16.40 – IL SERMONE PROFETICO XIII: I DUE SERVI (Matteo 24.45-51)

16.40 – Il sermone profetico 13: I due servi (Matteo 24.45-51)

 

45Chi è dunque il servo fidato e prudente, che il padrone ha messo a capo dei suoi domestici per dare loro il cibo a tempo debito? 46Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così! 47Davvero io vi dico: lo metterà a capo di tutti i suoi beni. 48Ma se quel servo malvagio dicesse in cuor suo: «Il mio padrone tarda», 49e cominciasse a percuotere i suoi compagni e a mangiare e a bere con gli ubriaconi, 50il padrone di quel servo arriverà un giorno in cui non se l’aspetta e a un’ora che non sa, 51lo punirà severamente e gli infliggerà la sorte che meritano gli ipocriti: là sarà pianto e stridore di denti.

 

Anche questo passo è stato affrontato in una precedente riflessione (15.3), ma per la pluralità dei significati lo riesamineremo, con altre considerazioni, anche perché si tratta di parole che Gesù ripropose ai suoi discepoli. Se con la prima parabola del padrone di casa, o padre di famiglia, il tema era quello del credente responsabile e maturo, cui sono state affidate delle anime a prescindere dalla sua funzione nella Chiesa (era stato accennato al tema della condotta spirituale che ognuno ha verso gli altri), qui Nostro Signore parla di chi ha ricevuto un doppio onore: prima abbiamo la stima che “il padrone” gli ha attribuito, vista negli aggettivi “fidato e prudente” (o “leale e avveduto” secondo un’altra versione), poi il riconoscimento e la fiducia che ha riposto in lui, mettendolo “a capo dei suoi domestici per dare loro il cibo a tempo debito”. C’è anche un altro servo, definito “malvagio”, che ha riferimento con un’interiorità profonda che emerge solo quando il compito lui affidato, col trascorrere del tempo, viene sottovalutato e, progressivamente, deliberatamente ignorato.

Il protagonista della parabola è indicato nel testo col termine “economo”, compito che anticamente veniva svolto da un dipendente ritenuto particolarmente affidabile, cui spettava la direzione della casa e aveva la responsabilità del buon comportamento del personale di servizio. Era un amministratore: a lui quindi spettava la gestione delle spese, doveva tenere conto delle capacità dei singoli per affidare i compiti più confacenti alle attitudini di ciascuno, prendere se necessario gli opportuni provvedimenti disciplinari, anche se nel nostro caso Gesù pone l’accento sul fatto che questo servitore avesse avuto il compito di occuparsi di nutrire quanti gli erano stati sottoposti.

Sono qui presentati due comportamenti opposti fra loro. Nel primo abbiamo un “servo” coscienzioso, che ha ben presente l’importanza dell’incarico, che persevera nel compito avuto senza dimenticare le responsabilità con le quali è stato rivestito. Queste occupazioni lo impegnano a tal punto da non avvertire lo scorrere del tempo, cioè l’assenza del padrone, come qualcosa di pesante: non si chiede mai quando torni il signore della casa, non pensa che faccia ritardo, sa solo che ha ricevuto una responsabilità e quella pensa, giorno dopo giorno. Sappiamo anche che il “cibo a tempo debito” è la Parola di Dio, che va presentata e spiegata in modo appropriato perché costituisce nutrimento indispensabile per i credenti non solo per un orientamento spirituale, ma anche per gestire la vita correttamente in vista della testimonianza che ciascuno inevitabilmente rende nel momento in cui si qualifica agli altri come cristiano.

È interessante notare la connessione fra il nostro verso 45 e Salmo 104.27-29, chiamato “Inno a Dio creatore”, in cui l’autore parla delle Sue azioni nei confronti degli animali che popolano la Terra. Scrive “Tutti da te aspettano che tu dia loro cibo a tempo opportuno. Tu lo provvedi, essi lo raccolgono; apri la tua mano, si saziano di beni. Nascondi il tuo volto, li assale il terrore; togli loro il respiro, muoiono e ritornano nella loro polvere”.

“Tempo opportuno”, quindi, è da intendersi come “quando ne hanno bisogno”, quando è necessario, qualcosa che va oltre l’abitudinarietà dei tre pasti giornalieri che vengono solitamente assunti nella vita quotidiana. Andando oltre il letterale, quel “servo fidato e prudente”, pare essere chiamato ad assicurarsi della salute dei suoi sottoposti e scegliere quale alimento possa essere più utile a farlo star bene. Questo sempre facendo riferimento al campo spirituale.

È utile citare i punti salienti del discorso dell’apostolo Paolo agli anziani della Chiesa di Mileto, dove emerge il principio del “dare loro cibo a tempo debito”: “Voi sapete come mi sono comportato con voi per tutto questo tempo, fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia: ho servito il Signore con tutta umiltà, (…); non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi, in pubblico e nelle case, testimoniando ai Giudei e ai Greci la conversione a Dio e la fede nel Signore nostro Gesù. (…) non mi sono sottratto al dovere di annunciare a voi tutta la volontà di Dio” (Atti 20.16 e segg.).

Credo che in queste parole sia riassunto quanto Nostro Signore vuol dire ai Suoi: come primo elemento Paolo non presenta la sua predicazione e insegnamento, ma pone l’accento sul proprio modo di agire come premessa di tutto quanto farà in seguito. È infatti il nostro comportamento che ci qualifica di fronte agli altri, che prenderanno inevitabilmente atto della nostra correttezza ed equilibrio (se presenti) perché sono le azioni che uno fa a suscitare rispetto o il suo esatto contrario. È importante l’opinione che la gente ha di un cristiano come persona, perché se difettiamo nell’onorare la parola data, frequentiamo le persone sbagliate, non rispettiamo gli impegni, se esiste discordanza fra ciò in cui diciamo di credere e quanto mettiamo in pratica, abbiamo perso in partenza: ciò che diremo, compreso parlare del Vangelo, non verrà preso sul serio. Il “come mi sono comportato” di Paolo è al tempo stesso un attestato, un biglietto da visita, una garanzia del fatto che ciò che poi presenterà, la Parola di Dio, potrà venire presa sul serio.

Servire il Signore “con tutta umiltà” è stato il secondo passo, venuto dopo il suo comportamento irreprensibile, che stride totalmente con il “suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade” (Matteo 6.2), cui poi ha fatto seguito un’azione instancabile e credibile vista nel non sottrarsi mai al dovere “di annunciare tutta – cioè quella che serviva – la volontà di Dio”. Tutto questo si riassume in un concetto molto semplice che troviamo in 1 Corinti 4.1,2: “Ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio. Ora, ciò che si richiede agli amministratori, è che ognuno risulti fedele”.

 

Ora è chiaro, tornando al nostro testo, che fra il conferimento dell’ufficio di economo e il suo essere trovato “ad agire così” passa del tempo, che sappiamo verrà considerato eccessivo dal servitore malvagio: le parole “il mio padrone tarda”, infatti, equivalgono a dire “ormai non torna più, non ha senso che io mi comporti bene, tanto vale approfittare della mia posizione”. La differenza fra i due servi è evidente: uno si attiene agli ordini ricevuti e persevera, l’altro è (quantomeno) superficiale e non stima la parola del suo padrone e finisce per sostituirsi a lui.

Ancora una volta possiamo citare in proposito le parole di Paolo nella sua seconda lettera a Timoteo: “…è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora, mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione”. Abbiamo allora le tre azioni che hanno caratterizzato la vita dell’apostolo che non elenca i risultati conseguiti, ma semplicemente li riassume col “buon combattimento”, quello della fede che porta a essere “senza macchia ed irreprensibile fino all’apparizione del Signor nostro Gesù Cristo” (1 Timoteo 6.12-14). La “corsa”, quella cui fece riferimento a proposito del conquistare il premio (1 Corinti 9.16), Paolo sa che sta per concludersi; coscio di “aver conservato la fede” nonostante le diremmo infinite difficoltà e sofferenze incontrate, sa che lo aspetta la “corona di giustizia” che, come a tanti altri, gli verrà consegnata.

 

C’è un aspetto che credo vada sottolineato e cioè che mentre per il servo fedele l’arrivo del padrone viene descritto nel modo più naturale possibile (il padrone, torna e lo trova “ad agire così”), non lo stesso avviene per l’altro e al tema del ritorno vengono dedicati due versi. Cerchiamo però di capire il processo mentale del secondo personaggio, definito “malvagio”, quindi già con un contrassegno negativo, interno, di partenza. Inizialmente si comporta come gli viene ordinato, ma poi la sua vera natura prevale e la conclusione “il mio padrone tarda” è chiaramente sintomo del fatto che un comportamento rispettoso dell’incarico inizia a pesare, cosa che non si verifica nel primo servo.

Queste due persone vivono la dimensione del tempo in modo diverso: per la prima ogni giorno costituisce una nuova base sulla quale costruire la propria esistenza, per la seconda è un vivere monotono, sempre uguale, vorrebbe fare dell’altro, che poi si concreta nel seguire i propri istinti e nell’altrui disprezzo. In Qoèlet 8.11 leggiamo che “Poiché non si pronuncia una sentenza immediata contro una cattiva azione, per questo il cuore degli uomini è pieno di voglia di fare il male”, cioè dovranno rendere conto non solo di ciò che hanno fatto, ma anche del tempo loro dato per porre rimedio alla loro condizione che non avranno usato.

Il servo “malvagio” si crede talmente al centro dell’universo da considerarsi unico, detentore di tutti i diritti senza alcun dovere; lui, comunque giuridicamente schiavo, dipendente da un padrone che conosce, senza la sua presenza si trasforma in persecutore dei propri sottoposti, proprio come quell’alto funzionario cui era stato rimesso un debito enorme dal re e che poi, dimentico della compassione usata verso di lui, andò ad esigere dagli altri con cattiveria le somme che gli erano a sua volta dovute (Matteo 18.21-35).

Ciò che la nostra parabola vuole però sottolineare con le parole “il mio padrone tarda” è che questa persona esprime un giudizio sul proprio signore, quasi che spettasse a lui stabilire i tempi e i modi del ritorno. È lo stesso comportamento che molti avranno secondo 2 Pietro 3.3,4: “Questo anzitutto dovete sapere: negli ultimi giorni si farà avanti gente che si inganna e inganna gli altri e che si lascia dominare dalle proprie passioni – come il servo della parabola –. Diranno; «Dov’è la sua venuta, che egli ha promesso? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi, tutto rimane come al principio della creazione»”. Un conto è considerare la creazione che è, un altro è intenderla come qualcosa che attende in suo termine. E l’incapacità di contare i giorni con la prospettiva della fine la descrisse Salomone in Ecclesiaste 1.4, “Una generazione se ne va e un’altra arriva, ma la terra resta sempre la stessa”.

Ecco, le parole di Pietro denunciano l’atteggiamento giudicante dell’uomo inutile sull’ “Amen” di Dio. Una promessa è una promessa, non sta a chi la riceve metterla in dubbio se è Dio a farla. Se c’è la fede, che abbiamo letto da Paolo va conservata, il dubbio del ritardo non viene neppure in mente perché il fatto che il Signore torni è una certezza al pari del fatto che il sole scaldi o che l’acqua disseti, non ha senso metterla in discussione. E tra l’altro il ritorno tardivo del padrone è un pretesto che una coscienza corrotta escogita per giustificare azioni in contrasto con gli incarichi ricevuti. Non a caso Pietro parla di “gente che si inganna e inganna gli altri” e Paolo commenta “La loro sorte finale sarà la perdizione, il ventre è il loro dio. Si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi e non pensano che alle cose della terra” (Filippesi 3.19).

Se per il primo servo il ritorno del proprio padrone non rappresenta altro che un evento naturale, per il secondo costituisce qualcosa di devastante e quel “non se lo aspetta”, “all’ora che non sa”, la punizione severa, l’infliggere, il “pianto e stridore di denti” sono gli elementi che concludono l’esistenza di questa persona, mentre per il servo fedele abbiamo la promozione “a capo di tutti i suoi beni”. Va specificato che ciò che è tradotto con “lo punirà severamente” è in realtà “lo taglierà in due”, un antico, atroce supplizio che consisteva nel legare una persona per i quattro arti ponendola a testa in giù per poi segarla. La morte sopraggiungeva dopo molto tempo, quando la recisione dell’arteria mesenterica superiore provocava dissanguamento quasi istantaneo. Tradurre con “punirà severamente” non spiega nulla perché lascia intuire una pena che abbia un termine, mentre qui si parla di una morte orrenda dalla cui lettura la persona è avvertita, cui seguono le istruzioni per evitarla.

Al di là della retribuzione, in bene o in male, del fatto che Gesù avvisi i suoi discepoli che il suo ritorno avverrà prima che sia passata “questa generazione” (con tutto ciò che comporta il termine che abbiamo sviluppato recentemente) e che alcuni lo crederanno in ritardo, cosa ci insegna questo episodio? Che ogni nostra azione è il risultato di ciò che ci abita realmente e, attraverso la sua lettura, è possibile ripercorrere tutti i processi che l’hanno prodotta. Il primo servo ha agito anteponendo la volontà del suo signore alla propria come un fatto naturale, traendo diletto nel proprio lavoro; il secondo ha operato controvoglia fin dall’inizio, potremmo dire per interesse come Giuda Iscariotha, fino a quando non ha più sopportato di fare sempre le stesse cose e non ha individuato in ciò che faceva una monotonia assoluta. La sua persona esigeva altro. Così è per chi si professa credente, ma alla infinita creatività dell’essere in ascolto dello Spirito sceglie di scendere nelle monotonie della carne.

Entrambi i servi vivono in un loro mondo in cui al centro c’è qualcuno, o il suo Signore, o il proprio “gemello” con le sue miserie. Ed è ciò che amano veramente a determinare il loro destino. Amen.

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