07.22 – CINQUE CANTICI V.II (Isaia 53.2-3)

7.22 – Cinque cantici V-II (Isaia 53.2-3)

 

2È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. 3Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo di dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima. 4Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. 5Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. 6Noitutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. 7Maltrattato si lasciò umiliare e non aprì la bocca. Era come un agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori e non aprì la sua bocca. 8Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu messo a morte. 9Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno sulla sua bocca. 10Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con i dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. 11Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. 12Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli.

 

Dopo le due domande introduttive viste nello scorso capitolo in cui Isaia si chiede, alla luce della condotta del popolo costantemente in opposizione ai voleri di Dio, quale frutto avrebbe dato la predicazione profetica e a chi sarebbe stato rivelato “il braccio del Signore”, ecco che il suo sguardo si posa immediatamente sulla figura del Servo, “venuto a salvare ciò che era perito”. Dal verso 2, poi, Isaia passa ad esaminare la figura di questo personaggio che, secondo il metro valutativo umano, è inconcepibile se rapportata a quella di un re, una guida, un liberatore. Un re cresce in una corte, abituato agli agi, ad ottenere ciò che vuole così come si fa da sempre nelle dinastie regnanti o comunque molto ricche. Questo, invece, cresce “davanti a lui”, quindi a Dio e non agli uomini che tuttavia, come sappiamo, ne presero atto quando leggiamo che “cresceva in sapienza, in età e grazia davanti a Dio e davanti agli uomini” (Luca 2.52).

Nella prima parte del secondo verso, però, Isaia sottolinea come si è caratterizzato lo sviluppo della persona di Gesù nel corso della sua esistenza e quel “davanti a lui” ha riferimento con l’unico Suo obiettivo, “fare la volontà di colui che mi ha mandato”: per questo non erano possibili altre alternative al di là del crescere tenendo lo sguardo fisso sul Padre facendo la Sua volontà e avendo con Lui un continuo contatto in preghiera. Lo sviluppo “come un virgulto” e “una radice in terra arida” ci parla poi di un percorso irto di difficoltà e sofferenze: il virgulto, giovane pianta che ha come unico destino quello di crescere, così oggetto di attenzione da parte di chi lo coltiva, nel nostro caso si sviluppa in un terreno ostile perché arido, cioè sterile, povero di umidità ed acqua, con precipitazioni molto scarse. E infatti Gesù, per tutta la sua vita terrena, dovette fare affidamento solo sul Padre per avere quel nutrimento spirituale senza il quale non avrebbe mai potuto affrontare un solo giorno di vita. Ecco la ragione del Suo tempo passato in preghiera, più volte ricordato nei Vangeli. Nella terra arida possiamo agevolmente identificare l’umanità in mezzo alla quale Nostro Signore crebbe, contaminata dal peccato, arsa dal sole, un’umanità che non conosce l’acqua della vita e la confonde con la sabbia. Possiamo vedere anche la terra stessa, non più quella santa del giardino protetto, come leggiamo in Genesi 3.17 “Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie– che ricordiamo era subordinata rispetto ad Adamo – e hai mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato: «Non ne devi mangiare», maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita”.

Il comune essere umano, quindi noi, cresce assorbendo la mentalità e la cultura dell’ambiente in cui è inserito. Salvo rari casi scopre col tempo le sue attitudini, intreccia relazioni e rapporti coi propri simili, diventa una persona affondando le due radici sulle proprie esperienze di cui, in un modo o in un altro, dovrebbe far tesoro: non fu così per Nostro Signore, che sapeva fin da giovanissimo quale sarebbe stato il suo compito, come leggiamo dalle parole che disse a Sua madre che lo rimproverava per essere rimasto a parlare coi sapienti nel Tempio anziché tornare a Nazareth con loro: “Dopo tre giorni lo trovarono nel Tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre ed io ti cercavamo angosciati». Ed egli risposte: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro” (Luca 2.46,50).

Ancora, a proposito della crescita della persona in mezzo ai suoi simili, vero è che ogni uomo si ritrova presto o tardi a fare i conti con la prepotenza, l’umiliazione e la violenza degli altri, ma è altrettanto vero che a volte può contare sul loro aiuto, solidarietà e comprensione, confidarsi. Non fu così per Gesù, che dovette far leva sempre e solo sulle proprie forze e quelle che il Padre gli dava per adempiere il compito per il quale era venuto; pensiamo a tutte le volte in cui non solo non fu capito, ma anche e soprattutto frainteso e ostacolato. Ecco perché sono convinto che la grandezza di Gesù risiede non solo nei miracoli, “piccoli” o “grandi”, nella sua resurrezione, ma, sotto questo aspetto, nella vita di ogni giorno, soprattutto in quella non raccontata. Se penso alla Sua crescita in terra arida sotto i punti di vista cui ho accennato, la mia persona si perde: a differenza di me, di noi, aveva una strada da percorrere senza possibilità di deviazioni, scorciatoie, soste. La Sua opera, come disse un giorno, fu incessante: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il figlio dell’uomo non ha dove posare il capo” (Matteo 8.20).

La seconda parte del verso sposta l’attenzione del lettore al tempo presente chiamando in causa l’apparenza e la bellezza – attenzione – sotto ogni aspetto, non necessariamente quello fisico, perché Gesù non fece mai del marketing né si rivolse a persone che usavano l’immediatezza per giudicare. Non guardò mai al numero, si ritirò in un luogo isolato quando vollero farlo re, nacque in un ricovero per animali, “figlio di Davide” da un lato, ma di un falegname dall’altro, liberò chi credette in Lui dal potere del peccato che conduce a morte, ma non dall’oppressione straniera. Gesù stravolse il perbenismo, il moralismo, la quiete che l’uomo naturale ha quando s’incontrano – e purtroppo si stabilizzano – religione e carne, là dove “…disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno dei cieli” (Matteo 21.30),

Riguardo alla “apparenza” (o “forma”) e alla “bellezza” possiamo pensare anche alla Sua persona: non fu come Mosè, che da bambino era “divinamente bello” (altri traducono, svilendone il senso, “molto”), il cui volto risplendeva quando scese dal monte, ma una persona dall’aspetto assolutamente normale, riconoscibile come “figlio dell’Iddio vivente” solo riflettendo su ciò che faceva e diceva, quindi chiamando in causa l’intelligenza, la ragione e il cuore. Dalla somma di questi elementi, se correttamente gestiti, nasce la fede, quella che mosse la donna emorroissa: “aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando. Udito parlare di Gesù, venne tra la folla e toccò da dietro il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male” (Marco 5.25-29).

L’apparenza umana di Gesù non era importante, né aveva senso l’avesse perché l’immagine esteriore, quella a cui tengono i potenti che si sono sempre fatti ritrarre, in quadri o in foto, con una luce che li illuminasse strategicamente per suggerire qualità fisiche o morali che non avevano, sarebbe stata completamente fuori luogo. Penso a Nicodemo, abituato alla sintesi e alla concretezza, che disse “Maestro, noi sappiamo che tu sei un dottore venuto da Dio, perché nessuno può compiere le opere che tu fai, se Dio non è con lui” (Giovanni 3.2). Ecco allora che Isaia, con quel “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri guardi, non splendore per poterci piacere”, chiama in causa ciò cui guardano gli uomini distrattamente quando sono intenti a pensare a loro stessi e ai loro bisogni, dediti a seguire la fame di vita che si impossessa di loro. Ed è facile collegare questo atteggiamento istintivo alla via larga e spaziosa che conduce alla perdizione.

È stato ricordato l’episodio in cui giudei volevano fare re Gesù: questo si verificò al primo miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Quella gente disse “Questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo” perché era stata sfamata in modo impossibile e quindi poco ci voleva, nella loro mente, a pensare che invece dei pani e dei pesci avrebbe potuto moltiplicare la forza di un esercito, armi, vittorie. Erano incapaci di comprendere che la vera liberazione stava nel togliere il peccato del mondo, in quel “Io posso ogni cosa in Colui che mi fortifica” dell’apostolo Paolo, nella moltiplicazione delle benedizioni, del vivere già da ora essendo in possesso della cittadinanza del regno di Dio.

Quegli uomini che avrebbero dovuto accoglierlo, lo disprezzarono. Il verso terzo dice “Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo di dolore che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima”: passò nell’indifferenza, a parte il “coprirsi la faccia” per non vedere il Suo volto e ciò che rappresentava. In questo gesto possiamo vedere certamente l’effetto del constatare quanto fosse sfigurato dalle percosse, ma anche il non voler vedere, accettare la loro condizione umana che aveva rivelato. Vedere e passare oltre cercando di dimenticare confidando che il tempo, che molto cancella ma non tutto, copra il ricordo di quanto visto e ascoltato. Perché, lo si ammetta o no, tutti vogliono essere assolti, anche se solo da loro stessi. Da notare che “coprirsi la faccia” suggerisce un’azione diversa da quella che viene in mente leggendo la traduzione di Diodati, che parla di “nascondere”: così, nascondere il volto ci parla di un gesto volontario di autoprotezione: non voglio vedere, non voglio sentire, non voglio cambiare, mi arrocco sulle mie convinzioni perché sono quelle che mi sono state insegnate, rifiuto il confronto.

Così scrive Davide nel suo profetico Salmo 22 citando il disprezzo: “Io sono un verme e non un uomo, rifiuto degli uomini, disprezzato dalla gente. Si fanno beffe di me quelli che mi vedono, storcono le labbra, scuotono il capo. «Si rivolga al Signore, lui lo liberi, lo porti in salvo se davvero lo ama” (6-8).

C’è così il disprezzo collettivo, cui si aggiunge “non ne avevamo alcuna stima” che lo rafforza. Da dizionario, il disprezzo è quel “sentimento di chi, giustamente o ingiustamente, ritiene una persona o una cosa troppo inferiore a sé, o vile in sé stessa, o comunque indegna della propria stima e considerazione”. Chi ha familiarità col Vangelo sa che questo sentimento si manifestò continuamente nei confronti di Gesù, ma venne ufficializzato in modo lampante quando Pilato fece scegliere al popolo chi doveva essere liberato, se Lui o Barabba, che Giovanni definisce “brigante” e che, dai sinottici, possiamo pensare fosse uno zelota omicida, “prigioniero famoso” secondo Matteo 27.16.

Molto interessanti sono le parole di Benedetto XVI al riguardo: “In altre parole Barabba era una figura messianica. La scelta tra Gesù e Barabba non è casuale: due figure messianiche, due forme di messianesimo si confrontano. Questo fatto diventa ancor più evidente se consideriamo che Bar-Abbas significa figlio del padre. È una tipica denominazione messianica, il nome religioso di uno dei capi eminenti del movimento messianico. L’ultima grande guerra messianica degli ebrei fu condotta nel 132 da Bar-Kochba, Figlio della stella. È la stessa composizione del nome; rappresenta la stessa intenzione. Da Origene apprendiamo un ulteriore dettaglio interessante: in molti manoscritti dei Vangeli fino al III secolo l’uomo in questione si chiamava Gesù Barabbas, Gesù figlio del padre. Si pone come una sorta di alter ego di Gesù, che rivendica la stessa pretesa, in modo però completamente diverso. La scelta è quindi tra un Messia che capeggia una lotta, che promette libertà e il suo proprio regno, e questo misterioso Gesù, che annuncia come via alla vita il perdere se stessi”.

Il popolo e i suoi capi, quindi, preferirono affidare la loro vita e destino a Barabba piuttosto che a Nostro Signore: non è questa un’affermazione esagerata se la colleghiamo alla terribile frase, poi adempiutasi, “Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli” (Matteo 27.25). Suggerisco di leggere i versi da 15 a 26 di Matteo perché da essi possono scaturire molte considerazioni sulle dinamiche che portarono Pilato a far scegliere al popolo chi liberare, dichiarandosi non responsabile di quel sangue, e molto altro.

La “stima” è una valutazione di un bene o di una persona. Non si può fare alla leggera, è una conclusione alla quale si perviene dopo averne soppesato il valore: una “stima” in proposito la fecero la peccatrice innominata e Maria sorella di Lazzaro, che versarono su Gesù un olio del valore di un anno di paga di un operaio. Giuda Iscariotha stimò il suo Maestro trenta sicli d’argento, il prezzo di uno schiavo o la paga di un giorno di un operaio. Molti cristiani, compresi alcuni apostoli, ritennero di offrire la loro vita col martirio. Altri, sempre per amore e per la stima effettuata sul loro Salvatore, vivono resistendo al male, e quindi alla sua fonte, non chiedendosi mai chi o cosa glielo faccia fare mentre il loro prossimo vive come se Dio non esistesse. Ma a ciascuno verrà data retribuzione, per il bene e per il male. Amen.

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