16.26 – CONTRO I FARISEI III/III (Matteo 23.23-27)

16.26 – Contro i farisei III (Matteo 23.23-27)

 

23Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima sulla menta, sull’anéto e sul cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della Legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste invece erano le cose da fare, senza tralasciare quelle. 24Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!25Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma all’interno sono pieni di avidità e d’intemperanza. 26Fariseo cieco, pulisci prima l’interno del bicchiere, perché anche l’esterno diventi pulito!27Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che assomigliate a sepolcri imbiancati: all’esterno appaiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume. 28Così anche voi: all’esterno apparite giusti davanti alla gente, ma dentro siete pieni di ipocrisia e di iniquità.29Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che costruite le tombe dei profeti e adornate i sepolcri dei giusti, 30e dite: «Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non saremmo stati loro complici nel versare il sangue dei profeti». 31Così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli di chi uccise i profeti. 32Ebbene, voi colmate la misura dei vostri padri. 33Serpenti, razza di vipere, come potrete sfuggire alla condanna della Geènna? 34Perciò ecco, io mando a voi profeti, sapienti e scribi: di questi, alcuni li ucciderete e crocifiggerete, altri li flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città; 35perché ricada su di voi tutto il sangue innocente versato sulla terra, dal sangue di Abele il giusto fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachia, che avete ucciso tra il santuario e l’altare. 36In verità io vi dico: tutte queste cose ricadranno su questa generazione.

 

 

Prima di iniziare quest’ultima parte, va ricordato che diverse frasi sono già state analizzate in altre riflessioni per cui verranno solo accennate, aggiungendo qualche particolare. Dalla lettura di questi versi abbiamo un completamento delle qualifiche date agli oppositori di Gesù nello scorso capitolo: qui “ipocriti” è ripetuto quattro volte per un totale di sei (o sette considerando il verso 14 come proprio di Matteo); poi ancora “guide cieche”, qui una per un totale di due, “fariseo cieco”, “Serpenti, razza di vipere”, stessa definizione data loro da Giovanni Battista.

Si tratta di ruoli o posizioni interconnessi potremmo dire “a cascata” nel senso che l’ipocrisia è un modo di essere che, portando subito alla distanza da Dio, genera tutte le altre, cioè la cecità, vale a dire l’impossibilità di arrivare a un qualsiasi risultato spirituale; è la pericolosità vista nel veleno mortale che gli ipocriti si portano dentro, quello di Caino e della sua discendenza. Essi infatti usarono lo stesso metodo, il primo simulando atteggiamenti spirituali fino all’omicidio del fratello, gli altri sostituendosi a Dio prima e inventando una religione dopo.

Esaminiamo quindi, con l’aggiornamento che la nostra lettura ci ha dato, l’ipocrisia, che si manifesta nei metodi descritti ai versi 23, 25, 27 e 29: abbiamo prima il pagare le decime sulle erbe (commestibili) secondo l’interpretazione farisaica di Levitico 27.30, “Ogni decima della terra, cioè delle granaglie del suolo e dei frutti degli alberi, appartiene al Signore: è cosa consacrata al Signore. Se uno vuol riscattare una parte della sua decima, vi aggiungerà un quinto”. L’istituzione della decima risale a prima ancora che venisse comandata, profeticamente data da Abramo a Melchisedek quando leggiamo che “gli diede la decima di tutto” (Genesi 24.20) e da Giacobbe con le parole “Di quanto mi darai, io ti offrirò la decima”.

Quando fu codificata, questa era un modo per ricordare all’uomo che era sempre e comunque debitore nei confronti di Dio che provvedeva al suo sostentamento coi frutti della terra e col moltiplicarsi del bestiame, segno della Sua benevolenza e soprattutto benedizione che contemplava comunque una condotta retta davanti a Lui, come ricordato tante volte. La decima poi non era solo un dieci per cento dovuto, ma conteneva in sé le esigenze di YHWH come morale e comportamento.

L’agire degli scribi e farisei però si discostava enormemente da questo sistema perché avevano finito col ridurre tutto, ancora una volta, a un atto del tutto formale, senza alcuna connessione col mondo interiore: ben poca cosa era dare la decima, privandosene, a fronte del praticare “la giustizia, la misericordia e la fedeltà”, quando esse avrebbero dovuto costituire, come Gesù stesso dice, un tutt’uno. Anche oggi si registra lo stesso comportamento in tutti coloro che magari frequentano le riunioni di Chiesa una volta alla settimana, magari pregano o fanno “opere buone”, ma poi si guardano bene dal praticare una vita alla luce delle tre pratiche indicate, cioè la “giustizia”, primo principio della quale è non avere “doppi pesi e doppie misure”, cioè praticare il favoritismo e giudicare in base alle proprie simpatie e antipatie o all’importanza delle persone nella società, la “misericordia”, cioè l’immedesimarsi nel prossimo, capirlo, praticare il perdóno, e la “fedeltà”, vale a dire la continuità, l’osservare la parola data, il rispetto di quei princìpi che la Parola di Dio insegna e indica. Fedeltà è coerenza.

Gesù non dà qui un insegnamento nuovo, ma ricorda quanto lo spirito ipocrita degli scribi e farisei aveva loro fatto dimenticare: “Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che il Signore richiede da te: praticare la giustizia, amare la bontà, camminare umilmente con il tuo Dio” (Michea 6.8).

Al verso 25 abbiamo la pulizia “del bicchiere e del piatto” che veniva praticata non tanto come norma di igiene, ma per evitare l’impurità cerimoniale; ricordiamo che i discepoli furono criticati per questo in Marco 7.5, “Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?”: infatti “i farisei e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti” (vv. 3,4).

Ora qui il discorso non è di igiene e profilassi, ma riguarda il sistema contro l’impurità, che veniva rigidamente osservato per quanto riguardava gli oggetti, ma senza considerare il fatto che, prima di pulirli “religiosamente”, occorreva guardarsi dentro, visto che anche l’uomo è un contenitore in cui si possono annidare impurità ben peggiori ed è a questo che Nostro Signore allude: certo scribi e farisei non pulivano solo l’esterno di piatti e bicchieri, ma non pensavano a rimuovere quanto di negativo era in loro. Anche qui rileviamo l’assoluta inutilità del simbolo che, invece di aiutare la comprensione, allontana l’uomo dalla pratica: se le stoviglie mi rappresentano, va da sé che se pulisco accuratamente loro, ma non altrettanto me, metto la mia relazione con Dio fuori gioco, non so se riesco a rendere l’idea.

Quegli utensili non potevano essere certo “pieni di avidità e intemperanza”, ma scribi e farisei, per lo meno quelli cui si rivolge Gesù, certamente sì. Pulire “prima” il loro interno, cioè ammettere ciò che erano, constatare il fatto della loro impurità a meno di un intervento di Dio, li avrebbe certo portati a Lui e al Figlio che era in mezzo a loro. Questa è l’unica forma di igiene possibile anche oggi, e mi vengono in mente le parole di un Monsignore che disse “Ogni individuo dev’essere prima onesto e poi cristiano”, che se lette correttamente aiutano a comprendere il rapporto tra Colui che è perfetto e l’essere umano che, se si accosta a Lui, non può certo farlo con uno spirito ipocrita. Se la semplice onestà non può salvare, certo mette Dio in condizione di agire, come quello scriba che si sentì dire “Tu non sei lontano dal regno di Dio”. Certo di “non lontani” teorici ne conosco tanti, ma quanti di loro avranno il coraggio e la disponibilità di fare quel passo decisivo verso Cristo per essere salvati?

Il verso 27 riguarda i “sepolcri imbiancati”, riferimento all’uso, al 15 del mese di Adar corrispondente al nostro febbraio – marzo, di imbiancare non solo le tombe, ma spesso anche l’area che le conteneva. Ciò non avveniva per motivi decorativi, ma per segnalare un terreno dove le persone avrebbero potuto contrarre impurità. Luca 11.44 aiuta a comprendere meglio ciò che vuol dire Gesù con le parole “Guai a voi, perché siete come quei sepolcri che non si vedono e la gente vi passa sopra senza saperlo”, di qui la necessità del bianco.

Quindi scribi e farisei, con le loro vesti e i loro atteggiamenti ostentati, nascondevano ciò che realmente avevano dentro cioè non solo un cuore non rigenerato, ma anche contaminato e contaminante, in grado di non fare entrare nel regno di Dio quelli che avrebbero voluto. Poi, riguardo a Luca, così come una persona si contamina passando sopra un sepolcro che non si vede, la stessa impurità la si contrae avendo a che fare con loro.

Il verso 29, “costruite le tombe dei profeti e adornate i sepolcri dei giusti” rappresenta l’ultima forma di ipocrisia qui denunciata, ancora più pesante in Luca 11.47,48, “Guai a voi, che costruite i sepolcri dei profeti, e i vostri padri li hanno uccisi. Così voi testimoniate e approvate le opere dei vostri padri: essi li uccisero e voi costruite”: apparentemente quindi quella gente onorava la memoria dei profeti, ma di fatto conservava in sé lo stesso sentimento omicida detenuto dai loro padri verso quanti che dei “profeti” erano i successori, per non parlare dello stesso Gesù. Adornando i sepolcri dei profeti, il popolo li reputava degni di onore e quella era “la loro ricompensa”. Tutto, quindi, era ipocrisia, azione senza una destinazione spirituale vera.

Al verso 33 scribi e farisei vengono indicati con le parole “Serpenti” e “razza – o “progenie”di vipere”: la prima, “Serpenti”, è usata per indicarne l’astuzia secondo Genesi 3.1 dove leggiamo che “Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto” e al tempo stesso richiama la sentenza contro di lui al verso 15, “Io porrò inimicizia fra te e la donna, fra la sua stirpe e la tua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”. Inevitabile quindi che scribi e farisei tramassero contro Gesù e riuscissero alla fine a ferirlo, ma trovando così la loro fine.

“Progenie di vipere” fa proprio riferimento al fatto che discendessero, moralmente e spiritualmente, proprio dall’Avversario: la vipera attacca solo se si sente minacciata – e i farisei fecero proprio così – e il suo morso, pur essendo letale per l’uomo in rari casi, provoca alterazione nella coagulazione del sangue con emorragie e possibili trombi, con rischio di embolia polmonare e danno renale; poi, contenendo il suo veleno neurotossine, causa paralisi dei muscoli.

Il danno che il “morso” degli scribi e farisei provoca, quindi, consiste nell’alterare, intossicandolo profondamente, la capacità dell’uomo di agire, quindi per relazione il suo rapporto con Dio. Nel “morso” vediamo anche trasmissione di atteggiamento e di mentalità perché l’aderire a una religione consente di avere una parvenza di rispettabilità continuando a fare le stesse cose di prima. La qualifica di “vipere”, quindi, non allude alla perfidia e alla malignità come comunemente intesa dalla tradizione popolare, ma al veleno posseduto, alla tossicità delle dottrine e dei comportamenti.

Infine occorre ragionare sul significato del “Perciò io vi mando”, da connettere ai versi 29 e 30: si tratta di una predizione di Gesù che, parafrasata, suona così: “A conferma del fatto che, nonostante il vostro apparente rispetto per i profeti che i vostri padri hanno ucciso, siete uguali a loro, quando ve ne manderò altri li tratterete allo stesso modo”. Si noti che questo plurale non si riferisce alle persone presenti, ma a tutti coloro che hanno lo stesso sistema di ragionamento. È chiaro che il “li perseguiterete di città in città” è un riferimento a quanto subìto dall’apostolo Paolo che, parlando nelle sinagoghe di varie città – ecco l’ “Io vi mando” –, si attirò l’ostilità dei Giudei che lo perseguitarono (Atti 14.5) e a Listra “Giunsero da Antiochia e da Iconio alcuni Giudei, i quali persuasero la folla. Essi lapidarono Paolo e lo trascinarono fuori dalla città, credendolo morto” (v.19). Pensiamo in che condizioni lasciarono quest’uomo, ferito e lacero, oltre al tempo che abbia impiegato per guarire, oltre che al dolore fisico da lui provato.

Infine, abbiamo il verso 36, “Tutte queste cose ricadranno su questa generazione”, che sappiamo riferirsi a ciò che avvenne nell’anno 70. L’applicazione spirituale però non è tanto porre l’accento sul giudizio che si abbatté su Gerusalemme e i suoi abitanti, ma sul fatto che l’intervento di Dio giunge sempre quando il comportamento dell’umanità arriva a colmare la misura della Sua pazienza: infatti Gerusalemme, come ci aspetteremmo, non fu distrutta in occasione del suo crimine più grande, l’uccisione di Gesù, ma dopo quarant’anni (numero molto eloquente) per dar modo al popolo di ravvedersi ed evitare quanto poi avvenuto.

Così succederà al tempo della fine della pazienza di Dio per – credo – questo nostro tempo, quando la “Grande Babilonia” sarà distrutta “…perché i tuoi mercanti erano i grandi della terra e tutte le nazioni dalle tue droghe furono sedotte. In essa fu trovato il sangue di profeti e di santi e di quanti furono uccisi sulla terra” (Apocalisse 18. 23,24). I “grandi della terra” di cui sentiamo sempre parlare. Le “droghe” coi quali le nazioni furono “sedotte”: l’economia, la pace senza Cristo, il benessere come un diritto, il corporativismo, il mercato globale e tanti altri. Ebbene in questo mondo oramai ai termine, in cui anche la più pallida idea di Dio è messa alla porta, si conoscerà la più amara delle solitudini quando non sarà più possibile porvi rimedio. Amen.

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