16.34 – Il sermone profetico 7: l’abominio della desolazione (Matteo 24.15-22)
15Quando dunque vedrete l’abominio della desolazione, di cui parlò il profeta Daniele, stare nel luogo santo – chi legge comprenda -, 16allora quelli che sono in Giudea fuggano ai monti, 17chi si trova sulla terrazza non scenda a prendere la roba di casa, 18e chi si trova nel campo non torni indietro a prendersi il mantello. 19Guai alle donne incinte e a quelle che allatteranno in quei giorni. 20Pregate perché la vostra fuga non accada d’inverno o di sabato. 21Poiché vi sarà allora una tribolazione grande, quale mai avvenne dall’inizio del mondo fino a ora, né mai più ci sarà. 22E se quei giorni non fossero abbreviati, nessun vivente si salverebbe; ma a causa degli eletti quei giorni saranno abbreviati.
Ci siamo occupati di una buona parte di questi versi quando, nel nostro quindicesimo blocco, abbiamo affrontato il tema “Quando verrà il regno di Dio”, ripartito in quattro capitoli. Allora era Luca il narratore e riferì che tutta l’esposizione di Gesù fu originata dall’analoga domanda dei farisei. Ecco allora che cercheremo di affrontare l’argomento tenendo sempre presente quanto già esposto, ma cercando di offrire nuovi spunti, primo fra tutti la citazione del profeta Daniele, che nell’episodio di Luca manca.
Trovandoci di fronte ad un campo immenso, per il cui sviluppo non basterebbe una vita, dobbiamo affrontarlo nella sua essenzialità più stringente. In Daniele troviamo l’espressione “abominio devastante” in tre passi, ciascuno riferito ad altrettanti momenti storici ben distinti e cioè l’esercito romano, che nel 70 operò la distruzione del tempio, Antioco Epifane (o Mitridate), che dal 167 al 164 a.C. abolì qualsiasi sacrificio a YHWH, ed infine all’ultimo tempo, quando opereranno la Bestia e il falso profeta.
Vediamo il primo caso, reperibile nella profezia delle settanta settimane in cui alla seconda metà del verso 27 leggiamo “…farà cessare il sacrificio e l’offerta; sull’ala del tempio porrà l’abominio devastante, finché un decreto di rovina non si riversi sul devastatore”. Si tratta con ogni probabilità delle insegne romane, idolatrate dai legionari, che svetteranno sulle rovine del Tempio.
La seconda citazione si trova in 11.31 ed è riferita ad Antioco Epifane (Mitridate) che abbiamo già citato: “Forze da lui armate si muoveranno a profanare il santuario della cittadella, aboliranno il sacrificio quotidiano e vi metteranno l’abominio devastante”.
Terzo caso, in 12.11, ci parla, come anticipato, “del tempo della fine”; disse infatti l’Angelo a Daniele: “«Va’, Daniele, perché queste parole sono nascoste e sigillate fino al tempo della fine, Molti saranno purificati, resi candidi, integri, ma gli empi agiranno empiamente: nessuno degli empi intenderà queste cose, ma i saggi le intenderanno. Ora, dal tempo in cui sarà abolito il sacrificio quotidiano e sarà eretto l’abominio devastante, passeranno milleduecentonovanta giorni. Beato chi aspetterà con pazienza e giungerà a milletrecentotrentacinque giorni. Tu, va’ pure alla tua fine e riposa: ti alzerai per la tua sorte alla fine dei giorni»” (12.8-13).
Guardando a questi tre passi è chiaro che “l’abominio devastante” è da inquadrarsi sempre nell’idolatria, in un sistema di culto che pretenderà di sostituirsi in toto a quello a Dio e, per farlo compiutamente, dovrà avvenire nell’unico luogo legittimo per il popolo di Israele, cioè nel Tempio. L’Avversario infatti, essere comunque già sconfitto avendo rigettato la santità, non può accontentarsi di vie secondarie, ma cercherà sempre di riprodurre l’originale da cui proviene ed ecco perché le sue attenzioni saranno sempre rivolte al Tempio. “L’abominio della desolazione” è quindi l’orrore del culto idolatrico degli dèi pagani, che fu organizzato sotto Antioco sulle rovine del Tempio di Gerusalemme dal 15 dicembre del 167 al 25 del 164 (1105 giorni). La stessa cosa, per quanto in modalità differenti e con forza ancora maggiore perché interesserà tutto il mondo, avverrà “al tempo della fine” per il quale, come abbiamo letto, vengono impiegati termini analoghi, “sarà eretto l’abominio devastante”. “Eretto”, non “installato”, quindi ciò avverrà dopo un lungo lavoro, più che di costruzione in senso stretto, di convincimento e di studio. Questo abominio, l’ultimo, sarà il capolavoro dell’Avversario. E credo che un ruolo determinante in tutto questo lo assumerà la cosiddetta “intelligenza artificiale”.
Ai tempi di Antioco, sopra quello che fu l’altare degli olocausti, ne venne posto uno dedicato a Giove e dopo dieci giorni venne imposto il culto in cui i Giudei dovevano sacrificare, sotto pena di morte in caso di disubbidienza, dei maiali che, una volta offerti, andavano mangiati. Questo stato di cose durò, come scritto, fino al 25 dicembre – data di nascita del dio Sole e non di Gesù – 164, quando il Tempio fu riconsacrato da Giuda Maccabeo.
A questo punto però sorge un problema, e cioè se prendessimo alla lettera le parole di Gesù “Quando vedrete l’abominio della desolazione (…) posta nel luogo santo”, implicherebbe un riconoscimento tardivo, cioè una Gerusalemme già presa e occupata dai Romani dopo l’assedio e tutti gli assalti perpetrati. Né, sotto questo aspetto, aiuterebbe Luca 21.20 che scrive “Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, allora sappiate che la sua distruzione è vicina”. Fuggire da una città circondata è infatti impossibile. Devono esservi quindi altri particolari, altri eventi, che vanno cercati. Ricordo un episodio particolare avvenuto sotto Pilato, che fu procuratore dal 26 al 36: quando si insediò, ordinò alla guarnigione di Gerusalemme di entrare in città con le loro insegne decorate con l’immagine dell’imperatore. Conscio del carattere dei Giudei e della loro suscettibilità religiosa, non fece entrare le truppe di giorno, ma di notte e con le immagini coperte. Le truppe si erano però insediate vicine al Tempio (nella fortezza Antonia) e la loro vicinanza a quel luogo sacro diede il via a manifestazioni durate cinque giorni e relative notti per chiedere a Pilato di rimuoverle. Vivaci proteste avvennero anche quando, tempo dopo, Pilato volle far appendere dei semplici scudi in onore di Tiberio nel palazzo: immediate proteste e lettere all’imperatore. Abbiamo già citato l’episodio di Caligola nel 40 che intendeva inserire nel Tempio una sua statua, cosa non avvenuta a causa della sua morte, ma possiamo aggiungere che proprio lì era stato imposto un sacrificio giornaliero (di intercessione) per l’imperatore con un bue e due agnelli offerti alternativamente dal Governo di Roma e dal popolo ebraico.
Credo che, assieme alla presenza romana con le loro insegne da loro venerate, sia stato questo il segno, per coloro che credettero nelle parole di Gesù, assieme alle “guerre e voci di guerre”, di abbandonare precipitosamente Gerusalemme: infatti, poco dopo, Eleazaro, figlio dell’ex sommo sacerdote Anania, ordinò che il sacrificio ordinato dai Romani fosse interrotto e mai più ripreso perché YHWH poteva essere solo il Dio di Israele. Ciò avvenne nel 68 circa. Da lì alle prime battaglie all’interno della città il passo fu breve: nel volgere di poco tempo (un mese) fu dato alle fiamme il palazzo di Erode e proseguirono i massacri, da ambo le parti. In seguito, vi furono molte azioni di guerriglia che videro i Giudei vittoriosi in molti episodi.
C’è poi l’inspiegabile episodio di Cestio Gallo che, raccordandoci all’episodio al citato passo di Luca “Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti…”, dopo essere riuscito ad entrare in città con le sue truppe ed aver occupato il quartiere di Betesda e averlo dato alle fiamme, raggiunto il palazzo reale accampandovisi – altro richiamo a “l’abominio della desolazione” –, avendo combattuto duramente contro gli zeloti per cinque giorni e avendoli praticamente sconfitti, improvvisamente ordinò all’esercito di ritirarsi (le ragioni di questa decisione sono ancora oggi motivo di dibattito fra gli storici). Cestio, così facendo, offrì praticamente il fianco ai nemici che inseguirono l’esercito in marcia infliggendogli pesanti perdite fino alla rovinosa disfatta di Beth Horon che costò ai Romani più di cinquemila morti e la perdita dell’aquila. Ecco allora, credo, risolto il problema relativo ai due passi di Matteo e di Luca: dati questi due segnali, “l’abominio devastante” e “Gerusalemme circondata da eserciti”, inequivocabili per i credenti, viene posta in rilievo l’urgenza di scappare per evitare un assedio dal quale sarebbe stato impossibile uscire vivi. Dovrei aver già citato Eusebio di Cesarea (265-340) il quale afferma che i cristiani, obbedendo a un ordine profetico, fuggirono tutti a Pella, a Nord della Perea, evitando così “le calamità che sommersero la nazione”.
Riprendendo Luca 21, abbiamo importanti integrazioni al passo di Matteo: “Coloro che si trovano nella Giudea, fuggano ai monti, coloro che sono dentro la città, si allontanino, e quelli che stanno in campagna non tornino in città; quelli infatti saranno giorni di vendetta, affinché tutto ciò che è stato scritto si compia” (vv. 21,22). Le parole “non torni indietro a prendersi il mantello” in Matteo sono del traduttore che ha ritenuto di interpretare così ciò letteralmente è “non torni verso ciò che è rimasto indietro” (poi citando il mantello), passo che non indica solo qualcosa che si è lasciato magari appeso al ramo di un albero: è una frase che ci parla dell’urgenza della chiamata, il fatto che così come si è si viene presi, il tempo che manca, il “ricordatevi della moglie di Lot” (Luca 17.32). Quello che si cela dietro questo verso è proprio il fatto che ciò che abbiamo su questa terra, da noi conquistato a fatica o che ci sia stato donato non importa, non è mai un traguardo, ma qualcosa che abbiamo in prestito, non nostro, che presto o tardi saremo chiamati a restituire o a lasciare.
Non tornare “verso ciò che è rimasto indietro” è allora un modo per dire: siate proiettati sempre verso il vostro futuro spirituale, fate attenzione a ciò che può rallentarvi”. Certo, fatte le proporzioni del caso, perché c’è sempre il rischio che uno si spogli di molte cose e che poi non sappia cosa fare, tornando ad essere quello di prima. Credo che, una volta raggiunto interiormente lo stadio della disponibilità all’abbandono, sia il Signore stesso a organizzare l’impiego del cristiano che vuole essere operativo, mai il contrario. Troppe volte ho visto persone fallire perché, figurativamente parlando, hanno voluto percorrere strade lungo le quali non erano state chiamate, oppure in preda all’entusiasmo si sono messi a costruire “case e torri” senza avere materiali per realizzarle. Al contrario, il Vangelo ci dice che nessuno spazio dev’essere dato all’improvvisazione e che la fede non è mai un atto temerario, ma sempre, fortemente, responsabile. Fermarsi a pensare, calcolare, fare bilanci tenendo comunque presente la domanda di Gesù ai Suoi, “Quanti pani avete?”.
Il verso 21, “Poiché vi sarà allora una tribolazione grande, quale mai avvenne dall’inizio del mondo fino ad ora né mai più ci sarà”, è chiaramente riferito alla città e ai suoi abitanti. Potremmo leggere i libri di storia, alcuni dei quali molto dettagliati sull’argomento scritti anche in tempi recenti, cercare in Rete ogni tipo di notizie, ma credo che a commento bastino le parole di Deuteronomio 28.53-57: “Durante l’assedio e l’angoscia alla quale ti ridurrà il tuo nemico, mangerai il frutto delle tue viscere, le carni dei tuoi figli e delle tue figlie che il Signore, tuo Dio, ti avrà dato. L’uomo più raffinato e più delicato tra voi guarderà di malocchio il suo fratello e la donna del suo seno e il resto dei suoi figli che ancora sopravvivono, per non dare ad alcuno di loro le carni dei suoi digli, delle quali si ciberà, perché non gli sarà rimasto più nulla durante l’assedio e l’angoscia alla quale i nemici ti avranno ridotto entro tutte le tue città. La donna più raffinata e delicata tra coi, che per delicatezza e raffinatezza non avrebbe mai provato a posare in terra la pianta del piede, guarderà di malocchio l’uomo del suo seno, il figlio e la figlia, e si ciberà di nascosto di quanto esce dai suoi fianchi e dei bambini che partorirà, mancando di tutto durante l’assedio e l’angoscia alla quale i nemici ti avranno ridotto entro tutte le tue città”.
Infine, il verso 22, anche qui non perfettamente tradotto perché al posto di “vivente” andrebbe messo “carne”, che pone molto più del primo l’accento su cosa è l’uomo senza la presenza in lui di Gesù. È un termine che ci rimanda a Genesi 6.3, “Lo Spirito mio non contenderà per sempre con l’uomo poiché, nel suo traviamento, egli non è altro che carne” (versione Diodati). È stato calcolato che, su tre milioni di persone, all’assedio ne sopravvissero quarantamila. C’è poi uno sguardo importante, una panoramica sui tempi a venire che riporta Luca in 21.24: “Cadranno a fil di spada e saranno condotti prigionieri in tutte le nazioni; Gerusalemme sarà calpestata dal pagani finché i tempi dei pagani non saranno compiuti”.
“Ma a causa degli eletti quei giorni saranno abbreviati”: questi non possono essere i credenti che si trovavano in città, perché erano già fuggiti proprio ascoltando le parole di Gesù che stiamo esaminando. Piuttosto, credo si tratti di coloro che lo sarebbero diventati un giorno, loro o i loro figli, per i quali la misericordia di Dio agisce e agirà sempre, fino alla fine. Amen.
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