16.49 – Il giudizio finale VI: Le parole alle pecore IV (Matteo 25,34-40)
34Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, 35perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, 36nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi». 37Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? 38Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? 39Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?». 40E il re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me».
Ero in carcere e siete venuti a trovarmi
Credo che il verso di riferimento da tener presente come base per sviluppare riflessioni appropriate si trovi in Matteo 5.10-12, “Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi, quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti prima di voi”.
“Perseguitati per la giustizia” quindi non degli uomini, ma di Dio, quella che viene dalla fede. Per questo l’autore della lettera agli Ebrei 11.35-39 scrive “…altri, poi, furono torturati, non accettando la liberazione loro offerta, per ottenere una migliore risurrezione – cioè un premio maggiore –. Altri, infine, subirono insulti e flagelli, catene e prigionia. Furono lapidati, torturati, tagliati in due, furono uccisi di spada, andarono in giro coperti di pelli di pecora e di capra, bisognosi, tribolati, maltrattati – di loro il mondo non era degno! -, vaganti per i deserti, sui monti, tra le caverne e le spelonche della terra” e in 13.3 “Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere, e di quelli che sono maltrattati, perché anche voi avete un corpo”.
Al di fuori del patimento per la “giustizia”, cioè quando una persona viene imprigionata per la fede che professa, il carcere rimane quello che è, un luogo di pena, giusto o ingiusto non è questa la sede per discuterne, per cui l’uomo che vi è imprigionato patisce il più delle volte gli effetti della propria condanna ed è destinatario al pari di quelli che sono fuori del messaggio del Vangelo che, come gli altri, può accogliere o rifiutare. Così, anche fra i carcerati vi sono persone che si convertono perché danno luogo all’amore della verità per essere salvati.
Le prime notizie sull’istituzione carceraria le troviamo in Genesi 39.20 quando Giuseppe, falsamente accusato dalla moglie di Potifarre di aver cercato di usarle violenza, fu messo “nella prigione dove erano detenuti i carcerati del re. Così egli rimase là in prigione. Ma il Signore fu con Giuseppe, gli accordò benevolenza e gli fece trovare grazia agli occhi del comandante della prigione”. Il profeta Geremia, invece, fu rinchiuso prima nella casa di Gionata in una cisterna, poi nell’atrio della prigione e quindi, con delle corde, fu calato in un’altra cisterna piena di fango. “Carcere”, se lo si intende con etimologia ebraica, carcar, significa “tumulare, sotterrare”, mentre se si considera il latino abbiamo coercere, o arcere, “rinchiudere, restringere, castigare, punire”. Ricordiamo che a parte i due esempi scritturali su tanti, prima ancora Giuseppe figlio di Giacobbe fu messo in una cisterna dai fratelli prima di essere venduto, per venti sicli d’argento, a dei mercanti madianiti.
Nell’antica Roma il concetto di carcere come luogo di pena era sconosciuto, ma serviva unicamente per trattenere detenuti in attesa di giudizio che si risolveva con pene in denaro – ricordiamo le parole “di là non uscirai finché non avrai pagato l’ultimo quattrino” –, l’esilio, pene corporali, la mutilazione o nei casi più gravi la morte. A Roma erano attive anche prigioni appositamente costruite dove si trovavano rinchiusi promiscuamente uomini e donne, vecchi e bambini, accusati e condannati, prigionieri di guerra e delinquenti comuni, con due ambienti: in uno si potevano ricevere visite e prendere aria, mentre l’altro era buio, privo di luce, destinato alla custodia dei destinati alla pena capitale e lì si trovavano le celle. La detenzione si svolgeva con modalità diverse a seconda della gravità del reato: il carcer, carcer pubblicus et vincula, cioè la semplice detenzione o aggravata dai ceppi che impedivano al condannato ogni movimento, la pubblica custodia, o custodia carceris per la semplice custodia, oppure la “custodia vinculorum” che era aggravata dai ferri, solitamente posti al collo, ai polsi o alle caviglie.
C’era poi la “libera custodia”, quella cui fu condannato Paolo a Roma, oggi diremmo gli arresti domiciliari, per cui chi ne era condannato era sottoposto al controllo di un magistrato o suo delegato e poteva godere di una certa libertà o rimanere chiuso in casa.
Forniti questi dati, pochi ma comunque importanti per capire meglio alcuni passi della Scrittura, troviamo diversi riferimenti nel libro degli Atti, dal processo per direttissima agli apostoli davanti al Sinedrio, che si concluse con la loro flagellazione (5.40), i credenti che Saulo riusciva a trovare (“Saulo intanto cercava di distruggere la Chiesa: entrava nelle case, prendeva uomini e donne e li faceva mettere in carcere”, 8.3; Pietro, incatenato in quel luogo, fu liberato da un angelo e i fratelli pregavano per lui (12); Paolo e Sila a Filippi furono lì gettati dopo essere stati bastonati e i loro piedi furono “assicurati ai ceppi” e poi seguì la loro liberazione miracolosa (16.23 e segg.) ed infine tutta la vicenda, ancora di Paolo, dal Sinedrio a Cesarea e quindi il suo imprigionamento presso le carceri di Erode ( capp.21 e segg.).
Abbiamo la citazione di Onesiforo, “…perché egli mi ha più volte confortato e non si è vergognato delle mie catene; anzi è venuto a Roma, mi ha cercato con premura, finché non mi ha trovato”.
Tornando ora alla nostra pericope, è la più particolare delle sei perché non risulta che Nostro Signore sia mai andato a trovare qualcuno prigioniero, almeno nel Suo Ministero terreno. Non andò da Giovanni Battista, cosa che fecero coloro che ancora lo seguivano, perché altrimenti sarebbe stato arrestato, né risulta dagli esempi del libro degli Atti proposti che qualcuno abbia fatto lo stesso con gli apostoli, a parte il citato Onesiforo in 2 Timoteo 1.16. Non resta allora che concludere che le parole di Gesù siano le uniche proiettate al futuro della cristianità e alle persecuzioni che questa avrebbe subìto, fermo restando che anche quelle precedenti non furono certo poca cosa per coloro che le dovettero affrontare.
La visita a coloro che sono in carcere, quindi, assieme agli altri cinque casi, rientra nella cura alla persona che, senza un sostegno con la manifestazione attiva della vicinanza, si troverebbe priva di aiuto. È singolare che il passo di Ebrei 13.3 citato all’inizio, sia preceduto dalle parole “Non dimenticatevi dell’ospitalità. Alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli”, chiaro riferimento ad Abrahamo in Genesi 18.1-5: “Poi il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: «Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Andrò a prendere un boccone di pane e ristoratevi; dopo potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo»”.
I sei punti esposti da Nostro Signore, allora, possiamo concludere che siano l’esatto contrario dell’indifferenza verso il prossimo, condizione terribile che può ucciderlo fisicamente e moralmente comprendendo entrambe le condizioni: la fame e la sete interiore non danno meno sofferenza di quelle del corpo, il trovarsi estranei in un mondo potenzialmente ostile disorienta e fa soffrire non meno del ritrovarsi con enormi difficoltà a comprendere e farsi capire da chi parla un linguaggio diverso, e così via.
A questo punto abbiamo la reazione dei “giusti” che chiedono a Gesù quando abbiano usato carità nei Suoi confronti, non avendolo mai visto. La risposta del Re a questo punto è illuminante, ma non nuova perché risale all’Antico Patto, per quanto la estenda e la aggiorni alla vera dimensione-realtà della Grazia: se Proverbi 17.5 afferma “Chi deride il povero offende il suo creatore, chi gioisce per colui che va in rovina non resterà impunito” (per non citare tutti i passi in un modo o in un altro connessi al tema), ricordiamo le parole di Gesù a Saulo sulla via per Damasco quando, alla sua domanda “Chi sei, Signore?” gli rispose “Sono Gesù, che tu perseguiti”. A tal punto arriva l’identificazione del Signore con quelli che credono in lui. E attenzione, perché qui non si tratta solo dei cristiani cosiddetti “grandi”, quelli che hanno portato moltitudini di anime a Cristo, hanno evangelizzato regioni, nazioni, hanno subìto ogni genere di patimenti per il Vangelo, ma di tutti, quindi i cosiddetti “minimi”, o “più piccoli”, coloro cui poco è stato dato, quelli che si sono ritrovati in mano un solo talento e magari non l’hanno utilizzato al meglio, ma certo non l’hanno sotterrato.
“Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi fratelli più piccoli, lo avete fatto a me”: gli elementi da sottolineare sono “uno solo”, “fratelli più piccoli” e “me”. Se così non fosse, avremmo una disparità di trattamento, delle differenze, favoritismi, due pesi e due misure; invece, è evidente che grandi e piccoli beneficiano entrambi dell’identificazione di Gesù con loro.
Cito le parole conclusive dell’episodio: “Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato». Anch’essi allora risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?». Allora egli risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me». E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna»”.
Ciò che più mi stupisce di queste parole è che ci troviamo davanti, per quanto non mi piaccia la definizione, a un “peccato di omissione” nel senso che quelli alla sinistra del Re non vengono condannati per un’azione, ma per ciò che non hanno fatto. Come già sottolineato, è il vero peccato di Sodoma, l’indifferenza rappresentata dal “non” ripetuto per sette volte per cui abbiamo la totalità del nulla.
Azione e non azione, quindi comportano due diverse destinazioni, entrambe eterne: “E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna” (v. 46). Amen.
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