IL GIUDIZIO FINALE V: LE PAROLE ALLE PECORE III (Matteo 25.34-40)

16.48 – Il giudizio finale V: Le parole alle pecore III (Matteo 25,34-40)

34Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, 35perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, 36nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi». 37Allora i giusti gli risponderanno: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? 38Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? 39Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?». 40E il re risponderà loro: «In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me».

Malato e mi avete visitato
Quinta condizione possibile in un essere umano, quella della malattia, o meglio dell’infermità, parole cui tendiamo a dare lo stesso significato, ma che in realtà indicano due posizioni differenti: la prima è riferita a una persona che non sta bene di salute, fisica o mentale che sia, mentre la seconda comporta una condizione di invalidità, totale o parziale.
La nostra pericope, insieme alle altre del brano che alludono a posizioni svantaggiate rispetto ad altri, ha fatto sì che la Chiesa di Roma istituisse la regola delle misericordie corporali (Visitare gli ammalati, i carcerati, seppellire i morti, dar da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, vestire gli ignudi, visitare gli infermi e alloggiare i pellegrini) e altre denominazioni ne fanno un punto di forza nel loro modo di vivere la fede. Ricordo però una volta, anche se è passato molto tempo, che fui “visitato” da alcuni fratelli quando mi trovavo ricoverato in ospedale che mi dissero, quasi compiaciuti, che erano venuti perché c’era scritto di visitare gli infermi e la cosa mi infastidì molto essendo chiaro che la loro presenza non era dettata da un condividere, un voler compatire nel senso attinente del termine, ma perché così era scritto. Per loro essere lì costituiva un adempimento a una prescrizione religiosa, ma non potevano essere più distanti da me; chi lo sa, forse così facendo si sentivano più buoni o credevano di aver fatto chissà cosa, ma in realtà la visita all’ammalato o all’infermo è semplicemente immedesimazione, volontà di partecipare se ciò è bene accetto, dare un aiuto spirituale anche solo con una muta presenza, che a volte dice molto più delle parole, minimo o rilevante non importa perché è questo che siamo chiamati a fare, donando liberamente.
La visita all’infermo non consiste nel cercare di rallegrarlo, tirarlo su di morale facendo battute o prospettandogli o augurargli la guarigione, ma di far sentire la propria vicinanza portando quell’aiuto che solo un credente radicato nella Scrittura può dare. Gli altri, al limite, si aspettano di sentire dall’ammalato degli sfoghi di tristezza o di quella contrarietà inutile che la persona può portarsi dentro. È invece necessario utilizzare quel discernimento spirituale che mancò del tutto negli amici di Giobbe, che vennero da lontano “per consolarlo” ma che in realtà si trasformarono ben presto nei suoi peggiori aguzzini portandogli princìpi morali e accuse totalmente avulse dalla situazione in cui versava. E questo, si badi, non perché erano di animo cattivo, ma in quanto convinti di fargli del bene e di aiutarlo a trovare un peccato che non aveva commesso.
Chi visita un infermo non compie tanto un’opera di carità, ma esercita il ruolo di pastore per il semplice fatto che non pensa a se stesso, ma agisce dopo essersi domandato di cosa ha bisogno in quel momento il fratello o la sorella che versa in una condizione limitante, che può essere temporanea (ad esempio una frattura) o peggiorare anche fino alla fine della propria vita. E deve avere le parole e il comportamento opportuno, sapersi raccordare alla situazione, se è in grado di farlo. Soprattutto, occorre avere l’intelligenza per discernere il tipo di persona, poiché esiste chi trova piacere nel venire visitato e chi preferisce restare solo. Ognuno di noi è diverso dall’altro.
Credo di avere già citato tempo fa Ezechiele 34.4, ma lo ripropongo per le riflessioni diverse che può suscitare: “Guai ai pastori di Israele, che pascono se stessi! I pastori non dovrebbero forse pascere il gregge? Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge. Non avete reso forti le pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andate in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza. Per colpa del pastore si sono disperse e sono preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate”.
Ecco, il pastore qui, a parte di riferimenti a quelli del popolo cui Dio si rivolge, è un compito che tutti i cristiani sono chiamati ad adempiere non per guidare una Chiesa o esercitare un dono specifico, ma nell’occuparsi del proprio fratello o sorella: non ci vuole chissà quale capacità di analisi psicologica per capire quando una pecora è debole, inferma, ferita o si è persa. In questo caso, se non si provvede, lo sbandamento è inevitabile. Invece sono molti coloro che, perché scandalizzati da comportamenti risultati da egoismi o sentimenti carnali in una Comunità, si allontanano da essa subendo poi pesanti penalizzazioni nella loro vita morale e spirituale. Il comportamento dei falsi pastori è visto nel godere unicamente del proprio lavoro svolto per un esclusivo tornaconto spirituale, nutrendosi di latte, rivestendosi di lana, ammazzando le pecore più grasse, ma non preoccupandosi della cosa più importante, vera garanzia perché il gregge prosperi, “ma non pascolate il gregge”. Perché la pecora ha bisogno di pascolo, cioè avere un nutrimento che ora è sostanzioso, ora meno, fatto di elementi anche minimi. E il lavoro dei pastori citati da Ezechiele era talmente infruttuoso da costringere Dio stesso ad occuparsi di quegli animali in futuro, “Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte, le pascerò con giustizia” (v.16).
Quanto osservato finora riguarda i malati e gli infermi spirituali, ma la cura del corpo non è meno importante di quella dell’anima nel senso che “non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio”. “Non di solo pane”, non è scritto che questo elemento non è necessario ed ecco perché siamo chiamati a curare il nostro corpo e badare anche alla nostra vita materiale, quindi pensare ad un sostentamento dignitoso della nostra persona che preveda armonia fra le nostre te componenti, corpo, anima e spirito. In altri termini la vita del cristiano deve essere improntata all’equilibrio perché altrimenti viene compromessa la sua testimonianza. Ecco perché è importante quello che pensano di noi “quelli di fuori”.

Riguardo ai malati e agli infermi i Vangeli sono pieni di interventi di Gesù verso di loro e sono talmente numerosi che sono rari i casi in cui compaiono per nome o vengono citati individualmente o in gruppo, come i dieci lebbrosi. Troviamo descritte moltitudini di malati, solo in Matteo per citare il primo ma sono ovunque anche negli altri, in 4.24, “…sanando ogni malattia e infermità fra il popolo”, 8.16; 14.35; 15.30; 19.2.
Più avanti, dopo la risurrezione quando operarono Pietro e Paolo, leggiamo “Anche la folla delle città vicine a Gerusalemme accorreva, portando malati e persone tormentate da spiriti impuri, e tutti venivano guariti” (da Pietro). Il verso 14 è ancora più forte: “Sempre di più, però, venivano aggiunti credenti al Signore, una moltitudine di uomini e donne – non bambini –, tanto che portavano gli ammalati persino nelle piazze, ponendoli su lettucci e barelle perché, quando Pietro passava, almeno la sua ombra coprisse qualcuno di loro”. Per Paolo, invece, abbiamo 19.11,12, “Dio intanto operava prodigi non comuni per mano di Paolo, al punto che mettevano sopra i malati fazzoletti o grembiuli che erano stati a contatto con lui e le malattie cessavano e gli spiriti cattivi fuggivano”.
A parte la missione dei dodici o dei settantadue la guarigione dalla malattia o dall’infermità, nel primo periodo della vita cristiana, era strumento nelle mani degli uomini di Dio perché attraverso di esse gli uomini, la cui mentalità era profondamente diversa da quella di allora, potevano convertirsi effettuando le considerazioni più opportune fra la guarigione del corpo e quella dell’anima, ma non fu così per tutti, anche credenti, come Paolo stesso cui il Signore non tolse la “spina nella carne” per cui aveva pregato tre volte, o per “Trofimo”, credente citato nella seconda lettera a Timoteo di cui scrisse “che ho lasciato infermo a Mileto” (4.20).
Degno di nota quanto leggiamo in 1 Cor 11.27-31 che pone il cristiano in una responsabilità molto particolare nei riguardi della Santa cena, o memoriale: “Perciò chiunque mangia il pane o beve il calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore. Ciascuno dunque esamini se stesso e poi mangi del pane e beva del calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. È per questo che tra voi vi sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti. Se però ci esaminassimo attentamente da noi stessi, non saremmo giudicati; quando poi siamo giudicati dal Signore, siamo da lui ammoniti per non essere condannati insieme con il mondo”.
C’è poi una promessa interessante in Giacomo 5.14-16 riguardo alla gestione delle malattie e infermità nella Chiesa, qualora vi siano uomini preparati e santi nel senso della coerenza di fede: “Chi è malato, chiami presso di sé i presbiteri della Chiesa ed essi preghino su di lui, ungendolo con olio nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato. Il Signore lo solleverà e, se ha commesso peccati, gli saranno perdonati. Confessate perciò i vostri peccati gli uni agli altri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti. Molto potente è la preghiera fervorosa del giusto”. Il Signore infatti scruta il cuore, la mente e la posizione spirituale della persona che si rivolge a Lui in preghiera, che non può ingannarlo in alcun modo, mentre può farlo nei confronti di se stesso.
In ogni caso la malattia non può lasciare indifferenti e ciascuno di noi è chiamato a prendersi cura, in un modo o nell’altro, di chi versa in condizioni penalizzanti. Sta a lui trovare il modo più opportuno per farlo perché dobbiamo essere, se non risolutivi, portatori di un aiuto che gli altri non possono dare. Perché comunque l’esperienza, provata o da provare, è quella di Davide nel suo Salmo 41.2-5, “Beato l’uomo che ha cura del debole: nel giorno della sventura il Signore lo libera. Il Signore veglierà su di lui, lo farà vivere beato sulla terra, non lo abbandonerò in preda ai nemici. Il Signore lo sosterrà sul letto del dolore; tu lo assisti quando giace ammalato”.
Concludendo, abbiamo già visto che nessuno dei sei casi elencati da Gesù lo lasciò indifferente quando era in vita; tanto più è impossibile che accada oggi, con il Suo sedere alla destra del Padre. Lo stesso si aspetta da noi. Amen.
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