente si fa, si pensa, si è. Così si fallisce nella testimonianza e si rischia di assumere quella temperatura che è definita “tiepida”. E leggiamo in Apocalisse 3.15: “Oh, fossi tu pur freddo o fervente! Così, perché sei tiepido e non sei né freddo, né fervente, io ti vomiterò dalla mia bocca”. Questo Gesù volle far capire ai suoi uditori, che si trovarono di fronte a princìpi e a verità che nessuno aveva mai rivelato prima di allora. Sappiamo che la gente che lo ascoltava “stupiva della sua dottrina”: finalmente potevano capire, i Suoi erano concetti semplici, quelli “nascosti ai sapienti” chiusi nei loro calcoli e nella loro cultura, enormemente lontani da quell’amore che ignoravano. Amen.

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